Mirna

simonitto 2 mirna

di Rita Simonitto

[Quello qui pubblicato è  il capitolo di un libro in gestazione fatto di storie personali  che spaziano dal passato al presente e viceversa: un dialogo, a volte monologo, fra queste ed un interlocutore attuale, persona fisica che sia o situazione di realtà, che fa da deuteragonista. Per questa ragione, in questo stralcio, il discorso sembra farsi monco alla fine. In quel punto sta per intervenire un soggetto che porterà la sua critica verso quella mia visione sui poveri (il capitolo, infatti, sarebbe molto più lungo – e anche più ‘privato’).  La citazione sui ‘cosacchi’ – che, al momento, intende essere anche il titolo del libro ricorrendo, in un modo o nell’altro, nei vari capitoli – ha a che vedere con la singolare esperienza di questo popolo costretto con la forza delle illusioni a stabilirsi nelle terre del Friuli orientale e, soprattutto, col rilievo che esso aveva avuto nel mio immaginario di bambina di poco più di due anni. (R.S.)]

Non sarebbe toccato a lei andar per campi. Almeno non quel giorno.

Non solo perché il suo fine settimana la vedeva china e orgogliosa sui tasti dei primissimi registratori di cassa mentre sua sorella ed io la sbirciavamo con una certa invidia dalla vetrina della macelleria, seminascoste dal paravento di collane di salsicce, messe lì in bella vista.
Ma anche perché a fine maggio, di pomeriggio, era fuori luogo andarci: ciò che c’era da vendemmiare di erbe in campagna s’era già fatto, tarassaco, bruscandoli, asparagi selvatici, scjopetìn.
Rimanevano certo le prugne ancora aspre o le ciliegie amare tutt’osso e poca polpa, ma quelle erano piuttosto la preda di spedizioni che si facevano in compagnia con i ragazzini del borgo, per dare la baia a chi aveva paura di salire sugli alberi o chi se la faceva sotto dal mal di pancia a causa della frutta mangiata non ancora matura.
Certo che si poteva ancora andare per fiori o per nidi di allodole, le ultime a nidificare basso perché i merli avevano già alzato le covate di qualche ramo. Ma per fare questo, erano più propizie le ore di prima mattina, quando il mondo sembra partecipare di un non so che di mistero ingaggiato fra le setose rugiade delle ragnatele, preso in mezzo tra gli enigmi della notte e non ancora pronto a rispondere alle domande del giorno.
Era fuori dubbio che la personalità della campagna in quel periodo dell’anno non si tirava indietro nelle sue seduzioni. Irretiva e chiamava; e chiamava non solo per i lavori ma per gli amori, i sospiri e le sollecitazioni degli spiriti animali e i suoi sprofondamenti. Era un centro pulsante di desideri, quella campagna; che poi, in quel piccolo paese, si discentrava subito, a ridosso com’era delle recenti costruzioni dell’abitato.
Si trattava per lo più di villette dai toni pastellati che, con i loro terrazzini fioriti, si ergevano sussiegose di fianco a quelle di pietra, ormai cadenti o sventrate dalle bombe e i cui ruderi se ne stavano ancora lì, montagnole di sassi, legno e polvere su cui i ragazzini mimavano azioni guerresche di assalti a ipotetici fortini o, quando c’era la neve, rudimentali scivoli per altrettanto rudimentali slittini.
Mirna viveva là, in una di queste, affiancata alla nuova macelleria dei suoi genitori.
A fronte, un minuscolo bar che disponeva più di sedie che di spazio interno; tant’è che alla sera, quando trasmettevano ‘Lascia o raddoppia’, i posti a sedere fuori occupavano un buon tratto della strada maestra. Ma ciò poco importava data l’inconsistenza del traffico, costituito da qualche rara auto, più frequenti le moto; e di biciclette, poi, non se ne parla.
Ma intanto era arrivata l’America con le sue modernizzazioni anche in questo piccolo paese del Friuli, di cui non si poteva dire fosse dimenticato né da Dio né dagli uomini in quanto nobiltà e clero (non senza rilevanza il peso di alcune porpore cardinalizie native del luogo) avevano condiviso il potere sia sulle terre del contado che sul bacino di fedeli ben gestito tra il ‘pievanato’ e la congregazione di suore.
Stava finendo il mese dedicato alla Madonna che, viso di porcellana e avvolta nelle sue vesti bianco azzurrine, dall’alto della sua grotta posta ad un importante crocevia di strade, sembrava garantire tra gli odori degli incensi, delle rose, dei tigli e di gigli appena sbocciolati che i fanciulli sarebbero stati protetti.

