Condizione umana contro storia in Montale

eugenio-montale-ritratto bis

di Ennio Abate

Sul blog LA PRESENZA DI ERATO  è stata pubblicata un’interessante intervista del 1976 ad Eugenio Montale (qui). Ho lasciato questo commento che riporto sul sito di POLISCRITTURE (E.A.)

Queste dichiarazioni (o intervista rielaborata) di Montale andrebbero commentate con grande impegno critico anche se sono di un’epoca ormai conclusa.
La tesi centrale è che la sua poesia affondi le proprie radici nelle condizione umana e non nella storia. Ovvio? Secondo me, no. Chiediamoci: Perché l’argomento della sua poesia poteva essere esclusivamente «la condizione umana in sé considerata»? È possibile astrarre una «condizione umana» dal tempo storico in cui viene vissuta; e quindi trascurare o mettere in secondo piano i rapporti personali, sociali e politici in cui Montale condusse la sua esistenza? Forse che la politica, le condizioni di vita materiali, le divisioni sociali che si ebbero in Italia dal 1896, anno della sua nascita, al 1981, anno della sua morte, non facevano della «condizione umana» vivibile da un piccolo borghese come lui dalla «condizione umana» vivibile da un altro individuo, appartenente ad un’altra classe sociale in un’altra epoca? Vita, amore, morte sono la stessa cosa in tutte le epoche e società?
Se Montale ritiene che nella sua ricerca poetica dovesse rientrare la «condizione umana» e non la storia (« questo o quell’avvenimento storico»), è perché fa una scelta. Più o meno consapevole, ma discutibile. E che non deriva automaticamente dal suo essere o voler essere (da giovane) poeta. La scelta di Montale è filosofico-politica. Per lui – lo dice – «l’essenziale» è la «condizione umana», mentre «transitorio» è «questo o quell’avvenimento storico». Con questa scelta Montale stabilisce una separazione netta tra poesia e fatti sociali e politici, tra io e società. Ovvio, dirà ancora qualcuno. Correggerei: ovvio nella società borghese sorta dalla Rivoluzione francese e prolungatasi fino alla società di massa. Non prima.
Seconda osservazione. Montale difende la sua scelta contro gli intellettuali di sinistra che negli anni del dopoguerra e dopo (e fino agli anni Settanta del Novecento) sostennero invece una tesi opposta: la storicità della condizione umana.
Dalla scelta di Montale discendevano alcune conseguenze: ad esempio, Montale finge di non capire che i poeti, quando «si occupano dei fatti loro (cioè della poesia)» non si occupano affatto di “fatti loro”. Si occupano lo stesso «dei fatti collettivi della loro società», perché il linguaggio che usano in poesia non è che una variazione (elaborata) dei linguaggi sociali. Attingono cioè ad un “bene comune”: la lingua (nazionale; e anche questa è una connotazione storica!), non a qualcosa di loro proprietà. Questo significa che il linguaggio che usano – consapevoli o meno – ha una sua «politicità» (Fortini). E quindi una poesia non è mai un fatto (privato) del singolo poeta o (corporativo) dei soli poeti, ma è un fatto contraddittorio che viene fuori dal conflitto tra istanze individuali (lo stile che il poeta riesce a costruirsi) e istanze collettive (l’uso sociale o “comune” che della lingua fanno gli altri, i non poeti, la gente). Questo Montale proprio non lo coglie (o lo rimuove). Ed, infatti, si preoccupa soprattutto di difendere il suo individualismo linguistico (derivato dalla scelta anzidetta) separato dall’uso collettivo che ne fanno gli altri (si pensi al suo disprezzo giovanile per i linguaggi di massa e poi, in vecchiaia, alla resa ironico-snobistica a quei linguaggi in «Satura»).
Lo si vede quando difende «i poeti “individualisti”» affermando che essi non «potrebbero costituire un pericolo per lo Stato o il Superstato che li ospiti (o li tolleri)». Si noti come Montale faccia sua una precisa visione politica, quella liberale. Il privato (il proprietario privato) ritiene, infatti, che la sua proprietà e l’aumento della sua proprietà sia sacro e non danneggi gli altri che non ne hanno o ne hanno in misura minore di lui. Qualcosa di simile fa Montale in poesia.
