Quelli della rivista «INOLTRE» (1996-2003): Luciano Della Mea

Inoltre n 10002

di Ennio Abate

Date un’occhiata alla discussione su “2034???” (qui).  Troverete che ruota stancamente attorno al dilemma “rifondazione o esodo”. Lo stesso che si presentò in “Inoltre”, una delle tante esperienze di rivista cui diversi di noi sul finire del Novecento parteciparono. Riflettere su questo ed altri tentativi di riviste (io penso a quelle che ho più seguito negli ultimi tempi: “il gabellino”, “Qui. Appunti dal presente”, “Dalla parte del torto”, “L’ospite ingrato”, ma altre si potrebbero aggiungere), più che a lanciare avvertimenti o appelli,  serve forse a sottolineare, al di là sia della retorica “cooperativistica” che di quella “individualistica”, l’indispensabilità dell’arduo confronto tra “dissimili”.  E’ questa tuttora – a me pare – la questione aperta – non solo qui  su «Poliscritture» (cartaceo e sito) – per quanti non si rassegnano a lavorare su temi culturali e politici né in una sorta di clausura eroica o compiaciuta del proprio ‘io’ né intrupparsi nei tanti falsi ‘noi’ continuamente riproposti  dai  mass media e dal Web.  (E.A.)

 Ho partecipato alla fondazione della rivista «Inoltre» (1996 -2003) che, edita e finanziata dalla Jaca Book, ha continuato poi ad uscire fino al n. 11 nel 2009. Sull’esperienza ho già detto qualcosa qui. Si trattò di un progetto ibrido, condotto alla spicciolata da ex militanti più o meno scontenti o in rotta con la sinistra partitica (storica e nuova) del tempo. Oscillò tra epigonismo e astratti oltrepassamenti. Il nome stesso che la rivista finì per darsi segnalava, infatti, tale ossimorica incertezza tra l’essere in (cioè dentro la realtà in mutamento) e un confuso andare oltre la più inerte e burocratica rappresentazione che ne davano i partiti “di sinistra”. Tra i partecipanti convivevano, ma in strisciante e taciuto attrito, residue speranze di “rifondazione della sinistra” e spinte all’ “esodo” da essa e dai suoi consunti schemi di lettura della società. Sembrò tuttavia che fosse possibile in quegli anni Novanta costruire almeno un luogo di discussione e di chiarimento critico che delineasse il terreno di una nuova ricerca. L’iniziale fervore dei redattori e dei numerosi collaboratori fu alimentato da Giuseppe Muraca di Catanzaro. Reduce come tanti dalle esperienze extraparlamentare degli anni Settanta, dopo il fallimento di un suo tentativo di fare una rivista d’impronta blochiana fin dal titolo, Utopia concreta  (ne darà lui stesso prossimanente testimonianza su questo sito) per l’indisponibilità a continuare dell’editore Pullano, aveva trovato il sostegno di Luciano Della Mea e, tramite lui, della Jaca Book. Vennero così costituite in un’ottica collegiale tre redazioni “regionali”: una nel Centro Italia facente capo a Luciano Della Mea e ai suoi amici toscani, una nel Sud coordinata da Giuseppe Muraca e una al Nord a me affidata. A Milano, nella fase di avvio, ai primi incontri mensili della redazione numerosa e attiva  fu la presenza di  ex militanti, quasi tutti insegnanti. Già nella fase di rodaggio, però, il progetto s’inceppò. Inaspettata,  arrivò, da parte di Luciano Della Mea e della Jaca Book l’imposizione di Ivan Della Mea, fratello di Luciano, a direttore responsabile della neonata rivista. Rotto così quasi da subito il patto iniziale, Giuseppe Muraca, che più si era speso nella fondazione della nuova rivista,  si dimise dalla direzione. Io  accettai  di restarvi, malgrado il brutto segnale, scommettendo sulle potenzialità di una “collegialità ridotta”: quella della redazione “milanese” che mi pareva agguerrita e vivace. Speravo che si potesse praticare ancora un confronto – arduo certamente – con i fratelli Della Mea e la Jaca Book.  Ritenevo che col tempo l’aumento delle collaborazioni, una selezione accurata dei testi da pubblicare e  avrebbe potuto forse consolidare un gruppo di lavoro intellettuale serio. Portai avanti testardamente  questo tentativo fino al 2003. Poi presi atto sia dell’ostilità pervicace nei miei  confronti sia di Ivan Della Mea sia del tiepidissimo avvallo alle mie iniziative  non solo della Jaca Book  ma anche di molti redattori “milanesi” e me ne andai. La rivista continuò  sempre più in sordina, mal distribuita e poco promossa pubblicamente e chiuse defintivamente dopo la morte di Ivan Della Mea.

Difficile è capire le ragioni  del fallimento. Gelosia e diffidenza (umana e politica) dei Della Mea e dei dirigenti della Jaca Book nei confronti  degli ex sessantottini che si erano coagulati attorno a una impresa che per loro doveva procedere nel solco della tradizione storica e consolidata “di sinistra critica” o “di sinistra cattolica”? Sfiducia da parte di Luciano Della Mea in particolare nella forma di lavoro culturale  su base “collegiale”, estraneo alla sua esperienza e forse alla sua formazione? Tra i fattori che misero in crisi sul nascere l’esperimento dovettero esserci anche diffidenza  e imbarazzo da parte nostra  a collaborare con una  casa editrice che, se non più emanazione  diretta  di “Comunione e Liberazione”, comunque restava saldamente legata alle gerarchie ecclesiastiche.

Oggi che la crisi della sinistra (e dell’idea di comunismo, di cui allora ancora si parlava) è precipitata, pubblico parte dei carteggi e degli appunti riguardanti la prima fase di «Inoltre». Non per scrivere la storia della rivista. Non avrebbe senso fare storia di un noi  che rimase una finzione, come  purtroppo succede in molte riviste che presentano esperienze eterogenee  come fossero di un gruppo coeso. «Inoltre» anzi fu la dimostrazione di quanto era vana (e vanitosa) la mitologia della cooperazione paritaria tra intellettuali, che fu di un certo ’68. Credo perciò – questa è l’ipotesi di lavoro  che guida la mia personale rivisitazione “esodante” dell’esperienza di «Inoltre» – più utile cercare  nel suo retrobottega: nei carteggi e negli appunti collaterali al lavoro ufficiale della redazione piuttosto che negli articoli usciti sulla rivista. Perché lì si trovano spunti  meno perentori, più problematici, più consapevoli del crollo della Grande Causa e della necessità di non  tornare a qualche illusoria “Itaca di sinistra”.

Non avendo ancora il nulla osta per la pubblicazione delle lettere a me spedite da Luciano Della Mea, pubblico per ora in questa prima puntata otto delle mie assieme al ricordo riepilogativo della sua figura steso nel 2003.

 

Quelli di «Inoltre»: 1.  Luciano Della Mea

PRIMA PARTE: LETTERE DI ENNIO ABATE A LUCIANO DELLA MEA

1.

26 maggio ‘96

Caro Luciano,

                     con un po’ di ritardo cerco di avviare questa nostra corrispondenza “laterale” rispetto alle occasioni d’incontro offerte dalla rivista (in faticosa gestazione…).

