DISCUTERE DI/CON POLISCRITTURE: Pubblico/privato

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Questo ” Giochi di specchi” , cui parteciparono Ezio Partesana, Ennio Abate e Donato Salzarulo, è tratto dal n. 7 del cartaceo di POLISCRITTURE (ottobre 2010)

Passare il tempo a scansar equivoci

di Ezio Partesana

Decidere di costruire il numero di una rivista culturale intorno a una coppia di termini tanto ideologici come “pubblico” e “privato” è una scelta politica, e come tale va discussa e criticata. Non farlo, pensare che ogni tema che compare nel così detto “dibattito” pubblico siano buono e da studiare e indagare, comporterebbe il venir meno del senso di una rivista che si vuole, in qualche modo e con qualche ardore, di riflessione, critica e dibattito.

E non sono davvero poche le domande. Innanzi tutto si dovrebbe prima chiarire: che cosa è la coppia pubblico/privato? Un’opposizione? Una metafora? Un tema scottante? Una contraddizione? Perché a seconda di quel che noi riteniamo sia, è differente il lavoro da svolgere. Si può decidere di far polemica sopra una moda o cercare di afferrare i due termini di una contraddizione, per esempio, ma non far polemica sopra una contraddizione e afferrare i termini di una moda. Perché non è la stessa cosa desiderare di far parte dell’attuale dibattito (chiamiamolo così…) culturale, per sentire anche la propria voce tra le altre, e studiare la teoria che può e dovrebbe modificare le cose.

A chi tuttavia pensasse alla coppia pubblico/privato ancora nei termini di un nodo da sciogliere, di un punto cruciale nello sviluppo delle società capitalistiche odierne (cioè di tutte le società odierne) avrei qualche domanda da porre.

1) È vero o no che tutti noi adoperiamo, in politica economica, i termini “pubblico” e “privato” grosso modo nella stessa accezione con la quale Aristotele li espose nella sua politica, e cioè identificando “pubblico” con “dello Stato” e “privato” con quanto i liberi cittadini facevano in regime di limitata democrazia concorrenziale? E che lo facciamo proprio mentre è evidente che i processi di formazione, controllo e sfruttamento dei potentati economici (quali che siano i loro ambiti di azione) avvengono in dimensioni dove un’opposizione tra pubblico e privato non ha alcun senso?

2) Gli ecologisti (che il Signore li benedica!) hanno ereditato dal movimento femminista degli anni Settanta l’irrefrenabile istinto alla salivazione non appena sentono pronunciare il nome di Hegel… qualcuno avrà però il coraggio di dire che la benemerita “società civile”, cui questi si appellano per delineare un “pubblico” buono, solidale e tollerante – opposta alla cattiva politica mafiosa e corrotta -, non esiste al di fuori dei meccanismi di riproduzione dei lavoratori e dei lavori attraverso i quali tutti si mantengono in vita? E che per tanto il loro “pubblico” ha più scheletri nell’armadio dell’idealismo del peggior incubo che la sciagurata teoria dello “Stato etico” possa mai generare?

3) Le risorse naturali, si dice, sono proprietà collettiva e nessun interesse privato può gestirle. “Pubblico” qui dunque significa “di tutti” (e di nessuno contemporaneamente), mentre “privato” sta per gente che farebbe soldi anche sull’aria da respirare se potesse. Questa sarebbe almeno una contrapposizione di interessi, se non proprio una contraddizione, ma c’è da chiedere tuttavia: “di tutti” non significa forse “democratico”, e “interesse privato” non sta al posto di “valorizzazione capitalista”? E la vita biologica che si vuole giustamente difendere, non è la cosa più privata e individuale che ci sia? È allora la bruta sopravvivenza il lato collettivo dell’esistenza e la gestione politica della società il “privato”? Aveva ragione Hegel?

4) C’è chi ancora non veda come l’industria della cultura si sia alleata con la proprietà privata dei mezzi di produzione nel fabbricare serventi sempre più ubbidienti e spaventati? E che proprio sull’ideologica contrapposizione tra pubblico e privato si basano le loro strategie? È nostro compito spegnere il televisore di fronte ai reality che fan commercio delle emozioni che nessuno è più seriamente in grado di provare, oppure difendere dall’umiliazione che rende docili e masochisti gli sfruttati di tutto il mondo? Bisogna rimproverare il falso “privato” all’Isola dei famosi o domandarsi quanti articoli di riviste, qui e ora, oggi in Italia, accrescano la pubblica umiliazione dei sottomessi? In che cosa e come mai la coppia pubblico/privato mi aiuta a difendere e difendermi e semmai ad attaccare questi che per risparmiare un euro da sommare al saggio di profitto non esitano manipolare le coscienze? Sono loro i pubblici o noi che ci opponiamo?

