Il volo del cherubino di stucco

serpotta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questo articolo  è apparso  sul n. 9 cartaceo di POLISCRITTURE (gennaio 2012)

di Francesco Briscuso

‘’Scrivi mi dico, odia

Chi con dolcezza guida al niente
Gli uomini e le donne che con te si accompagnano
E credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
Scrivi anche il tuo nome. Il temporale
E’ sparito con enfasi. La natura
Per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
Non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi’’

Franco Fortini

 

Rammento Palermo come una grande nuvola indaco dentro una primavera di orribili piogge sabbiose  e di sghembe folate di libeccio.  Ricordo Palermo –infinita ghirlanda di fiori- come una strada sudicia e in salita, vinta da un traffico convulso di  voci e di ingombri carriaggi, stradelle stipate    di botteghe d’avventurosi verdurai che bollivano  pallidissime fragranti patate e  scarlatti carciofi spinosi dentro grandi calderoni fumanti.  E poi ricordo Palermo –immensa cala di porto- come  la triste prospettiva di un mare imperscrutabile, e di mille chiese colme di statue di meringa.  Firenze – della quale ho da sempre  sicuramente una maggiore  nozione – impallidisce ogni volta che me la figuro nella memoria al confronto, per mio assoluto scorno, nel rimpianto forgiato da una   anonima pianura lombarda o da un Arno colmo di dorate e mobili  carpacce grasse e fangose .  La guerra (due, se ci sommiamo la distante tragedia del mio amatissimo vecchio ) mi appare  talora come un pantano di distinte ed alle volte inspiegabili, ineluttabili, contrarie motivazioni connesse tra loro come le caselle idiote di un domino folle, sangue di vinti e vincitori mescolato al fango ed alla merda.  Né d’altra parte fu facile andare avanti –nella mia infanzia tribolata  in mezzo a colpi di fucile ed a sfilate estranee  e perquisizioni familiari e frequenti-  né  fu allora  semplice vivere, tra vecchie pensioni cenciose  o appartamenti scalcinati presi in comodato, spazi col cesso in corridoio presidiati da  bigie e grasse  padrone di casa arcigne e vocianti, con i miei discordi genitori trasognati e fuggiaschi,   sempre angosciati, timorosi che alla mattina ci si svegliasse con un facchino che bussava furioso alla porta gridando ( i garzoni d’albergo  di Firenze possiedono una premonizione acquisita in decenni, forse addirittura in   secoli;  percepiscono atavicamente  presagi concreti di ospiti fuggitivi; hanno antenne percettive  stimolate dai ceffi inequivocabili dei cattivi pagatori;  recettori appositi per i renitenti del conto, ma ancora non lo sapevo );  sono vissuto da bambino in  stamberghe male illuminate e  talvolta maleodoranti da cui improvvisamente toccava allontanarsi, nelle quali si tornava delle volte senza preavviso e con sollievo o  malanimo nostalgico, senza che ci si potesse forgiare l’immagine netta di una casa; con un tinello, una sala, dei corridoi, delle stanze: come quelle dei compagni e dei piccoli amici con cui si giocava per strada – am Israel chai vekaiam1.-  Mai ho potuto vedere affacciandomi a rozzi balconi  ed a finestre prive di tende se non delicate mattine d’incenso autunnale  macchiate di paura o risse notturne di ronde fasciste o di ubriachi,  e di violenza senza motivo  -ed automobili con corrusche uniformi e bandiere e grida di alalà- o stazioni illuminate da uno sguardo di furtivo amore senza quiete.  Ho pensato sovente nelle  mie precoci albe d’autunno a dei volti cerulei impietriti nell’inutile aspettazione del Vero, volti sconosciuti  che, dopo,  ho guardato a lungo a Palermo, con la commozione estrema e vitrea di chi riconosca un amico a lungo perduto e di cui si ravvisi a fatica il sembiante.  Chiese, oratori, edicole votive cresciute come erbacce  in mezzo a  tratturi sparsi nelle nude pietraie.  Un piccolo, peloso e sparuto cavallo che brucava sotto la pioggia insistente scaturita da un –bassissimo- cielo inatteso i germogli di vite selvatica e gli asfodeli stenti d’un prato.   Di Palermo –tropicale soffio d’Impero- ricordo i cori barocchi  di alcune chiese abbandonate ed arse dal vento e dalla noia dei tormentati meriggi, dalle facciate cavate dalla devozione o dall’arte  in una nuda roccia giallastra,  pietra  serica scabra e sabbiosa,  che esplodevano nei miei occhi colmi d’ombra  in navate insospettabilmente ricche, come  salotti di nuove generazioni di imbelli, improvvisamente  arricchite e smaniose di inutile sfarzo: quello  delle  immani cornici pletoriche di stucchi mobili e candidi, delle sante pingui e bellissime morbidamente impietrite dagli smalti iridescenti; immense mammelle lucide  che allattano ab aeterno pargoli grassi e petulanti, querula prole di un vago passato curioso.  Era stato, quello, per me un tempo mutevole, di passeggiate dolci e di incontri, un tempo nel quale, inopinatamente , conobbi altri giovani,  poeti, scapigliati prosatori, polemisti inesausti e prolissi; molti ragazzi ed uomini forgiati dalle speranze e nutriti dal compromesso: era stato un tempo colmo di carretti e processioni di grigie fantastiche nuvole e nebbie, in  una città ben distante da quella vagheggiata, una valle sognata come  conca felice e solare  colma di luce e colori, di grida ed arance, di strani profumi lontani, di vita.  Palermo mi sembrò mistero fondo  ed ombra, lucidissimi acciottolati sconnessi e cantoni colmi di segreti sussurri e repentina oscurità complice e fredda.  Vicoli immemori e torti, cortili densi d’ombra e pietre scolpite, sguardi d’intesa senza scopo, comunicazione estenuata di languide attese senza amore, calessi e carrozze in moto tutta notte, schiocchi di lontane fruste, fremiti  di distanti  cocchi e di cavalli.   Corpi –viventi o soltanto ritratti – scolpiti come nella meringa o nella melassa, liquidi e male sovrapposti a sfondi confusi eppure persistenti.  Pareti colme di episodi vividi, assolutamente monocromatici o volutamente, assolutamente zeppe  di tinte discordanti.   Palermo senza nessuna intesa ragione, Palermo insieme a dolorose istanze di attonita urgenza.  Palermo.    E delle statue precarie di stucco. O corpi mummificati di antichi frati sventrati ed appesi a sgocciolare coperti di salnitro e polvere, ed impagliati con tanto di tonache e rosari da mummie violacee. Visi ossuti o paffuti e sorridenti, occhiaie vuote di assenza,  volute di rimembranze  semplici e molli fatte di grassissime materie variopinte o mucchi d’ossa.  Candide membra di gesso e pittura assemblate in botteghe suburbicarie, in negozietti al confine della fangosa ed asperrima  metropoli,  scolpite, modellate nella penombra di umidi   fondaci oscuri, od in forre scoscese di  campagne pingui e onerose, nel mezzo di sterri sudici e vuoti, in botteghe colme di grida  dialettali o del tutto  silenti; improvvisi volti di angeli, emergenti  da  mucchi fangosi di  resti, di scorie.   Di carcasse, di  fragilissime ossa immemori e calcinate dall’afa.

