Libera

bambina

di Rita Simonitto

[Un racconto sul desiderio di fuga e sui condizionamenti, tra cui l’assenza di un progetto, che impediscono di essere libere. Perché protagonista, titubante e impacciata, è proprio una donna]

Finalmente libera.
Non era stato facile quel giorno sfuggire alle maglie che l’avevano tenuta prigioniera per tanto tempo.
Era stato un lavoro lungo, innanzitutto dentro di lei perché aveva dovuto far fronte ad altri lacci ben più inquietanti.
La paura, ad esempio.
Paura di tutto e di tutti. E questo stato d’animo la faceva sentire ancor più intrappolata e così le capitava di reagire d’istinto mostrando una aggressiva insubordinazione verso ogni cosa le capitasse a tiro.
Più volte aveva cercato di convincersi che invece bisognava giocare d’astuzia, mostrarsi (solo mostrarsi, sia chiaro) arrendevoli se si voleva raggiungere uno scopo. Che per lei era quello di andarsene.E poi c’era la paura di non farcela, di non essere attrezzata per vivere liberamente la sua vita.
Non da ultimo il disagio che provava di fronte ai segnali contraddittori che percepiva dentro di sé e che, a volte, sembravano dirle “vai, scappa” e a volte la facevano richiudere in se stessa, rannicchiata nel suo guscio.
Ne erano passate di stagioni!
Ma quel tempo non era trascorso invano. Ascoltava i dialoghi che le capitava di intercettare. Faceva finta di nulla come se la cosa non la riguardasse e intanto gli altri parlavano, parlavano. E lei ascoltava. Ascoltava e si faceva delle idee.
Una settimana prima, nel giardino, due amici di coloro che lei chiamava “i controllori” si erano acquattati dietro un cespuglio (loro non la vedevano ma lei, sì) a scambiarsi effusioni e maldicenze sui rispettivi coniugi. La donna sembrava la più battagliera, come se sapesse il fatto suo, e ciò non poteva non avere un certo fascino per lei che si sentiva così inadeguata, anche se un certo senso critico non le faceva difetto.
“Mio marito è come un bambino capriccioso ed egoista che non mi lascia nessuna libertà”, diceva la donna con voce piagnucolosa e, caricando il tono, aggiungeva:
“Non mi permette di avere un pensiero che sia mio. Non ne posso più”.
E il suo amico (occasionale?) annuiva emettendo ogni tanto dei ‘Sì’ sospirosi, non si capiva bene se erano di condivisione o di stanchezza perché, fintanto che quella parlava, non si poteva arrivare al ‘dunque’.
Lei si consolava al pensiero di non essere l’unica a lamentarsi. Certo che non l’avrebbe fatto con un cascamorto come quello, Dio ce ne scampi! Ma un giorno anche per lei si sarebbero svelati nuovi orizzonti.
Questi si sarebbero mostrati come delle opportunità, come porte lasciate distrattamente aperte o inviti più o meno espliciti a prendere la strada della indipendenza.
E così era finalmente accaduto: se si aspettano con fiducia le cose, poi quelle arrivano anche se non sempre riconoscibili. In modo strano, ma arrivano. Per l’appunto, a modo loro.
Per cui si deve reinventare tutto.
Perciò, quando le accadde di trovarsi fuori per puro caso, non fu semplice prendere decisioni né così immediato l’agire.
Non era nemmeno come lei aveva immaginato nei suoi sogni: si prende su e si va lasciandosi alle spalle il passato.
Bisognava invece procedere con cautela. Non si dovevano lasciare tracce, avrebbero sempre potuto venire a cercarla e, riacciuffandola, avrebbero rincarato le misure di sicurezza.
Perciò lasciò passare del tempo e attese pazientemente che “i controllori” si fossero allontanati a sufficienza per mettere un po’ di strada fra lei e loro.