5) I mezzi di comunicazione di massa sono pubblici o privati? Avete in mente un uso pubblico, saggio e utile di quegli strumenti oppure contate sul regresso ai buoni tempi antichi quando il sapere passava da bocca in orecchio attorno al fuoco, con le storie degli anziani. Se pensate che il “pubblico” sia l’ambito della manipolazione e il “privato” quello dell’autenticità, mi spiegate come faccia la prima a trapassare con tanta forza nella seconda? Che cosa abbiamo in comune noi e i nostri fratelli e compagni? La lingua? La patria? Il lavoro? A quali di queste distinzione potrà mai servire la coppia pubblico/privato? In un mondo dove la produzione ideologica è immensa, come definiamo l’intreccio di forme di lavoro e conoscenza delle stesse che è il nucleo della produzione ideologica, “pubblico” perché i rapporti di produzione sono collettivi, o “privato” perché privato è il capitale?

6) Antonio Negri è una testa fine, e io non chiederei mai a uno che non abbia un poco studiato di filosofia di leggere i suoi libri. Ma quale fascinazione o timore ci trattiene mai dal pensare anche le conseguenze del suo impero? Secondo Toni Negri l’inversione tra pubblico e privato – la storia della “preistoria” – si è compiuta ed è questa la fine di un’epoca. Gli apparati giuridico-istituzionali dello Stato, la massima espressione della potenza pubblica, si sono gonfiati a dismisura e hanno fagocitato tutto, compresa la comunità borghese che li alimentava, e sono diventati enti di potere privati. Di fronte si trovano, ultimo confine, il comando sulla nuda vita, il rimasuglio del “privato” che è però anche l’unico fondamento dell’unica comunità oggi possibile, quella dell’Esodo. Non è una critica alla Scuola di Francoforte (caro Ennio) ma un abbandono del campo di battaglia a favore di una traversata del deserto da sconfitti, come gli ebrei, ma senza Dio né Legge. Ma a parte questo, anche a volergli male, non sarebbe meglio prendere sul serio il millenarismo di Negri nomade, che rompersi la testa a invertire i poli di pubblico e privato per poter capire qualcosa dei suoi migranti di sistema?

7) Ho molti amici bene informati, e tutti mi dicono che la terra non ne può più della razza umana, e che stiamo rovinando tutto e per di più per l’ultima volta. Si appellano al cuore dell’uomo e alla libertà interiore, della quale nessuno potrebbe fare a meno neanche volesse. Lo fanno perché la nostra anguilla pubblico/privato campa bene nel salato del mare come nel dolce dei fiumi, e noi, quando si tratta di questo, facciamo fare un altro scivolone alle parole e per “pubblico” intendiamo la maschera sociale, più o meno crudele e dolorosa che ognuno indossa, e per “privato” quel che ci tocca, volenti o nolenti da vicino: la morte di un amico, la malattia, il dolore. Ma anche qui, c’è chi non vede come il residuo ineliminabile della condizione umana entri oramai nelle statistiche produttive di ogni media organizzazione medica, militare, industriale, cinematografica, etc. etc.? Che oramai la privata angoscia di ognuno è un fattore produttivo e il desiderio manipolato il vero punto di incontro tra economia e politica?

8) E infine, cosa c’entrano pubblico e privato con i diritti elementari di cui tutti abbiamo bisogno? Quando si difende la scuola pubblica o la sanità per esempio, lo si fa per dare allo stato i suoi poteri e le sue competenze, allo stato borghese i suoi poteri e le sue competenze borghesi, o perché si è capito che esercitare quei diritti è prima di tutto una questione di soldi? di ceto economico? O ancora perché si ritiene che “privato” sia inseparabile qui da “profitto privato”, mentre “pubblico” significa automaticamente “senza scopo di lucro”, e certe materie dovrebbero esser sottratte al profitto? La scuola di Mussolini era pubblica, andava dunque bene? I treni erano davvero tutti in orario?

Fate, vi prego, come me la prova: elencate i problemi che considerate oggi i più gravi, dalla vostra città ai “mali del mondo”, e dite, in quanti di questi la coppia pubblico/privato è preziosa e insostituibile chiave di comprensione e cambiamento. Con gli immigrati che saran buoni da latte e da carne sino a che non arriveranno armati anziché affamati? A risolvere la sovra produzione in tempo liberato (come si diceva secoli fa) anziché in disoccupazione? La cessazione tendenziale dello sfruttamento dell’uomo è centrata su un passaggio dal privato al pubblico? Sarà questa forma di stato a attuarla?

Potrei continuare a lungo, e chiedere magari quante volte sarebbe più chiaro usare “collettivo” al posto di “pubblico” e “capitalista” al posto di “privato”, e naturalmente indagare sul perché una simile coppia abbia avuto e ancora ottenga tanto successo tra di noi e i nostri avversari; la dialettica ha questo di buono: da sola non si arresta mai, ma è sempre possibile fare una pausa per guardarsi attorno e riposare un poco.

