Ancora su dialetto e lingua. Due punti di vista

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[Cosa si cela ancora oggi nelle pieghe e nelle ombre della questione del rapporto dialetto-lingua (nazionale) troppo spesso trattata in modi accademici o, più di recente, riproposta in termini populistici o di mera conservazione dei monumenti letterari (i “nostri” classici)? Innanzitutto una lotta tra modi di vita sociali (contadini, industriali) e di civiltà (anche linguistiche) da tali modi storicamente sortite. E come ci rapportiamo oggi a questa lotta che c’è stata ed ha visto, sì, la supremazia del “mondo industriale” ma con costi talmente pesanti e a volte insopportabili da alimentare di continuo la sua contestazione e una nostalgia romantica per modi di vivere (e linguaggi: i dialetti appunto) sentiti come  più “naturali” e fin quasi a perdere di vista di che «lagrime grondi e di che sangue» la stessa civiltà contadina? Direi che in questo scambio di mail io e Paolo Ottaviani – entrambi mai sciolti dalla memoria “amorosa” dei dialetti e mai ebbri dei fasti luccicanti della lingua italiana letteraria – rappresentiamo due punti di vista vicini e distanti allo stesso tempo. Più pacificante mi pare la sua visione («Per quanto riguarda invece il plurisecolare conflitto lingua-dialetti io parlerei di “pacificazione nell’arte”»). Più drammatizzante la mia («sento in conflitto (o almeno in forte tensione) le parti in dialetto da quelle in italiano delle mie raccolte»). Per Paolo «ciò che fa da tramite tra la “grande storia” e l’infinitamente piccolo – la mia persona – è, il “suono”, l’armonia nascosta». Per me anche nel suono, anche nell’arte o poesia, la differenza/scontro/attrito (eco di quella storico-sociale) persiste; e la poesia, al di là della superficie, non è affatto «una dea pacificatrice». Due punti di vista, dunque, che è bene sottoporre, se possibile, a una discussione più ampia. (E.A.)]

Ennio Abate a Paolo Ottaviani (26 maggio 2014)

Caro Paolo,
tento qui un confronto pubblico a partire dall’occasione della pubblicazione di due tuoi brani di «Geminario» (qui). Non entro nel merito dei testi. Vorrei per ora soffermarmi su una problema più generale: il senso diverso che forse hanno in te e in me «gli echi della civiltà contadina».
Pur esistendo una sintonia tra la tua ricerca e la mia ( in «Salernitudine» e in «Immigratorio»), quegli echi li vedo del tutto “carbonizzati” nella mia memoria di immigrato dal Sud al Nord negli anni ’60, mentre hanno in te una forza emotiva ancora intatta, sostenuta tra l’altro da una piena consapevolezza storico-linguistica (i riferimenti agli autori pre-danteschi, da me persi di vista o abbandonati) esplicitata e filologicamente coltivata.
È da questa adesione salda ad un passato- biografico e letterario ad un tempo – che interroghi i ricordi della tua infanzia e la «recente storia della seconda metà del nostro Novecento».
Ci riesci? È davvero possibile? Ed è utile, come tu sostieni, risalire agli autori prima di Dante e non cancellarli, preferendogli «quell’opera divina di fondazione», come hanno fatto in tanti?
Si dovrebbe aprire un lungo discorso sul rapporto tra dialetti e lingua (nazionale), sul quale spero di potermi confrontare più in avanti, anticipandoti però alcune mie perplessità.
In breve il problema per me è questo: i molti dialetti, che si “proponevano” ai tempi in cui Dante con la sua autorevolezza ne impose uno (il volgare toscano); e che si “riproposero” anche nell’Ottocento al momento dell’unificazione dell’Italia (“duello” Manzoni-Ascoli); o che si “ripropongono” ancora oggi in piena globalizzazione, hanno avuto o avranno mai la possibilità (o speranza) di affermare pienamente la loro pluralità (viva ed eterogenea)? Oppure rappresentano (purtroppo) soltanto un perenne e malinconico *memento* di quello che – quotidianamente familiare e vivo – inevitabilmente si è costretti a lasciar perdere (o ci viene strappato), poiché la storia dell’umanità è “matrigna” e conflittuale; ed impone anche linguisticamente (si pensi alle analisi di Gramsci sulla lingua dei dominatori) le scelte unitarie e omologanti e falsamente “universali” dei più forti?
È lecito – mi chiedo – sostenere che quei dialetti, espressioni – come tu scrivi – di civiltà particolari, avevano in sé una «forte volontà di contribuire alla formazione e all’arricchimento della lingua nazionale»? Non è che andavano in altra direzione o non avevano nessuna direzione, perché una esigenza unitaria (o universale o apparentemente universale) nasce soltanto da istanze meno sociali e quotidiane; e cioè dai luoghi del potere politico, che sono in grado di fare della loro veste astratta (contro la concretezza sia della vita quotidiana che dei dialetti) uno strumento di dominio?
Fai bene a ricordare il nostro bilinguismo: «La duplicità delle ragioni della lingua e dei volgari, pur subendo nel corso dei secoli molteplici modificazioni esterne, direi sovrastrutturali, è rimasta sostanzialmente intatta nella sua struttura profonda. Quasi ogni cittadino italiano, anche nel terzo millennio, continua ad essere costituzionalmente “bilingue”».
Vorrei però sottolineare che la convivenza tra dialetti e lingua nazionale (da noi in particolare) non fu né è pacifica. Forse neppure per i poeti. D’accordo con Zanzotto nel respingere un uso del dialetto in poesia come moda raffinata o un ambiguo recupero populistico. Eppure io penso che la «duplice eredità», il «duplice sentire», la «duplice storia che corre parallela dentro di noi» sia *duplicità conflittuale* e non più conciliabile.
Come sento in conflitto (o almeno in forte tensione) le parti in dialetto da quelle in italiano delle mie raccolte, mi pare che lo stesso lo siano le parti d’«idioma medievale umbro-sabino» da quelle in lingua del tuo «Geminario». C’è sotteso un accostamento di tempi e di epoche diverse e di storie diverse che – uso una parola forte – è quasi “mostruoso”. Non ci vedo, insomma, una rasserenante «duplice ricchezza». Tanto più che devastato fu il dialetto a cui tu attingi e devastato è anche l’italiano che ancora usiamo.