Dalla scelta degli oppositori (di sinistra: socialista e comunista) di Montale discendevano altre conseguenze: essi volevano un impegno diretto degli uomini di cultura (e quindi anche dei poeti) nella lotta politica e nelle vicende storiche; e avevano criticato il silenzio e l’acquiescenza della cultura (e dei poeti ermetici) sotto il fascismo.
Va notato che Montale ha gioco facile nel liquidare certe grossolane posizioni marxiste prevalenti nel PCI-PSI dei suoi anni. Ha per me ragione a respingere l’idea di certi marxisti che consideravano la poesia e l’arte «un prodotto delle condizioni ambientali e sociali dell’artista». E quindi non le riconoscevano alcuna autonomia. Per loro, come da un pero non possono nascere che pere, da un artista “borghese” (che per molti corrispondeva a “reazionario”) poteva nascere solo arte borghese e “reazionaria”.
E Montale ha pure ragione a criticare il fatto che mutando o migliorando la società (ammesso che ci si riesca) non si curano automaticamente «anche gli individui»; o a sorridere scetticamente di fronte all’attesa di una società ideale in cui «non esisteranno più scompensi o inadattamenti ma ognuno si sentirà perfettamente a suo posto; e l’artista sarà un uomo come un altro che avrà in più il dono del canto, l’attitudine a scoprire e a creare la bellezza».
Eppure ai tempi di Montale c’erano posizioni ben più duttili anche nel da lui odiato campo marxista. Ad esempio quelle del suo prima amico e poi antagonista Fortini (qui). Queste posizioni contrastavano lo zdanovismo, che chiedeva alla poesia e all’arte di mettersi al servizio del Partito; e non riducevano affatto la prospettiva socialista a mito «obbligatorio», come dice qui Montale, o ad attesa fideistica dell’ «avvento di una età dell’oro». (Uno dei motti di Fortini era proprio: il socialismo è possibile, non inevitabile).
Montale non ne volle mai sapere. Sottovalutò queste posizioni, le combatté e si accontentò di un generico umanesimo progressista: «Sono disposto a lavorare per un mondo migliore; ho sempre lavorato in questo senso; credo persino che lavorare in questo senso sia il dovere primario di ogni uomo degno del nome di uomo». Pur sapendo bene di essere nella storia e ammettendo – come fa qui – di non potere « estraniarsi da quanto avviene nel mondo». Se la cava, però, dicendo di non essere stato «indifferente a quanto è accaduto negli ultimi trent’anni» (grosso modo dal ’45 al ’75). E si dice convinto che «se i fatti fossero stati diversi» la sua poesia comunque non « avrebbe avuto un volto totalmente diverso».
Come fa ad esserne così certo non si capisce. È vero che i mutamenti in poesia non avvengono in coincidenza stretta con i mutamenti politici e storici. È vero pure che i tempi della poesia non sono i tempi della politica o della società. E che si è prodotta grande poesia anche in tempi orrendi o brutta poesia anche in tempi meno orrendi o più tranquilli. Ma sostenere che «un artista porta in sé un particolare atteggiamento di fronte alla vita e una certa attitudine formale a interpretarla secondo schemi che gli sono propri», da una parte è vero (vale però per ogni singolo uomo e non solo per l’artista) dall’altro significa esasperare l’autonomia dell’individuo e dell’artista e farne un dato immobile, quasi archetipico. Di più: un fatto di elezione e di superiorità. A me pare che ci sia qualcosa di falso e di pseudo-aristocratico (Montale era un piccolo borghese, ma invaghito delle squisitezze del “bel mondo”) in quel suo presentarsi preso esclusivamente dall’ispirazione, che gli procurava la «totale disarmonia con la realtà che [lo] circondava», tanto da fargli ritenere che in lui le «ragioni di infelicità […]andavano molto al di al di fuori di questi fenomeni» “transitori” come il fascismo, la guerra, la guerra civile.
O nel dichiarare senza vergognarsene (e pur rimanendo anche per me un grande poeta) :«io gli avvenimenti che fra le due guerre mondiali hanno straziato l’umanità li ho vissuti standomene seduto e osservandoli. Non avevo altro da fare».
(Se un poeta dicesse oggi cose del genere di fronte a quanto sta accadendo a Gaza o in Ucraina o in Siria non lo sopporterei).

