Gli angeli dell’antico portico

uomo scale

di Luciano De Feo

[Monologo svagato e nervoso, tra il depresso e il masochista, il vagheggiamento confidenziale e le nevrosi tormentose. E’ recitato davanti a un pubblico immaginario da un personaggio in fondo religioso,  investito, come un medievale cavaliere di ventura, dal compito di lottare contro il Maligno. L’innominato «migliore amico», dal quale viene iniziato alla sua missione, ha i tratti di un Cristo (alquanto tenebroso). Profetizza la propria scomparsa e poi svanisce davvero dalla inquietante casa in cui abita, lasciando uno «strano oggetto», un medaglione-amuleto. Servirà all’autore-cavaliere-leader per agire in un indeterminato periodo, detto della «Grande Crisi», in un’epoca dai tratti industriali e commerciali. Il racconto resta tutto dentro un gusto fantastico quasi medievale-romantico. Che ne dite? (E.A.)]

Eccomi qua, a scrivere dove capita, tanto per tenermi in esercizio. Non è che ne abbia voglia, ma neanche mi stuzzica l’idea di starmene qui, a fissare nel vuoto …

“Si fa per dire, ovvio!”

… la brutta copia di me stesso …

… mi riferisco al passato, a ciò che è stato e a tutti quei “potrebbe”, “forse un domani”, “se le cose dovessero cambiare” che nessuno si è preso il disturbo di gettare nel primo bidone della spazzatura.
La verità? Mi sento scarico, fiacco, vuoto!
Nella mia vita fatta di rifiuti – qui la spazzatura c’entra eccome! – di aspirazioni frustrate, promesse mancate, progetti saltati all’ultimo momento, un posto nel mio cuore apparterrà sempre a lui … al mio migliore amico.
Lo so, stuzzico la vostra curiosità. Ora starete domandandovi: chi è? Come si chiama, da dove …
Tutta fatica sprecata!
Il mio migliore amico non ha un nome, non l’ha mai avuto. La sua faccia si confonde col colore della notte, e all’alba gli occhi gli si illuminano troppo intensamente perché si possa fissarlo a lungo, senza dimenticarsene.
Forse si chiamerà come la Terra, quando è bagnata dalla brina, e gli uccelli sciamano in cerca di cibo. Molto più probabilmente è colpa della MIA memoria, incapace di ritenere i ricordi che sfuggono tra le mie maglie slabbrate.
No, non sto almanaccando, né si può chiamare suffisso il dolore che fa da sfondo al mio respiro. Se sto soffrendo, la colpa è SOLO MIA … MIA!
Ho chiesto al Signore di darmi un’anima di acciaio, perché di notte il vento non si piegasse come una canna, e davanti alla cancellata che mi nasconde alla vista il brutto rifacimento della Madonna che pure veneravo da piccolo, ho smarrito la fede che mi faceva simile agli Angeli dell’antico portico.
Non è colpa mia se odio dire sempre: Signorsì! E’ una questione di tempra, di questo mio carattere che da combattente mi trasforma in pupazzo, perché danzi per una Regina che cambia faccia col mutare delle stagioni.
Quanto è triste tenersi tutto dentro, mentire per amore, dare alla nostra incapacità di dire ciò che ci tormenta il colore di un giglio o di un velo nuziale.
Il mio migliore amico, per esempio, non saprebbe dire di me: A! Mi prenderebbe per un braccio e mi trascinerebbe sulla soglia. Il tempo di GIRARMI la testa verso il sole, e via … tutti in piazza!
Ma ho perso anche il gusto di vagabondare tra le ombre di un giardino in rovina o sul retro della vecchia Canonica. Se non passasse il vecchio autobus, a ricordarmi che ogni attimo della nostra vita ha una riga e un numero cui affidiamo la nostra sorte, penserei di essere un fantasma …