Paolo Ottaviani a Ennio Abate (2 giugno 2014)

Caro Ennio,
dopo aver letto e meditato su tutto il materiale che gentilmente mi hai segnalato o messo a disposizione [qui] penso che il nostro confronto intorno all’uso in poesia delle lingue neovolgari o dei dialetti si possa focalizzare, per comodità espositiva, intorno a questa affermazione di Brevini che tu ritieni “condivisibile” e sulla quale invece io da tempo ho maturato una posizione assai diversa. L’affermazione, come tu stesso la riporti, è questa:
“La ripresa del dialetto… ha portato ad una corsa verso l’alto, ad una ricerca di nobiltà e squisitezza che ne ha fatto uno strumento più prezioso della lingua italiana. Da tradizionale codice antiletterario si è trasformato in codice iperletterario, in una lingua selettiva e anacronistica che si oppone all’italiano standard: «una specie di nuovo latino con cui lo scrittore fugge il poco attraente “volgare” d’uso comune».
Dentro questa affermazione credo s’annidi un errore teorico e pratico di non poco conto. E l’errore sta nel ritenere ontologicamente diversi e gerarchicamente separati i molteplici ritmi del contemporaneo fluire di diversi modi di sentire, comunicare, pensare, parlare e infine scrivere. Fin dalla nascita – e in verità anche prima, nel grembo materno – noi siamo invece investiti da un indistinto fiume di suoni. Il fiume sonoro scorre perennemente e tutti i ritmi e le armonie che porta con sé – solo in seguito, quando interverrà il potere divisorio della ragione, diventeranno singole parole – sono in perenne trasformazione. Esattamente come noi che via via recepiamo quei suoni e li modifichiamo, anche impercettibilmente, nello sforzo di riprodurli. Quelle sonorità non saranno mai le stesse. Rinasceranno ogni volta che verranno pronunciate. La comunicazione, anche le comunicazioni più parcellizzate, sono fattore di trasformazione. Le lingue, tutte le lingue che ascoltiamo e parliamo, vanno sì ancorate alla storia sociale e politica ma anche – direi soprattutto – alla nostra singola biologia, alla storia del nostro corpo. E il sinonimo che indica l’organo palatale – la lingua, appunto – ce lo dovrebbe ricordare più spesso. Tu immagina soltanto, per fare un esempio concreto, le diverse sfumature e tonalità del suono “mamma” se emesso dalle labbra di un trienne e poi se emesso dalle stesse labbra divenute di un adulto o di un vecchio. La parola è la stessa, il suono sarà assai diverso. La parola attiene alla grammatica (e quindi a tutti i discorsi storici e sociali ai quali tu stesso fai riferimento e sui quali largamente concordo) ma il suono invece attiene unicamente all’«anima» della lingua. E i poeti, caro Ennio, lo sai meglio di me, sono più interessati all’anima delle cose che a tutto il resto. Le domande che mi poni rispetto al mio “Geminario” trovano ora risposte, almeno credo, plausibili:

è certo possibile interrogare la propria infanzia in relazione alla « recente storia della seconda metà del nostro Novecento». Ciò che fa da tramite tra la “grande storia” e l’infinitamente piccolo – la mia persona – è, il “suono”, l’armonia nascosta, che quegli eventi hanno prodotto modificando, spesso, meglio sempre, con violenze inenarrabili, tutto e tutti e quindi anche la mia capacità di recepirli e poi di comunicarli poeticamente.

Ci riesco? Qui non sono io che posso risponderti.

È utile e necessario far riferimento a tutto ciò che si è trasformato in componente del proprio sangue – e quindi divenuto capace di vibrare e suonare! – nel mio caso anche alla poesia antecedente e contemporanea a Dante (oltre che a Dante stesso, ovviamente)

Per quanto riguarda invece il plurisecolare conflitto lingua-dialetti io parlerei di “pacificazione nell’arte”. Il che presuppone che l’artista o il poeta sia in grado di metabolizzare questo enorme patrimonio che preme sulle nostre spalle. Quando ci si è caricati di tutto (o di quanto più possibile) ci si accorgerà che la poesia è una dea pacificatrice: lei può manifestarsi indifferentemente in qualsiasi forma di linguaggio: lingua, volgare, neovolgare, dialetto o idioletto che sia.

Di quest’ultima cosa in fondo mi dai conferma anche tu quando giudichi “carbonizzati” i tuoi meravigliosi testi poetici in dialetto. Tu ritieni giustamente carbonizzata quella parola, quella storia che non potrà più ripetersi. Ma quei suoni e quei ritmi, in virtù della tua arte poetica, potranno invece continuare, anche fuori dalle nostre volontà e dalle nostre conoscenze, a vivere e ad accendere altri fuochi:
“Semp chiu’ ambresse va a museche re sentiment’ antiche…”
Il mio saluto più caro.
Paolo

6 pensieri su “Ancora su dialetto e lingua. Due punti di vista

  1. Se po no guardà al dialèt
    sensa pensà a quand serum piscinit
    l’è una storia che a voeuri no dimenticà
    a l’è denter in di mè oss
    l’è cume ul pan denter ul cestin
    ul prufùm dèla pulenta
    quand la taca un cicinin
    ul saun dèla mia nona
    quand la ma lavava
    denter un bel mastel de lègn
    l’è la fam che te vegniva
    quand el dì urmai el muriva
    l’è la fin dèla mia storia
    tùt el rest al ve fo no sentì
    mel porti denter in dèl mè coeur
    quant a piangi de per mi.

  2. …Grazie Emy per la bellissima poesia dialettale, ti ritengo fortunata. Per me il dialetto rappresenta un nodo, ho vissuto la mia infanzia dove si parlava solo il dialetto, cioè vari dialetti: il pugliese di mia nonna materna e il lombardo, tra lodigiano e cremasco, di mio padre, eppure non li ho mai imparati…pur capendoli, pur amandoli: lingue familiari ed estranee nello stesso tempo. Un problema personale di non integrazione, sicuramente, ma potrebbe voler dire qualcosa in generale. Ora io trovo che chi ha avuto la fortuna di essere stato accolto all’interno di una lingua dialettale, che fa ambiente, culla, asilo, protezione, appartenenza…non deve farsela scappare. I dialetti riportano spesso ad un mondo di povertà e di fatica, ma caratterizzato da una maggiore solidarietà, credo. I suoni sono forse la prima esperienza sensoriale che facciamo e molto ci possono rassicurare o, al contrario, respingere. Trovo che sia le nostre storie personali che quella dell’umanità siano costellate da distacchi dolorosi, ripudi, amnesie, rimozioni, rese, affermazione del piu’ forte sul piu’ debole…se ci neghiamo una continuità con il passato anche per la lingua, accettiamo un principio di freddezza che non è proprio evoluzione. Penso che dai dialetti, anche antichi, la lingua nazionale possa trarre dei vantaggi.