Della tua lunga e complessa esperienza conosco cose frammentarie di un passato ormai “fossile”. Ricordo di aver letto tuoi interventi su NUOVO IMPEGNO e, forse, GIOVANE CRITICA attorno al ‘67-’69, quando 28enne (sono del ‘41) lavoratore-studente (studi letterari ed artistici interrotti, telefonista di notte alla SIP, con “responsabilità” familiari materialissime: una moglie, ex operaia, immigrata come me, e due figli piccoli) scoprivo la Politica e tentavo un “apprendistato” a tappe forzate, “sul campo”, nella giungla gruppettara di Milano.

Poi ho letto attorno al ‘78 – quando già declinavano le speranze di conciliare tensioni individuali e spinte collettive – la tua LETTERA DI UN IMPAZIENTE a David Cooper. [Ho ripreso quel libretto-sfogo (nel senso migliore) in queste ultime settimane e ci ho ritrovato un’attenzione oggi perduta alle sofferenze degli individui e un tentativo di afferrare dei nodi esistenziali laceranti, sia pur districati affannosamente dal piano dell’ideologia e del linguaggio “di sinistra” di quegli anni.]

Forse, scrivendoci, ritroveremo altri punti di raccordo o almeno di confronto: persone importanti che abbiamo incrociato, problemi irrisolti che ci assillano ancora oggi, ecc.

Quanto alla rivista, vorrei che davvero vi potesse confluire il “concentrato” di molte esperienze “vecchie” (le nostre…diciamocelo senza illusioni di continuismo..) e i fermenti genuini di giovani intellettuali. Ma ritengo che ci siano problemi di affiatamento fra i collaboratori, di discussione sul senso dell’impresa ( tutto il nostro almanaccare improvvisato sul nome da dare alla rivista è per me sintomatico di questa difficoltà..), di organizzazione della cooperazione intellettuale ancora troppo sommersi o enunciati frettolosamente. Vorrei che spendessi la tua autorevolezza in questa direzione.

2.

Cologno Monzese 18 agosto ‘96

Caro Luciano,

                 sono tornato a Cologno dalle vacanze verso il 10 agosto e ho potuto leggere la tua lettera del 18.7. Ho fatto anche una prima e veloce lettura della tua raccolta di poesie, “La notte è dolce”.

Ti scrivo, dunque, dopo che è in parte sbollita l’amarezza procuratami dalla riunione del 27 luglio a Pisa e, anche per evitare che il fantasma autoritario e capriccioso del padre-fratello maggiore si sovrapponga al Luciano reale (o meno fantasmatico), con cui mi apprestavo a collaborare.

La tua lettera e le tue poesie m’incoraggiano a farlo. Ma non posso trascurare i giudizi sferzanti e il tuo stile un po’ monocratico che ha mandato all’aria la possibilità di confrontarci.

Provo perciò a dirti sia quanto trovo vicina la tua scrittura (i toni aperti della tua lettera e quelli disperati e a tratti acri delle poesie) sia quanto mi sconcertano i tuoi interventi politico-redazionali faccia a faccia. Su questi ultimi – scusa la mia testardaggine – insisto a ragionarci sopra e spero di toccare meglio – anch’io per iscritto – il “nocciolo” non personale dell’attrito emerso fra noi.

Lo sintetizzo così:

Una visione “plurale” del progetto-rivista richiede un’organizzazione delle redazioni e dei collaboratori (e una direzione) altrettanto e coerentemente “plurale”. La prima idea di “direzione collegiale” rispettava questa condizione. La tua ultima proposta (Cini[1]+sua moglie, nella lettera inviatami; Cini+Ivan[2], nella riunione del 27 luglio) ha un altro segno (“para-leninista” direi…); abolisce cioè il percorso “collegiale” e lo sostituisce con uno “centralistico”.

Lascio volutamente sullo sfondo il disagio personale con cui ho vissuto i precedenti della riunione del 27 luglio. Io, che ero stato tirato dentro la direzione per ultimo e con riserve (mie), ho avuto immediata l’impressione di trovarmi senza interlocutori proprio in direzione. Mi aspettavo un contatto da parte tua come condirettore più autorevole. Tardando questo approccio e conoscendoti ancora poco, ho sollecitato Muraca[3], che mi ha suggerito solo di cominciare a “raccogliere materiali”, mentre mi pareva che ci si dovesse incontrare, vedere, sentire, delineare uno schema di lavoro da direzione (e in tal senso andavano le mie riflessioni che ti ho poi spedito…). Ho cercato comunque – intervenuti impedimenti vari per Muraca – di metter su il gruppo “settentrionale”, comunicandovi l’andamento del lavoro. E accettato, senza recalcitrare, la “cooptazione automatica” di Monforte[4] in direzione. Ma mi aspettavo, alla fine, un vero incontro risolutivo della direzione collegiale ufficiale.

A Pisa invece – senza anticipare nulla a me e a Muraca (ti ripeto che ho letto la tua lettera del 17.7 solo al ritorno dalle vacanze…) – tu sei venuto per avallare una svolta non discussa preventivamente nella direzione collegiale formalmente in vigore.

E neppure mi sono opposto per principio alle candidature di quella che è una nuova direzione. Volevo – come ho tentato di fare – discuterne. E, ancora adesso, questo soltanto mi preme.

Può darsi che la tua proposta sia più realistica e che la rivista possa essere plurale anche senza una “direzione collegiale”. Ma perché non consultarci prima e sentire il nostro parere? Può darsi che Cini sia più equilibrato e Ivan più comunicativo. Ma perché adontarsi, se ti faccio notare che di equilibrati, comunicativi e organizzatori oggi ce ne sono tanti in un giro più ampio di quello a te più noto? Può darsi che parlare di “esodo” dalla “sinistra” ti allarmi, ma come negare – se siamo alla ricerca di “u topos” – il bisogno di sconfinare dai tracciati tradizionali?

In tutta sincerità ti dico che dalla riunione pisana ho ricevuto la sgradevole impressione che la direzione collegiale ufficiale fosse rimasta a bagnomaria, perché un’altra direzione, non ufficiale e in ombra, quella Luciano Della Mea-Bagnoli[5] (supportata dal legame Biblioteca Serantini[6]-Jaca Book), l’aveva esautorata o declassata.

Non dirmi che si tratta di “cazzate”. Ci sono anche in un piccolo progetto di rivista decisive questioni di potere o micropotere che danno il segno distintivo (gerarchico o tendenzialmente egualitario) della comunicazione umana e costituiscono la sua sostanza politica. C’è una bella differenza, infatti, fra una direzione collegiale in cui magari a turno uno dei direttori delle redazioni di zona opera le scelte “ultime”(sempre tecnico-politico-culturali e mai solo tecniche!) e una direzione centrale e in apparenza “solo organizzativa” (Ivan+Cini nel caso..) sovrapposta alle redazioni zonali. (C’era una bella differenza fra soviet e partito, detto in lingua morta a te ancora nota!). Ora non voglio recriminare e basta. Avevo sempre pensato che, nel trapasso da Utopia concreta a “u topos” (se questo dovrà essere il nome della rivista…non più facile o meno letterario – per inciso – del mio poliscritture), si “cambiava musica” ; e avevo accolto la sfida senza drammi e con curiosità.