… la Domenica, giorno del Signore, ero solito uscire di casa, passando per il vicolo dell’Antico Torchio. Qui attendevo quei dieci, quindici minuti, prima dell’arrivo del mio amico.
Poi ci dirigevamo lungo via delle Ginestre fino al Lungofiume, dove sedevamo sempre sulla stessa panchina, sotto un platano dai rami grigi. Io non riuscivo a contare le barche che sfilavano silenziose sull’acqua appena increspata, mentre lui arrivava a raccontarmi la storia di ogni naviglio o imbarcazione, senza omettere date e nomi dei proprietari. Un vero asso!
Il tempo trascorreva in fretta, quando ci guardavamo in faccia e sorridevamo. Nella sua risata ritrovavo l’oro dei miei giorni più belli, e il tramonto color arancio estratto a caso dal cilindro magico di un cantastorie popolare.
Il mio amico era bravissimo a raccontarle, le STORIE! Col suo tono sommesso, mai sgraziato, mi narrava di antichissime leggende che hanno fatto GRANDI i paesi minuscoli, resi celebri grazie al coraggio e alle gesta eroiche di cavalieri e antichi paladini. Lui era capace anche di inventare – dal nulla! – senza mai alterare il senso di quelle parole dolci e carezzevoli.
Non mancavano i momenti di attrito tra di noi, quando il discorso si spostava su argomenti un po’ delicati, e io pretendevo di saperne più di lui, mettendomi anche a citare i nomi dei classici a memoria.
Lui cominciava a ridacchiare fra i denti, fino a scoppiare in sonore risate che mi mandavano in bestia.
Troppo goffa la mia maniera di esprimermi, diceva, troppo ricercata a suo dire. Lui, INVECE, era accorto fautore dell’immediatezza del linguaggio, e pensava che fare il verso a gente morta da secoli era come stare sottoterra a far loro compagnia.
– Se continui ad inciampare ad ogni parola, non tr muri, spazzatura, cancello, overai un solo cane disposto ad ascoltarti, – diceva, mentre raccogliendo da terra sassi e pietre piatte e levigate, si divertiva a farle saltare sull’acqua.
Quando mi ricordo di QUEI SASSI, non posso fare a meno di pensare alla linea sottile dell’orizzonte, appena frastagliata da un velluto vaporoso che, a tarda sera, si gonfiava in nubi ovattate, invadendo boschi e frutteti.
Di solito tornavamo in paese passate che erano le dieci. Lui insisteva a che io imboccassi la prima strada dopo il ponte, tagliando per i campi che correvano paralleli alla linea ferroviaria. Senza prestargli orecchio, proseguivo a braccetto con lui fino alla Piazza d’Armi. Qui imboccavamo una stradina che girava tutt’intorno al massiccio basamento del Monumento ai Caduti, svoltando un po’ prima della sua fine in un viottolo stretto che si increspava tra due sudici edifici dalla facciata ormai cadente.
Spesso eravamo costretti a camminare rasente i muri, per evitare i cumuli di spazzatura che rendevano quasi impossibile proseguire oltre. Non ho mai dimenticato il colore giallognolo di quei muri di pietra, e le larghe chiazze di muffa che le rendeva simili a un teschio tra le mie mani.
In fondo al vicolo, uno stretto passaggio un tempo sbarrato da un cancelletto in ferro battuto immetteva direttamente sul cortiletto dietro casa sua. Il cancello, un ammasso rugginoso che a me faceva pensare a tante lance ritorte, era disteso nel senso della lunghezza, a mo’ di ponte levatoio, nascondendo una buca poco profonda in cui si indovinava l’inconfondibile trepestio dei ratti!

Qualche volta mi pare di vedermelo ancora davanti, quel cancello … quante buche ho dovuto saltare a piè pari, prima di terminare la mia corsa in fondo alla più orrenda della voragini.

– Quando sarai adulto, – mi diceva spesso, baciandomi sulle guance e prendendo congedo con una forte stretta della mia mano, – ti vedrai in mezzo alle ombre, e non ti riconoscerai.
– Che vuol dire? – gli chiedevo, ridendo tra me per quella curiosa affermazione.
– Che non è lontano il momento in cui io e te ci separeremo PER SEMPRE. Quando ciò accadrà, sentirai il carillon suonare, ma nessuno avrà dato corda ai tuoi sentimenti!
– E poi sarei IO quello che parla difficile!
– Non fare lo sdegnato, adesso. Ricordi quella storiella sulla Regina dei papaveri? E quando ti raccontavo della mia solitudine, paragonandola a un muro completamente bianco?
– Sì, ora ricordo, però non capisco dove vai a parare.
– Capirai … o sì, che capirai, non dubitare, – mi diceva allora, battendomi una mano sulla spalla. – Quando vedrai l’Asso di Cuori sbucare dal cappello a cilindro, allora ti ricorderai di me, e delle mie sciocche parole!