15 pensieri su “Condizione umana contro storia in Montale

  1. Condivido totalmente questa appassionata quanto ragionata critica di Ennio Abate alle posizioni montaliane espresse nell’intervista del 1976. Aggiungo solo, per completezza e per onestà, che Montale non è stato e non è soltanto quello che lui diceva di essere. La sua poesia, pur se scritta “standosene seduto” – ma chi mai ha scritto in piedi? – ha svolto nella storia, nella nostra storia, anche una funzione di libertà e di progresso per le classi non borghesi. Con sua buona pace. E resta comunque aperto il problema di “quanto” la storia abbia inciso e possa incidere sul “quid” delle singole individualità, problema che vale per ogni epoca storica, anche per tutto ciò che è accaduto prima della rivoluzione francese. Chi può dire, per esempio, che lo spirito di Dante non avrebbe una sua riconoscibile identità anche fuori dal medioevo?

    1. @ Ottaviani

      Caro Paolo,

      al link che ho indicato nel mio recente commento su LA PRESENZA DI ERATO, all’articolo intitolato “La poesia passata a contrappelo: Un nodo Fortini-Montale-Mengaldo” (3 lug. 2012) seguono vari commenti (di Francesca Diano, Giorgio Linguaglossa, Gianmario Lucini) che riprendevano alcune delle tue perplessità o comunque la tua visione problematica del rapporto tra poesia e storia. Oggi siamo tutti “velocilector” e so che non posso pretendere una lettura attenta di tutti i commenti, ma mi pare che in uno che allora avevo fatto ( lo trovi qui:http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/07/per-una-poesia-esodante-ennio-abate-la.html?showComment=1341438490399#c7525672607697505370, ma lo riporto per comodità dei lettori) avevo chiarito sia le ragione dell’indiscutibile valore della poesia di Montale sia la sua reale storicità contro ogni tentazione idealistica e universalistica che mi pare faccia capolino anche nell’ultima parte del tuo commento:

      ” Mi pare di aver già chiarito che Fortini riconosce Montale come poeta e grande poeta. Ma forse un grande poeta è perfetto? Se Fortini lo critica, è perché ci sono vari tipi di poesia e anche di grande poesia. E a un poeta-critico come lui (sempre Fortini) la grande poesia di Montale non andava giù.
      Proprio perché rimuoveva alla grande ( e quindi con maggior danno per il fascino che essa aveva per i lettori) una verità (certo valida per Fortini ed altri che la pensavano come lui): che esiste la storia, che essa non è riducibile a «sterminio d’oche» e che richiede in certe situazioni una scelta. Detto volgarmente in dialetto – il grande poeta Montale, negando quella verità ( sempre per Fortini etc.) «fa ‘o sceme pe nu ghì a guerre”[fa lo scemo per non andare in guerra] o , come dice Giorgio in modi elevati, «si toglie dal campo del contendere della piccola borghesia adottando, da “Satura” (1971) in poi il punto di vista (anche stilistico) alto scettico-borghese»; o, come diceva Fortini, fa «la parte del topo e dell’imperfetto per non pagare il dazio del dovere storico ma nello stesso tempo [è] certo di non essere stato in alcun modo corresponsabile dello sterco e del fango in cui si è trovato a vivere»:

      Questo che a notte balugina
      nella calotta del mio pensiero,
      traccia madreperlacea di lumaca
      o smeriglio di vetro calpestato,
      non è lume di chiesa o d’officina
      che alimenti
      chierico rosso, o nero.