Diciamocelo ora apertamente: esistono un primato culturale pisano e un primato economico-culturale della Jaca Book, che nella prima fase di questa travagliata preistoria della rivista erano in una nebbiolina ideologica e oggi prendono corpo nella tua proposta. Questa per me è la vera ragione dell’attrito fra noi e del “cortocircuito” verificatosi il 27 luglio a Pisa. Cini mi ha scritto, parlando di “strappo” e di esigenza di “ricucire”. Sono pronto e ho smaltito il colpo. Non farò il “condirettore offeso” che nobilmente sbatte la porta. Ma ribadisco la mia preferenza:

sono per un’organizzazione a rete delle redazioni (oggi tre e zonali, domani non so quante e magari locali), per una direzione collegiale (plurale), per la rotazione della funzione di coordinamento, comunque tecnico-politico-culturale fra i vari punti della rete (per adesso una volta al settentrione, un’altra al centro, un’altra al sud).

Se tale scelta appare “utopistica” (ma sarebbe paradossale per “u topos”!) e si scegliesse la via da te proposta (direzione unitaria-omogenea-centrale. dellameana-jacabookana insomma) provvisoriamente o in via definitiva, sarò semplicemente un collaboratore attento e disponibile, ma non (più) un condirettore dimezzato. Alla nuova direzione chiederò non dichiarazioni di principio sull’autonomia di questa o quella redazione, ma sempre le scelte organizzative che equilibrino politicamente i rapporti fra le redazioni e discussioni a tutto campo, non frettolose e senza anatemi sui testi e le questioni che i collaboratori sollevano. A te e a Bagnoli la scelta, perché vi considero decisivi.

Su “La notte è dolce”, del cui dono ti ringrazio […], eccoti le mie prime, telegrafiche impressioni di lettura.

Ci trovo una disperazione profonda, uno stacco non cinico dal mondo, un sincero bisogno d’amicizia e d’amore e incertezze e dolcezze d’infante, tremiti cattolici (Notte in chiesa). Mi ha colpito la sensibilità per l’acqua (marina, fluviale…) e la presenza morbida (a pastello) della campagna e dei suoi ritmi e miti. Ci sento un abbandono pacificato ad una natura umano-materna, un aggirarsi birbante e disponibile in un recinto di amori, affetti, amicizie. La storia ostile e gli uomini con le loro porcate mi paiono allontanati, ridotti a cifra di pensiero. Resiste ancora in profondità un senso fermo dello scorrere del tempo (Capodanno 1983). Ci trovo anche tanta profonda leggerezza (Carnevale a Marina), una spinta narrativa pavesiana, tersa ma più raddolcita (25 anni dopo) e mosse spiazzanti che sanno andare dall’intimismo casalingo al cosmico e tengono fuori o “a cuccia” l’angoscia (Tutto va, 88), esorcizzando il torbido e la morte con la festa e l’ironia.

Complimenti, dunque. Ma non dirmi – permettimi quest’ultima frecciata – che “scrivi come parli”!

Sperando di potermi sintonizzare con te sia sul piano politico che poetico (e non solo su quest’ultimo, che pure resta una risorsa nel caso dovessimo ancora fare scintille sul primo…) ti abbraccio anch’io.

 

P.s.

In una prossima occasione ti farò avere alcune mie poesie…

 

3.

Cologno 9 ott.’96

Caro Luciano,

                     rispondo con un certo ritardo alla tua del 18 settembre scorso. Ho iniziato scuola… e si sente. Ma nel frattempo mi pare che ci siano stati avvenimenti favorevoli per lo sblocco della nostra rivista e sono contento.

L’incontro alla Jaca Book di Milano con Marco Cini e Ivan è stato cordiale e fruttuoso. Ma su questo saprai già tutto. Monforte, invece, che mi aveva spedito i documenti del suo “progetto-coordinamento”, che gli avevo commentato puntigliosamente e con rispetto riaffermando la mia volontà di confronto e collaborazione, mi ha risposto con una lettera abbastanza secca e ha trovato puramente “diplomatica” la mia attenzione. Non so che dire. Sento in lui una chiusura gelosa e risentita…

Quanto alle mie poesie, grazie per l’apprezzamento. Per la pubblicazione, non so. Muraca le lesse a suo tempo. Luperini era nella commissione esaminatrice del premio “Laura Nobile” assieme a Fortini ed altri, quando fui finalista. Raboni non lo conosco di persona e a lui non ho mai chiesto udienza.

Sto collaborando, qui a Milano, con Giancarlo Majorino, che mi ha letto, apprezzato e sarebbe disponibile a presentarmele. Ma con gli editori non ho dimestichezza e con la Jaca Book di Bagnoli il discorso si è avviato sul lavoro collegiale della rivista e m’imbarazza spostarlo sulla mia produzione letteraria “in proprio”.

Aspetto notizie migliori sulla tua salute e spero che ci rivedremo fra non molto per l’incontro di direzione.

Un abbraccio

 4.

 Cologno Monzese 13 dicembre 1997

Caro Luciano,

                     ma perché una “rivista di studio” non potrebbe essere uno “strumento di lotta”?

Io non percepisco ancora bene che impressione ho fatto con i miei interventi. Mi avrete scambiato per un “professorino” come si diceva una volta), un “topo di biblioteca”, un “divora-libri”?

Ma se come insegnante sono stato inchiodato alle esigenze terra terra di studenti delle scuole medie e superiori o di gente che vive in periferia dal ‘70 in poi!

Per il resto nessun volo nelle alte sfere della cultura mi è stato mai permesso dalle mie vicende familiari e dalle mie condizioni economiche. Quindi lasciamo stare…

Quando parlo di “rivista di studio” e non vedo contraddizioni con la rivista “strumento di lotta”, voglio dire che per me studiare ha significato sempre conoscere dentro una pesante situazione quotidiana, che è di disagio, di insofferenza per pregiudizi e dogmi (che non vengono solo dall’esterno, ma possono affiorare anche fra amici e compagni e anche nella mia mente…). Nel mio sforzo di studiare (nel tempo che strappo alla stanchezza, al far la spesa, al cucinare, al lavarmi i piatti, stirarmi le camicie e dar una mano ora a Monica, ora a mia figlia, ora ad amici o amiche, ecc.) c’è sempre già la “lotta”. La vorrei meno isolata, più coerente, diffusa. Ma qui intervengono non solo gli altri (con le loro idee, paure, fissazioni – a volte spiegabili e superabili, a volte oscure quanto le mie!) , ma anche le mille sfaccettature di una “realtà” spesso indecifrabile, in mutamento continuo, sfuggente ai nostri concetti e desideri.

L’assetto direzionale della rivista. Non convince neanche me e, per il momento, anch’io ho preferito non “sprizzare altre scintille” e lavorare all’ampliamento della rete redazionale (a Milano siamo già una decina di persone con un soddisfacente ritmo di incontri e di discussione). Male che vada avremo permesso ad un po’ di gente di discutere, di “farsi le ossa”, di porsi delle domande meno banali di quelle che si trovano in giro.