Dunque facciamo questo numero della rivista, ma che il tempo tra l’una e l’altra pagina sia anche di osservazione e riposo per favore.

 

 

 

Critica dialogante 1 

In partenza. Se Marx si occupò di ideologia tedesca e Tronti anni fa di ideologia italiana, penso che Poliscritture non si sputtanerà occupandosi nel n.7 di termini ideologicissimi come ‘privato’ e ‘pubblico’. Tutto sta a vedere come lo fa. E le domande di Ezio, pur condite  con la consueta dose di provocazioni e con un taglio un po’ da “tribunale”” (a domanda “l’imputato” Poliscritture  risponda?), ci aiuteranno a non  scivolare  su un tema che pare  “di moda” ed è , come pure Giulio Toffoli ha notato, pieno di rischi.

Perciò io le sue domande le affronto seriamente e subito:

1)     La coppia pubblico/privato è un tema di tradizione, credo, tipicamente liberale e, qui in Italia, bobbiano (Cfr. voce dell’Enc. Einaudi che ho fatto circolare). Per me indica una falsa opposizione e non è un tema che considero “scottante” (Lo può essere per quelli del PD o per Rifondazione). È forse “di moda”, ma io non seguo le mode. Per la mia residua, ma non del tutta assopita, memoria marxiana, tendo a contrapporgli, in modi del tutto provvisori con una certa diffidenza e molta insoddisfazione, il concetto di ‘comune’. Perché quest’ultimo termine, che mi sembra oggi un eufemismo usato da rivoluzionari sconfitti per tentare di riaprire uno spiraglio di riflessione politica senza spaventare subito il ”popolo di sinistra”, le vecchie signore e i giovani refrattari alla storia, è un termine vago (a meno che non lo si fa combaciare, rinchiudendosi però davvero troppo,  con Comune, inteso come Amministrazione comunale): indica più un desiderio, un ideale, ma non una teoria, un movimento reale. (Da qui la tiepidezza con cui vi ho mandato, a mo’ di “documentazione” di cosa se ne dice in giro, il testo di Hardt). Sarei tentato – ma non posso – di contrapporgli un termine come ‘comunismo’. Ma esso è divenuto oggi altrettanto ideologico di pubblico/privato; e perciò da sottoporre alla ragione critica per le note, tragiche, concluse, ma non trascurabili vicende storiche, che hanno visto il termine ‘comunismo’ degradare da concetto indicante una prospettiva rivoluzionaria possibile (dopo il 1917) a concetto “scientifico” per marxologi, a incubo, dopo Stalin, a mito (anche sessantottesco), e ora soltanto a “libro nero” o a dolorosissima via crucis da ripercorrere pazientemente,  quasi come necessaria penitenza e molte volte, prima di riproporre un qualsiasi nuovo “progetto rivoluzionario”. (Lo si può fare, ad es., macinandosi  – io ho appena iniziato a farlo – le circa 800 pagine di Luigi Cortesi, Storia del comunismo, manifesto libri 2010, che prima di morire  su questa strada si era posto). Dunque, a differenza forse di altri redattori o collaboratori, io non sono troppo preso dal tema pubblico/privato, come non sono preso da quello  ad esso assimilabile di destra/sinistra. Ma Poliscritture è una rivista a più voci. E io non mi sento di alzare la mia voce per scartare un tema e imporre il “mio”. Accetto – come ho detto – di parlare di  pubblico/privato, a patto che poi si parli anche del “mio” e di fare lavoro critico anche su un termine ideologicissimo.

