I famèi

contadino_turco

di Augusto Vegezzi

Errata corrige. Il romanzo di Augusto Vegezzi non è inedito, come scritto nel post precedente (qui), ma  è pubblicato in ebook, editore lulu.com, col titolo “Quella rossa primavera 1943-1945″.

[Questo secondo stralcio del romanzo di Augusto Vegezzi ci pone di fronte ai contrasti di classe che dilaniavano il mondo contadino della bassa padana nel momento del passaggio da un’agricoltura ancora medievale alla modernizzazione capitalistica (l’accenno  alla «meccanizzazione delle campagne» di cui parla Max). A filtrarli sono le mentalità ormai contrapposte di un padre liberale e di un figlio che ha fatto sue le ragioni delle classi subordinate. Ma più della contrapposizione di idee tra i due personaggi borghesi è la descrizione, sia pur mediata, della condizione dei famigli (famèi[1])  a rendere vivo e interessante questo secondo stralcio del romanzo. La scrittura di Vegezzi coglie in modi cristallini, e dunque estranei ad ogni sperimentalismo,  la durezza e la ferocia dei rapporti umani  vissuti in un mondo contadino così spesso idealizzato o ridotto ad elegia. E fa pensare a Pavese e Fenoglio o alle “autobiografie” raccolte da Danilo Montaldi negli anni ’50-’60 del nocente nel cremonese. Vegezzi evita ogni populismo e riconferma il carattere di riflessione storico-filosofica del suo romanzo. Che ha al centro ( Cfr. la trama riportata in Appendice) lo scontro tra due visioni del mondo (quella di René e quella di Orlando), replicate qui quando confronta i diversi esiti delle storie di due famigli : « Puldéi e Artemio, due vite, due personalità, due destini». (E. A.)]

[1] Il famèo, termine dialettale che sta per “famiglio” (servo di casa, di famiglia), è stata una figura tipica della società contadina di quella fascia della Val Padana che dal cremasco si estende alle terre bresciane e bergamasche fin verso il cremonese. Il fenomeno era frutto di una povertà diffusa in cui l’alto numero di bambini (e dalle tante bocche da sfamare) determinava la necessità di “dare in affitto” i propri figli, tramite mediatori, presso famiglie più agiate che scambiavano le loro prestazioni con vitto e alloggio.

Max era a disagio e a stento riusciva a trattenersi; approfittò delle litanie della moglie per calmarsi, chiarirsi le idee e improvvisare un discorso convincente: «Condivido i sentimenti di tua madre», mentì deliberatamente, «ma affrontiamo il problema nella sua complessità, con mente lucida. Pragmatismo, René, pragmatismo. I sentimenti, gli ideali sono la luce della vita. La realtà è un’altra cosa, non concede spazi ai capricci. Forse avrei dovuto parlartene prima. Ecco la mia regola: affrontare i problemi quando emergono. Tu sei diverso da me e da tutti i ragazzi che conosco. Io non mi sono mai posto questi problemi. Sono cresciuto secondo le regole della natura e della società, che accetto come sono. C’è l’estate e c’è l’inverno. Così vuole la natura, lo Stato e Dio. Noi agricoltori solo da maggio abbiamo bisogno di molti lavoratori; e reclutiamo i badini e tante montanare per il pomodoro, le cipolle, le bietole. Come pagare tutto l’anno per prestazioni da uno a sei mesi?
Io sono moderno, uno degli innovatori, dei soci dei Consorzi agrari, dei promotori della meccanizzazione delle campagne. Noi abbiamo lottato contro la maggioranza dei proprietari che ancora si arroccano negli usi medievali e spennano affittuari, mezzadri e terzaroli! I miei dipendenti sono tutti a contratto regolare, pago tutti i mesi dell’anno i salari e i contributi agli obbligati e nei mesi di legge ai badini. Per rendere meno pesante il lavoro ho introdotto le macchine più moderne e d’estate la siesta nelle ore del solleone e il vinello bello fresco. Si fa il possibile. Pensa ai famigli. Ora c’è un divieto, ma mio padre ed io, in quanto liberali e rispettosi dell’uomo e dei suoi diritti, li abbiamo affrancati da tempo. I famigli erano bambini che verso i dieci anni i genitori poveri ci mandavano per lavorare dietro un pagamento in natura, tipo un sacco di grano e l’impegno di ospitarli, nutrirli e vestirli. Erano per loro i lavori più umili, dormivano nelle stalle, nutriti con i resti, vestiti con stracci, compensati con qualche soldo. Ne sopravvivono ancora nelle campagne, perché sono incapaci di emanciparsi, senza un mestiere, analfabeti, prigionieri dell’ignoranza».
«I famigli,» interloquii, «mai saputo. Bambini venduti e comprati, schiavi! Qui nel XX secolo! Non posso crederci. Noi, la religione cattolica, la civiltà borghese, lo stato di diritto, l’uomo come fine».
«Figlio mio, povero figlio mio. Sono fiero di te. Sei veramente un bravo ragazzo». Max era sicuro di avermi in pugno. «La realtà non è come la immagina il tuo idealismo. Non la cambi facilmente come fa la filosofia: Aristotele critica Platone, ed ecco che quello che era tutto cielo e idee diventa tutto forma e materia, potenza ehm… Noi viviamo con i piedi per terra. Facciamo il possibile. Abbiamo emancipato i famigli e miglioriamo le condizioni di tutti i lavoratori. Gradualmente. Non ti rimprovero per quello che hai fatto. Concordo con tua madre. Ma non posso fare regali ai badini. Sono oltre la metà dei dipendenti! Sarebbe la rovina. Nostra e loro. E con noi di tutti i nostri lavoratori».