No. Quel giorno, quel pomeriggio poco prima dell’imbrunire, non sarebbe toccato a lei andar per campi.

A volte, se era necessario, eravamo reclutate piuttosto noi due piccole, sua sorella ed io, che condividevamo i banchi di scuola, ad andare alla raccolta di ultimi cespi di radicchio di campo o di lumache bavose che incominciavano a mettersi in movimento nella frescura del sottobosco e che venivano messe a spurgare nella crusca per essere poi cucinate a dovere e servite in un sugo strepitoso assieme alla polenta.

E nessuno ci fece caso quando lei si era allontanata da casa.
Dove andava? Chi incontrava?

Solo noi due, che stavamo bighellonando ai margini del borgo, notammo, frammezzo una ventata di polvere, il suo passo svelto. Ma pensammo che fosse andata a fare il suo pieno di racconti: perché Mirna era una raccontatrice di storie fantastiche che faceva sembrare vere. Quando ci si incrociava alla fontana dell’acqua, o alla sera quando la comunità si trovava nelle stalle, dava ad intendere che era in possesso di notizie segretissime di cui lei sola era a conoscenza … poi succedeva che giorni dopo spariva dalla circolazione qualcuno, per lo più un giovane, e lei ci spiegava dell’esistenza di un luogo magico dove l’arcata di un ponte si incontra con la base dell’arcobaleno e se uno riusciva a trovare quel posto allora la realtà e il sogno si abbracciavano e il mondo prendeva una coloritura diversa e si poteva andare dappertutto senza alcuna paura. Era lì che, secondo lei, ‘sparivano’ le persone.
Anche se ci rodeva l’invidia per i suoi poteri e una certa curiosità di conoscere anche noi quei luoghi che ci portavano via braccia giovani e vigorose lasciando al loro posto il vuoto della vita, eredità amara dei paesi attraversati dalla guerra, noi pensavamo che fosse un po’ matta e che gli spaventi del conflitto bellico – aveva cinque anni più di noi – le avessero fatto schizzare via inesorabilmente qualche rotella.
E che fosse con la testa tra le nuvole lo avevano sempre detto anche le sue insegnanti: l’unico luogo di concretezza era il negozio di macelleria dove lei ci faceva la sua figura sul predellino dietro la cassa.
Ma un giorno, quando ci presentò, e si presentò, con il suo fidanzatino così impacciato nella sua divisa militare come se il luogo di ponti e di acque da cui proveniva (Chioggia) gli avesse dato una ondivaga consistenza, vederla lei nella sua vestina di organza, sporgenti le ossa delle scapole come scherzi di ali abortite prima del volo però sorridente come non mai, ci prese un magone tale che subito solidarizzammo con i suoi genitori che mai e poi mai avrebbero voluto uno straniero, e per giunta militare, che venisse lì al Nord a fare il cucco.
Quando stavo con le mie due amiche, sembrava finito il mio tormentato ‘tempo dei cosacchi’. Almeno lì in quella loro casa. Il padre di Mirna non aveva quelle paure che si arrotolano su se stesse come i lombrichi che scattano come molle e si chiudono a palla ad ogni minaccia.
Non aveva contenziosi con la morte, lui, che mostrava il sangue delle bestie macellate come fossero rosse prove d’autore su un camice bianco e svolazzante. Non era “fiore da ostie”: se avesse trovato il buon Dio sul suo cammino non si sarebbe certo scansato per dargli strada, così almeno diceva. Eppure ogni domenica in chiesa si prestava a piegare con le sue ingombranti mani i paramenti sacri.
Uomini.
E mio padre era un uomo? Quando si avvinghiava alle lenzuola urlando dal dolore e dalla paura “Mamma, mamma”, una madre che non arrivava mai nonostante la presenza sollecita della mia, di madre, era un uomo? Perché così lo si poteva definire avendo carne e ossa, ma dentro un disfacimento che non gli dava pace e non solo per gli spasmi dell’ulcera duodenale che lo sfinivano, ma forse proprio per il fatto di essere un fragile uomo.
E i cosacchi che uomini erano? Insediati a forza nella casa di mia madre, al suo paese, eppure bisognosi anche loro di certezze e di affetti, sperduti tra il potere e il desiderio… dov’era finito il cosacco dai grandi mustacchi che mi diceva “pela pampina”?
Forse le gelide acque della Drava non avevano trascinato solo corpi ma anche le disillusioni di anime ferite e perse.