      (Montale, Piccolo Testamento).

      Lui è in alto, lassù! Quale modello per milioni di piccolo borghesi entusiasti della sua poesia quasi come per quella del Pascoli, prima quasi socialista e poi cantore colonialista della Grande Proletaria!

      E se «TUTTO è nella storia» (meglio solo la minuscola), lo è suo malgrado anche la poesia, anche la Grande Poesia. E per questo Fortini, che non toglie la poesia di Montale (o di altri) dalla storia, ha pienamente ragione a giudicarla come ingannatrice. Sebbene- ripeto – poesia e grande poesia.(Come del resto grandi romanzieri furono Balzac o Céline. Solo chi parla senza riflettere può pensare che i grandi poeti o scrittori siano per forza di cose grandi uomini o quasi dei santi).
      Sì, «l’arte è uno strumento di precisione per valutare il polso di un’epoca». Quella di Montale ci fa sentire il polso aritmico della piccola borghesia che ha paura e non se lo vuol dire.

      Quando dicevo che la storia entra nelle opere di tutti poeti e in alcuni “in modi non ortodossi”, volevo intendere non immediatamente visibili o percepibili. Ci sono poeti che anche quando parlano di una rosa fanno intravvedere la storia ed altri che pare parlino solo della rosa, ma se scavi dentro il testo quella (la storia) viene fuori. Intendevo dire, allora che bisogna volerla cercare. E non tutti credono che sia necessario o giusto farlo. Anzi.
      Ma se dico che c’è la storia in tutte le poesie ( ma si deve scovarla..), non la ridimensiono a ‘contingenza’ e non l’affondo nel mare magnum della «condizione umana». Dire «storia» con Fortini è altra cosa che dire «condizione umana» o esistenziale con Montale. Perciò i due sono l’un contro l’altro armati. Montale lo possiamo mettere anche sulla montagna altissima degli Spiriti Magni della Poesia, ma il suo sguardo non è affatto «amplissimo». È lo sguardo piccolo borghese (camuffato). Lui stava nella realtà «su una collinetta» ma fingeva di parlare da «una montagna altissima». Qui la truffa.”

      Insomma l’universalismo è per me una trappola idealistica da ripensare e rimettere in discussione. Passa il tempo e anche l’universalismo di un Dante non è più un universalismo assoluto (che per me non esiste) ma mostra le sue radici ben piantate nella sua epoca e nell’Europa cristiana d’allora. Fai leggere a un musulmano il XXVIII canto dell’Inferno e vedrai che non può non mettere in discussione l’universalità (per noi ovvia) di Dante. Dante gli apparirà un “islamofobo”. Meglio è inseguire le tracce del complesso rapporto STORICO tra Dante e la cultura islamica del suo tempo. Ne hanno discusso su «Allegoria» tempo fa. Ora non riesco a trovare il numero in cui fu trattata la questione ma trovo sul Web questo articoletto che riassume il problema e lo ricopio:

      L’impronta dell’Islam nella «Divina Commedia»
      Il professor Raffaele Donnarumma ricostruisce il complesso rapporto Dante-Maometto