Rimasi sconcertato, perplesso, confuso. Avvertivo la forza dei suoi argomenti ma ero troppo indignato per la sorte dei famigli, dei bambini-schiavi. I fatti, gli argomenti, le idee, i valori, la miseria, l’infamia… Un turbine di pensieri mi si attorcigliava in testa senza soluzione. Qualcosa non quadrava. Sussurrai: «Mi dite che ho torto perché ci sono i famigli in condizioni peggiori dei badini! Che nome, poi, famigli, un ossimoro: famigli perché senza famiglia?»
Mi meravigliai dell’audacia del mio sarcasmo. Ma ero stato provocato, tacitato e umiliato. Mi chiusi in un silenzio doloroso.
I miei genitori non insistettero.
“Famiglio…”, pensavo, “in dialetto sarà famìgl, no, faméigl, no, famèi?” Forse conoscevo un famiglio. Il giorno dopo mi recai in bicicletta a una piccola fattoria isolata nella campagna, alla quale si accedeva attraverso una strada bianca e tortuosa. La quiete regnava sovrana. Il sole, pallido nella bruma del cielo lattiginoso, volgeva al tramonto. Qualche pigolio di uccelli, un lungo crocchiare di un picchio. Arrivato alla Malerba, salutai la rasdùra, mezzadra, e le chiesi il permesso di parlare con il famiglio.
«Famiglio? Chimò ansòi al sa ciama ansé».
«Intendo il famèi».
«Ah, ho capì. C’al vaga ‘n la stala. Puldéi l’é là al lavùr».

Una figura scheletrica, claudicante, dall’aria assente, mi accolse con garbo in stretto dialetto: «Oh, al siuréi…dla Villa. Ciau».
Gli diedi il pacchetto di panini al salame che avevo portato e un grande sorriso dissolse le nuvole dal suo viso. Con tatto e simpatia lo interrogai, mentre sbocconcellava il cibo. Mi raccontò la sua vita. Il padre era un badino forte e ostinato, con a carico sette figli e la moglie malaticcia, che non ce la faceva a lavorare nei campi. Col suo salario stagionale la miseria regnava nella casa. Così appena trovava qualche offerta, collocava il più grandicello come famèi.
Lui, quarto dopo due fratelli e una sorella, dovette a nove anni salutare la madre e i fratelli. Il commiato fu straziante. Tutti sapevano che non si sarebbero rivisti mai più. Quando, dopo venti chilometri apparve una cascina fatiscente sulle balze di una collina pelata come un uovo, il padre sentenziò: «Terra bianca, stanca».
Li accolse una famiglia di terzaroli di collina, che avevano bisogno di un aiuto per coltivare quella terra grama e arida. Effettuato il baratto, il padre in lacrime lo abbracciò forte e s’incamminò col suo sacchetto di grano dopo avere sussurrato: «Fa il bravo. Coraggio. E obbedisci sempre. Addio».
A Puldéi, disperato, impaurito, solo, fu assegnato un angolo della stalla schermato da una parete di paglia e fu subito messo a spaccare legna. Il lavoro era senza orario, di giorno nei campi, di notte nella stalla a pulire e mungere, sempre incalzato dal Gigiòn, il terzarolo, che imponeva ritmi terribili. La terra era bianca, appena pioveva diventava un acquitrino e appena asciugava, diventava dura come pietra. Lui era sempre solo e dormiva con le mucche; ai pasti si presentava in cucina con una gavetta e la rasdùra Ida, senza parlare, gli rifilava gli avanzi. Non era cattiva ma estenuata e distrutta dalla povertà e oberata di lavoro: quattro figli piccoli e i campi, il pollaio, le conigliere, l’orto, la casa. Così, quando il Gigiòn aveva bisogno, gli ordinava: «Puldéi curra che… Puldéi curra là… taia la lègna… monza i vac».
Una vita di fatiche, salvo le poche ore di sonno agitato. E di solitudine. I montanari non parlavano quasi mai, nemmeno tra loro, e comunque praticavano un dialetto incomprensibile.
«Quanto ti pagavano?», gli chiesi.
«Un bèl gninta. E gnà una parola o un surìs… Ma par la féra quelc suldéi pur la gazùza e al ciapa cùl».
«Un bel niente neppure a Natale, a Pasqua?».
Puldéi, sempre in uno strano dialetto, che traducevo mentalmente, mi rispose: «Sì, qualche pantalone usato e rammendato, i resti dei loro pasti, verso i quindici anni un bicchiere di vino. Be’, quando ho compiuto ventun’anni, mi hanno invitato in cucina con loro e mi hanno regalato un vestito, usato ma completo. Niente scarpe. Finora ho vissuto scalzo o con zoccoli fatti da me. Le uniche parole erano di comando o rimprovero. Mai un sorriso. Poi qualche soldo, ogni mese. Anche per loro era dura. L’é vitta.