Scartò fin da subito la strada maestra, lo sfrecciare delle auto dava una certa vertigine aumentata dal riverbero dell’asfalto che creava immagini paradossali facendo apparire vicino ciò che invece era lontano e viceversa. Decise di prendere il viottolo sterrato che rendeva comunque agevole e veloce la camminata. Poi pensò che era sempre troppo esposta alla vista e si inoltrò nel prato dall’erba folta ai cui margini, lontano laggiù, sbrumavano alla luce incipiente del mattino piante che sembravano essere quelle di un frutteto. Là, senza dubbio, avrebbe potuto rifocillarsi, trovando qualche frutto da mangiare.
Aveva il passo determinato. Si era sempre detta che una volta presa una decisione, bisogna guardare avanti, mai voltarsi indietro a ripensamenti.
Ma era ancora forte il bisogno di confermarsi nella sua scelta, era tuttora necessario ribadirsi il fatto che era stufa, stufa della prigionia, stufa di lui, del suo compagno che le stava sempre sopra, non le lasciava mai un margine di respiro. La infastidiva anche quel suo essere concentrato su di sè per cui si accaparrava sempre i bocconi più buoni, non teneva in conto che lei arrivava più tardi col rischio che, a volte, non trovava più niente. Eppure non aveva coraggio di ribellarsi, a che scopo, poi: le cose sarebbero cambiate per qualche giorno e dopo un po’ sarebbe ricominciato tutto come prima. Ci voleva una rivolta radicale, una rivoluzione: andarsene e basta.
Anche di quello aveva sentito parlare nel giardino. Ci capiva ben poco lei di rivoluzione se non ciò che poteva selezionare a sostegno dell’unico fine che si era preposta: liberarsi dai condizionamenti, dalla schiavitù.
Quanto a quest’ultima, le riusciva difficile capirne il concetto, adattarlo alla sua realtà visto che lei, per rimanere terra-terra, non era proprio schiava, poteva pur muoversi liberamente, sì, c’erano i ‘controllori’ ma non aveva ceppi, e poi… rivoluzione…rivoluzione…? significava mettersi a pancia in su invece di stare a pancia in giù?. Bah!
“Chiarezza, chiarezza, mi punge vaghezza di te” … stava allucinando, oppure i versi di quella canzone davvero si stavano sprigionando da qualche lontana emittente radiofonica e si perdevano rimbalzando, o per meglio dire, sbatacchiandosi – come accade al suono delle campane – tra gruppi di case sparse e collinette rese docili dalle recenti arature?
Ah, erano i profumi del passato….Ma no, no, atteniamoci al presente, si disse.