Quella sera di giugno c’era qualcosa di strano nella sua voce. Non gli avevo mai sentito quel tono, così aspro, distante; nei suoi occhi non vidi quella luce che li rendeva impareggiabilmente bellissimi.
Non sapevo come interpretare quella sgradevole sensazione che mi fece arretrare involontariamente. Lui non mi tolse GLI OCCHI DI DOSSO! Erano occhi spaventosamente opachi, spenti … due enormi caverne dalle quali il fantasma del mio amico se ne stava appollaiato a spiare!
– Bé, allora … buonanotte, – balbettai, stringendo istintivamente i pugni.
– Non preoccuparti per me, – disse lui, dilatando ancora di più quei pozzi senza luce che, pian piano, lo assimilavano alla tenebra che, gelida, calava attorno a noi. – Sarà come un gioco, compagno!, e tu non dimenticherai più, te l’assicuro.
Forse quanto vidi, a quel punto, o MEGLIO, quanto credetti di percepire, fu solo frutto della mia immaginazione, messa a dura prova da quei discorsi senza senso … APPARENTE!
Avevo appena chiuso le palpebre, per impedire alle lacrime di sgorgare via con quell’inguaribile vergogna propria degli adolescenti. Quando, lentamente, le riaprii, un istante dopo, il mio amico era sparito!
Non poteva essersi dissolto così, nel nulla, lasciando al suo posto lo strano oggetto che mi chinai a raccogliere, affrettandomi a farlo sparire nella tasca del pantalone.

***

L’indomani, quando passai per casa sua facendo la salita che costeggia il lungofiume, trovai porta e finestre completamente sbarrate. Un cartello era inchiodato a pochi passi dal portale di ingresso, con la scritta: AFFITTASI.
Una tetra atmosfera di abbandono, di incredibile decrepitezza, aleggiava sulla vecchia palazzina a due piani di Via Baltazar … come se là dentro non abitasse più nessuno da anni! La delusione che provai in quel momento fu pari soltanto al terrore che fu mia inseparabile compagna, due giorni più tardi, quando appresi dall’agenzia immobiliare che si occupava dell’immobile la assurda storia che mi avrebbe tolto il sonno per tante notti a venire.
Nessuno sapeva niente della famiglia che mi aveva accolto con tanto affetto; al nome del mio amico il signor Gherson, l’agente immobiliare, cascò letteralmente dalle nuvole! Dal modo con cui mi guardava, compresi SUBITO che mi prendeva per loco! Era meglio non insistere …

Le successive ricerche, svolte con l’aiuto prezioso di mio padre, confermarono quella versione. Nessuno aveva mai sentito parlare del mio amico, e della sua famiglia. Qualcuno dei più anziani, che abitavano nei paraggi da una eternità, si ricordavano di un certo senor, il cui cognome ricordava solo vagamente quello del mio amico.
Si trattava di un notaio di una certa fama, che aveva esercitato la professione nel periodo fra le due guerre, ma nessuno sapeva essere più preciso. Pochi, in verità, si erano sbilanciati fino a ipotizzare l’esistenza di un ragazzo della mia età, legato al notaio da un vincolo di parentela.
Tutti, però, erano d’accordo sul fatto che la vecchia palazzina in via Belisario fosse disabitata da tempo immemorabile!