Mi sono lamentato – e non penso di essere “distruttivo” per questo – della scarsa comunicazione fra “condirettori”. La “direzione collegiale” ( ma io l’intendevo funzionante, comunicante!) l’ho difesa perché mi pare che siamo tante “schegge” di una vecchia storia finita e non esiste né il “collante” né un movimento su cui davvero puntare. Una fase sperimentale mi pare, dunque, necessaria (sperando che la Jaca Book non si stanchi troppo presto di sostenerci!).

Se tu hai un’altra ipotesi, fissala in un documento, in una lettera aperta o altro e ragioniamola insieme. Io chiedo soltanto di poterne discutere a fondo e apertamente, non a scatola chiusa e – per carità – non datemi dell’”intellettuale” ( visto che lo siamo tutti…) solo perché insisto a far domande o a porre dubbi.

Ti faccio sapere che, il 5 dicembre, io da Milano e Muraca da Catanzaro abbiamo presentato «Inoltre» a «Radio onda d’urto» (una radio che raggiunge il milanese, il bresciano e il cremonese). Avevo preavvertito Marco Cini, ma all’ultimo momento non ha potuto partecipare e non ho fatto in tempo né a chiamare Ivan né te. Nulla ho potuto per il momento con la Bruna Miorelli di Radio popolare. L’ho inseguita per settimane. Le ho fatto avere la rivista. L’ho richiamata. Ancora non l’aveva avuta. L’ho richiamata a casa e, avendola trovata “con un diavolo per capello” (sua espressione) – mi ha chiuso il telefono in faccia. Speriamo che siano solo diavoli!

Ho fatto inviare “Inoltre 1” a Gian Carlo Pozzi. Proverò a cercare Venegoni e a procurarmi il libretto su «La Cittadella»[7].

                                                               Un caro saluto

5.

Cologno M. 6 gennaio 1998

Caro Luciano,

                     innanzitutto buon anno e grazie per il riconoscimento di una certa affinità nelle nostre “pratiche quotidiane”. Se stessimo più vicini e ci potessimo frequentare di più, forse parleremmo a fondo e con lo stesso calore sia delle nostre esperienze esistenziali sia della rivista. Vediamo di farlo, malgrado la distanza, attraverso le nostre lettere.

Ancora sull’assetto direzionale di «Inoltre». Tu lo trovi “praticamente troppo complicato”. Può darsi. Ma io ho lamentato una scarsa comunicazione innanzitutto fra i “condirettori”; e sul piano pratico non penso che sia difficile superarla. Basterebbe scriverci di più (come – tirando un respiro di sollievo – sta accadendo fra me e te) oppure collegarci con la posta elettronica. Le cose si semplificherebbero; né la spesa, secondo amici che se ne intendono, è insopportabile. Il computer ce l’abbiamo e con altre 2-300mila lire a testa per il modem potremmo leggere in tempi stretti articoli e saggi che oggi lacunosamente e frettolosamente circolano appena prima della pubblicazione del numero. Ne riparleremo.

Non sono stato neppure ostile al “vertice organizzativo, non culturale” (Ivan+Cini+ Guidetti[8] con grafica e stampa a Sesto F.-Firenze) che tu riproponi. In pratica – mi pare – è già funzionante e ad esso non ho mosso più obiezioni, malgrado alcune mie riserve (che avevo espresso, in modo polemici forse, nella fase di gestazione della rivista) sulla separazione fra “organizzazione” e “cultura” e sul “toscanocentrismo” latente nella proposta.

Il vero problema da chiarire però è il programma di Inoltre o il senso che la rivista può avere nell’Italia prodian-pidiessin-bertinottiana d’oggi e con l’incombere di tante tragedie “globalizzate” (kurdi, Algeria,…).

La “rete redazionale la più ampia e capillare possibile” per l’Italia (e non solo) va bene; e mi pare che, quando mi scrivi che “la fase sperimentale è inevitabile”, sei d’accordo anche con la mia convinzione che una certa pluralità di spinte, che possono convergere su «Inoltre», vada accolta e fatta maturare.

Ma – problema praticissimo – con quale criterio o criteri le redazioni locali o i responsabili di esse (condirettori o meno) o il “vertice organizzativo” sceglieranno gli articoli o i saggi che perverranno (o li commissioneranno: ipotesi per me da non scartare…)?

Tu nel “ruolo di consulente” che ti sei scelto e noi come redattori locali dovremmo rispondere a questa ricorrente domanda, che mi è stata più volte posta dai collaboratori che si stanno aggregando qui a Milano.

Te l’ho posta anch’io nella mia precedente lettera in questa frase:

Se tu hai un’altra ipotesi, fissala in un documento, in una lettera aperta o altro e ragioniamola insieme. Io chiedo soltanto di poterne discutere a fondo e apertamente, non a scatola chiusa e – per carità – non datemi dell’”intellettuale” ( visto che lo siamo tutti…) solo perché insisto a far domande o a porre dubbi.

Ti pregherei di non eluderla nel nostro “rapporto confidenziale”. Ma proporrei che al più presto ne discutessimo apertamente, invitando le redazioni locali o i collaboratori dispersi o in pectore a pronunciarsi. Si potrebbero stendere degli appunti e arrivare ad una qualche assemblea che sintetizzi un minimo di progetto sperimentale per i prossimi numeri di «Inoltre». Vorrei anche che assieme elencassimo i nomi di autori di riferimento o una serie di testi interessanti che già leggiamo individualmente e sui quali sarebbe bene confrontarsi assieme in qualche incontro seminariale anche una sola volta all’anno (Farei – da parte mia – i nomi di Revelli, Bologna, Rossanda, Agamben, Virno… solo a titolo indicativo e per svelare i miei “orecchiamenti” o “preferenze”….)

Un’ultima fraterna “rimostranza”: ma come, vieni a Milano con Pannocchia[9] per una mattinata sull’opera di Garzelli[10] e non me lo fai sapere (né Guidetti mi preannuncia l’iniziativa…)?

                                                                 Un abbraccio

6.

Cologno M. 1 feb. 1998

Caro Luciano,

                     mi auguro che nel frattempo la tua bronchite sia stata debellata e che questa mia ti trovi ben disposto verso il mondo (e il sottoscritto).

Scriverci di più non è facile, si fa chiarezza incontrandoci, parlandoci, disputando”…

Io continuerò a scriverti chiarendo quel che posso per lettera, ma sono disposto – nei limiti del mio tempo libero – anche a venire personalmente a Torre Alta, se la cosa potesse davvero servire a superare gli ostacoli di «Inoltre»(o semplicemente ti potesse far piacere colloquiare con me di ”altro”…).

Gli ostacoli per la rivista ci sono davvero e te ne vorrei parlare pacatamente e lealmente.

“La soluzione Ivan, Cini, Guidetti” che a te pare tanto pratica, a me lo sembra davvero poco.

Non dubito che Ivan sia intellettuale noto e abbia numerosi contatti in Italia e all’estero; e che Guidetti “sta a Milano e anche lui gira”.