      C’è l’impronta dell’Islam nella “Divina Commedia” di Dante, un rapporto complesso e divaricato che va dal feroce e infamante attacco contro Maometto, a un riconoscimento dell’importanza culturale dell’Islam per lo stesso pensiero cristiano medioevale. A ricostruire questo articolato scenario venerdì 27 aprile è stato il professore Raffaele Donnarumma del dipartimento di Italianistica dell’Ateneo per il ciclo dei seminari “Il folle volo – Lezioni dantesche”.
      “I versi su Maometto – spiega Raffaele Donnarumma – sono costati alla ‘Commedia’ la censura in alcuni paesi islamici, dove il canto XXVIII dell’Inferno è stato cassato dalle traduzioni, o la circolazione del poema è proibita”. Una polemica, quella di Dante “islamofobo”, che è tornata a riaccendersi anche recentemente. Non ultimo a marzo scorso, quando Gherush92, un’organizzazione non governativa per i diritti umani, ha chiesto, assieme ad alcuni membri del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, di abolire la “Divina Commedia” dai progetti scolastici proprio per le frasi offensive contro l’Islam. “In realtà – continua l’italianista dell’Università di Pisa – il rapporto di Dante con l’Islam è più complesso e sottile. Nel Limbo, fra i saggi e gli eroi greci e latini, troviamo anche Saladino che aveva fama di sovrano nobile e giusto, ma che era pur sempre un vittorioso nemico dei crociati; e poi anche Avicenna e Averroè, al quale Dante riconosce la diffusione del pensiero e delle opere di Aristotele nell’Europa neolatina”.
      Ma singoli personaggi a parte, in realtà è l’intera struttura delle “Commedia” che deve qualcosa alla cultura islamica, in particolare al “Libro della scala” che all’epoca di Dante era attribuito (erroneamente) allo stesso Maometto. Chi sia l’autore del volume è a tutt’oggi un mistero. Per certo si sa che la sua diffusione in Europa partì dalla Spagna, dove probabilmente ebbe modo di conoscerlo anche il maestro di Dante, Brunetto Latini, durante il suo soggiorno alla corte di Alfonso X. “Dante non cita mai il ‘Libro della scala’ – continua Donnarumma – ma i punti di contatto sono molti sia nell’architettura generale dell’aldilà, sia nell’idea del viaggio, così come in alcuni particolari, come nel canto VIII dell’Inferno, dove Dante descrive delle ‘meschite’ (moschee) subito fuori le porte della città di Dite”.
      “Dante – conclude Donnarumma – si mostra del tutto consapevole dell’importanza culturale che l’Islam ha avuto perché lo stesso pensiero cristiano medioevale si fissasse nei suoi caratteri più propri” Lo stesso Maometto in realtà è qualcosa di vicino e lontano. Quando Dante lo pone nell’Inferno fra i “seminator di scandalo e di scisma”, in realtà non fa che accogliere la leggenda medievale diffusa che lo voleva un prete cattolico deluso nelle sue ambizioni di carriera e poi traviato dal genero Alì.
      Dopo Dante e l’Islam, il ciclo di seminari “Il folle volo”, organizzato dagli studenti di italianistica, continua con altri appuntamenti. Venerdì 4 maggio (aula 2 Palazzo Ricci, ore 14) Lucia Battaglia dell’Università di Pisa parla di “Immaginare (attraversare, raccontare) l’Aldilà. Per un censimento di modelli, letterari e non”. Martedì 8 maggio (aula magna Palazzo Boilleau, ore 14) sarà la volta di Luca Serianni dell’Università La Sapienza di Roma con una “Lettura di Purgatorio VIII”.

      3 maggio 2012

      ( da http://www.unipi.it/index.php/unipinews/item/762-l%E2%80%99impronta-dell%E2%80%99islam-nella-divina-commedia)

