Vero come la finzione

Simonitto film mela
di Rita Simonitto

 (Stranger than Fiction), di Marc Forster, 2006, USA)

Il film

[Partendo da un film, Rita Simonitto compone un piccolo saggio sulla conoscenza e sul divario – acuitosi nella storia umana – tra conoscenza logico-razionale e intuitivo-immaginifica (o, semplificando, tra bisogno di controllare con metodo la realtà esterna e bisogno di ascoltare le passioni che da quella interna o psichica provengono). Le peripezie di Harold Crick, il personaggio del film, sono le stesse dell’uomo novecentesco alle prese con il «disagio della civiltà» (Freud). Ma quanto le due dimensioni (che poi sono anche quelle del mito o del sogno e della storia) possono gradulamente integrarsi o, come troppo ottimisticamente si tende a dire, armonizzarsi? (E.A.]

Harold Crick, ispettore del servizio fiscale americano, ha una vita metodica scandita dal suo orologio digitale. La sua ossessività lo porta a contare tutto: dal numero dei colpi di spazzolino che dà ai denti, ai passi che compie fino alla fermata dell’autobus addentando la quotidiana mela. Ma un giorno, in bagno, durante i suoi maniacali conteggi, inizia a sentire una voce di donna che racconta momento per momento la sua quotidianità e a volte la anticipa con toni salaci e critici: è come una fastidiosa eco, un fantasmatico ‘specchio vocale’ che ‘riflette’ i suoi pensieri più intimi.
L’irruzione di una realtà ignota, una presenza che solo lui percepisce e di cui non capisce l’origine, lo inquieta al punto che non riesce a mantenere la sua abituale concentrazione, cosa che gli è indispensabile per il tipo di lavoro che fa e che assorbe tutte le sue energie.
Quando poi la voce pronuncia questa frase enigmatica: “se solo avesse saputo che quella semplice e apparentemente innocua operazione avrebbe portato al suo imminente decesso”, l’affanno di Harold tocca la punta massima.
Che cosa avrebbe dovuto sapere? Da quale operazione si doveva guardare? In che modo quel sapere era in contatto con la sua morte? E che senso aveva tutto ciò che gli stava capitando?
La struttura monolitica di Harold incomincia ad incrinarsi – metaforicamente parlando, fa proprio ‘crick’ – e la sua ricerca al fine di fronteggiare l’evento insolito prende due strade. Da un lato la spinta spasmodica a dare concretezza e palpabilità a quella voce di ‘narratrice’ che sembra sapere tutto di lui, anche della sua morte imminente. Dall’altro, il dare un senso a quanto gli sta succedendo.

Inizialmente si trova a consultare uno studioso che si occupa dei modelli della mente al fine di ottenere una risposta ‘scientifica’ al suo stato di disagio: che se ne spieghi il perché e si dia un ‘nome’ all’evento straordinario che lo affligge.
Ma al tempo stesso Harold non vuole sentirsi inquadrato in una nosografia e analizzato come un oggetto sottoposto ad un ‘corpus’ di assiomi e di leggi. Ragion per cui, licenziandosi dalla psicoterapeuta, dice: “No, non è schizofrenia, è solo una voce nella mia testa”.
C’è qui una specie di intuizione rispetto alla diversità che c’è tra il dare un ‘nome’ alle cose e il dare loro un senso. Perché c’è anche un altro tipo di conoscenza: quella che ‘racconta’ il funzionamento della psiche connesso alle emozioni che la attraversano e alle relazioni affettive che vengono istituite. Quest’altro tipo di conoscenza si avvale del modello artistico che può esplicitarsi attraverso ‘forme’ visive, musicali, letterarie.

Ed è seguendo questa traccia che Harold arriva a consultare un bizzarro insegnante di letteratura, il Prof. Hilbert, il quale, partendo da una considerazione di I. Calvino [in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”] dice allo stupefatto Harold che è importante capire qual è la storia nella quale egli è inserito, se si tratta di una commedia o di una tragedia. Perché: “«Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita e l’inevitabilità della morte». Tragedia, lei muore; commedia, si accasa”.
Il professore, poi, nel dirgli, “la vita è sua”, lo invita a lasciarsi andare, a riprendere contatto con la pienezza delle sue esperienze rispetto alle quali Harold Crick ha sempre vissuto con un atteggiamento anodino. Questo invito gli faciliterà il farsi prendere dai sentimenti e innamorarsi della bella Ana Pascal, una graziosa e anarchica fornaia, che lui conosce per lavoro in quanto insolvente “per motivi politici” (così asserisce la ragazza).