E Mirna non doveva andare per campi quel giorno. Né lo aveva detto a nessuno.

Così quando il maniscalco la intravide, tra i fumi acri della ferratura ad un cavallo che non ne voleva sapere di stare fermo, e poi quando la vide che procedeva barcollando dall’ultima curva prima del paese, con le mani che stringevano la gonna alzata a tamponare il sangue che le usciva dalla pancia e le segnava in rivoli le gambe snelle di gazzella, subito immaginò che qualche vigliacco l’avesse violentata.
Mirna veniva avanti parlando in modo sconnesso, rassicurava che non era niente anche se si stava dissanguando, e si guardava attorno quasi sorridendo, cercando un volto che lì non c’era. Poi diede un colpo di tosse e si afflosciò come un rosso papavero sotto la falce.
Per un attimo, sembrò che, come sul Golgota, il tempo attorno si fosse fermato, anche l’aria, improvvisamente gelida, pareva ferma.
Poi, ci fu un convulso accorrere di persone, l’urlo della madre di Mirna sovrastò per un attimo infinito il suono delle campane a martello e poi si tacque.
Nella concitazione, le testimonianze erano, come accade in questi casi, le più disparate. Ci fu chi disse di aver udito uno scoppio, chi disse di aver visto fuggire delle persone. E chi bestemmiò contro la guerra assassina: “ ’o sai ben jò, ‘o sai ben ” (so ben io, so ben io), urlando come spiritato e dovette far tacere la sua rabbia e allontanarsi a causa della dura reprimenda del parroco che, gridando ad alta voce il nome il bestemmiatore, lo accusò pubblicamente di essere un facinoroso, un semina discordie: “un ‘rosso’ senza timor di Dio”.

Tutte le persone adulte si mobilitarono in un verso o nell’altro lasciando noi ragazzi in balia delle nostre ansie e dei nostri dolori, per cui le sbrindellate notizie che ci pervenivano erano ancora più inquietanti.
I termini che sentivamo utilizzare sembravano perdere quell’alone di sicurezza di cui prima erano ammantati. E quei radicali cambiamenti di segno per cui la parola ‘Alleati’ suonava minacciosa ancor più che quella di Fascisti, a cui avevamo fatta l’abitudine, ci metteva in una condizione di disagio, anche perché non era possibile chiedere a nessun ‘grande’ delle chiarificazioni.
Anche noi ci sentivamo come se nella nostra pancia, al pari di quella di Mirna, qualche cosa di mostruoso ed indefinito avesse preso posto e dissanguasse dall’interno le nostre certezze.
E il fatto che Fiore, la sorella di Mirna, se ne stesse per lo più chiusa in casa, gli scuri agganciati quel tanto da lasciar filtrare l’idea che ci fosse ancora un tempo che scorreva là fuori, e non volesse più avere contatti con noi, ci radicava nel pensiero che anche noi eravamo in qualche modo mostri di cui diffidare.
Dopo lo sgomento per quanto successo e che durò a lungo e le polemiche con il proprietario del campo dove era avvenuto il fattaccio – ritenuto responsabile di non aver fatto un attento lavoro di bonifica – noi ragazzi fummo sottoposti a dure restrizioni nei nostri movimenti in campagna, furono tirati fuori vecchi manifesti in cui erano raffigurate bambini con le stampelle o senza un braccio e, a lato, le responsabili di tutto ciò, le caramelle/mine, le matite/mine da cui dovevamo fuggire a gambe levate e segnalare la loro presenza a chi di dovere.