2)     È vero, si continua soprattutto nella vulgata massmediale e nella sfera dove vige il “politichese” (partiti e dintorni) a usare i termini pubblico/privato all’antica (come si dice: il sole sorge, etc) senza alcuna verifica della corrispondenza tra parola e realtà (politico-sociale), astoricamente (o come se la storia si fosse fermata all’Ottocento o ad Hegel o alla  prima fase dello sviluppo capitalistico studiata e teorizzata da Marx). Solo pochi addetti ai lavori o bastian contrari (come Preve e La Grassa, ad es. di cui aspetto i contributi, ma anche Negri per quel poco che ho letto) non solo hanno dichiarato le loro perplessità (eufemismo di Ezio), ma la falsità della coppia pubblico/privato, la sua obsolescenza storica, la sua povertà euristica, la sua finzione di parola-maschera della realtà attuale trasformata e in trasformazione. E questi “eretici”, contrapponendosi ai dogmi delle chiese partitiche, ovviamente   vengono in vari modi  e in misure diverse isolati, silenziati, messi ai margini. Per cui, dando loro spazio in Poliscritture, noi pure ( o alcuni di noi) rischiamo di passare per filo-eretici. Mi pare però che dobbiamo correre il rischio, avendo finora preso sul serio il sottotitolo della rivista (“Laboratorio di cultura critica”). Un passo ulteriore di questo lavorio critico potrebbe/dovrebbe essere, secondo me,  anche un altro: riuscire a sottoporre a critica anche l’anti-ideologia, che Ezio con le sue domande ben rappresenta. Ad es. io sono al suo fianco quando critica gli ecologisti, che contro il “cattivo” privato  berlusconiano o d’altro nome proclamano le virtù  benefiche del “pubblico”, senza avvedersi che entrambe le maschere (ipocrite) celano non solo comportamenti  analoghi (il testo “scherzoso” di Giulio l’ha mostrato cristallinamente), ma la stessa realtà fatta di rapporti sociali, che in anni passati (ma davvero passati) riuscivamo ancora a designare con termini (forse?) più aderenti alla realtà: capitalistici (di dominio capitalistico). Mi chiederei cioè, se l’anti-ideologia smascheratrice del falso contrasto pubblico/privato, sia sufficiente, si possa appagare della sua funzione smascheratrice, riesca a spiegare perché tanto “popolo di sinistra” segua  i riti politici (o la falsa religione) del pubblico/privato, pur non credendoci fino in fondo, proprio come i cattolici che seguono la domenica le messe dei preti. Di più: se soltanto con l’anti-ideologia riusciamo a strappare questo “popolo di sinistra” agli idoli e ai loro capi politici. Certo che vediamo (almeno noi di Poliscritture) gli effetti intorpidenti dell’industria culturale, anzi del nuovo sistema multimediale estesosi con il Web. E almeno io (’ho detto recentemente in un’altra discussione riversatasi nel Lab. Moltinpoesia, a cui hanno partecipato anche Marcella Corsi  e Luca Ferrieri)  assieme ad altri pochi sono convinto che Santoro e Travaglio (“pubblico”)  non siano  davvero  contrapposti a Berlusconi (simbolo per eccellenza e quasi unico del “privato”, come se gli altri “privati”  fossero svaniti), ma una variante di un sistema unico, dinamico (e che quindi prevede anche  conflitti interni che sembrano o vengono fatti sembrare “veri”). Ma resta il fatto che l’anti-ideologia oggi, pur pensandosi alternativa, pur svelando i limiti dell’ideologia dominante, che continua a ribadire la falsa contrapposizione pubblico/privato fino a farla sembrare quasi vera, non riesce – dico io – a farsi politica, a farsi nuova politica. Questo per quanto mi riguarda. Poi, se fra noi ci sono sostenitori convinti che la coppia pubblico/privato non sia obsoleta,  né dogma manipolatorio, ma corrisponda alla realtà d’oggi, o almeno valga per alcune realtà specifiche (ad es. la questione dell’acqua, le elezioni del sindaco a Cologno Monzese,  etc.) e che non ci sia bisogna affatto di una nuova politica  tutta da costruire, ma il terreno di scontro reale sia proprio questo e che ci si debba schierare – magari anche come Poliscritture – con i fautori del pubblico contro il privato (oggi berlusconiano soprattutto), a loro l’onore e l’onere delle prove da discutere e vagliare.

3)     Su Negri. Eviterei un pronunciamento complessivo sulle sue teorie dell’Impero o della Moltitudine.  Io ho letto i due libri, ho letto le numerose obiezioni (in particolare quelle di Zolo quando uscì Impero). Ho dato più ascolto negli ultimi tempi anche alle critiche “realistiche” di Preve e La Grassa a Negri (che, come Zolo, rifiutavano in particolare la cosiddetta “morte” o messa fuori gioco dello Stato-nazione), tenendo però a bada e diffidando di quei loro toni  viscerali  e liquidatori e certe etichettature  liquidatorie (Negri venduto,  no global feccia, ecc). Mi limiterei, come ho in realtà fatto, a proporre di analizzare e giudicare  con rigore quel passo di Moltitudine che accennava, come nel testo di Hardt appena suggerito, al ‘comune’ come possibile alternativa alla falsa contrapposizione pubblico/ privato. Con le riserve già sopra dichiarate. Allo stesso modo, pur adottando da tempo il termine ‘esodo’,  mi sono limitato a usarlo  in termini quasi morali: esigenza di uscire dal pantano  dei comportamenti compromissori e ambivalenti della attuale sinistra.