L’erba alta sprigionava al suo passaggio un intenso miscuglio di profumi, alcuni per lei noti, altri del tutto sconosciuti. Si stava abbeverando a pieno di quelle sensazioni e, anche se incominciava ad avere un po’ di fame (da quanto stava camminando?), pensò che per mangiare ci sarebbe stato modo, intanto poteva gustare appieno la fragranza della libertà.
Sembra impossibile a credersi se non la si sperimenta, ma anche quella ha un sapore particolare, quel particolare profumo che ammanta le cose di un sentore di fresco anzichè di stantio.
Un guaiolare improvviso la fece fermare di scatto: un piccolo cane si era parato davanti a lei, fermo sulle quattro zampe quasi la stesse puntando. Guaiva e muoveva la coda, poi fece due salti in qua e in là, si bloccò a fissarla e poi riprese la sua ‘danza’, sembrava che volesse giocare. Ma lei non ne aveva nessuna voglia. E poi non si dà subito confidenza al primo sconosciuto che si incontra perché, si sa, da cosa nasce cosa e lei era così smaniosa di conoscere e quindi così in pericolo … anche di questo aveva sentito parlare negli incontri più o meno segreti che avvenivano nel suo giardino. I rinfacciamenti che ne seguivano e i rimproveri poi “se tu non avessi insistito”, “se io non avessi ceduto”.
Boh! Come si fa a sapere come vanno veramente le cose!
Il mondo è un crogiolo di esperienze, se ci si avvicina troppo si rischia di scottarsi, se ci si allontana troppo si rischia di non capirne nulla!
Fatto sta che, almeno per i primi giorni, era meglio stare alla larga dalle conoscenze occasionali. Certo che le sarebbe voluto del tempo per sapersi orientare, saper capire con chi aveva a che fare … com’è, com’è che diceva quel giovanotto sussiegoso dietro la siepe? Ars longa, vita brevis.
Ma per lei invece la vita sarebbe stata lunga! Tutta la vita davanti.
Dopo aver fatto un risolino arguto tra sè e sé sui possibili fraintendimenti sull’ars longa, prese la decisione di deviare dalla sua direzione e piegò un po’ più a valle.
La giornata era piacevole, tirava una leggera brezza che rendeva il cammino meno appesantito dal caldo di fine di maggio.
Camminando pensava: ecco, tutte le tue paure, finite. Già.
Perché non c’era stato soltanto il suo compagno a darle noia. Risentiva le voci dei ‘controllori’ (lei li chiamava così) che le dicevano “Ma di che ti vuoi lamentare? Qui sei protetta, non ti manca niente”. E questo era vero.
Ma il fatto che glielo dicessero, o glielo facessero capire, faceva intuire che il mondo non era tutto lì, c’era anche un altrove, un altro luogo che a lei però non interessava niente visto che manco lo conosceva. Come si può desiderare ciò che non si sa e non si è mai conosciuto? Era per la sua ignoranza che lei si era accontentata di quello che ‘le passava il convento’, senza lamentarsi e senza ribellarsi mai?
Fu contenta di aver formulato questa considerazione che ritenne molto profonda, ecco come la libertà apre anche la mente; e così continuò a pensare e camminare.
Poi, senza alcun cane che si parasse davanti a lei, ancora una volta si bloccò.
Eh, sì, la libertà apre la mente ma di questa apertura che cosa facciamo se non c’è nessuno con cui parteciparne? Mmh! Stava forse scivolando nella nostalgia del passato? No, no. Sciò, sciò, via da questi pensieri.
Eppure era un bel dilemma! Non appena ti allarghi un po’, subito ti trovi un nuovo ostacolo!
Nemmeno a questo aveva pensato. E come avrebbe potuto?!
Ecco dunque aprirsi un altro campo di indagine!
E pensando e camminando e camminando e pensando, con il rimuginio che si era fatto sempre più intenso, non si era accorta che aveva perso un po’ la rotta. Sempreché di rotta si potesse parlare.
Ora l’erba era un bel po’ più alta, lì non era stata fatta nessuna falciatura e in quel tratto si alternavano anche alcuni rovi che celavano anfratti nel terreno non facilmente visibili e a quel punto le venne in mente una discussione che aveva sentito anni e anni prima, sempre nel giardino di cui sopra che sembrava essere la fonte di ogni sua esperienza verbale.
Eh, se fosse stata una intellettuale chissà che nome avrebbe potuto dare a quell’intercalare di passi avanti e indietro, quel succedersi di presente e memoria del passato. Forse solo qualche antica danza avrebbe potuto rappresentare coreograficamente quell’andamento quasi musicale, simile al volteggio che fa la fenice, uccello di fuoco.
Aveva ascoltato, allora, una dotta e mesta considerazione sui cambiamenti delle usanze paesane. A parlarne erano stati due signori – insegnanti, forse – che sostenevano che in quei luoghi, per segnalare le divisioni dei vari appezzamenti di terreno, si era fatta la scelta di utilizzare strisce di incolto anziché piantare gelsi.
E non si potevano piantare più gelsi a fare da divisorio fra le proprietà onde evitare continue contese di vicinato. Almeno così le sembrava di aver capito.
Perché bisognava comunque mantenerli, curarli, potarli. I gelsi. E chi si sarebbe preso la briga di farlo? E come? E in che modo si sarebbero divisi i costi?
E poi gli alberi, si sa, pendono un po’ da una parte e un po’ dall’altra, le loro chiome danno frutti che non portano il nome del loro proprietario e allora liti e ancora liti su chi è autorizzato a farne vendemmia per la marmellata di more!
E metti caso che uno dei due confinanti avesse avuto un roccolo (per cui ha bisogno di frasche un po’ stagionate) mentre l’altro ha un allevamento di bachi da seta per cui necessita di quei rami giovani, così verzurini che ti pare di sentire la linfa vitale che scorre ancora tra le vene delle foglie, beh, insomma, quel nettare che serve per alimentare quelle larve affamate che devono essere nutrite come Dio comanda se si vuole che facciano bozzoli setosi che poi, dorati o argentati, verranno portati alla filanda e lì, su quella massa che odora di vivo e di morto, ecco l’intrecciarsi del sanguigno sudore delle donne alle filiere per i ritmi estenuanti a causa dei tempi stretti di lavorazione, i loro occhi accecati dal neon posto sotto i graticci per separare i bozzoli buoni da quelli da scartare, e poi lo sfinimento delle loro veloci dita abili a individuare il bandolo e seguire lo svolgersi del filo di seta che andrà a tessere nuvole di abiti che loro non indosseranno mai ma che avvolgeranno i corpi di belle ricche fanciulle volteggianti tra braccia maschili che a stento trattengono il loro desiderio e…..
… su questi ricordi lei inciampò e cadde.
Non sentì granché male ma fece comunque molta fatica a riaversi. Era caduta di schiena in un buco e non le era facile tirarsi su: era abbastanza profondo, terroso. A pancia all’aria aveva avuto comunque la possibilità di osservare lembi di cielo trasparire tra i fili d’erba e i rovi che avevano già incominciato a mostrare qualche frutto maturo che le sollecitava un certo languore.
Avrebbe voluto averle già in bocca… e invece bisognava raggiungerle quelle bacche succulente!
Fece dei tentativi per muoversi ma si sentiva molto stordita a causa dei suoi stessi sforzi. Forse era il caso di starsene lì tranquilla ancora per un po’, riprendere le forze e poi, rigirarsi e, nella risalita, farsi qualche mora di rovo o lampone che fosse.
Sì, forse era la decisione giusta. Anche perché c’era un rumore lontano non meglio definito. Che fossero venuti a cercarla? Ragione di più per starsene nascosta.
Il rumore, intanto si stava facendo sempre più vicino. Faceva pensare al rombo di un temporale solo che, da quanto le era parso di capire dall’andamento della mattinata, quasi senza nuvole, non ce ne sarebbero stati gli indizi e poi non aveva la discontinuità del tuono, anzi, avanzava costante e ineludibile.
Fu presa dallo sgomento. Che facesse parte di uno di quei pericoli che lei snobbava quando si sentiva prigioniera?
D’altronde adesso si trovava lì, e pensare al passato non poteva far altro che portare ulteriore inquietudine.
Però non riusciva nemmeno a pensare al futuro: il suo sguardo era limitato dalle pareti del fosso e muoversi al momento era improponibile.
Intanto il rumore assordante era ormai sopra di lei: la prima cosa che vide furono le lame vorticose della falciatrice e l’ultima, un enorme stivale che sorvolò sopra la sua testa.
Non ce la fece più. Troppe esperienze forti in un tempo così breve.
Così la tartaruga si ritirò sfinita dentro il carapace.
Quando rimise fuori il capo, c’era uno stupendo profumo nuovo di erba tagliata ma che non le servì affatto a reprimere la nostalgia del luogo che aveva lasciato, del suo compagno, delle persone che forse ancora la stavano cercando.
Una nostalgia che la sfiancava, le inibiva i movimenti. Avrebbe certamente pianto se le tartarughe potessero piangere.
Ma ormai era in viaggio e bisognava andare avanti. Appoggiandosi di schiena un po’ qua e un po’ là sui margini del fosso cercò di risalire la china e si avviò verso il futuro.
Un futuro che presupponeva comunque l’esistenza di una struttura che poteva metterla in difficoltà (il suo carapace, ad esempio): non ci si libera così d’un tratto dei condizionamenti, della propria storia e che se ….