***

Venne il periodo della Grande Crisi. La disoccupazione toccò livelli inaccettabili e in tanti si tolsero la vita, a causa della Recessione, e delle tante speculazioni sbagliate. Tra i caduti di questa assurda guerra tra i poveri c’era anche mio padre!
Io ero a Lisbona per un convegno quando mi giunse la notizia della sua tragica fine. Lo avevano trovato sulla poltrona del suo studio, in pantofole e giacca da camera, davanti al televisore acceso. Lo schienale della poltrona era inzuppato del sangue fuoriuscito dal foro che gli aveva spappolato la tempia destra.
Mia madre per un pelo non era morta per il dolore e la vergogna. Tornai il giorno dopo i funerali, causa l’ennesimo sciopero, questa volta dei piloti di linea. Il paese era ormai una città in continua espansione. Nuovi insediamenti industriali erano sbucati dal nulla alla periferia orientale, e gli hard discount avevano soppiantato i piccoli mini market.

LA GENTE IMPAZZIVA PER IL DOLORE E I DISOCCUPATI RUMOREGGIAVANO NELLE STRADE

Mia sorella Gina mi accolse in lacrime, stringendomi come sua abitudine fino a farmi soffocare.

Da quel giorno, tanti anni sono ormai trascorsi.
Sono il leader del Movimento di Resistenza, l’Arcangelo sceso dal portico per matare LUI, il Boia di tutti i Boia: Augusto P., el Diablo venuto sulla terra guidando le sue Legioni Infernali.
Ogni lembo di terra conquistato, è un bacio al medaglione che porto in petto, e che TU facesti scivolare per terra. Lo porto con me, legato a una catena d’oro, col tuo viso sorridente, e un nome che non scorderò …

Mai!!!

3 pensieri su “Gli angeli dell’antico portico

  1. se posso esprimere un parere non da ” professionista ” della prosa, ma di lettore, ho la sensazione di una leggera enfasi narrativa, accresciuta dalla tendenza a mettere in caratteri maiuscoli alcune frasi, nomi, o sostantivi, cosa che in genere non amo molto.
    Mi scuso con l’autore per questo mio giudizio non molto articolato.

  2. Questo scritto devo dire che mi ha lascata molto perplessa. Forse non ho capito …mi chiedo perché quel personaggio misterioso viene chiamato “migliore amico” , mi fa pensare che non sia altro che se stesso, cioè la sua altra parte che prende il sopravvento , insomma il migliore amico di quel sè che ha bisogno di sdoppiarsi per poter vivere , fino alla fine, quando solo sceglie di essere sè stesso solo e leader del Movimento di Resistenza. Mi piacciono queste schizofrenie che scuotono il lettore da un’eventuale pigrizia mentale.
    Aggiungo che il miglior amico di noi stessi è il nostro paese , dove l’albero ha messo le sue radici , un albero da difendere, sempre.

  3. ..Ho letto volentieri questo racconto per via dell’atmosfera un po’ misteriosa e inquietante che vi regna…Sembra volerci presentare le vicende di un adolescente durante un percorso di prove iniziatiche al passaggio dall’età giovanile a quella adulta. Lo spazio e il tempo in cui si muove restano imprecisati…una città con monumenti e piazze dal sapore antico, ma anche con elementi di modernità, sulle rive di un fiume maestoso. Il giovane protagonista, alla ricerca di se stesso, si allontana dai luoghi rassicuranti per avventurarsi in stradine anguste, tra montagne di spazzature, dove regna il colore della morte, per ritrovarsi davanti ad un cancello sbarrato da lance appuntite. Un percorso confuso, tortuoso e pericoloso che porta il giovane a conoscere uno strano amico (il suo io piu’ profondo?), un amico che lo tratta da sbarbatello e gli propina molti consigli. Ma lui non sempre li accetta, ha una tempra da combattente…L’amico poi sparirà lasciandogli un amuleto e una missione da compiere… Ecco, la prima parte del racconto, dove si parla delle tante difficoltà del giovane, prigioniero nel labirinto della sua memoria( anche l’indirizzo dell’amico confonde ed e’ sovrastato da troppi ricordi, la spazzatura) , in preda al terrore di essere vittima delle sue stesse fantasie, mi ha ha molto convinta e coinvolta. Mentre la seconda parte mi sembra proporre un salto eccessivo: il giovane che diventa il leader del movimento della resistenza durante la grande crisi…il passaggio alla figura di eroe resta poco motivato…

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