      1. Carissimo Ennio,
        non mi dici cose che non conosco – il pensiero di Fortini (anche lui uno dei miei maestri che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente e dal quale ho anche apertamente dissentito sul problema della religione, della sua “metafisica valdese”), il suo rapporto belligerante con Montale, Dante e il suo debito con la cultura islamica – e non dissolvi le mie perplessità. In effetti parli d’altro. Intanto ti rassicuro: io non cedo un bel nulla alle concezioni dell’idealismo – tra l’altro il mio dissenso da Fortini verteva proprio su questo, perché rintracciavo in lui un materialismo irrisolto, tracce metafisiche di cui la sua religiosità era una spia – ma dico solo che l’individualità non scompare nella rete dei rapporti storici. Senza essere universalisti o metafisici occorre ammettere che c’è qualcosa in noi che va al di là della nostra scansione del tempo… quando parlavo dello spirito di Dante mi riferivo soltanto a ciò che di più intimo e irripetibile c’è in lui… perché c’è in ciascuno di noi un “quid” destinato a travalicare i secoli e tutto ciò che chiamiamo storia… so che tu intuisci ciò di cui sto parlando… poi magari cadrà un meteorite e tutto diventerà gas e cenere… ma dovranno essere gas e ceneri distinti in obbedienza a una legge fisica per ora ignota… Democrito docet!
        Stammi bene.
        Paolo

        1. @ Ottaviani

          Caro Paolo,
          mi fa piacere che tu abbia intrattenuto, se capisco bene, un rapporto con Fortini e dissentito con lui. Non mi è chiaro però perché parlerei «d’altro». Non credo di sostenere la tesi di un’individualità che scompare nella rete dei rapporti storici. Sto dicendo – credo – che l’individualità (di un Dante, di un Montale, ecc.) è storica, di quel tempo e non di un altro successivo. Quel “quid” di loro « destinato a travalicare i secoli e tutto ciò che chiamiamo storia» a me pare la loro opera, sottoposta però anch’essa a successive trasformazioni e ai crolli delle vicende storiche, che ce la fanno apparire sotto aspetti nuovi nei secoli seguiti alla loro prima apparizione. E quindi – dico io – sempre nella storia che continua e probabilmente continuerà finché non interverranno meteoriti o altri sconvolgimenti della natura ( compresi quelli che gli umani possono produrre…). Comunque, quando e se ne hai voglia, scrivi su tutto ciò al mio recapito di posta elettronica, perché m’interessa. E poi renderemo conto in maniera non frammentata anche ai lettori di questo sito dei nostri punti di vista sul tema. Uno saluto.

  2. Mi piace a proposito portare il testo (bellissimo) di una canzone di De Gregori :

    LA STORIA SIAMO NOI

    La storia siamo noi, nessuno si senta offeso,
    siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.
    La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.
    La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare,
    questo rumore che rompe il silenzio,
    questo silenzio così duro da masticare.
    E poi ti dicono “Tutti sono uguali,
    tutti rubano alla stessa maniera”.
    Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.
    Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone,
    la storia entra dentro le stanze, le brucia,
    la storia dà torto e dà ragione.
    La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere,
    siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere.
    E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia)
    quando si tratta di scegliere e di andare,
    te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,
    che sanno benissimo cosa fare.
    Quelli che hanno letto milioni di libri
    e quelli che non sanno nemmeno parlare,
    ed è per questo che la storia dà i brividi,
    perchè nessuno la può fermare.
    La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,
    siamo noi, bella ciao, che partiamo.
    La storia non ha nascondigli,
    la storia non passa la mano.
    La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.

    Francesco De Gregori

    1. @ Banfi

      Emilia questi versi sempliciotti e scioccherelli:

      E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia)
      quando si tratta di scegliere e di andare,
      te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,
      che sanno benissimo cosa fare.

      sono quanto di più inadatto a quello che sta succedendo a Gaza, in Ucraina, in Irak e alla situazione del “sonno della ragione di massa” in cui ci troviamo.
      Dove li vedi “gli occhi aperti,/che sanno benissimo cosa fare”?
      Ahimè, a chiuderli oltre ai mass media ci sono anche canzonette come queste!

  3. Sono l’uomo occidentale nella classica accezione
    cioè nel senso che so bene che so bene cosa fare
    e so fare molto bene tutto quello che mi pare
    e nel senso che d’estate vado quasi sempre al mare
    e d’inverno e d’inverno e d’inverno sulla neve.