Il sciùr padròn, un notaio, arrivava all’improvviso, dai campi, per sorprendere qualche malefatta. Urlava sempre, non era mai contento, faceva lui le divisioni, due parti per sé e il resto per il Gigiòn, sempre la roba più brutta, più marcia, più magra. Infine se ne andava lamentandosi e minacciando. Dopo il Gigiòn esplodeva come un vulcano, se la prendeva colla moglie, coi figli, anche con me. Si scaricava, menandoci con la cintura di cuoio. Be’, in quei momenti non mi sentivo più solo ma unito con gli altri, capivo che loro erano come me, dei pezzenti. Povero Gigiòn. Lavorava come un pazzo alla brutto dio e la domenica si ubriacava come un pazzo, alla brutto dio, un disperato con altri disperati come me».
Incuriosito, interloquii: «Sembra che tu sia poco religioso».
«Ah, quella lì è roba da preti, da sciùr padròn, come il notaio, il presidente e anche la razdùra. Io credo nel diavolo che corre nei cieli tra tuoni e fulmini, porca miseria, che stramlòn, spaventi, da cacarsi addosso. Allora brucio un ramo d’ulivo, se c’è, o qualsiasi fronda, per placare il cielo. E così per ogni tempo maledetto, il freddo d’inverno, che ti formicola mani e piedi, e l’arsura d’estate, che brucia i raccolti e ti soffoca. E poi i fantasmi, i folletti, le streghe, i maghi. Tante storie. Ma non ricordo quasi più gninta».

Come in una tragedia greca, la storia finì con un massacro. Un giorno il padrone forse esagerò. Al Gigiòn, sopraffatto da un’ira covata tutta la vita e accecato da una disperazione senza scampo, brandì la scure e lo massacrò, poi passò alla moglie e ai figli, e infine si tagliò la gola. Forse per un barlume di pietà risparmiò Puldéi: «Me, al pusè povar an cust mond boia, me, al sul ca’ l ghèva da mor, io il più povero in questo mondo boia, l’unico che doveva morire».
Puldéi trovò altri padroni, alcuni migliori, altri peggiori, sempre solo, ignorato e ai margini. Dalle sue abitazioni, le stalle, assistette alla storia che scorreva ininterrotta: i carabinieri che portavano via le reclute della Grande Guerra, le lettere che ne annunciavano la morte, la feroce strage della Spagnola, la violenza delle camicie nere, il terribile inverno del ’2, o forse era quello del ’26, la miseria della Grande crisi, i nuovi coscritti per l’Abissinia, la Spagna, la Grecia, la Francia, la Russia. E altre lettere di morte, altri pianti.
Lui non lo cercò mai nessuno. Lui non esisteva. L’anagrafe lo ignorava e anche i registri della chiesa. Era stato battezzato e dimenticato. Ora la nuova guerra portava i bombardamenti e i mitragliamenti aerei. Lui sempre in una nicchia a margine, mentre gli umani-disumani si massacravano e facevano la storia. Spettatore passivo, ignaro e per tutti inesistente. Ricordava ogni evento con una sequenza cronologica casuale, senza date né spiegazioni, come un film a spezzoni. Eventi storici eguali a quelli naturali, di cui lui era spettatore stupefatto, senza scampo condannato al lavoro, ai pasti magri, alla mancia facoltativa fino alla morte.