  3. Sollecitata da questa suggestiva espressione di Ennio: * mai sciolti dalla memoria “amorosa” dei dialetti e mai ebbri dei fasti luccicanti della lingua italiana letteraria* mi sento stuzzicata ad esprimere il mio pensiero.

    Il bilinguismo appartiene alla mia esperienza più antica. Parlare in friulano era riservato all’ambiente domestico, ovvero relativo ai luoghi dove era implicata la ‘familiarità’.
    Ciò valeva non solo per le parentele, ma anche nel contatto con quegli esercizi ‘pubblici’ (negozi a conduzione familiare) laddove l’italiano era sentito come una lingua straniera che non aveva nulla a che spartire con i parlanti.
    Mentre invece negli uffici si parlava rigorosamente la lingua ‘nazionale’, ma non perché ne venisse riconosciuta una relazione di appartenenza bensì di sudditanza: un paese di frontiera non può che aggrapparsi alla propria lingua e alle proprie tradizioni per non essere continuamente smembrato dalle invasioni sedimentali più o meno pacifiche – dai miei ricordi, quelle dei cosacchi e poi quelle degli ‘sfollati giuliani’.
    Ma ci si rivolgeva in italiano anche con i ‘famigli’ del Signor Conte, i quali, pur essendo gente del posto, lavoratori dei campi, fabbri ferrai, falegnami, ecc., erano percepiti, nel loro quotidiano contatto con la nobiltà, come dei privilegiati a cui ci si doveva rivolgere con rispetto per il fatto che erano riusciti ad accedere a quella posizione di privilegio.
    Erano anche le suore, istituzione di grande potere in quel piccolo paese e con le quali portai avanti la mia esperienza scolastica dall’asilo alla fine della scuola dell’obbligo, a sollecitare l’uso dell’italiano che a me suonava come una lingua attraverso la quale si aveva accesso alla storia mentre, con la nostra lingua, l’unico accesso possibile era quello della memoria.
    Fu così che mi innamorai perdutamente dell’italiano rifiutando la mia lingua familiare, ragion per cui parlavo in italiano anche con i compagni di scuola al punto che venivo chiamata “la straniera”. Fu molti e molti anni dopo essere venuta via dal Friuli, che riscoprii la mia lingua del cuore, tramite la quale, guarda caso, continuavo a scrivere poesie e racconti, e me ne ripresi d’amore al punto da pensare di non poter scrivere altro che in quella, pubblicai un libretto di poesie per i tipi della Società Filologica Friulana, Società Culturale che tutela, giustamente, la lingua e le tradizioni del Friuli. Pensavo che lì e solo lì, in quanto luogo che attinge alle viscere dell’esperienza emotiva, potessi sentire rappresentata la mia ‘sofferta vocazione alla parola’ che sempre mi attanaglia. Ma mi resi conto che non era così.
    Perché tutto questo ‘preambolo’? Per far capire che mi è stato necessario un percorso di riflessione legato alle motivazioni che mi avevano portata al processo di investimento sulla mia lingua materna. Non dissimile da quanto scrive P. Ottaviani sul proliferare odierno della ‘ripresa del dialetto’ che sembra più *una ricerca di nobiltà e squisitezza che ne ha fatto uno strumento più prezioso della lingua italiana. Da tradizionale codice antiletterario si è trasformato in codice iperletterario, in una lingua selettiva e anacronistica che si oppone all’italiano standard*.
    Mi sembra anche di poter aggiungere una distinzione fondamentale: mentre mi può venire spontaneo scrivere di poesia o di narrativa in lingua friulana, mi riuscirebbe ‘difficile’ (nel senso che dovrei fare uno sforzo di traduzione) scrivere un testo di natura non letteraria: si dà dunque una differenza tra situazioni estetiche e situazioni meramente comunicative. Ma questa ‘estetica’, questo *suono, questa armonia nascosta* come dice Ottaviani, non sono privilegio specifico della lingua madre, lo possiamo trovare in tutte le lingue. Proust diceva che “les beaux livres sont écrits dans une sorte de langue étrangère” (“i bei libri sono scritti in una specie di lingua straniera”) perché il progetto artistico assoggetta la lingua – dialettale o meno che sia – , la rende estranea al punto che lo scrittore stesso si sente ‘straniero’ rispetto ad un mezzo che pensava di poter padroneggiare.
    La ‘comunicazione poetica’ non può avvalersi soltanto di un codice linguistico, quello dialettale, ideologizzandolo, come nella chiusura della bella e struggente poesia di Emy (*tùt el rest al ve fo no sentì/mel porti denter in dèl mè coeur/quant a piangi de per mi*). C’è sì quello, ma c’è anche dell’altro!.
    R.S.