Alla fine si scoprirà che la voce appartiene alla scrittrice Kay Eiffel che sta scrivendo un libro che ha per protagonista un personaggio banale e solitario di nome Harold Crick e, ignara che quel personaggio esiste davvero, sta completando l’ultimo capitolo in cui Harold muore. A questo punto il ‘vero’ Harold Crick deve cercare di disinvestirsi dal ‘personaggio’ che gli è stato costruito addosso e, sentendosi in balia della trama del libro scritto come se fosse un destino, deve tentare di persuadere la scrittrice a salvargli la vita. Ma, leggendo il libro che la scrittrice gli dà…

La storia, dunque, è quella di un uomo che, a un certo punto della sua vita, deve fare i conti con la presenza e preponderanza della sua realtà interiore da lui tenuta a bada fino a quel momento attraverso un controllo ossessivo spostato verso la realtà esterna.
E’ anche una ricerca del Sé, e nel fare questo deve affrontare quelle domande fondamentali inerenti al ‘perché’, al ‘che cosa’ e al ‘come’ che non affliggono soltanto il signor Crick, ma contrassegnano il processo dell’esperienza umana.
Si tratta di domande che implicano forme di conoscenza distinte tra cui tuttavia esiste correlazione e compenetrazione; atti cognitivi, basati rispettivamente sull’intuizione e sulla ragione, che corrispondono a ottiche diverse, a modi diversi di esperire il reale.
Se da un lato l’ossimoro presente nel titolo di questo film ci indirizza a interrogarci sulla verità del reale quale noi lo percepiamo, dall’altro, il ricorso all’arte ci spinge a considerare l’importanza della parte immaginifica e rappresentazionale nei confronti del reale stesso.
Le due modalità di conoscenza, logico-razionale, da una parte, e intuitiva-immaginifica dall’altra, possono divergere invece rispetto agli investimenti relazionali con l’oggetto di indagine.
Se nella modalità scientifica l’essere umano non necessariamente deve entrare in relazione emotiva con il suo oggetto sperimentale, nella modalità artistica la relazione con l’altro da sé (lo vediamo bene nella relazione sia di Hilbert nei confronti di Harold e sia di Kay nei confronti del suo personaggio letterario) è d’obbligo per accedere alla conoscenza.
Infatti nel film assistiamo all’emergere di una nuova e più integra consapevolezza interiore da parte del protagonista il quale, attraverso il legame di innamoramento della bella Ana, entra in contatto con aspetti rinnegati del Sé in quanto sentiti troppo fragili. Inizialmente sono gli oggetti antropomorfizzati ad essere investiti della spinta al cambiamento (“il suo orologio spinse Harold sull’ineluttabile sentiero del fato”) o rappresentativa (“… una chitarra che dicesse qualcosa su Harold”) fintantoché non emerge nel protagonista il passaggio dalla fredda relazione con gli oggetti alla calda relazione con le persone. Da una visione ‘contabilizzata’ ad una visione ‘appassionata’.

Commento: come addentare la mela della conoscenza.

Due suggestioni mi sono state utili per inquadrare il commento a questo film e a cui mi sono appoggiata: il suo titolo paradossale (“Vero come la finzione”) e una delle locandine pubblicitarie in cui si vede il protagonista, fermo sulle strisce pedonali, con una mela in bocca.