Tornai da quell’incontro oscillando tra l’euforia del successo e la disperazione del disinganno. Mi sentivo vendicato dell’umiliazione inflittami da Max (con il quale i momenti di disaccordo si succedevano sempre più frequenti), ma nello stesso tempo l’idea della grande ingiustizia della piramide sociale mi sconcertava e atterriva. Soffrivo come di una vergogna personale il vivere in una comunità che si pretendeva civile, umana, evoluta e, per contro, si articolava in una gerarchia di caste stratificate in una scala iniqua.
Quando incontrai Orlando, lo investii con un racconto dettagliato dell’inaudita scoperta e con una raffica di domande.

«Calma, calma. Sono anch’io colpito quanto te, però conosco la storia di un altro famiglio: Artemio Tessitori. Sì, lui, l’uomo più ricco della città. L’inizio è eguale a quello di Puldéi: famiglia miserrima e numerosa, fame disperata, eliminazione delle bocche eccedenti vendendo i ragazzi come servi tuttofare e condannandoli così a una vita grama. Eppure non sempre un batacchio, urtando la campana, emette un suono fesso. Il lavoro che s’impone ad Artemio è in una vecchia fornace. Il ragazzo è forte, sveglio, determinato, impara rapidamente il mestiere, diventa operaio, introduce delle innovazioni. Il padrone è intelligente e generoso. Lo asseconda, lo valorizza e lo promuove fino a nominarlo capo-fabbrica. Il giovane migliora le macchine, sprona e riqualifica il personale e raddoppia la produzione. Non si accontenta. Si licenzia e scommette tutto sul futuro. Trova un finanziatore, costituisce una società e crea un’industria di laterizi all’avanguardia che porta al fallimento le vecchie fornaci della zona e si espande in altre province. Puldéi e Artemio, due vite, due personalità, due destini.
Il bambino Artemio non si è arreso all’inerzia delle circostanze, non si è spento e rassegnato a una misera sopravvivenza, si è impegnato, ha lottato e vinto. Un eroe moderno, Artemio. Le dinamiche della storia umana sono complesse, conoscono decadenze ed evoluzioni. I magnifici di un tempo, i marchesi Campi, i principi Pelavicini e anche i miei avi sono crollati dalle stelle alle stalle. Artemio e altri hanno saputo andare oltre le condizioni iniziali, infrangere le regole, piegare il destino, vincere grazie alla loro passione e arroganza, agli animal spirits. Di qui uno sviluppo economico frutto di una distruzione creativa, realizzata da uomini risoluti, spregiudicati e pronti a superare con ogni mezzo ogni ostacolo, senza remore moralistiche. Dobbiamo imparare da loro. Anche il nostro problema di costruire un libero destino si presenta come un salto della tigre fuori dalle vie maestre dalla famiglia e dalla società. Chi lo vuole, diventa l’artefice della propria fortuna».

A denti stretti ammisi che questa analisi era convincente, anche se, come ormai tante volte, le conclusioni aprivano prospettive divergenti e conflittuali. Preferii fermarmi, per non logorare il nostro prezioso legame. Sulla questione dei diritti civili e della legge morale ci eravamo già scontrati e intuii che non erano possibili convergenze o compromessi. Il problema famèi io lo vedevo come l’incentivo a una lotta di liberazione e di civiltà, mentre per Orlando era uno stimolo per liberare se stesso e innalzarsi e primeggiare ai vertici sociali!