Bip. Bip.
“Cristo! Cristo! Non adesso, non piantarmi in asso proprio adesso…”
Bip. Bip. Bip. Un lungo silenzio e poi: Bip. Bip.
Ora gli intervalli tra quegli striduli suoni sono un po’ più lunghi, sembra che ci sia una maggiore tenuta.
Il fiato sospeso, l’occhio fisso al monitor, ecco che il cursore riprende la sua attività, le dita sui tasti possono tornare a scivolare leggere come scivolavano leggere prima fintantoché non c’era stata quella interruzione: Bip, bip.
Fra sè e sé la scrittrice pensa: “Se lo ha fatto due volte invece che tre si tratterà di un segnale positivo oppure no? L’allarme è rientrato? Mi posso fidare a continuare a scrivere? Si salveranno le cose che sto depositando in questa scatola infernale?”
Come blatte kafkiane, stanno prendendo piede le fantasie più apocalittiche.
“Ma che cavolo sta succedendo a questo PC di merda!?
Perché si sta impuntando il gruppo di continuità?
Il temporale?! Ah, sì il temporale! Ma ormai quello è già passato da un pezzo!”
E così la scrittrice incomincia ad agitarsi. Non è piacevole sentirsi condizionati da qualche cosa di incomprensibile, inafferrabile, intangibile.
Ma poi si dice: “Hai voluto il virtuale che ti porta dappertutto? Bene. Ora ‘pedala’”.
E quella è una maledettissima, fottuta evidenza. E allora grida e sbraita. E urla, perché è capace anche di urlare (oltre che di pensare):
“Lo odio, lo odio, lo odio. Ah, quanto lo odio, maledetto”.
Come un temporale umano, la sua voce si scaglia su tutto ciò che fa da ostacolo alla sua furia, rimbalza acuta tra gli spigoli, percorre i corridoi, si insinua tra i meandri della casa.
L’impotenza che si fa potenza è sempre uno spettacolo straordinario!
“Ma chi stai odiando?” grida una voce maschile che sembra emergere da una lontananza indefinita.
“Ti odio, ti odio!”
“Ma che cavolo vuoi da me?”
Pericolosamente due poli carichi di tensione si stanno avvicinando cercandosi per l’esplosione, dribblando le sedie della cucina lasciate ancora scostate dal tavolo a causa di un veloce abbandono del desco, perché quando c’è da dedicarsi ai lavori di intelletto non c’è tempo per riassettare!
Ma l’appartamento non solo è grande, come generalmente lo sono quelli borghesi, ma è ‘complesso’ (così soleva enfatizzare l’architetto che l’aveva progettato, sostenendo che “la casa è un po’ – o dovrebbe essere un po’ – come la nostra mente che non può avere un funzionamento schematico, zona notte di qua e zona giorno di là secondo il modulo destra-sinistra oppure alto e basso, ma dev’essere ‘open’, però con angoli di ‘significanza funzionale’, spazi integrati e condivisi e spazi singoli”) cosicché non sempre è facile trovarsi e una voce sembra risuonare da una parte e invece proviene da tutt’altra.
Ma a un certo punto la scrittrice riesce ad incantonarlo, lui, mentre, incauto, sta caricando la pipa e con passo flemmatico si sta dirigendo verso di lei.
“Ti odio, ti detesto perché te ne stai tranquillo per i cavoli tuoi e non ti rendi conto di niente! Sei un maschilista sfruttatore. Io lavoro tutto il santo giorno fuori e dentro casa. Ah, sei candido tu. Tanto a te va sempre bene, che ci hai da perdere, tu…. Ma io sono stufa, stufa! Vedrai un bel giorno che cosa ti combino, pezzo di imbecille!”