    Sono l’uomo occidentale e il concetto è elementare
    e comporta anche il dovere di pensare a mantenere
    senza orgoglio e presunzione l’equilibrio mondiale
    e per questo ho il mio daffare
    perché è un obbligo morale
    e mi accollo l’incombenza
    qui nel più alto gradino
    si nel più alto gradino della civilizzazione.

    Sono l’uomo occidentale ed ho l’onere e l’onore
    di vedere e provvedere destreggiarmi come posso
    nel mio ruolo di paciere
    e chi non vuole ascoltare
    io lo devo allineare
    e mi devo adeguare alla logica del male
    per potere garantire una sana convivenza
    sul pianeta in questione.

    Se pensate di sapere se c’è un’altra soluzione
    sventolate i gagliardetti alla manifestazione
    fate un cenno almeno un cenno
    solo un cenno di adesione
    io per quanto mi riguarda voglio a tutti molto bene.

    Sono l’uomo occidentale nella classica accezione
    e ripeto e ribadisco
    anche in modo maniacale
    che in barba alle apparenze
    qui va tutto a gonfie vele!…

    Edoardo Bennato
    L’uomo occidentale, 2003

    1. ciao Emy :-), non so se la tua sia affermazione di vaga presa per i fondelli o assolutamente spontanea e sincera, ma in tutti e i due casi c’è ben poco da esser brave o bravi…perché o sono solo canzonette, e certa bravura non conta, oppure c’è canzonetta e canzonetta (del resto come in arti più nobili, in poesia c’è poesia e poesia,nevvero? ergo consolatoria o di chissà quale salvezza, oppure al contrario che le canta e le suona come stanno…lo stato delle cose, che possono essere, vita, emozioni, riflessioni,satira, storia…) .

      Tuttavia in entrambi i casi non è la bravura che fa la differenza (De Gregori per esempio è bravissimo tecnicamente parlando) ma la tecnica non basta, tanto come non bastava allora , e ancor più non basta oggi, quella specie di tronismo “democratico” che ha toccato anche il mondo dei cantautori di grido(come in poesia e la sua editoria di massa pur di nicchia)..

      per lo più le masse, sottomasse, gruppi, branchi o sottonicchie, hanno sempre amato (del resto come i vari capi e capetti, Berlusconi o Renzi etc) l’elogio delle presunte attitudini a fare la storia (propria/ individuale o sociale); e nei segmenti di maggiore concentrazioni di masse, hanno sicuramente piu mercato, certi musicisti della democrazia che veicolano pseudo-contenuti di consapevolezza diversa, da quella amorosa a quella civile a quella politica…..

      E, tanto come è scomodo un articolo che parla delle pecore che si bevono le piu disparate propagande ( la gravità aumenta se le pecore, credendosi di sinistra, si ritengono per default più sveglie di altre , così sveglie da votare uno peggio del reuccio di Arcore: 40% che fanno quale Storia?), così tanto e di più con piacere (una canzonetta sarebbe per default divertimento) corre lo stesso rischio una canzonetta che addirittura viene percepita con una nobilitazione dello svago canzonettifero, perché “impegnata”. Infatti le storie di Claudio Lolli una volta o quelle dello Stato sociale oggi, non sono amate dal mitico pubblico, pubblico democratico claro, perché?

      perché sono abitate da pecore che sgozzano altre pecore ?
      perché anche se non le sgozzano, non fanno la Storia? perché la subiscono? perché al massimo se sanno fare una loro storia, la possono fare del tutto metafisica o mistica? etc etc


      e visto che ci sono canzonette e canzonette, lascio qualcosa di attinente , forse, forse ai temi, forse alla poesia, forse solo canzonette

      ciao Emy

      1. A Ro
        breve risposta:
        non prendo mai nessuno per i fondelli, la canzone di De Gregori mi è sempre piaciuta come mi piace quella di Bennato. Quando ascolto musica non mi faccio domande politiche o altro , sbagliando forse, ascolto , molta musica la scarto,altra (poca) mi resta dentro. Ciao Ro