4)     Mi interessa invece di più approfondire questo spunto che Ezio offre quasi malvolentieri, liquidandolo – mi pare – nel suo discorso critico generale e unitario: «facciamo fare un altro scivolone alle parole e per “pubblico” intendiamo la maschera sociale, più o meno crudele e dolorosa che ognuno indossa, e per “privato” quel che ci tocca, volenti o nolenti da vicino: la morte di un amico, la malattia, il dolore». Beh, questo scivolone, che secondo me oggi  capita a tantissimi, e non solo i ricchi borghesi benestanti con la “coscienza infelice” d’inizio Novecento, protagonisti della letteratura otto-novecentesca esaminata da Romano Luperini nel suo L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale (Laterza 2007), lo guarderei più da vicino. M’interrogherei, possibilmente anche in questo numero, sul «residuo ineliminabile della condizione umana», come faceva Fortini. E qui, oggi, una guida solida, sicuramente non marxista ma cresciuta nell’alveo del cristianesimo e degli studi storici, problematica, da ascoltare, studiare, interrogare, è diventata per me Michele Ranchetti, che  di Freud e della psicanalisi  ai suoi inizi ha dato,  nei suoi Scritti diversi (dell’ultimo volume, il IV, appena uscito,  vi ho mandato un brano), un’interpretazione antigerarchica, anticattolica e ”rivoluzionaria” (del pensiero), che non trascurerei. Ho accostato spesso il suo non c’è più religione al mio non c’è più comunismo. E  vorrei approfondire questa analogia, sapendo che è soltanto  un’analogia; ed evitando  perciò accostamenti forzosi tra le due dimensioni (quella politica e quella individuale; quella cosciente e quella inconscia), ma indagandole entrambe, pur rischiando un certo strabismo (o eclettismo).

Critica dialogante 2

1. Prima di deciderne la pubblicazione, Ezio Partesana ha inviato il suo pezzo, pieno di domande e per-plessità, agli altri membri della redazione. Nulla di male. Lo facciamo tutti. Questa scelta organizzativa, mi si corregga se sbaglio, indica che esistono due spa-zi, più o meno virtuali: il primo, quella della discus-sione fra redattori e collaboratori di Poliscritture – uno spazio, per così dire, interno, dove le nostre ela-borazioni, anche embrionali, possono circolare ed es-sere lette; il secondo, quello esterno, pubblico (sito, rivista, vetrina di libreria, bacheca…). Da ciò, una semplice osservazione: sarà pure ideologica la coppia privato-pubblico, ma organizza in modo cogente (come tutte le ideologie, verrebbe voglia di dire) le nostre scelte e i nostri comportamenti, compresi quelli di un anti-ideologo come Partesana.

Che tipo di spazio è quello dei redattori e collaboratori di Poliscritture? “Interno” ho scritto. Interno a co-sa? Ovviamente ad un gruppo le cui relazioni inter-personali risultano caratterizzate da appartenenza, fiducia reciproca e lealtà, condivisione di fini e obiet-tivi, memoria dei dibattiti tessuti tra i vari parteci-panti, linguaggio più o meno comune, definizione implicita o esplicita di un insieme di regole organizza-tive, ecc. ecc. La mailing-list di Poliscritture formata, così com’è, da una ventina di persone è in un certo senso un gruppo che costruisce uno spazio pubblico (la rivista, il sito), partecipa ad altri spazi pubblici (la presentazione in libreria, la diffusione, ecc.) e, più o meno allo stesso tempo, delinea uno spazio interno che, non credo di sbagliare, se definisco privato. Quali bisogni si soddisfano in questo modo? Quali sono le differenze tra l‟uno e l‟altro spazio? Quali regole pre-siedono alla loro costruzione?… La prima annotazio-ne che vien da fare è che nello spazio privato si pos-sono lasciare paginette embrionali, scritti in bozza, appunti, esercizi di pensiero larvale, zibaldoni, ecc. Provvisorietà, precarietà, informalità, intimità, una certa libertà di vagare tra immagini e idee. Anche po-vertà. Fa niente, insomma, se le nostre paginette non sono i capitoli della “Critica della ragion pura”. Lo spazio pubblico, invece, si presenta più strutturato, canonizzato, regolarizzato. Penso alle regole in uso nelle riviste scientifiche per la pubblicazione dei con-tributi di ricerca. E‟ uno spazio che valorizza e, nello stesso tempo, responsabilizza….Quindi.

Quindi, nessuna illusione. Questo nostro spazio privato non resterà sempre protetto. Se ognuno di noi diventerà famoso come un Kant o un Hegel, un Calvi-no o un Fortini, gli eredi troveranno le nostre pagi-nette, anche se abbiamo deciso di non pubblicarle, nei nostri file e, prima o poi, le renderanno pubbliche. Perché cogliere il germoglio di un pensiero è avveni-mento per certe persone irrinunciabile. Pensate al povero Leopardi – è il primo che mi viene in mente. Cominciò nel luglio del 1817 a scrivere il suo “Zibal-done di pensieri” e andò avanti fino al 1832. Labora-torio privatissimo quanto mai. Dopo la sua morte, re-stò per decenni in un baule, conservato dal suo amico Antonio Ranieri. Quando anche costui passò a peg-gior vita, lo lasciò in eredità a due donne di servizio. Meno male che lo Stato italiano riuscì a recuperarlo. Il prezioso scartafaccio venne pubblicato, sotto la di-rezione di Carducci, oltre sessant‟anni dopo, tra il 1898 e il 1900.

2. In che rapporto sta la sfera privata rispetto a quella pubblica? Di distinzione, separazione. Questo è inne-gabile. Ma anche di sconfinamento, di rimescolamen-to: il privato può farsi pubblico e il pubblico privato.