Mirna non aveva fatto in tempo a fuggire dalle mani rapaci degli Alleati e così aveva dovuto pagare con la sua giovane vita la libertà promessa.

Sua madre, quando ci fu la liberazione della città di Treviso[1] – “di la’ da l’aghe”, come si diceva da noi – vi era andata con la corriera per partecipare alla manifestazione di giubilo[2] con festoni e bandiere assieme ad una sua amica, sposatasi colà e che colà proprio, aveva perso il marito in una delle incursioni ‘gratuite’[3] delle Fortezze Volanti statunitensi.

Ma, si sa, anche in quel caso la libertà aveva pure un prezzo da pagare.

Però dopo quanto accaduto a sua figlia, quella donna così forte e allegra entrò in un vortice di pazzia. Dopo qualche tempo spedì la figlia più piccola in un convitto di religiose e poi aveva preso l’abitudine di stare per ore alla fontana in centro al paese a {riempire secchi d’acqua e a vuotarli nel canale adiacente finché non arrivava qualche donna che dolcemente la riportava verso casa. Una casa ormai vuota: la macelleria era stata chiusa fin da subito e il marito era partito per chissà dove.

La maggior parte dei bambini, soprattutto quelli che avevano gli esami di terza e di quinta elementare, so che finirono l’anno scolastico con difficoltà.
Il paese stesso si era arroccato in una posizione regressiva, ogni diversità veniva guardata con sospetto: emergevano con forza le parti arcaiche distruttive.
Malelingue, delazioni prendevano sempre più spazio, come se il sangue innocente di Mirna, anziché purificare, avesse fecondato con serpi maligne e scorpioni quel poco che di quella terra la guerra aveva risparmiato.

Passò qualche anno e dal confine arrivavano i primi ‘giuliani’ i quali, stranamente, lì in paese non si sentivano stranieri bensì come se fossero a casa loro. Non erano certo come i cosacchi. A loro, infatti, vennero aperte le case dei notabili forse perché non erano malconci come i cosacchi ma disponevano di begli oggetti, argenterie ancora lustre e soprattutto una abile parlantina che sembrava avere dei poteri sconfinati, che andavano oltre i cippi e i filari di gelsi che segnavano il limite del territorio paesano.
Ridevano e scherzavano e non riuscivo a farmi una ragione di questa differenza.

“Morirete tutti”.
Il giorno in cui questa scritta apparve sul muro della canonica e su una casa diroccata poco lontana dal centro, la comunità si spaurì.
Pure mia madre si spaurì: anche il suo Dio, al quale era rimasta aderente come una cozza al suo scoglio, sembrava avesse girato il suo sguardo altrove.
Non c’era stata solo la guerra, adesso c’erano le insidie del dopoguerra; l’indifferenziazione amico/nemico la rendeva estremamente inquieta, il marito ora in un lontano sanatorio per una recrudescenza della TBC, il fratello militare in una brigata alpina dislocata chissà dove, notizie che arrivavano e poi si dileguavano.
L’angelo sterminatore, “morirete tutti”, aveva scritto la sua sentenza.
Quando una barca sta per affondare scatta lo stimolo alla collaborazione dicendo “siamo sulla stessa barca”: ma tutti sanno perfettamente che alcuni, i soliti alcuni, si salveranno e gli altri no.
Gli altri, i poveri, hanno sempre due fronti con cui fare i conti: i ricchi e i potenti da un lato e gli altri poveri, dall’altro.