Le mie principali obiezioni (collegate fra loro) sono queste:

– non è garantito che da tutti questi loro contatti diretti (già ti dicevo che oggi molti contatti culturali una rivista li può tenere telematicamente) nascano gli stimoli giusti per maturare e far affermare una rivista con una sua autonoma e originale fisionomia;

– essi sono presi al 90% dai loro compiti di direttore o presidente dell’Istituto E. De Martino[11] l’uno e da quelli della casa editrice Jaca Book l’altro, al punto che le questioni di INOLTRE finiscono in secondo o terzo piano e devono essere affrontate nei ritagli di tempo.

Si rischia di lavorare a una rivista vagone di altre locomotive culturali e condizionata dai loro ritmi o a volte depositata in binario morto per impellenti ma estrinseche urgenze delle locomotive.

Per esemplificarti praticamente: Guidetti si era impegnato a partecipare alle riunioni dei milanesi che facciamo a ritmo mensile nella sede della Jaca; ma poi s’è visto quasi nulla e, proprio sulle cose pratiche (comunicazioni interdirezionali, smistamento dei materiali, scambio di giudizi sugli stessi, presentazioni pubbliche di«Inoltre», ecc.) è diventato sempre più irraggiungibile. (A un certo punto abbiamo temuto che il numero 1 non uscisse più, tanto si era volatilizzata la sua presenza e, ancor oggi, si stenta a parlargli anche soltanto per telefono: me lo conferma in questi giorni lo stesso Muraca, costretto, dopo vani tentativi, a telefonare a me per sapere almeno se il dischetto coi testi meridionali è arrivato alla Jaca Book!).

Di Ivan e dei suoi impegni al De Martino o in altre situazioni, senza essere in grado di esemplificare, si può dire quasi lo stesso.

Ora ammetto che anche noi (io, Muraca, gli altri redattori) collaboriamo nei ritagli di tempo. Ma – devo dirtelo schiettamente – essi sono e potrebbero diventare decisamente più ampi (dal punto di vista oggettivo e soggettivo) se si facesse chiarezza sulla direzione di «Inoltre». (Personalmente, a settembre io vado in pensione come insegnante e volentieri a certe condizioni di chiarezza nei rapporti fra noi e sull’impostazione della rivista lavorerei gratuitamente mettendo a disposizione molto più tempo di adesso).

Quanto a Cini gli riconosco in parte le doti che tu gli attribuisci, ma anche lui ha i suoi impegni e non potrà supplire da solo alle carenze oggettive di Ivan e Guidetti.

Restano poi – più delicati e sicuramente meno pratici – altri problemi:

– quello delle nostre “soggettività”, della cooperazione o dell’attrito fra individualità diverse e complesse. Ne abbiamo avuto assaggi durante le riunioni pisane. Bisognerebbe lavorarci sopra con pazienza e a tamburo battente. A me pare, invece, che, passato l’entusiasmo dei primi incontri, siamo diventati tutti guardinghi e diffidenti, rintanandoci e riducendo allo stretto indispensabile la comunicazione inter-direzionale, creando un pesante vuoto di direzione.

Questo ostacolo “psicologico” aggiuntivo mi ha personalmente fatto soffrire.

Con te almeno la comunicazione è ripresa; i rapporti vanno migliorando e ne sono contento. Ma Cini con me si limita a telegrafiche comunicazioni di servizio; e Ivan, che ho cercato telefonicamente qui a Milano e poi fino a Sesto Fiorentino, ricordandogli l’invito a cena a casa mia allo scopo di “limare” i nostri dissensi, l’ha rimandata senza troppi complimenti a data indefinita e non si è mai più fatto sentire.

Ho cercato di smaltire da solo la mia delusione e di mantenere, malgrado questi brutti segnali, la postazione milanese. Ma quanto può durare così?

I compagni aggregatisi sono volenterosi, ma anche abbastanza esigenti. Devo dirti che è forte e diffuso anche fra loro il fastidio per i tempi vuoti, i rimandi o l’incertezza su ipotesi affacciate (si era parlato di incontri seminariali), l’attesa insoddisfatta di indicazioni precise dalla direzione sul senso e la prospettiva politico-culturale di «Inoltre». Cresce l’impressione di un congelamento, di una chiusura in freezer delle energie aggregate o in arrivo.I redattori degli inizi partecipano, altri collaboratori si aggiungono. Ma circolano battute sulla prevedibile durata di INOLTRE.

– quello delle intenzioni dell’editore Jaca Book, a cui tu pur accenni. Per me sono rimaste un po’ misteriose. Condivido anch’io il rispetto culturale per Bagnoli e gli altri e non mi sono fatto fermare dalle chiacchiere (“Ma la Jaca non è di Comunione e Liberazione?”). Ho cercato nell’ultima riunione pisana di spingere ad un confronto aperto, chiedendo che si dichiarassero e potessero confrontare le nostre diverse culture di riferimento. Ma è sembrato che volessi immobilizzare ciascuno alla propria storia e tenercelo a lungo in posa come facevano i fotografi dell’Ottocento!

La scelta della rivista/libro a 28mila lire mi pare poi da rivedere o riaggiustare: il costo è davvero proibitivo per l’area sociale a cui dovremmo rivolgerci e sono in attesa di sapere come vanno vendite e abbonamenti. Queste sono scelte della Jaca Book, ma il temibile patatrac potrebbe venire anche da qui.

– quello delle tue intenzioni (che so determinanti nella nostra discussione, anche se ti sei ritagliato il semplice ruolo di consulente). Mi dici che preferiresti un «Inoltre» che, accanto alla parte monotematica, riprendesse e desse respiro nazionale e internazionale all’esperienza ultraventennale de IL GRANDEVETRO.

Però io credo che oggi il vero problema della nostra rivista (che non sappiamo risolvere..) non sia solo o prevalentemente quello di dar respiro nazionale o internazionale a valide esperienze già esistenti e con una certa storia alle spalle: locale o regionale o internazionale. (E’ il caso della Jaca Book). Siamo in una tempesta infernale (La globalizzazione non è uno scherzetto. E anche i localismi sono spaventosi): ogni evoluzione, non dico placida ma semplicemente ragionevole fondata su una relativa continuità, mi pare improbabile anche per una rivista.

Non te la prendere, se ti dico che dobbiamo metterci “alle spalle” non solo l’esperienza dell’UTOPIA CONCRETA (sicuramente effimera), ma anche IL GRANDEVETRO troppo toscanocentrico. Io pure, affezionato alla mia (limitata, ma non disprezzabile) esperienza periferica a Colognom, so che devo riadattarla del tutto. E lo stesso terzomondismo della Jaca Book, che pur può apparire già d’ampio respiro, deve essere rivisto.

Dobbiamo tutti entrare in un flusso più ampio e sconvolgente, in gran parte da decifrare.

Non mi dare del matto. Questo mi pare il compito indispensabile che una rivista oggi deve affrontare, se non vuol vivacchiare all’ombra o nelle pieghe delle grosse istituzioni politico-culturali in disfacimento o avviate a ristrutturazioni europee e mondiali distruttive di lotte e culture di tutto un secolo di movimento operaio (riformista o rivoluzionario).

Secondo me dobbiamo collegarci ad alcuni precisi punti alti di riflessione e di pratica(Quali? Per i pensatori, alcuni nomi, in vista di un elenco preciso e ben ragionato, li ho accennati nella mia precedente lettera e negli articoli proposti…) e scuotere o ripensare dalle radici le reti locali, regionali o internazionali in cui siamo inseriti.