Solitamente la traduzione italiana delle pellicole straniere lascia molto a desiderare. Invece, nel caso di questo film, la scelta dell’ossimoro, in luogo del rafforzativo presente nel testo inglese (“Stranger than Fiction”), è stato quanto mai indovinato perché riesce a rendere al meglio il senso di questa commedia surreale dai risvolti drammatici. Perché in questa pellicola realtà e finzione si incontrano e si scontrano dando luogo a situazioni assurde e lo spettatore, al pari del protagonista, si trova ad interrogarsi sulla consistenza e verità delle proprie percezioni.
La sensibilità esterocettiva che, tendenzialmente, viene vissuta come un caposaldo nella nostra esperienza, viene qui messa in discussione. Nel processo di conoscenza della natura, filosofi, artisti e scienziati si sono affidati prima all’esperienza sensoriale, poi a modelli sempre più complessi e astratti, a volte addirittura in contrasto con la percezione stessa. Arte e scienza, ognuna a suo modo e con progettualità diverse, hanno fornito molteplici rappresentazioni di un reale che man mano si amplia e modifica: la prima, basandosi sostanzialmente sull’intuizione, cerca di entrare in contatto con la forma e il senso, mentre la seconda, basandosi sulla ragione, entra in contatto con i perché e le relazioni causative.
Nello stesso tempo, dacché ha incominciato ad interrogarsi sul suo essere-nel- mondo, l’uomo ha dovuto pure fare i conti con il problema della verità del mondo stesso e della sua rappresentazione anche se, alla fin fine, il senso ultimo delle nostre domande si riduce all’eterna problematica della vita e della morte.
Come spiritosamente afferma il Dott. Hilbert in questo film, chiamando in causa I. Calvino, la nostra vita oscilla tra ciò che riguarda la continuità della vita (la tradizione della commedia) e quello della inevitabilità della morte (la tragedia).

Rispetto alla parte iconografica, ho preso a prestito quanto detto dal filosofo J. Cabrera che si interessa del rapporto tra cinema e filosofia. Egli ha coniato un termine “concetto-immagine”, per indicare quelle immagini filmiche, o anche tutto un film, che in sé hanno la potenza di condensare un tema filosofico (nel nostro caso, psicoanalitico), che poi verrà sviluppato in un discorso, in analogia con l’interpretazione del sogno.

Rispetto a questo film mi verrebbe da dire, come concetto-immagine, che questa è la storia di un uomo e di una mela. Che non è soltanto la mela verde che Harold Crick, il protagonista, addenta sistematicamente ogni mattina mentre va al lavoro ma, parlando sotto metafora, può essere la mela mitologica della conoscenza. Ovvero la storia di un uomo e di una mela all’interno di un rapporto di seduzione, dell’attivazione di un desiderio e, a partire da lì, la narrazione di come avviene un processo di trasformazione dello stesso uomo che sopravvive dentro le sue ossessioni, in una persona che può vivere le sue passioni a partire da un legame affettivo e il conseguente dipanarsi di più realtà conoscitive.
Che cosa conosce di sé Harold Crick?
Niente di più e niente di meno di quello che quotidianamente fa, con metodo e attenzione. Tutto quello che lo circonda rientra in un campo in cui lui è una specie di computer vivente. Il suo universo interiore è infatti stretto e costretto da legami numerici: gli spazi ed i tempi sono scanditi minuziosamente ed hanno la funzione rassicurante di dargli un contenimento. I suoi colleghi lo guardano con ammirazione quando egli velocemente dà il risultato di complesse operazioni aritmetiche senza ricorrere ad alcuna strumentazione se non quella del suo calcolo mentale e, pertanto, anche il suo specifico contesto sociale lo rafforza nel suo sentirsi ‘a posto’.

Ci sarà una possibilità che quest’uomo metodico possa dare espressione alle sue passioni, quali che siano?
E, certamente, le ossessioni di Harold, il suo orologio (che invece di scandire il tempo è un sostituto del tempo), il suo contare ogni passo gli fanno compagnia, lo fanno sentire meno solo ed esposto all’imprevisto. Perché è così che si può incominciare, cioè quando ci troviamo a patire, ancora inermi e infanti, momenti di sofferente attesa, oppressi dal dubbio che, non potendo conoscere il futuro, rischiamo di essere dannati alla ‘catastrofe’. Si suole anche dire che “contiamo i minuti” che mancano, quando vogliamo mettere la parola fine alla nostra sofferenza: nel fare questo introduciamo qualche cosa di nostro, di attivo e di noto, una specie di ‘competenza’ in quel vuoto che ci separa dall’oggetto delle nostre attenzioni, dei nostri bisogni. Però, operando in questo modo, immaginiamo di tenere la realtà in pugno, di dominarla, di controllarla, senza farci prendere dalla emotività.