Note.

[1] Domenica 29 aprile 1945 fanno la loro comparsa davanti alla porta SS. Quaranta i primi mezzi corazzati americani.

[2] Dal titolo di un giornale locale: “Lunedì 30 aprile 1945. Ingresso delle valorose truppe Alleate in Treviso già liberata dai Volontari della Libertà”.

[3] L’incursione, molto breve e devastante, del 7 aprile 1944 si protrasse dalle 13.24 alle 13.29, ad opera di 159 Fortezze Volanti Statunitensi, che sganciarono circa 2.000 bombe con obiettivo la stazione, ma che si sparsero su gran parte della città. Interi quartieri residenziali furono rasi al suolo dalle bombe e dagli incendi; le macerie continuarono a fumare per due settimane. Ci furono 1000 morti tra i civili.

3 pensieri su “Mirna

  1. Ognuno che si ricordi del proprio inizio, anche se si trattasse di un ovattato ricordo di sé, può dirsi fortunato. Oggi, se penso all’invadenza della comunicazione commerciale e alla popolazioni irreali che vengono ogni giorno ad invadere le fantasie dei bambini, come stranieri, nuovi cosacchi, ma di un modo che sembra vero, davvero non so. A me sembra siano venute meno le figure in carne e ossa, quelle che ci fanno vera compagnia, e che oggi la realtà vada cercata nel confronto con l’immaginario; e che si deve correre per inseguire dei cartoons, che poi sarebbero il volto con cui si presenta la moderna tecnologia, come fossimo destinati a restare bambini per sempre, ma non sotto le bombe, bensì nell’estenuante e primitivo inganno di un’insulsa compravendita. Anche se di soldi ce n’è meno per via della crisi, la mentalità non cambia. Tutti, pubblicitari in testa, aspettano il ritorno delle vacche grasse: invece di cambiare pelle non tentano nemmeno di cambiarsi d’abito. Perciò questo racconto di Rita a me sembra abbia grande significato, tanto più che la sua scrittura è fatta in modo da mettere chiarezza, che forse è questa la sua migliore prerogativa: decide lei dove bisogna porre l’attenzione, ti conduce raccontando e spiegando quel che ne pensa, saggiamente, ma badando a non dilungarsi sebbene si capisce che ne avrebbe la voglia. La saggezza è una virtù involontaria, la senti quando meno te l’aspetti, accade scrivendo perché è una qualità: stemperata nella Yourcenar e incalzante nelle poesie della Szymborska. Coraggio, Rita, sei in buona compagnia.

  2. Caro Mayoor,
    sei proprio tutto matto, nei tuoi apprezzamenti a fare accostamenti con scrittrici di quella levatura! Ma io adoro i matti. Sono il sale della vita.
    Grazie e con affetto.
    Rita

  3. …Grazie Rita per questo racconto così struggente e tragico e per il ricordo di Mirna (la ragazza più innocente e fantasiosa del villaggio, nel momento del suo pieno splendore, “sbocciolata” come i frutti e i fiori a fine maggio) che sarà la vittima, a guerra finita, di quei “liberatori” per lei solo degli assassini…Una morte così ingiusta non potrà che avvelenare tutti gli abitanti del piccolo paese friulano. E qui riprendo le riflessioni di Mayoor (che condivido) sui bambini di oggi, in tempi di apparente pace, come siano anche loro vittime innocenti di popoli invasori, subdoli, con il volto allettante di pagliacci, di giullari, vedi puffi, alieni…

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