Io vorrei una «Inoltre» che davvero sia in (dove ci troviamo e spesso siamo costretti a stare), ma vada decisamente e coraggiosamente oltre (in senso non solo geografico-politico, ma culturale, quindi rispetto alle tradizioni in cui siamo cresciuti come “italiani”: cattolica, socialista, comunista, liberale).

Non dico ciò per rifiuto del valore dei contatti diretti, delle esperienze locali, regionali o internazionali significative (ma di un’altra epoca) o per improvvisa infatuazione verso la telematica o la mondializzazione (Lo dicevo chiaramente nel mio editoriale sul n.1). E so anche di parlare con una certa “astrattezza” che infastidisce gli spiriti pragmatici. Ma ci sono fatti (soprattutto l’incalzare delle tragedie e del disfacimento sociale) e c’è l’imporsi prepotente di tendenze culturali gerarchizzanti e misticheggianti (postmodernismo, new age) che mi turbano e mi inducono ad insistere nel sollecitare i pochi interlocutori concreti che posso raggiungere.

Concludo con alcune considerazioni sull’esperienza de «La Cittadella», che ignoravo.

Ho letto – tramite Mangano[12] – il libretto che raccoglie gli interventi commemorativi e lo spontaneo confronto che ho abbozzato fra quella precaria iniziativa del primo dopoguerra e questa altrettanto precaria di «Inoltre» mi fa rabbia e malinconia.

Possibile che le spinte innovative debbano essere sempre così facilmente tenute ai margini e ricondotte a Ordini e Fini Superiori!

Le possibili analogie e differenze fra due esperienze così lontane nel tempo mi confermano però sulla discontinuità introdottasi con la sconfitta delle spinte emerse attorno al ‘68-’69.

Siamo davvero in un’altra epoca.

Se la spinta resistenziale e antifascista allora immetteva agevolmente questi intellettuali di Bergamo in correnti culturali vivificanti, offrendogli sponde in riviste solide e innovative sul piano culturale (Il Politecnico, Stato moderno, ecc.), noi ci dobbiamo muovere in un paesaggio di macerie della Tradizione di Sinistra.

Il dialogo coi cattolici, che allora poteva essere condotto, malgrado le ostilità delle gerarchie, quasi alla pari (perché una Tradizione laica esisteva ed era forte) oggi è impari e difensivo (Vedi Fidel Castro col Papa).

Allora una rivista aveva un peso ancora notevole nella comunicazione complessiva di una società ancora “nazionale”; oggi la sua funzione è ridimensionata dalle tecnologie e deve fare i conti con uragani informativi che azzerano il lavorio di formichine a cui siamo costretti.

Quanti sconvolgenti mutamenti!

E tu che ne hai visti più di me, forse sei più disincantato o diversamente inquieto del sottoscritto.

Che dire? Mi auguro che la tua saggezza possa ancora dialogare fruttuosamente con la mia inquietudine.

                                                   Con stima e affetto

7.

Cologno M. 27 feb. ‘98

Caro Luciano,

                   rispondo alle tue del 9 e 14 feb. con ritardo, perché anch’io mi sono beccato un po’ d’influenza, assistendo figlia e nipotina ammalate.

Scirocco[13] non ho avuto modo di rintracciarlo, ma lo ricercherò al più presto (Ti restituisco anche la sua lettera, come richiedevi). Per l’invio di «Inoltre» ad Arfé[14] ho interessato Guidetti, a cui pare che la copia sia già stata inviata. (Controllerà). Leggerò il libretto di Piperno[15], che mi ero già ripromesso di acquistare.

Per la direzione, quanto mi dici mi fa piacere e dà slancio ai miei caparbi sforzi per intensificare i rapporti fra tutti noi senza “perdere pezzi”. Il più tentennante e scoraggiato, in una recente lettera, mi è parso Muraca. Quanto ad Ivan, proprio ieri – e dopo parecchi patemi – gli ho scritto una lunga e meditata lettera su una sua proposta di articolo o editoriale che non condividevo affrontando lealmente anche la questione dei nostri rapporti personali. E sono in attesa di un suo segnale.

Sono d’accordo sulla proposta di editing a più mani […].

Come vedi, avendo più tempo grazie/malgrado l’influenza, ho dato sfogo alla mia passione critica su molti testi del numero 2. Non propongo che altri facciano lo stesso. Mi accontento di non veder disprezzata la mia acribia (che penso possa dare rigore alla ricerca della rivista).

Sul delicato problema di «come decidere…cosa pubblicare e che cosa scartare, rimandare, proporre di rifare…», io pure ho delle incertezze. Concordo nel partire dalla “pratica sociale” dei redattori e collaboratori. Ma essa al momento è disomogenea negli stili di scrittura, diversamente e spesso contraddittoriamente orientata nelle idee di riferimento. Fra i vari stili e le varie opinioni che circolano nelle nostre menti sui temi che affrontiamo (vedi questo della violenza) bisognerà, con cautela e senza pretendere alcuna «linea di pensiero omogenea», scegliere almeno un mucchietto di” giusti stili” e “giuste idee” che possano agevolare «il cambiamento anche ai limiti dell’utopia». E questo sarà possibile discutendo di più e in più, anche con l’«inevitabile e a volte insuperabile» attrito fra di noi.

Vorrei ritornare un attimo sulla mia frase:«Dobbiamo tutti entrare in un flusso più ampio e sconvolgente, in parte da decifrare». Tu la trovi ermetica. Può darsi. Ma a me pare che il contatto con gli altri (e le altre), appassionato o meno, c’immerga sempre in questo flusso più ampio e sconvolgente (e la tua esperienza di vita ne è una prova); e solo se vi sappiamo navigare o lasciarci a volte trasportare senza chiuderci a riccio, mi pare possibile «proteggere le lucertole.. accogliere la liberazione delle donne [Ah, sapessi quanto l’ho dovuta dolorosamente “accogliere” io!]», eccetera.

A me preme – al di là del ruolo (di condirezione o di consulente e libero collaboratore: a te la scelta) che puoi avere in «Inoltre», e come avevo già tentato nelle mie primissime lettere -, entrare in contatto con te anche per altre vie: ad esempio attraverso la scrittura e il dialogo sull’esperienza esistenziale e culturale che ciascuno di noi due – tanto distanti per formazione, generazione, ecc. – abbiamo compiuto o facciamo.

                      Un caro saluto

P.s.

Anche se non hai avuto modo di leggere i testi del numero 2 di “Inoltre”, fammi sapere lo stesso le ture impressioni o giudizi sui miei commenti.

 8.

Cologno Monzese, 14 gennaio 1999

Caro Luciano,

auguri anche a te per il nuovo anno ma soprattutto per la tua salute. Ti ringrazio per la segnalazione del progetto di rivista di Massimo Parizzi[16], che conosco di vista. Vedrò se si può combinare qualcosa anche con lui.