Ma, parlando di ‘immaginazione’, entriamo nel cuore del film, siamo di fronte al suo tema centrale che riguarda la rappresentazione: come noi ci rappresentiamo a noi stessi e agli altri, come impersonifichiamo le domande che ci attanagliano sul “chi siamo” e sul senso che diamo alla nostra vita. Quali personaggi recitiamo.
Se “siamo fatti della stessa materia con cui sono fatti i nostri sogni” come diceva Shakespeare, quale è la nostra consistenza relazionale?
Harold è soltanto un personaggio nella mente di Kay, la scrittrice pure essa in crisi di identità, oppure è egli stesso un personaggio alla ricerca d’autore, alla ricerca di dare un senso alle giornate che scorrono in modo ripetitivo e tedioso senza che lui ne abbia consapevolezza? E, davvero Harold vive bene la sua vita oppure ‘finge’?

Allora quali sono, se ci sono, i confini tra la verità (del reale) e la finzione?
Quello che noi ‘siamo’ e quello che noi ‘mostriamo’, recitando una parte, in che rapporto stanno fra loro, e che legame c’è fra loro e il sogno?
Sappiamo che il sogno partecipa di ambedue, e noi stessi, che siamo fatti della stessa materia, come dice Shakespeare, siamo pur tuttavia attratti verso la verità e nello stesso tempo continuamente la mistifichiamo. Non solo perché la Verità non sempre è accessibile, ma anche perché il contatto con la Verità presuppone un contatto con la “catastrofe”.
Se veniamo a questo film “Vero come la finzione” osserviamo come si sviluppa il processo di una verità che si invera in una progressiva e complessa conoscenza di sé da parte del protagonista Harold Crick.
Si transita a partire da una conoscenza cosale (matematizzazione), dove gli spazi e i tempi sono minuziosamente scanditi e hanno la funzione di dare un ‘contenimento’ rassicurante al nostro protagonista, il quale, metaforicamente parlando, può in questo modo impunemente “addentare” la (biblica) mela mattutina senza pagarne nessuno scotto. Non c’è nulla di ‘sbagliato’ in quello che lui fa. Ma nemmeno di ‘piacevole’. Inoltre, se non c’è emozione, non c’è colpa.
Si procede, poi, gradualmente, verso una conoscenza emotiva legata allo stupore – prima assente perché non si contemplava l’imprevisto – e, a ragione di ciò, devono essere modificate le coordinate preesistenti e, così facendo, vengono riscoperti aspetti e ricordi prima tenuti sotto oblio, come quello del piacere di suonare la chitarra.
Quando il protagonista sperimenta che ci sono dei nuovi piaceri nella vita di cui si fa carico, sente che deve fare delle scelte. Scelte che saranno dolorose per lui.

