Tre poesie

La Caduta degli Angeli ribelli 3

di Antonio Sagredo

in Appendice una nota di Ennio Abate

Il convesso clamore dei galli sui campanili

Il convesso clamore dei galli sui campanili
e gli applausi granulosi di deserti informi
favoleggiano di divinità su crateri fratturati.
Sfasciati i gobbuti universi di Quasimodo.

La sonora nostalgia di lingue morte
non ha confidenza con l’immortalità dei vermi.
L’ozio corrode il dubbio e la barbarie,
il piacere dell’ombra e della cenere.

La leggenda di noi antichi e il tempo incurante
non perdonano che Iddio e il Fato siano eterni.
I nostri incontri generarono tempeste latine
incurvando l’acrostico e la parola indecifrabili.

Il Libro degli Eretici non si rassegna all’infamia
se il ludibrio della Fede muta i roghi in potere,
in cuspidi di sabbia, in stiletti di palme,
in specchi che per noi scontano le colpe!

Vermicino, 12/14 giugno 2003

*

Atto unico e che non ha eguali
con gli occhi di una prateria intatti…
quel dolore delle ossa blindato
era un nuovo supplizio d’estate e di cortecce.

Ti acceca la scena da cui sei assente,
tagliata è la lingua col coltello del meriggio,
l’oscenità nella bocca a placche si conserva
nel vestito di larva di un tempo ostinato.

Ah, l’entrata nello spazio delle masse,
è un massacro di scrittura e d’iscrizioni!
Chi li portò? E da dove? Dietro la maschera
la notte in cui credete di sognare.

Il tragitto dalla fonte all’iride, torturato
nel Nulla io la vedevo nuda,
e in piedi nel bosco un idolo di ferro
nell’oceano caldo e lento di metallo.

Roma, 1978

*

Il novello dittatore
(dottor Cessantibus)

Debuttò con una giovane morte, e prese il volo,
come un novello dittatore.

Il morto sfilò un anello dal vivente,
l’oriente si ribellò, voltò la schiena e andò via,
perché sovrane regnassero sui tarocchi
le infelicità nerastre della Nemesi.

(presi per mano quel buon diavolo
di Dio, lo accompagnai per portarlo
sulla buona strada: poverino, come un orfano
s’era smarrito da quando gli angeli
non lo avevano più riconosciuto).

La debolezza di un secolo è legge naturale
che muta i vagiti in rostri insanguinati,
è fede saldata a patiboli untuosi e circospetti,
conteggio dei viventi prossimi alla cenere,
Senza speranza è la carne che ritorna dalla croce.

I passionisti del cuore creano le rivoluzioni
quando le ragioni declinano il tedio in azione.

Non ho da spartire che pulsanti arterie ai funerali, eventi
e chiacchiere sono beffardi come i quattro evangelisti.
Tumuli di bocche gonfiati dal martirio infame
celebrate languidi carnefici, morituri in ceppi, roghi
e, sulle ruote, vanità di pezzi di ricambio!

Come i tradimenti dei padri marcano i sentieri!

Le leggende non sono destini circolari e rattrappiti:
ovvietà che l’umano stregone diffonde sconcertato.
Calici e mani sono fusi in un presagio empirico
perché il sangue dagli occhi non generasse una gloria – di letame!

Vermicino, 26/02-06/03 2002

 

 

*APPENDICE. Nota di Ennio Abate

 Alcuni tratti della poesia di Sagredo si vanno fissando nella mente a forza di leggere le sue poesie pubblicate molto disordinatamente (basti controllare le date delle composizioni) su questo ed altri blog. Cosa in essa attira e insieme respinge? Non è una domanda solo provocatoria o irriverente. Si coglie nella sua ricerca la lezione dell’ “epoca d’oro” del primo Novecento, del formalismo russo in particolare (oltre all’eco del suo maestro, Ripellino). Non c’è nessun’aria di “famiglia italiana”. In primo piano sono la lussuria delle immagini e dei suoni, gli accostamenti fantasiosi e sorprendenti («Il convesso clamore dei galli sui campanili»), l’aggettivazione raffinata e intelligentemente acida («gli applausi granulosi», «i gobbuti universi di Quasimodo», «quel dolore delle ossa blindato»,«patiboli untuosi e circospetti»), la cura a volte classica della strofe spezzata altre volte dal verso libero apparentemente disinvolto o dal verso lungo/lunghissimo. Quello che più colpisce in positivo è, dunque, l’altezza del suo sguardo alto ed altro. Direi allenatosi frequentando appunto un “altro” mondo poetico, un’altra epoca della poesia. Sempre tenacemente fuori dalla storia, anche quando pare alludervi. Fissato in un dove in cui si ritrova l’unità dei miti antichi e soprattutto delle visioni religiose  poi corrottisi e andati in rovina. Eppure Sagredo, nutritosi di questo immaginario, in esso persiste. Lo frequenta assiduamente, ossessivamente. Ne ha ricavato una familiarità tormentosa con le loro problematiche. E può rivolgersi a «quel buon diavolo/ di Dio» con irriverenza tutta familiare e in fondo diabolica (la sua preferita). Restando cioè in quell’immaginario e dibattendosi ancora tra i due poli divaricati: del diabolico e dell’angelico. Una tenace eresia la sua: «Il Libro degli Eretici non si rassegna all’infamia». Fuori dal tempo storico negato, appunto. L’ossessiva polemica contro la simbologia cattolica ufficiale nutre la sua poesia. È come se Sagredo facesse persistere in un tempo indefinito, in un prolungato martirio, le peripezie del pensiero del suo amato Vanini. E lo trasportasse singhiozzando poeticamente, in preda allo schianto doloroso per una perduta e metafisica unità spirituale, nell’oggi. Incurante del cortocircuito di tempi storici inconciliabili e diversissimi. Indifferente all’effetto, che può essere solo sconcertante e per forza soltanto teatrale, barocco. Si noti che le sue immagini allusive sono sempre forti, esasperate, stravolte, sadiche (alla Bacon, il pittore, per avere un corrispettivo contemporaneo). Ed è per l’attrito tra astoricità del  suo pensiero e storicità del linguaggio che le sue scelte lessicali sono forti ed esasperate: «tagliata è la lingua col coltello del meriggio», « l’oscenità nella bocca a placche»; «che muta i vagiti in rostri insanguinati», «Tumuli di bocche gonfiati dal martirio infame». Perciò ipotizzo che ci sia  il trauma “novecentesco” alla base della sua poesia. Che, anzi,  esso ha traumatizzato la sua stessa poesia. Ed ha fatto di un suo mondo vagheggiato nostalgicamene, ancorato alla Bellezza e persino alla Vanità della letteratura più decisamente elitaria, una maschera teatrale. Un atteggiamento estetico squisito. Sulla scia qui da noi, credo, di Montale. Con un medesimo fondo nichilista («conteggio dei viventi prossimi alla cenere»), ma con scelte linguistiche  ben diverse da quelle del poeta esistenzialista e poi sempre più disincantato. Questo trauma Sagredo mi pare l’accenni in questi versi: «Ah, l’entrata nello spazio delle masse,/ è un massacro di scrittura e d’iscrizioni!». E perciò la sua poesia, bloccata (splendidamente?) su questo punto, attrae e respinge.