Ho pensato alla città chiusa in se stessa quando non avevo prospettive né pensieri, credendo  – e lo credevo- che l’affrancarsi da un retaggio millenario e durissimo fosse l’unico modo di liberare la strategia veritiera del vivere,  e forse allora per la prima volta il pallidissimo Cristo di Valdo  –Baruch ha bà ba schem Adonai2 mi sembrò misura di eventi incomprensibili e veri.  I poveri li  scorgevo dovunque, e la povertà, presente anche in chi aveva a dismisura.  E la  ho odiata, pur amandola in effigie  – la odiavo perché rende schiavo il mio simile uomo, pur  amandola a volte nella pur  cruda apparenza e con tenerezza filiale per il ricordo che ne adombra il destino, e per l’autenticità dei moti che sempre, sempre, produce –  .   Nella Palermo del mio ricordo –immota punica sfinge- i volti degli angeli ciechi  modellati dalle mani di un Marrano dal nome complesso e serpentino* si sono mossi a migliaia per raccontarmi una storia di sventura e d’amore che è diventata il tessuto dei sogni.  In quella città oscura e  viva le cui strade sono segnate da cippi ebraici ed arabi e latini. Ci ho visto la fuga, l’inganno, la rassegnata opulenza di un pomeriggio di primavera, la contemplazione di un volto trasfigurato, il terrore del futuro, la polverosa certezza dell’Inutile.   In quei volti lisci e perpetui ho scorto   la Morte  – Baruch dayan haemet3 -,  l’inganno delle speranze e del cielo sordo e lontano.  E, figurandomi quella Morte e mescolandola con l’amore per i poveri e per la  tribolata vendetta che esercitano nei confronti dei sogni, ho creduto di assistere alla fuga d’una di quelle statue fragili, immemori e candide; una improvvida e repentina fuga dal coro barocco stuccato di oro e di minio, fuga straniera dal tempo e dalla menzogna del fasto, fuga  dal mesto ciarlare delle vecchie bigotte nere   riunite per un quotidiano untuoso rosario.    L’arcangelo di stucco aveva dunque visto nel cuore di ognuno il male relativo della tribolazione e quello assoluto del bisogno, aveva scorto, pensoso, l’inganno che ciascuno dona a se stesso nel consolarsi con la preghiera e col pentimento.  Quegli occhi dipinti di biacca e di gelido bistro avevano visto,  percepito un altro Vero celato agli estranei occhi, realmente  vedenti, ma onninamente ciechi.  Ed era dunque volato via, sopra i tetti della città dipinta di smalto, verso il mare forse, verso la piana coperta di aranci, verso il Monte Reale scosceso e selvatico, verso le ancor più barocche volute dei monti, verso i golfi e le isole distanti.  Volava sopra gli affanni degli ambulanti delle panelle, sopra le bandiere rosse  scarlatte della primavera e del giorno.  Sfrecciava via in un torrido cielo di stagno e di miele, lontano dal fastoso Pantocrator vestito con un immane chitone di bronzo e con drappi di estenuati mosaici greci, via dalle colonne sormontate da onde di scarlatto e d’oro,  lungi da tombe affiancate da tombe senza fine , a distanza congrua e massiccia  dalla ingombrante presenza dell’onniveggente Nume  e dalla Sua lungimirante vendetta, lontano dall’altro fulgidissimo  bronzo  ed arancio della piana, via dalla consolazione dei canti e dalle salmodie marmoree della città e dal fumo freddo d’incenso crudo che stagna nei cori.  Distante dai cori di dimenticate Sinagoghe e di Cattedrali, dall’ombra madornale nel mio tribolato ricordo, volò via  un cherubino di stucco la cui fulgidissima e tremenda voce di squilla gridava con gli occhi coperti da un’ala l’antico giuramento dal quale, invano, sfuggo.  -Schemà Israel, Adonai elohenu, Adonai ehahad4