Si ripropone, come momento ‘cruciale’, inteso come crocevia, il momento del ‘dono’, dell’inatteso, come quando Harold riceve da Ana dei pasticcini in regalo. Ricevere un dono sta a significare che non abbiamo tutto, che siamo bisognosi di qualche cosa che ci manca, che possiamo essere presi dal desiderio dell’altro che ha ciò che ci manca.
Anche per questo l’esperienza del dono e della sua gratuità, ovvero non soggetta a nessuna ‘contabilità’, è una esperienza molto temuta dal protagonista, come se rappresentasse soltanto la mela tentatrice di Eva e del serpente, e non, invece, l’espressione di un legame (che lo psicoanalista W.R.Bion chiamerebbe “L” = Love) e che avviene al di fuori dell’organizzazione del calcolo.
Questo embrionale inizio del processo di individuazione e di assunzione della propria responsabilità, per Harold, implica non essere più soltanto un travet (sia pure di livello) che esegue pedissequamente ciò per cui è stato preparato, un automa che non può permettersi un pensiero autonomo.
Può invece operare delle scelte.
Per riscoprirsi, deve però passare attraverso una ‘catastrofe’, una ‘morte’ della quale si deve fare carico ‘in vita’, e, a fronte di questo sconvolgimento, sperimentare drammatici momenti d’angoscia.
La “catastrofe” aveva già preso avvìo e le sue nubi minacciose si erano condensate nel momento in cui il ‘nostro’ sente dire chiaramente, dalla voce che lo perseguita, queste parole enigmatiche e minacciose: “se solo avesse saputo che quella semplice e apparentemente innocua operazione [“l’orologio inopinatamente si fermò”] avrebbe portato al suo imminente decesso”.
Abbiamo buoni motivi per supporre che questa frase angosciante avesse già fatto parte del pensiero primario di Harold, al punto da fargli organizzare quelle difese impostate sul controllo spasmodico e sistematico di tutto, a non lasciare nulla al caso, portandolo a contare i colpi di spazzolino, il numero dei passi, tutte attività nelle quali lo vediamo impegnato fin dalle prime scene del film.
“Se solo avesse saputo…”.
A quella minaccia Harold aveva dunque cercato di far fronte, contrapponendo una sua organizzazione di vita scandita rigorosamente e orientata ad un ‘sapere tutto, minuto per minuto’… solo che, adesso, lui se la ritrova di nuovo tra i piedi, quella minaccia: la ‘difesa’ non è riuscita nel suo intento.
Calderon de La Barca conclude il suo “La vida es sueño” facendo dire al principe Sigismondo: “chi tenta di prevenire il danno prima che sopraggiunga, non riesce né ad evitarlo né a guardarsene” e, a chi si stupiva di tanta sua saggezza, rispondeva: “Di che vi meravigliate? Di che vi stupite? Non vedete che è stato mio maestro un sogno….?”.
Un sogno, una riflessione interiore, una vita narrata possono entrare in contatto fecondo con la vita vissuta.

Come si fa a riprendersi la propria vita? Per fare questo viaggio, perché è di questo che si tratta, Harold deve lottare anche contro una personificazione interiore (rappresentata dalla narratrice/scrittrice omicida) che, irridendo le sue misere difese, banalizza i suoi atti al punto che perfino la morte di Harold dovrebbe avvenire nel modo più scialbo e stupido.
Ma, adesso, Harold non deve riprendersi la vita solo per se stesso, ha un progetto affettivo da salvare, si sente legato ad Ana e la vuole proteggere e tutto ciò gli dà una nuova forza.

“Vero come la finzione”, come già detto, è un ossimoro, una contraddizione in termini. Ma non solo. E’ anche trattare una ‘finzione’ come se fosse vera.
Nell’esperienza comune è quanto accade alla nostra realtà interiore, quand’è popolata da personaggi che si autonarrano convinti che quella è la sola narrazione possibile. Allora i propri fantasmi vengono presi per realtà, la sola realtà accettabile. Personaggi che rischiano anche, il più delle volte, di farsi ‘narrare’ da altri secondo lo stesso copione. E a queste ‘narrazioni’ esterne ‘condivise’ affidano interamente la loro vita, fino al punto di obliterarla talmente tanto da non distinguere più la differenza tra il mondo interiore da quello esterno (emblematico il rapporto di Harold con i suoi colleghi: si confermano vicendevolmente).
In questo modo, la visione esclusiva (ed escludente) del proprio mondo diventa analoga ad un geocentrismo che non contempla la possibilità che ci possa essere un’altra narrazione, un altro centro.