9 pensieri su “Tre poesie

  1. Spiace che a questo commento di Abate non ne seguano altri. Il motivo è che Abate con questo commento ha tolto la parola ad altri critici e poeti, che non possono fara altro che constatare la preminenza del Sagredo su altri: è una arma a doppio taglio la poesia di Sagredo, che non si taglia mai! Se mai sono gli altri ad uscirne affettati!

  2. Io sono una di queste: affettata. Sagredo che ammiro molto, questa volta mi è stato impossibile capirlo nonostante i miei sforzi…ma lui sa che lo seguo sempre, spero un giorno se non di raggiungerlo almeno di poter entrare con un solo passo nel suo mondo.

  3. @ alberto luisi

    Due veloci obiezioni:

    1.
    I post con le poesie di Sagredo sono numerosi (su questo e altri siti “vicini e distanti”: La Presenza di Erato prima, L’ombra delle parole dopo la divisione avvenuta nella precedente redazione…), ma i commenti che vadano al di là del diplomatico-complimentoso o dell’ammirato-in attesa di spiegazioni davvero pochi. Dire che il motivo del silenzio su “Tre poesie” stia nel fatto che “Abate con questo commento ha tolto la parola ad altri critici e poeti” mi pare sbagliato. Anche nei post precedenti, dove mi ero astenuto dal commentare (ma in realtà stavolta la mia era una ‘nota’ complessiva e meditata), critici e poeti sono stati latitanti.

    2. Perché non commenta lei invece di lamentare l’assenza di commenti?

  4. Più sbigottito che coinvolto. La visione “alta” di Sagredo a me pare non sia altro che la continua e ossessiva manifestazione del suo sdegno. Sagredo scrive come fosse il quinto evangelista, dà del tu a dio ma in definitiva guarda più al cielo che alla Terra. La volontà di stupire a me sembra troppo manifesta, il monito è continuo e severo ma la voce roboante non sa spiegare. E per dire che? Il rapporto emotivo e nostalgico col tempo lo porta a scegliere lidi romantici, ottocenteschi, dove la disputa è tra il bene e il male, ma della salvezza non è dato sapere perché tutto è degrado, disfacimento e bruttura di cui lui stesso vorrebbe liberarsi, e lo fa scrivendo. Chiamiamola estetica dello sdegno: ha dalla sua tutti i nostalgici dei tempi che furono. Segnalo un verso significativo: “Ti acceca la scena da cui sei assente”. Si potrebbe anche dire qualcosa sugli scempi del Barocco, sulle facciate della magnificenza (e magari anche delle bancarelle e della gente che ci lavora per campare), ma non c’è nulla. Né sopra né sotto.

  5. …”Cosa in essa attira e insieme respinge?” , parto da questa domanda sulla poesia di Antonio Sagredo a cui Ennio Abate ha già dato una molto esauriente risposta , per aggiungere solo qualche impressione. Mi sembra una poesia non tanto da interpretare quanto da osservare ai margini, come si fa davanti ad un percorso di carboni ardenti dove arde il fuoco che per bellezza e pericolosità attira e respinge nello stesso tempo. Se non si è propriamente dei fachiri è meglio limitarsi ad ammirarla piuttosto che avventurarsi in una camminata. Altra impressione: A.S. è certo un poeta tragico, lo sento anch’io singhiozzare, come un fantasma fedele e prigioniero del suo castello, ma qua e là gli esce qualche guizzo burlone, come nei primi quattro versi della prima poesia… si diverte anche un po’

    1. Ringrazio Annamaria e Emilia per avermi offerto questa chiave di lettura. E’ vero, quei quattro versi iniziali sono di divertente astrazione. Rileggerò tutto.

      1. … ebbene il mio parere non cambia di molto. Una lettura più leggera, meno inquisitoria, mi consente però di riconoscere l’agilità dello scrittore postmodernista: più in sintonia con i timbri vocali di Carmelo Bene che col pensiero di Lyotard sulla grande narrazione. Quindi è tardo novecento… come lo è questo mio giudicare incasellando col pallottoliere.

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