Ho sentito telefonicamente Marco Cini per la riunione di «Inoltre» e gli ho detto con sincerità quanto penso. Lo ripeto anche a te:

–        Esistono dei matrimoni non consumati ed esistono delle riviste (è il caso di«Inoltre») consumate già all’inizio del matrimonio;

–        Del rimando di oltre un anno dell’uscita del numero 2 io non mi sento assolutamente responsabile nemmeno all’1%, avendo fatto tutto quello che mi è stato possibile: dire con chiarezza la mia posizione a te (vedi lettera 1 febbraio 1998) e a Guidetti, cercare ogni mediazione possibile con tuo fratello Ivan, motivare a fondo i miei giudizi sugli articoli, eccetera;

–        La eventuale ripresa di «Inoltre» dipende da un chiarimento di fondo fra Bagnoli, Guidetti, Ivan e te, che siete la direzione di fatto; e non dalla direzione sulla carta, che comprende anche me e Muraca;

–        Ho preferito pertanto rinunciare alla mia presenza alla riunione del 16 dicembre, vista anche l’assenza obbligata di Muraca e aspettare decisioni chiare ed ultimative. Dopodiché deciderò che fare e ve lo comunicherò.

Malgrado il buco nero dell’esperienza di Inoltre, è mia intenzione mantenere con voi tutti, e con te in particolare, ogni rapporto amichevole possibile.

Ancora auguri e a risentirci.

 

SECONDA PARTE: MA COM’ERA LUCIANO DELLA MEA?

Luciano Della Mea, INOLTRE e l’intellettuale massa

Ho fra le mani le poche lettere che io e Luciano Della Mea ci siamo scritti. Vanno dal ‘96 al ‘99. Portano le tracce del nostro tardivo rapporto: guardingo e presto conflittuale da parte di entrambi sulle questioni legate alla rivista Inoltre (la ragione per cui ci siamo conosciuti); di solidarietà affettuosa, quando ci siamo confidati qualcosa sulle nostre famiglie, le fatiche quotidiane, le mie e sue poesie.

               La vicenda della rivista è stata per me fonte di pena, per lui di irritazione, credo. In quel 16 dicembre ’95, alla Biblioteca Serantini di Pisa, dove avviammo i lavori per farla nascere, eravamo in tanti: gli editori della Jaca Book, molti potenziali redattori e collaboratori di Pisa, di Milano e uno, Giuseppe Muraca, di Catanzaro. Luciano, grazie alla sua amicizia con il presidente della Jaca Book, Sante Bagnoli, aveva concordato con lui e Giuseppe Muraca il progetto della nuova rivista, dopo che un altro editore, Pullano, aveva interrotto al terzo numero la pubblicazione di Utopia concreta, diretta dallo stesso Muraca e a cui alcuni di noi collaboravano. C’era un certo entusiasmo in quel primo incontro. Decidemmo che la nuova rivista sarebbe stata semestrale, con un tema centrale a numero, svolto non solo in forma saggistica ma anche in testi di vario genere (poesie, racconti, inchieste), un inserto d’immagini in bianco e nero; e che avrebbe avuto una direzione collegiale (Muraca per il Sud, io per il Nord, e per il Centro Luciano Della Mea e Marco Cini, quest’ultimo come coordinatore).

Il patatrac avvenne di lì a poco: alla terza riunione, sempre alla Biblioteca Serantini, il 27 luglio ’96. Luciano propose e ribadì poi in una lettera «ai compagni della nuova rivista innominata» «un nuovo e diverso assetto direttivo della rivista» (direttore: Ivan, suo fratello, più Marco Cini). Ribaltò, cioè, senza preavviso, il percorso collegiale appena iniziato. Di fronte alle giuste (lo penso ancora oggi) rimostranze mie e di Muraca, si mostrò insofferente, testardo, sferzante nei giudizi personali e poco propenso a giustificare quel repentino cambiamento (poteva essere considerata «pletorica» una direzione a quattro, come lui affermò?). Ne venne una crisi, che bloccò a lungo l’uscita del secondo numero e portò all’abbandono mio e di Muraca. Con la mediazione di Sante Bagnoli e di Marco Cini, io accettai poi di continuare la collaborazione; ma Muraca, il più amareggiato, si ritirò.

Inoltre ha continuato ad uscire, ma è altra cosa da come l’avevamo immaginata allora. Il progetto iniziale (si pensava di creare varie redazioni locali in Italia e magari anche fuori, guadagnare collaboratori e un certo numero di lettori, farsi sentire nel dibattito culturale, ecc.) ha marciato più lento e zoppicante. E non solo a causa del clima politico pesante del nostro paese, ma forse anche perché quell’esperimento di un lavoro collegiale che in pochi difendemmo contro Luciano (magari un po’ mitizzandolo) andava tentato e non affossato sul nascere, tanto più che, se tutti concordavamo su una «visione plurale del progetto-rivista», per coerenza la direzione della rivista doveva essere altrettanto plurale.

              Non farò perciò nemmeno ora, in ossequio alla retorica che sempre s’insinua in ogni commemorazione, le lodi del Luciano Della Mea organizzatore culturale aperto e sensibile. L’esperienza di Inoltre contraddice o offusca, magari di poco, questa sua immagine. In quel momento – forse per diffidenza d’antica data verso gli “intellettuali”, per quel suo pessimismo leopardiano-timpanariano, per legami affettivi che lo accecavano – fu miope e ostile verso di noi, bistrattati intellettuali massa, che volevamo cooperare alla pari. È un obiettivo che, a partire dal ’68, serpeggia in ogni movimento forse con più insistenza che in passato e che non era certo inconciliabile col «socialismo libertario» di Luciano. Egli ci contrappose, invece, un criterio verticistico di professionalità, lo stesso che vale nelle università e nelle aziende e che vige in modi a volte caricaturali e sempre più immiseriti nelle esperienze residuali della tradizione partitica del movimento operaio (comunista e socialista).

Rileggo ancora quelle nostre lettere; e sorrido ora di fronte alle scintille del nostro dissenso. Luciano giudicò un’inchiesta che proponevo ai redattori e collaboratori troppo macchinosa (meglio un curriculum!); rabbrividì a sentirmi parlare di «esodo dalla Sinistra»; contrappose alla mia ipotesi di una «rivista di studio» per gli intellettuali di massa la sua di una rivista «strumento di lotta»; desiderava che Inoltre riprendesse e ampliasse il lavoro che Il Grandevetro faceva a Pisa da 20 anni, mentre io pensavo che dovevamo metterci “alle spalle” non solo la breve esperienza di Utopia concreta (la rivista di Muraca, che consideravo un po’ la “preistoria” di Inoltre), ma anche il toscanocentrismo de Il Grandevetro; e dubitavo anche del “terzomondismo” della prima felice tradizione sessantottina della Jaca Book. Gli scrissi: «Vorrei un INOLTRE che davvero sia in (dove ci troviamo e spesso siamo costretti a stare), ma vada decisamente e coraggiosamente oltre (in senso non solo geografico-politico, ma culturale) le tradizioni in cui siamo cresciuti come “italiani”: cattolica, socialista, comunista, liberale).Dobbiamo tutti entrare in un flusso di idee più ampio e sconvolgente, in gran parte da decifrare». E lui mi rispose, pungente, che in queste ultime mie parole leggeva «un verso di una a me incomprensibile poesia ermetica».