Il viaggio di Harold è come il viaggio di un Eroe che, da Eroe negativo destinato a soccombere ad eventi casuali, diventa Eroe positivo che si assume la responsabilità delle sue azioni.
Eroe non nel senso che si può dare a questo termine, vale a dire un essere dotato di poteri straordinari, bensì nel senso che la psicoanalisi attinge dal mito più evoluto: l’Eroe non è più colui che vince la lotta Bene/Male ma quello che si è vinto, ha vinto il suo desiderio di onnipotenza, non rinunciando però ad integrare nuovi territori di conoscenza (“non so tutto, ma saprò sempre qualche cosa in più”)
Perché, di fatto, c’è nel protagonista una parte eroica che lui nasconde dietro la cifra della necessità, la necessità scandita dal tempo dell’orologio (la sequenza di cifre e di geometrie che, sullo schermo, fanno da sfondo integrato alla sua giornata); la ‘necessità’ di scegliere di contro alla ‘possibilità’ di scegliere.
Harold riscopre la musica: anche nella musica ci sono i tempi da rispettare; ma è il desiderio di aprirsi agli accordi nuovi che permette all’articolazione delle note ‘sapute’ di trovare quelle possibilità e quella musicalità che può coinvolgere l’altro anziché escluderlo, e/o relegarlo nel campo della grigia ripetizione.
La parte eroica del protagonista la vediamo anche quando si assume in proprio la narrazione tragica che implica contemplare la possibilità di morire come anche la possibilità di perdere l’oggetto amato.
La parte eroica porta con sé sia il dolore nel tollerare l’ambiguo (il dàimon, come il sacro, è un elemento ambiguo, non è né buono né cattivo. Solo la decisione morale dell’uomo gli conferisce il suo valore definitivo), e sia il dolore del sacrificio della parte onnipotente di sé – orientata al controllo – per salvare la parte umana.

Detto tutto questo, il film è tutt’altro che pesante, anzi. Si snoda con intelligenza e gioca temi così impegnativi in modo avvincente e spiritoso. Il regista crea attorno ad essi atmosfere interessanti e divertenti puntando anche sulla verve comica degli attori, sui pensieri di ‘spassoso spessore’ che contrappuntano i loro dialoghi. Anche qui, come nel precedente film “Neverland”, M. Forster, attraverso lo stile del racconto nel racconto, mette lo spettatore a contatto con le proprie identificazioni, le proprie difficoltà legate ad un quotidiano che tende a svilire e annientare ogni creatività e con la speranza che un riscatto – anche se qui è visto con uno sguardo un po’ magico – sia possibile.

28.07.08

10 pensieri su “Vero come la finzione

  1. Grazie Rita ! Come sempre bravissima .
    A quante cose mi fai pensare , che in effetti vivo o ho vissuto, qualche volta mi sono chiesta se fosse sbagliato il mio vivere che mi portava a fare sempre ciò che mi piaceva e a scartare tutto ciò che reputavo noioso o non interessante. Ho capito col tempo che era solo una mancanza di tempo, il lavoro, la famiglia, i problemi…e chi ne ha più ne metta. Ora che ho più tempo a disposizione la mia curiosità mi porta a scrutare a guardare anche dentro di me ed anche lontano , dove prima c’erano sogni ora c’è realtà.
    Non rinuncio certo a sognare ancora , ma i sogni che so di non poter realizzare li scarto, ormai c’è poco tempo. Come vedi sono un po’ lontana dal personaggio del film (che senz’altro vedrò) ma ognuno possiede la sua finzione e la sua realtà. Nella finzione forse non ho mai vissuto (qualche volta in poesia), per fingere bisogna essere molto attenti ed ordinati, io sono distratta e poco ordinata. Ho parlato di me perché questa tua critica- studio mi è arrivata come una palla che volevo parare, ma tu hai fatto come al solito GOAL!

  2. Una bella poesia di GIOVANNI GIUDICI mi sembra adatta a questo post

    MI CHIEDI COSA VUOL DIRE

    Mi chiedi cosa vuol dire
    la parola alienazione:
    da quando nasci è morire
    per vivere in un padrone

    che ti vende – è consegnare
    ciò che porti – forza, amore,
    odio intero – per trovare
    sesso, vino, crepacuore.

    Vuol dire fuori di te
    già essere mentre credi
    in te abitare perché
    ti scalza il vento a cui cedi.

    Puoi resistere, ma un giorno
    è un secolo a consumarti:
    ciò che dai non fa ritorno
    al te stesso da cui parte.

    È un’altra vita aspettare,
    ma un altro tempo non c’è:
    il tempo che sei scompare,
    ciò che resta non sei te.