Separazione non vuol dire, necessariamente, con-traddizione e/o opposizione. Sempre per restare all’esempio nostro e di Leopardi, può significare sol-tanto differimento, risposta in tempi e modalità di-verse ai bisogni di espressione del proprio pensiero. Preciso: privato o pubblico non sono, in generale, at-tributi di un individuo come l’essere corporeo, socia-le, parlante, razionale, ecc. Sono prevalentemente spazi dai confini mobili all’interno dei quali un indi-viduo può rispondere a dei propri bisogni (andare, ad es., a gabinetto, accoppiarsi con la propria fidanzata, ecc.) o organizzare delle attività. Certo, un uomo e una donna possono diventare pubblici a tal punto da essere determinati dall‟esercizio di una funzione: così di Berlusconi può dirsi che è uomo pubblico come può essere pubblica la donna che esercita l‟attività più antica del mondo. Le parole non sono immobili pie-tre. Vivono sulle labbra dei parlanti e delineano cam-pi semantici a volte abbastanza estesi. Le ideologie forse si combattono meglio se si parte dalla ricogni-zione degli usi linguistici di certi termini. Così, se dico “ippogrifo”, so che al termine corrisponde un animale che non mi aspetto di incontrare da qualche parte, se però parlo di “vita privata”, di “questione privata”, di “cerimonia privata”, di “strada privata”, di “proprietà privata”, di “impresa privata” di “scuola privata”, di “investigatore privato”, di “diritto privato” ecc. dubito che non si sappia di cosa si stia parlando e quale sia, grosso modo, la realtà corrispondente. Allo stesso modo, se par-lando di scuola privata, la definisco “esercizio pubblico” e la paragono ad un supermercato o ad una linea di bus, il pubblico a cui mi riferisco è quello dei potenziali utenti, frequentanti o clienti che, superate certe condizioni (pagamento della retta, promozione all‟eventuale esame di ammissione, disponibilità di posti, ecc.), dovrebbe essere tendenzialmente aperto a tutti. Del resto, anche a cinema o a teatro si entra se si paga il biglietto e vi sono posti a sedere. Anche il panettiere ci dà le rosette in cambio di euro e il barista ci versa la grappa dietro paga-mento. Forse, quando si afferma che “pubblico” non è sinonimo di “statale”, si vuol dire esattamente questo. Comunque, anche per “pubblico” se si facesse una ricognizione delle occorrenze linguistiche, si capirebbe che dietro le parole o a fronte ci sono corpose realtà: dai “lavori pubblici” così tanto agognati dalle cricche edilizie al “debito pubblico” sbandierato ad ogni piè sospinto per giustificare i tagli alle “spese pubbliche”, dall‟”ordine pubblico” da garantire contro i manifestanti ribelli rossi e “comunisti” all‟”opinione pubblica” da tenere in allerta e mobilitare, dalle “pubbliche relazioni” alla “pubblica ragione”, alle conoscenze di “pubblico dominio”, al “dirit-to pubblico”, ecc. ecc… Insomma, sarà pure superata questa coppia di aggettivi o di sostantivi. Fatto sta che mi sembra abbastanza presente nei discorsi. Ci sarà pure una ragione.

3. Apro a caso il primo capitolo (quattro pagine) di un libro di Augusto Illuminati (Il Manifesto, 2003), intitolato «Del Comune. Cronache del General Intellect». Mi piacerebbe riportare tutte le frasi di senso compiuto in cui le due ideologiche paroline compaiono: sono quasi una decina. Riporto, a titolo di esempio, il periodo iniziale: «Che si possa parlare di intelletto generale o PUBBLICO è a prima vista qualcosa di controintuitivo, va contro l‟evidenza per cui il pensiero sembra essere alcunché di individuale, pensiero mio o tuo, sottoposto, certo a rego-le logiche e a verifiche del contenuto di verità, ma radicato nella psicologia PRIVATA.» (pag. 7).

L‟autore sta sostenendo, mi par di capire, che possa esistere un “intelletto generale o pubblico”, nel senso di co-mune a tutti, accessibile a tutti, al servizio di tutti. Qualcosa di simile ad una lingua. E se, oltre a definirlo gene-rale, lo si qualifica come pubblico, il mondo non crolla. Nessuno si sputtana.