Ed ho sognato una donna, una fanciulla stupita, una bellezza diafana e cenciosa col medesimo volto del fuggevole distante cherubino, che, perduta nel volo di quell’angelo, era di repente, forse a sua insaputa, precipitata al suolo schiantandosi su di un viscido anonimo selciato,   morendo. Aveva cosparso di fuoco magenta il candido della veste ed il turchino delle labbra, l’azzurro del pelago selvaggio e l’ocra della terra cosparsa di verde e di nero.   Non so perché il sogno della morte del cherubino di stucco mi abbia poi seguito dovunque andassi in seguito a quel giorno.   Ma so che -a Palermo, fuggevole ghirlanda di luci- ho pensato ben presto  alla povertà, riverendola e proponendomi di riscattarla od estinguerla, alla ambigua durezza delle leggi, all’irrimediabile cherem di Spinoza ed al mio altrettanto duro e definitivo ostrakon da me stesso graffiato sul coccio della banalità della vita. Mi sono cimentato  con i testi che adombrano la  necessità di combattere  strenuamente gli ingiusti verdetti delle vane collettive intemperate versioni della Storia , con la  breve ed eterna consolazione dell’amore.   Palermo –nome di eletta giustizia –  e quell’angelo modellato nella materia sublime e vile della Morte sono da allora, credo, diventati parte cospicua della mia canzone, quella che ho inteso cantare con una voce sommessa ma che pure spero sia stata  nitida e  ferma.   Non so, davvero non so, sebbene tenti strenuamente di immaginare, di dire, di argomentare; non so guardare oltre quegli occhi vuoti, fragili e chiari, non so emettere irrevocabili sentenze od evitare –men che meno- compromessi colla sorte.  A te che leggi, soprattutto, non so che dire, salvo  – questo davvero so per certo – che la poesia non conta nulla. Nulla è sicuro.  Ma scrivi.

1: (il popolo) d’ Israele vive.

2: Benedetto colui che viene nel nome del Signore.

3: Benedetto il Giudice giusto. ( Si mormora  nell’udire cattive notizie).

4: Ascolta Israele, il Signore è il tuo D-o, il Signore è uno. Incipit della principale preghiera dell’ebraismo.

Cherem: espulsone dalla comunità, equivalente ad una definitiva scomunica, sebbene forse più grave.

*Giacomo Serpotta, scultore palermitano di fine seicento.

4 pensieri su “Il volo del cherubino di stucco

  1. meravigliosa lettura…grazie grazie.

    persecuzioni inganni fughe amori rivestiti da una storia, da un’architettura e da figure che restano impresse come comandamenti,

  2. …ringrazio Emy per avermi suggerito la rilettura di questo racconto autobiografico di F. Briscuso davvero bellissimo e intenso. Vi compare la descrizione della città di Palermo, dove lo scrittore ha vissuto giovane, fuggitivo e poeta scapigliato…più che una descrizione é un vero inno, in crescendo, della città, a tratti ammirato o surreale, a tratti macabro, dove l’opulenza, la sovrabbondanza di vita, di colori e di profumi, lo sfarzo dell’arte e l’estasi religiosa si mescolano al degrado, alla stessa morte camuffata da vita. Ma é soprattutto la povertà a colpirlo e a suscitare in lui un desiderio di riscatto. Sulle spalle dello scrittore pesano le esperienze personali e familiari di persecuzione e di diversità del periodo di guerra, nella tradizione millenaria del suo popolo da cui cerca invano di prendere le distanze. Sarà una un angelo cherubino, stucco in un coro dorato, a prestargli le ali per un volo oltre ogni miseria e ingiustizia nel cielo terso della conca d’oro, ma quel volo rachiude anche una solenne promessa: scriverà in difesa dei poveri, lui uno di loro. Sarà breve come un volo d’Icaro, come gli suggerisce un suo sogno? Che importa…

  3. @ Salvatore

    Non si riesce ad avere qualcosa dei suoi inediti? Qualcuno si sta occupando degli scritti eventualmente lasciati incompiuti?

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