  3. ciao Rita, mi piacque assai questo film proprio per tutto lo sguardo a mosaico che tu ne hai dato, buccia ,polpa e torsolo compresa, concime per altri sguardi… ti chiedo se posso riprendere questo tuo notevole pezzo nella rubrica che ho organizzato di recente sul mio diario dedicata al cinema in modo più sistematico rispetto alle puntate senza rubrica e riferimenti sparsi qua e là durante questi anni (http://www.ritornoalmondonuovo.com/search/label/D%2FD)…. valuta tu dalle puntate più recenti che ti lascio, se ti sembra una collocazione corrispondente all’ “immagine-concetto” delle cose ti cui è fatto il tuo pensiero , insomma la tua vita. E’ per la stessa critica all’onnipotenza e al controllo, e soprattuto per la pratica che ho di questo rapporto i che non mi offenderò per nulla se mi dirai che lo spazio nel quale vorrei inserire il tuo pezzo non è sufficientemente attrezzato per l’efficacia della trasmissione del tuo pensiero, perché solo questo conta , la visione sulla visione, lo specchio, lo sguardo…
    Grazie ancora di avermi fatto rivivere questo “eroe”, oltre che marginalmente e non solo aver fatto riaffiorare quel capolavoro che è Neverland.

  4. @ Emy

    *per fingere bisogna essere molto attenti ed ordinati, io sono distratta e poco ordinata*.

    Grazie di avermi dato l’opportunità, attraverso la tua considerazione personale, di aggiungere un chiarimento.
    Alla fine del mio articolo, sempre a partire dal titolo, segnalo che, oltre a utilizzare la difesa del controllo onnipotente e dell’ordine maniacale che il protagonista persegue – ma che lascia comunque un margine – anche se inquietante – al dubbio (e questa sarà la sua salvezza), c’è anche un’altra difesa ben più radicale e cioè *trattare una ‘finzione’ come se fosse vera*.
    E’ questo “ideo-centrismo” che rende difficile l’inserimento di idee altre anche se suffragate dalla prova dei fatti. Il povero Galileo Galilei, nel suo rapporto con la Chiesa, ne fece testimonianza sulla propria persona e oggi….. gli esempi non mancano.

    @ rò

    Sono contenta che tu sia riuscita a vedere questo film che, ai tempi della sua uscita, non ebbe grande risonanza. Ma, come spesso accade, è proprio in queste pellicole quasi neglette che puoi trovare degli spunti interessanti su cui riflettere.
    Quanto alla tua richiesta, per me non fa nessun problema: anzi, non può che farmi piacere. Però non so, perché non conosco né il funzionamento né le regole di questi siti, se il problema possa essere di Poliscritture. Ma, intuitivamente, penso sia sufficiente citare il sito a cui appartiene l’articolo.
    Grazie intanto per la tua attenzione.
    R.S.

    1. grazie Rita…se non leggessi segnalazioni contrarie da parte degli autori di Poliscritture, provvederò all’edit altrimenti nulla. Per quanto riguarda invece la giusta osservazione che fai sulla distribuzione di certi film fra cui anche questo, ho due cose da segnalarti. La prima è una coincidenza e io sono “ammalata” dall’osservazione delle coincidenze. Domenica ho svuotato una libreria per fare “ordine”, e una delle prime cose che è saltata fuori , è stata la custodia ( e ovviamente il dvd) di questo film con tutta la sua locandina, così tanto “Magritte” ma così tanto che poi “magicamente” guarda tu che caso, ricompare qui con te. la seconda la segnalo a te, ma tramite te a tutti gli altri. SI possono trovare un macello di film di grandissimo valore anche se l’industria ufficiale li ha tenuti e tiene ben nascosti…e un po’ come in poesia, credo. Hanno solo bisogno di essere trovati ( o ritrovati) . CI sono vie gratuite e vie un po’ meno gratuite, ma comunque affrontabili sia su infernet che on demand. Questo è uno dei pochissimi vantaggi del periodo tecnologicamente buio pece che viviamo.
      un abbraccio

  5. @ ro

    Nessun ostacolo a riproporre articoli di Poliscritture su altri siti con l’autorizzazione degli autori e citando la fonte.