  4. credo che oggi non abbia molto senso scrivere poesia in dialetto. E’ una lingua da sopravvissuti, che pochi sanno scrivere con ortodossia e che ormai quasi nessuno che abbia oltrapassato i 40, parla più.
    Mi permetto di fare questo piccolo regalo a chi avesse voglia di perdere qualche minuto

    I muron

    I prim i sävan un po’ ‘d brüschein
    tant cmè i brügnein salvadag
    che dop quäica guiürnä
    i gnivan düs, e sütta i deint
    at sintiva seimpar i granein di frütt,

    ieran i muron, frütta seinza virtù
    roba da povar ( ia seram tütt, allura )
    piant co’ la scorza ca sgranfignäva
    e i föi grand, fatt pr’i bigatt
    ca il ia rüzgävan nott e dè
    süar il cannët, prima da fäs sö.

    Ormai al i guärda ansöin
    i muron, i fann pinsä a i asnein
    bass, traccagnott, piin ad paziinza
    rubüst, lavüratür, ch’as lassa taiä i ram
    tant cmè la pension seinza ver la bucca,
    ann dop ann i büttan e i speran seimpar
    da ves ancüra bon da fa quäicoss.

    ( traduzione )

    I primi sapevano un po’ di brusco
    come le piccole prugne selvatiche
    che dopo qualche giorno
    diventavano dolci, e sotto i denti
    sentivi i granellini dei frutti,

    erano i gelsi, frutta senza virtù
    roba da poveri ( li eravamo tutti, allora )
    piante con la scorza che graffiava
    e le foglie grandi, fatte per i bachi da seta
    che li rosicchiavano giorno e notte
    sopra le cannette, prima di trasformarsi.

    Oramai non li guarda nessuno
    i gelsi, fanno pensare agli asinelli,
    bassi, pieni di pazienza, robusti
    lavoratori, che si lasciano tagliare i rami
    come la pensione senza aprire la bocca,
    anno dopo anno rigermogliano e sperano sempre
    d’essere ancora capaci di fare qualcosa.

    1. Bellissima poesia di Paraboschi! Io i gelsi li guardo eccome! lungo un vialetto del Parco Lura di Saronno c’è ne è una fila , ricchi di ottimi frutti.
      Per quanto riguarda il dialetto non preoccupiamoci ma “smètèm mai de parlal”.

      EL SCUSA’.
      El mè ver dialèt
      a l’è cumè chèl scusà
      dèla mia nona
      cu truà in d’un casèt.
      Lè la legava in vita
      la dumèniga quand i gent
      andavan a mèsa vestì ben.
      La diseva che inscì bèl
      ne faran pù
      l’era bianc a fiurelit blù.

      Dabun inscì bei nu vist pù.

      Emilia Banfi

      IL GREMBIULE.. Il mio vero dialetto/è come quel grembiule/di mia nonna/che ho trovato in un cassetto./Lei lo legava in vita/la domenica quando la gente/andava a messa elegantemente vestita/- Diceva che così bello /non ne faranno più/era bianco e fiorellini blu./ Davvero così belli non ne ho visti più.

  5. …i gelsi, frutti di alberi modesti, gli asinelli, bassi e gran lavoratori, come i grembuilini della domenica delle nonne sono creazioni “artigianali” della natura e dell’uomo, niente a che vedere con la grande produzione…ma perchè abbandonarli? A me fa molto piacere leggere le vostre poesie in dialetto

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