Luglio 2012

4 pensieri su “Libera

  1. Rita sei forte!
    La tartaruga (che all’inizio pensavo gatta) mi è piaciuta tanto mi son sentita subito sua amica volentieri avrei fatto con lei quel viaggio , avrei potuto insegnarle una strada…
    Il PC ormai è diventato il nostro compagno e il compagno (uomo) della vita speriamo abbia capito la differenza, o almeno, che si sbrighi a farcela capire! Ahahaha!
    I due racconti concisi e convincenti pieni di fotografia a colori e di profumi ma anche di sentimento sono davvero piacevoli ed avvincenti. Brava! Ciao un abbraccio

  2. …il racconto è molto bello, grazie. Lo riassumo per chiedere a Rita se ho capito.
    Rita scrittrice è alla ricerca di un suo spazio di libertà e affida un primo percorso alla sua creatura( la bambina e la bambola dell’immagine), la donna descritta in fuga dalla schiavitu’ di una vita che non le piace, da un compagno egoista, dai “controllori”…E’ una persona decisa ma anche confusa, lascia la via maestra che non è ancora in grado di affrontare ( vuol prender tempo?) e si inoltra nei prati dall’erba sempre piu’ alta, le cresenti difficoltà. Un piccolo cane le viene incontro, scodinzola e la invita al gioco, ma lei è diffidente, il passato la condiziona. Sempre in bilico tra passato e presente, schiava dei suoi condizionamente, è simile all’araba fenice, arde ma non brucia ed solo all’inizio della sua trasformazione…La donna fatica a proseguire il viaggio intrapreso, non ha una rotta precisa, è ora spaventata all’idea della separazione e cade a pancia in su in un buco, tra rovi e spine…in una posizione di assoluta fragilità, sopraggiunge un rumore terrorizzante, la falciatrice e uno stivalone che le passano sopra, si concretizza l’idea della morte, allora lei si fa tartaruga e si rifugia nel carapace. Ha ora nostalgia del passato, ma non si torna indietro, il peggio forse è passato…
    A questo punto della narrazione, un imprevisto (o no?): si inceppa il computer…Rita ritorna nei panni della scrittrice, impreca contro l’apparecchio in panne, urlando “Ti odio, ti odio…” e vaga per le stanze di casa, scontrandosi con il reale oggetto del suo odio, il compagno egoista e indifferente…Ora Rita sa…
    Ma anche noi che leggiamo siamo invitate a molte riflessioni, nella confusione di chi
    vuol saperne di piu’ sul significato di : libertà, rivoluzione, livelli di libertà…vorrei condividerle con voi…ancora grazie