Se un eventuale interlocutore dovesse sostenere che un tale affare non si è mai visto da qualche parte, né toccato con mano, perché l‟unico pensiero che si conosce è quello “privato”, nel senso di radicato nella psicologia di un singolo, costui non può esimersi dal sottomettere la proprie proposizioni teoriche o le proprie credenze a «regole logiche e a verifiche del contenuto di verità». Che accidenti saranno mai queste “regole” e queste “verifiche”? Semplice: se non si sta sognando o fantasticando e, se non si è fuori di sé o in stati deliranti, non si può sostenere che A (un albero) è B (una nuvola). A = A, principio di identità. Sbaglio se sostengo che “regole logiche” e “verifi-che dei contenuti di verità” rappresentano l‟architrave di qualsiasi “discorso pubblico”? Che tipo di discorso è quello di POLISCRITTURE nel momento in cui viene confezionato in rivista e fatto circolare? Intersoggettivo, plurale, dialogante criticamente, di vario genere e varia umanità, oscillante tra utopici esodi e ambivalenti sini-strofilie,… Ok. Definirlo pubblico (nel senso che chi vuole può leggerlo, sforzarsi di comprenderlo, verificarlo, giudicarlo) è ideologico? Che discorsi si fanno su giornali, settimanali, riviste, libri e ora anche blog, siti e chi più ne ha più ne metta? Che discorsi si fanno dai microfoni delle radio libere e dagli schermi televisivi? E nelle uni-versità, nei tribunali, nei parlamenti?… Se si definisce tutto ciò (ed altro che in questo momento non mi viene in mente), “sfera pubblica” si è per forza di cose liberali e ideologi incalliti? Partecipare a questa sfera, scrivere, ar-gomentare, esporre le proprie ragioni, sostenere logicamente contenuti di verità ai quali si pensa di essere per-venuti, è tempo perso perché, si sa, “quando la forza con la ragion contrasta, la forza vince e la ragion non ba-sta”? Se si ritiene che i discorsi pubblici siano tutti come quelli rivolti dal lupo della famosa favola all‟agnello, che senso ha “studiare la teoria che può o dovrebbe modificare le cose”? Di fronte alla forza, non c‟è nessuna teoria che tenga, neanche la più vera e completa, la più critica e giusta. O la ragione ha una sua forza o non ce l‟ha. La ragione ha una sua forza se, oltre ad essere logica e vera, si trasforma in “credenza”, senso comune (o nuovo sen-so comune) e si incarna in uomini e donne.

4. Tutte le parole denotano e connotano e possono essere portatrici di informazioni e/o usate in modo ideologi-co. Collettivo, individuale, intersoggettivo, comune, capitalistico, ecc. sono più “vere” e scientifiche di pubblico e privato? Può darsi. A me non sembra. Nel 1962 Jürgen Habermas pubblicò Strukturwandel der Oeffentlichkeit tradotto in italiano nel 1971 col titolo Storia e critica dell’opinione pubblica. Nella premessa l‟autore spiegava che la problematica a cui la categoria della “sfera pubblica” fa riferimento risulta «dall‟integrazione degli aspetti sociologici ed economici, giuridico-statuali e politologici, di storia sociale e delle idee» (pag. 7). Il che significa che si poteva esplorare e studiare soltanto cercando di “dominare” queste diverse discipline, pena il dissolvimen-to dell‟oggetto di conoscenza. Habermas, sforzandosi di combinare in modo rigoroso il piano sociologico con quello storico, definiva la “sfera pubblica” una categoria storica, di cui si potevano individuare spazi e confini nella città-stato greca, nella Roma antica e imperiale, nell‟Alto Medioevo. Quella che noi conosciamo è nata con la modernità, con la rivoluzione borghese. In secoli di storia si è trasformata e non è più la stessa. Tanto è vero che Habermas dedicava uno degli ultimi capitoli proprio al processo di trasformazione della sfera pubblica poli-tica dallo Stato di diritto liberale allo Stato sociale. Nell’epoca della globalizzazione, del post-fordismo, della post-modernità, della tarda maturità capitalistica, della società in rete, liquida, della conoscenza (tutte definizio-ni tutt’altro che neutre), la “sfera pubblica” e quella “privata” si sono trasformate? Bene. Come? Si sono sciolte come neve al sole? Non c‟è, quindi, nessun “intelletto generale”, nessun “discorso pubblico”, nessuna “regola lo-gica” da rispettare, nessun contenuto di verità da verificare, nessun parlamento che legifera, nessun tribunale che giudica, nessuna Università che insegna… Non credo che sia così. Ho una doppia sensazione: da un lato quella della “Torre di Babele” con un‟incredibile proliferazione dei linguaggi-codici, con la non-contemporaneità delle storie e dei tempi storici (ma chi l‟ha detto che libertà, eguaglianza e fraternità siano davvero valori univer-sali?), col rischio reale del caos e dell‟incomprensibilità. Dall‟altro quella della “Torre-prigione” in cui si è rin-chiusi.