        1. Buongiorno Emy, siamo muri, magari ormai pieni zeppi di crepe, ma muri. Non riusciamo a parlarci anche se ci portiamo addosso tutte le nostre scritte. Fra il fare le storie e la Storia ed il piacere di ascoltare storie, ci passa in effetti il gusto e, forse, dico forse, il senso critico che ognuno di noi via via sviluppa, involve, evolve, smuove, ferma, increspa….. Forse, ogni persona crea muri o li abbatte a seconda che “il cibo”, in senso stretto o in senso molto lato, avvicini o allontani se stesso all’altro da sé. Tanto più questo gusto si estende, tanto più i muri , le piccole e le grandi guerre di tutti i giorni faranno un’altra Storia; quanto più questo gusto si restringa in monogeneri d’interesse/piacere/dovere/rito (di massa ma anche elitario, tanto più saranno le piccole dannate storie come è la più grande Storia che le contiene, contenitore che ancor più le sforma .

          Anche per questo i guardiani del mondo, che sanno tutto ma proprio tutte delle masse e delle loro dinamiche e soprattutto delle loro contro-èlite (che comunque rimangono simili alla principale o dominante, alle forme del potere dell’èlite dei padroni del mondo e dei gusti), hanno truccato anche i gusti stessi, consapevoli o meno i veicoli artistici di maggior rilievo presenti o passati, di riferimento in ogni nicchia maggiore o minore.

          Ti lascio con un’altra canzonetta e il De Gregori del tuo inizio e un altro, con una da Theorius Campus, quando lui e Venditti erano ancora integri dalle regole di cui sopra; primissimi anni 70, gli albori dei nostri cantautori, prima che il mondo entrasse definitivamente nella storia della sua agonia o nella fantascienza

          buone nuvole, Emy….

  4. @ Paolo Ottaviani

    Mi lasci dire che l’ultima risposta che ha dato ad Abate , mi ha emozionata tanto.
    Sì ,c’è qualcosa nei grandi personaggi e nelle loro opere, che va oltre la storia, direi una sacralità che resta, perché doveva essere così. E’ un così nato per tutti , per i fortunati che lo sanno cogliere, ma resta lì per ognuno di noi e per coloro che verranno.

      1. Montale, così tanto per respirare meraviglie

        I limoni
        Ascoltami, i poeti laureati
        si muovono soltanto fra le piante
        dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
        lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
        fossi dove in pozzanghere
        mezzo seccate agguantanoi ragazzi
        qualche sparuta anguilla:
        le viuzze che seguono i ciglioni,
        discendono tra i ciuffi delle canne
        e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

        Meglio se le gazzarre degli uccelli
        si spengono inghiottite dall’azzurro:
        più chiaro si ascolta il susurro
        dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
        e i sensi di quest’odore
        che non sa staccarsi da terra
        e piove in petto una dolcezza inquieta.
        Qui delle divertite passioni
        per miracolo tace la guerra,
        qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
        ed è l’odore dei limoni.

        Vedi, in questi silenzi in cui le cose
        s’abbandonano e sembrano vicine
        a tradire il loro ultimo segreto,
        talora ci si aspetta
        di scoprire uno sbaglio di Natura,
        il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
        il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
        nel mezzo di una verità.
        Lo sguardo fruga d’intorno,
        la mente indaga accorda disunisce
        nel profumo che dilaga
        quando il giorno piú languisce.
        Sono i silenzi in cui si vede
        in ogni ombra umana che si allontana
        qualche disturbata Divinità.

        Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
        nelle città rurnorose dove l’azzurro si mostra
        soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
        La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
        il tedio dell’inverno sulle case,
        la luce si fa avara – amara l’anima.
        Quando un giorno da un malchiuso portone
        tra gli alberi di una corte
        ci si mostrano i gialli dei limoni;
        e il gelo dei cuore si sfa,
        e in petto ci scrosciano
        le loro canzoni
        le trombe d’oro della solarità

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