  6. A me sembra non venga meno la voce narrante di Rita Simonitto, anche in questo saggio. E’ il lussuoso contenitore della sua spietata intelligenza. Ho visto il film, davvero bello, una storia d’amore tra autori e personaggi che contiene richieste di oneste verità. O almeno che se ne tenga conto… del dolore e dell’abbraccio che ci deve pur essere da qualche parte, da qualsiasi parte voglia arrivare. E’ ben più che solidarietà. Quanto all’eroe, all’eroe contemporaneo, mi sorge tra gli altri il pensiero della solitudine di tutti coloro che creano mantenendosi al di fuori del risaputo; perché di questo si tratta: quando leggi un romanzo o una poesia ad esempio, ci si aspetta qualcosa di nuovo purché sia risaputo, anche se non ci avevi mai pensato è così che ti deve giungere. E’ un fastidio immane.
    Ciao Rita, molte grazie per la tua lettura.

  7. @ Mayoor:

    Sì Lucio,
    Rita è per me di una intelligenza così fervida che mi aiuta a capire quanto il potere di questa grande qualità sia il dono più grande per se stessi e per gli altri. La sua personalità usufruisce di questo talento rimanendo sempre molto disponibile e chiara.
    Davvero grandi lezioni le sue.
    Ma anche tu Lucio con le tue osservazioni sulla poesia e le tue ricerche lasci sempre dopo averti letto la voglia di ricerca del nuovo e di passione per l’arte in generale e questo credimi è un grande potere della tua raffinata intelligenza. Meno male che vi ho conosciuti!!! Vi assicuro , non dovrei dirlo , ma lo dico: le mie non sono lodi tanto per…ma sincera ammirazione. Tutt’e due amate i gatti ecco perché…!

  8. @ Emy e @ Lucio

    Mi fa molto piacere la vostra ‘solidarietà’ perché, come scrive Mayoor sulla *solitudine di tutti coloro che creano mantenendosi al di fuori del risaputo*, l’intelligenza – come anche la creatività – è una ‘dannazione’ se non entra in contatto con gli altri. Un contatto che è sempre in forse e su cui non abbiamo alcun potere di controllo.
    Fa bene Emy a citare i gatti. Relazionarsi con un gatto è il modo migliore per ridimensionare la nostra supponenza e sentire quanto abbiamo da imparare.

    Grazie per la vostra condivisione.
    R.S.

  9. …cara Rita, sono anch’io qui a ringraziarti moltissimo per il film che ci hai fatto conoscere, per le tue preziosissime riflessioni sul personaggio protagonista e il suo percorso di trasformazione. In questi giorni ho avuto qualche difficoltà a leggere sul blog e mi siete mancati…dico sul serio…nipotini, salute.
    Alcune cose mi hanno colpito…una è la voce, che arriva a sbloccare Harold dalla sua razionalità esasperata e dal suo mondo di iperealtà controllatissima. La voce narrante di una parte ingabbiata di sè che reclama il diritto ad esistere, quella relativa al sentimento, alla passione…ascoltando la quale Harold si concede di innamorarsi, senza timore di perdersi. Ma poi, se ben ho capito, la stessa voce si fa piu’ minacciosa, prospetta la possibilità di un destino tragico non cercato, in quanto si è entrati dentro alla scrittura d’altri…Il canovaccio che si recita non è il nostro. Insomma la ricerca della conoscenza di noi stessi, al di là delle mistificazioni inconsapevoli, continua e si muove necessariamente tra commedia e tragedia…cosi’ è la vita, la morte comunque ci aspetta. Quanto queste riflessioni mi sono sembrate importanti anche per il mio percorso…Penso inoltre, come ha detto Ennio, che bisognerebbe cercare di armonizzare le due istanze della ragione e dell’immaginazione ( anche l’eccesso di quest’ultima puo’ giocare dei brutti scherzi)… per un maggiore equilibrio emotivo interiore e per la giusta attenzione da riservare agli altri e al nostro mondo. Ovviamente, per me, come meta, tra non meno di cinque reincarnazioni (se ci credessi). Per cominciare in questo campo minato fatto di tragedie collettive, come oggi se ne conoscono tante, e di grandi e piccoli nostri drammi personali, cerchero’ di seminare qualche fiorellino del riso, che faccia un po’ commedia…poi saltero’ per aria. Grazie ancora a tutti voi

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