               Mi chiedo oggi perché ho continuato a cercare il dialogo con lui (e poi con suo fratello Ivan), malgrado i forti dissensi (di superficie e di profondità, direbbe Giancarlo Majorino), e a collaborare ancora nella Inoltre “normalizzata”. Mi rispondo: – perché fare rivista oggi è impresa da dannati, ma necessaria nel deserto barbarico che ci assedia; – per riconoscenza verso la Jaca Book («Ma non sono quelli di Comunione e Liberazione?», mi chiedevano sospettosi gli amici, appena raccontavo della nuova rivista in cantiere. Non più di tanto, gli rispondevo, e a sinistra oggi c’è di peggio…); – perché, nel tempo dell’esodo (questo d’oggi, come avevo cominciato a pensarlo…), ho imparato a marciare come singolo e non più intruppato, a non considerare casuale, ma a scavare a fondo in ogni incontro con persone reali che mi capita di avere. Inoltre è stato uno di questi incontri. Quell’esperimento – lo scrissi nell’editoriale del primo numero (estate 1997) – poteva ridursi ad «un cenacolo rissoso e lamentoso di epigoni o di pensionati della sinistra sotto l’egida di una casa editrice cattolica “aperta”», ma non era scritto da nessuna parte che non si potesse costruire un gruppo di intellettuali massa «altri» da quello che incertamente eravamo.

Ma c’è un’altra ragione. Ho continuato per una sorta di onesta “complicità proletaria” con il Luciano dall’esistenza inquieta, quello che ho sentito a me più vicino. Questo lato della sua persona (mi scrisse: «La pratica è stata prevalente nella mia vita e per lo più ha reso la cultura, il sapere, funzionale alla pratica») non compensava i limiti del militante di vecchio stampo (ma ogni militanza, anche la mia, esodante, ha addosso altri limiti storici!). Nel suo puntare all’utopia, non coglieva come inavvertitamente il suo pensiero utopico diventasse corazza ideologica, un surrogato della precedente divisa militare di cui si era spogliato. E, per strapparsi più tardi al progressismo del movimento operaio che ormai sentiva falso, scivolava facilmente in un materialismo nichilista («Ho combattuto sodo pur ritenendo, dal 1945 in poi, che la vita in qualsiasi forma non abbia senso»). Tutto questo lo so. Tuttavia nelle lettere ci sono squarci di tenerezza senile per certe analogie delle situazioni quotidiane che entrambi vivevamo o avevamo vissuto e incoraggiamenti da padre-fratello maggiore a non temere di abbandonarsi alla vita. Questi aspetti, spesso velati, della sua persona hanno sciolto il rancore che in qualche momento ho avuto verso di lui. Nella scrittura epistolare, Luciano correggeva lo sconcerto e la rabbia in cui mi gettavano i suoi interventi negli incontri di redazione. Avevo insistito per questo rapporto collaterale, anche se lo sentivo scettico: “Scriverci di più non è facile, si fa chiarezza incontrandoci, parlandoci, disputando”, mi diceva. E forse per questa sua convinzione, dopo le scintille iniziali, le lettere si diradarono e interruppero. Lo chiamavo di tanto in tanto a telefono per sentire come stava.

Poi un ultimo sprazzo. Il 13 maggio 2002, mi giunse una sua inattesa telefonata. Mi chiese dove poteva mandarmi un fax. E m’inviò il giorno seguente una poesia (Il tempo) e uno scritto su Joyce Lussu, che aveva dedicato ad un suo amico da poco morto, Giuseppe Carboni. La poesia aveva versi disincantati e disperati : « …come se/nulla più potesse accadere/ da qui al limitato orizzonte…/ Non stare a perder tempo/ per migliorare la specie/che non può diventare che peggiore./ Dalle nei suoi esemplari direttamente conosciuti/ un buffetto di affetto». Nel leggerli, sentii di misurarmi con uno che mi precedeva lesto verso la morte.

M’interrogherò ancora sulle ragioni del mancato incontro politico e di quel troppo tenue rapporto d’amicizia con Luciano Della Mea. Ho sempre pensato che fosse una conseguenza della sua esperienza militare, che perciò egli somigliasse a mio padre e ad altri di una generazione che ha trascinato in mezzo a noi, avendola iscritta nella propria carne e nella propria psiche, i segni atroci della Seconda guerra mondiale. (Tratti di durezza simile, anche se più “coltivata”, li avevo scorti in Fortini). Forse insistendo a contrastarlo, a controbattergli, a cercare un dialogo su un nuovo terreno, come avevo fatto all’inizio di Inoltre, si sarebbe smosso. Ma forse lui non ne aveva più voglia. Gli altri, mi pare, lo accettavano “com’era”. Io mi rifiutai di farlo. Ma com’era davvero Luciano Della Mea?

Ennio Abate, 25 ottobre 2003

NOTE

[1] Marco Cini, allora dottorando in storia moderna.

[2] Ivan Della Mea, fratello di Luciano, cantautore e scrittore.

[3] Giuseppe Muraca, insegnante e scrittore di Catanzaro.

[4] Mario Monforte, allora ricercatore universitario a Pisa.

[5] Sante Bagnoli, allora presidente della Jaca Book.

[6] La Biblioteca Franco Serantini di Pisa (http://www.bfs.it/) è stata fondata nel 1979 in ricordo di Franco Serantini, un giovane anarchico di origine sarda, morto a Pisa nel 1972 nel carcere del Don Bosco, dopo essere stato percosso e fermato dalla polizia mentre partecipava ad una manifestazione antifascista.

[7] Rivista d’area cattolica di sinistra uscita a Bergamo tra 1946 e 1948. Vi collaborarono Salvo Parigi, che si occupava della politica con Dino Moretti, Valerio Barnaba (economia), Gianni Parigi e Vico Rossi (scienza), Mario Tassoni e Giacomo Zanga (filosofia), Giulio Questi e Giancarlo Rossi (letteratura), Corrado Terzi e Carlo Felice Venegoni (cinema e arte).

[8] Massimo Guidetti, responsabile della Jaca Book.

[9] Sergio Pannocchia, redattore e animatore della rivista «Il Grande Vetro» (Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Il_Grandevetro)

[10] Ugo Garzelli, scrittore e collaboratore de «Il Grande Vetro».

[11] L’Istituto Ernesto De Martino (http://www.iedm.it/) aveva e ha sede a Sesto Fiorentino (Firenze) ed era allora diretto da Ivan Della Mea.

[12] Attilio Mangano, intellettuale e scrittore operante a Milano e amico carissimo di Luciano Della Mea.

[13] Giovanni Scirocco, studioso di storia del movimento operaio operante a Milano ( Cfr. http://www.sissco.it/index.php?id=1231&tx_wfqbe_pi1%5Bidsocio%5D=247)

[14] Gaetano Arfè, politico giornalista e storico d’area socialista. (http://it.wikipedia.org/wiki/Gaetano_Arf%C3%A9)

[15] Franco Piperno, fisico ed ex esponente dell’Autonomia Operaia. Il libretto cui accenno era Elogio dello spirito pubblico meridionale. Genius loci e individuo socialeManifestolibri, 1997.

[16] Massimo Parizzi, traduttore e scrittore stava per iniziare proprio nel 1999 l’esperienza della rivista «Qui. Appunti del presente» (Cfr. http://www.quiappuntidalpresente.it/).

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