Se la questione si riduce alla proprietà del capitale (pubblico/privato) o alla gestione di un servizio (pubbli-co/privato), è chiaro che l‟oggetto si dissolve. Dal punto di vista del lavoratore che si reca ogni mattina in una fabbrica, sapere se sia una SpA con capitale sociale pubblico piuttosto che privato, gestita da un manager nomi-nato da un ente pubblico piuttosto che da un consiglio di amministrazione, sicuramente non gli cambia la vita. E non è detto che sia meno sfruttato. Ma, attenzione!, se quello sfruttamento produce plusvalore, profitto o surplus (gli economisti mi aiutino) e finisce nelle tasche di azionisti privati, invece che nelle voci di entrata di un Comune, il fatto è tutt‟altro che secondario. In periodi di “crisi fiscale” dello Stato e di mancati trasferimenti dal centro alle periferie, quel profitto potrebbe essere restituito al lavoratore sotto forma di asilo nido, di scuola o di altro servizio.

La socializzazione dei mezzi e dei rapporti di produzione e riproduzione non passa attraverso la statalizzazione o la collettivizzazione forzata. Questo insegna l‟esperienza del “comunismo reale”. Non passa neanche attraverso la loro pubblicizzazione. Allora, attraverso quali misure passa? O forse non c‟è bisogno che passi perché, se esiste l‟intelletto generale ed è messo in produzione è già tutto socializzato, reso pubblico, comune? Ma se è così, se la teoria che dovrebbe modificare le cose, ci consegna questo contenuto di verità (verificabile e dimostrabile), per-ché non riusciamo a dargli forza e a trasformarla in “credenza”? Se è così ininfluente la proprietà privata o pub-blica del profitto, perché tanti corifei del privato? Perché questa invadente, aggressiva e ossessiva “privatizzazio-ne del mondo”? Perché si tenta continuamente di mettere all‟asta e svendere il pubblico?

5. Gli ecologisti, sostiene Ezio Partesana, non conoscono il concetto hegeliano di “società civile” e non sanno che il sostantivo (società contro stato partitocratrico) e l‟aggettivo (civile contro egoista, rozzo, ladro e mafioso), sono usati in tutt‟altro senso. La società civile di Hegel è quella borghese dei proprietari: di case e terreni, di fabbriche e commerci, di rendite e profitti, di azioni e obbligazioni. E‟ probabile che in questa società si annidino evasori e furfanti, strozzini e sfruttatori di lavoro nero e minorile, affittuari voraci e bottegai taccagni. Probabile. La “socie-tà civile”, insomma, non è migliore di quella “politica”. Il borghese non è più onesto del cittadino. E‟ lo stesso uomo. Giano bifronte. Hegel e Partesana non hanno torto. Ma perché gli ecologisti dovrebbero conoscere Hegel? Gli ecologisti fanno del concetto di “società civile” un altro uso. L‟hanno ampliato e piegato in un‟altra direzione. Da società di privati proprietari-cittadini hanno cercato di trasformarlo in soggetto politico teso a mettere in di-scussione, con azioni collettive e discorsi pubblici, determinate scelte politiche dei partiti. Cosa c‟è di tanto scon-certante? Forse c‟è qualcuno che è padrone nell‟uso delle parole e dei concetti? O forse esiste soltanto un sogget-to (un tempo l‟operaio-massa, ora il lavoratore della conoscenza, domani…) che per la sua collocazione centrale nei rapporti di produzione sociale è delegato al compito? Ma se oggi è possibile accendere la comunicazione e il discorso pubblico in tantissimi nodi sociali della rete, perché non immaginare che forse lo Spirito oggettivo si è frantumato come lo specchio di una fiaba in mille e mille frammenti? Perché evocare ancora, dal momento che non si condivide, la sciagurata teoria dello “stato etico” e, magari, Napoleone a cavallo?…E‟ probabile che l‟universale sia solo un “punto di vista” (della tribù germanica ed occidentale) che aspiri a cogliere tutte le con-nessioni della totalità sociale.

Ma le connessioni forse sono tante quanto le dita pronte ad accendere un computer e a cliccare su Internet e-xplorer. Un singolo è solo un nodo della rete, un parlante che per quanto geniale (Hegel, cavoli, se lo era!) non può abbracciarle tutte.

Quasi a conclusione del primo capitolo Illuminati scrive: «Teniamo perciò sempre l‟occhio alla produttività dell‟intelletto COMUNE più che al suo aspetto circolatorio, al semplice riconoscimento della pluralità intersog-gettiva opposta al linguaggio mentale PRIVATO. La circolazione è un momento PUBBLICO posteriore alla pro-duzione PRIVATA. Il nostro interesse va invece alla produzione PUBBLICA mentale, distribuita in soggetti sin-golari. […] Ogni tratto del laborioso affaccendamento di filosofi e teologi intorno ai concetti va colto dal punto di vista di una pratica contemporanea in cui l‟intelletto COMUNE è insieme dispiegato e imbrigliato in vecchi rap-porti di produzione, in cui la mente e le sue protesi sono quotidianamente messe al lavoro, producendo ricchez-za, desiderio e frustrazione.» (pag. 11)

Forse oggi coi nostri fratelli e compagni abbiamo in comune l‟intelletto, la lingua e il lavoro – questo tipo di la-voro. La patria, no. Siamo del mondo. [D.S.]

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