Appendice: Trama del romanzo

Questa è la storia di formazione di un ragazzo di 14 anni e uno di 17 che diventano uomini nello periodo dall’occupazione tedesca alla Liberazione e alla conclusione del governo Parri. Nello scenario dello Stato in decomposizione, della guerra civile e della società italiana divisa, dove stanno tramontando la classe borghese agraria e il mondo contadino mentre alla fine emergono virulenti la borghesia avventuriera e le classi lavoratrici organizzate, si completa la formazioni di due amici. René appartiene a una famiglia borghese e vive una drastica ribellione contro il proprio ambiente sociale, del quale rifiuta l’ipocrisia morale e religiosa. Egli si lega fortemente a Orlando, ancor più ribelle e determinato a trovare un’alternativa. Nella tragica guerra civile i due giovani maturano l’emancipazione dalla religione e dalla borghesia, la scoperta dell’amore e del sesso, l’esperienza della lotta armata, infine si contrappongono con scelte opposte, vissute nello strazio dell’abbandono reciproco.In René prevale una ricerca etica della responsabilità, in Orlando uno spirito di auto-affermazione comunque, tutta e subito, che lo porta a spericolate collaborazioni prima con i nazi-fascisti, poi con gli Alleati, in frenetiche e azzardate peripezie verso l’oltre, che forse lo proiettano a Washington, Mosca, Milano e ancora Washington. René vive con entusiasmo la Liberazione politica e l’emancipazione morale e sessuale che, attraverso un periodo di Bohéme, lo porta ad un appassionato e contrastato amore. Egli scopre il tramonto della borghesia, l’emergere di una classe compradora, l’irruzione delle masse operaie e contadine, s’impegna nella Ricostruzione materiale e politica e condivide il rinnovamento culminato nel governo Parri e naufragato nei contrasti e nelle contraddizioni del sistema Italia. Di qui la scelta faustiana di una professione costruttiva, quella di architetto, nella consapevolezza del male di vivere, del senso di responsabilità, dell’ottimismo della volontà e di una prospettiva di impegno per migliorare la vita e il mondo e per realizzare il suo amore. In un drammatico scontro finale, al limite quasi mortale, ma forse immaginario, René , constatando la profondità l’irreversibilità di un contrasto radicale con Orlando, si libera di questo legame e decide di realizzare il proprio destino unendosi con l’amata Lili.

3 pensieri su “I famèi

  1. …la descrizione del famèi Puldéi ( chissà se era un soprannome) penso sia indimenticabile, come quelle dei carusi minatori rachitici Rosso Malpelo o Ciaula, destinati a non vedere il sole, come raramente l’età adulta…lo sfruttamento minorile, nelle sue forme più disumane, accumunava il nord e il sud.
    I famèi, i bambini-schiavi, come le mucche, dormivano su giacigli di fieno nelle stalle, si nutrivano di avanzi , come i cani…Se dalla mattina alla sera ti dicono, più con i fatti che con le parole, “sei una bestia, sei una bestia…”, ti puoi sentire umano?…E poi c’era la condizione di solitudine che rendeva ancora più tragica la loro vita, peggio degli schiavi dell’antichità che insieme poterono consolarsi ed anche, qualche volta, ribellarsi….In età infantile, poi, l’estrema solitudine può compromettere lo sviluppo mentale e il linguaggio : Puldèi parlava “uno strano dialetto”( mi vengono in mente certi bambini ritrovati nei boschi allo stato selvaggio, che hanno faticato ad apprendere il linguaggio umano). Per colmo quando Max parla al figlio dice di loro “…sono incapaci di emanciparsi, senza un mestiere, analfabeti, prigionieri dell’ignoranza…” come se la causa del loro abbruttimento fosse la loro natura inferiore e non i trattamenti subiti.
    Davvero incredibile nel xx secolo, anche nel lodigiano c’erano…

  2. Mi è stato segnalato questo brano e devo ringraziare chi l’ha fatto.

    Conosco queste realtà per ragioni logistiche e anagrafiche e per racconti dai miei genitori, nati nell’800.

    La scrittura è interessante, priva di sbavatura ideologiche, si potrebbe definire ultrarealista, anche se, a onor del vero, l’argomento sullo sfruttamento del lavoro minorile è stato ampiamente trattato e anche bene in cinematografia (basti pensare al magnifico film 900 di Bertolucci) e ad esempio anche Pratolini se non ricordo male ha parlato del lavoro agli inizi del secolo.

    Ah, dimenticavo: leggo che in questi giorni in Bolivia lo Stato ha autorizzato il lavoro in miniera ai bambini a partire dai 7 anni.

    E a proposito di fallimenti generazionali non posso che ricordare che il mitico “Che” è caduto in Bolivia, tradito da coloro che voleva riscattare.

    Forse all’umanità è stato è più utile un Di Vittorio con le sue lotte sindacali per i braccianti del Sud.

    grazie comunque

    1. La nota di Locatelli conferma e deplora una drammatica, spietata realtà, diffusa almeno nella Padanìa ancora nel secondo dopoguerra ma ignorata dai più, soprattutto dagli apologeti del passato e della civiltà contadina.
      Quella di Paraboschi fa riferimenti ad altre forti narrazioni sul mondo contadino storicamente anteriori e che comunque ignorano la figura del famèi, non riducibile al lavoro minorile. Inoltre non coglie nemmeno il ruolo di cartina di tornasole del famèi nella coscienza della realtà nei personaggi borghesi, l’agrario Max, chiaramente e ideologicamente in difficoltà e sulla difensiva, e il figlio, sconvolto, che apre gli occhi sulla condizione di sfruttamento disumano.

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