  3. Sono davvero riconoscente ad Annamaria per il suo intervento che mi permette di ‘integrare’ molte cose che nella stesura (ed economia) del racconto sono tenute al margine.
    Una di queste riguarda l’araba fenice che *arde ma non brucia ed è solo all’inizio della sua trasformazione*: perché la fenice, per risorgere dalle ceneri, deve attraversare la morte (simbolica). Se non viene attraversata la “catà-strophe”, il trauma della separazione e il suo lutto, non rimangono che due vie: quella del continuare ad ardere alimentando le illusioni di libertà o, l’altra, quella di *farsi tartaruga*, con la protezione della corazza difensiva che mantiene le situazioni di status quo.
    L’altra riguarda gli oggetti di transfert ai quali vengono affidate le rappresentazioni simboliche sia di ‘attori’ e sia di ‘processi’ nei quali detti ‘attori’ sono coinvolti (*affida un primo percorso alla sua creatura( la bambina e la bambola dell’immagine*).
    [Un appunto per Ennio: dove è andato a scovare quella foto che, se non fosse perché da piccola portavo le trecce, sarebbe incredibilmente simile ad una mia con la bambola, la quale non solo assomiglia alla bambola che avevo a quel tempo ma anche al modo in cui la tenevo in braccio! Misteri!]
    Pertanto sia la bambola che la tartaruga diventano gli ‘oggetti di realtà’ su cui si appoggiano delle dinamiche emotive, ‘oggetti’ che per le loro caratteristiche si ‘prestano’, ovvero hanno le physique du rôle, a essere protagonisti dei film di cui la mente di ‘Rita’ ha bisogno e che ‘recita’, esprime attraverso la scrittura per farsi (e dare) un’idea del mondo.
    Più l’oggetto ‘scelto’ è versatile – e per certi versi anche ambiguo – più varie sono le possibilità rappresentazionali nell’immaginario, né più né meno di ciò che accade con l’utilizzo del ‘vero mito’. Vedi ad esempio la tartaruga, lenta ma è anche quella la cui determinazione vince il piè veloce Achille; saggia ma anche paurosa; longeva eppure ‘inesperta’.
    L’irruzione della ‘realtà’, sia quella che non è governata da noi e sia quella delle nostre rappresentazioni che si rifiutano di recitare la parte affidata a loro, viene vissuta sempre come un attacco (come grida la scrittrice:”Non mi puoi lasciare proprio adesso”).
    Quanto alla richiesta di Annamaria di voler capire – richiesta che lei ha già manifestato in altre occasioni su altri post – è come se cercasse di raggiungere la verità vera e nel fare questo rischia di mettere in ombra tutte quelle sfaccettature interpretative che rendono invece la realtà osservata più ricca e fruibile.
    Come ho detto più sopra, è alla fine che mi si sono delineati meglio i personaggi e a partire dalla fine (coadiuvata anche dai commenti) che ho ‘capito’ alcune cose in più.
    Quello che era partito come un raccontino di due paginette per ragazzini, e che aveva come protagonista una tartaruga velleitaria che si pasceva di una visione ‘bucolica’, si è andato complessificando e drammatizzando includendo il soggetto (Rita, anch’essa una maschera) con le sua esperienze di vita (effettivamente una tartaruga mi era scappata dal giardino), lo scrittore che si fa portavoce di queste esperienze e il personaggio (tartaruga) attorno al quale l’esperienza si articola.
    Grazie davvero.

    R.S.

  4. …è vero Rita, qualche volta esagero cercando chiarezza, ma è perchè certi racconti, come il tuo, ci aiutano a vicenda nella ricerca del nostro percorso di vita. Ti ringrazio ancora

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *