I ricordi: belli ma così incerti

ricordi nova

di Franco Nova

Si ritirò nella sua stanzetta perché avvertiva una certa pesantezza che annunciava il sonno imminente. Tuttavia, non appena si fu sdraiato a letto, il sonno tardò ad arrivare. Vedeva invece una sequenza di sogni – ma lo erano o certi fatti si stavano ripetendo davanti ai suoi occhi? – di tanto tempo prima. Non riusciva però a distinguere quelli che erano ricordi, pur filtrati e snaturati dalla memoria, e quelli che invece erano pure fantasie odierne solo ributtate all’indietro per abbellire la sua fanciullezza e prima giovinezza invero un po’ aride e incolori. Non era poi così importante, tanto nulla di quello che gli si presentava davanti aveva più un qualche significato attuale, nulla sembrava dover influire sulla sua vita presente ormai molto avanti in fatto di esperienza e lungo trascinare un’esistenza intessuta di niente.
La lunga sequenza di sogni – fatti esistenti o inesistenti mischiati fra loro senza alcuna distinzione – si srotolava piatta, inerte, come un tappeto consunto che il merciaio ambulante svolge ai piedi di un probabile acquirente, assai poco danaroso o avaro. Ogni tanto, il tappeto mostrava un qualcosa che premeva da sotto, un rigonfiamento; e ogni volta che lo vedeva, sorgeva in lui un misto di piacere e dolore. Si arrivò ad un punto in cui il tappeto era particolarmente liso e quasi trasparente. E lì, allora, il grumo, il rigonfiamento, esplose e venne alla luce con le sue vere fattezze. Una faccia fine, bella, sorridente, dai lineamenti un po’ tirati ma con un’espressione serena, quasi contenta; e incorniciata da lunghi capelli biondi. E subito dietro, e apparso con qualche secondo di ritardo, un ontano bianco, alto, dal tronco robusto. Lo colse una subitanea emozione; e di nuovo quel misto di piacere e di dolore che opprimeva il petto. Che cos’era? Difficile capirlo, qualcosa affiorava ma subito riaffondava.
Lo sforzo per ricordare ravvivava il dolore. Infine, però, qualcosa riemerse e stette stabile davanti a lui come un severo docente che ti interroga e non ammette esitazioni e imprecisioni di sorta. Ci fu un tempo lontano una fanciulla, il cui nome era ormai perso in chissà quali meandri della memoria, cui si era dichiarato (almeno così gli sembrava) ai piedi di un albero; se ontano o cos’altro, impossibile dirlo adesso con sicurezza. Aveva risposto di sì la ragazza? Rammentava un cenno del capo; probabilmente aveva annuito, ma non era per nulla sicuro che le fosse uscito pure un qualche suono dalla bocca. Sul tutto aleggiava una grossa nube di densi vapori nerastri. Uno squarcio però l’aperse e sgorgò con estrema nettezza la sua immediatamente successiva paura che potesse accettare. Sarebbe stata una gioia non immensa, ma placida e ristoratrice di tanti affanni già all’epoca sofferti. Impossibile: non poteva godere di questo assenso, era sempre stato sfortunato, agitato da mille problemi irrisolti.
E allora come finì? Problematico riportarlo alla mente; troppo lontano. Il “severo docente” poteva anche starsene ore davanti a lui, pretendendo una risposta; non sarebbe mai arrivata. La densa nube oscura si ricompattò, e pian piano il tappeto dei ricordi riprese a scorrere velocemente riassorbendo quel rigonfiamento importuno. E infine il sonno arrivò. Si stiracchiò, ripensò per un attimo alla fanciulla e all’ontano, immobilizzati come in una fotografia, e poi chiuse gli occhi ma non sereno. Il sonno pure non fu proprio tranquillo. E la mattina dopo si alzò con l’amaro in bocca, che attribuì a cattiva digestione. Si ripromise di prendere un alka-seltzer prima di fare colazione ed entrò in bagno per lavarsi. Si accorse di fischiettare una canzoncina. Doveva essere molto vecchia, ma non ricordava né il titolo né dove l’avesse udita. Era però graziosa e ciò gli sembrò sufficiente.

5 pensieri su “I ricordi: belli ma così incerti

  1. Mi ricordo. M’arricordo. Tengo ottanni. Enzina sette e miezzo. Stammo pazzianno a nasconnere.
    Filumena, faccia a muro, inizia a cuntà. Il resto s’annasconne a ccà e a llà. Enzina me zennea e, fujmmo dint’o palazzo a 19. Dint’o vascio, sotto ‘o lietto, di sua zia Fortuna ‘a Ciaccessa(la chiacchierona). Me ienche di baci vavusielli ca sanno di fragolelle. Ciuciunea ‘ntrechessa. E, mette le mani miezzo le cosce. Miracolo!: ‘o pesce s’ ‘ntosta comme ‘na mazza. E, ce mettimmo a ridere.

    M’arricordo il primo giorno di scuola ‘lementare. Dopo dieci minuti già stongo fujenno giù per le scale, miezz’a via. Aggia fa ambresso. Dint’e sacche arrepezzate si stà sciuglienno ‘o ghiaccio.

    Mi ricordo criaturo. Giocavo con i pensieri, e i giocattoli, rari: scappavano da tutte le parti.

    Ricordo l’asilo e a pranzo il piatto caldo e fumante. Ricordo lei, il suo nome no. Mamma sua la prendeva per mano e io con gli occhi l’accompagnavo fin dove svoltava il vicolo. Poi, di nascosto dalla mamma di lei e di mia sorella Tellina d’o mar’, che non so perché si faceva il pizzo a riso, con le labbra arricciate, le mandavo un bacio nell’aria. Poi, non la vidi più. Era di maggio, il mese in cui le famiglie cambiavano casa, e anche la sua famiglia cambiò quartiere. Ricordo…era la prima volta che piangevo per una femmina. Avevo pianto per il latte, il pane, le scarpe e ‘o cazone di colore cocozza.

    Ho fatto cadere il piatto con i piselli e, lei è venuta faccia a faccia vicino,vicino a me: mi ha offerto il suo e, mi ha azzeccato le sue labbra sulle mie. Poi, si è messa a ridere. Ca ridi a ffà, l’aggio ditto. Il mucco appiso, il sugo e le lacrime sono salate, ha detto ridendo ancora e, pulezzaneme ‘a vocca, ancora di latte.

  2. Mi ricordo quando andavo all’oratorio salesiano anche, anzi, persino e specialmente il 15 di agosto, mentre verso l’una il sole infuocava le mattonelle del cortile e Celentano non si stancava di cantare Azzurro e dalla cucina della signora Fittipaldi e delle suore da cui proveniva l’odore del sugo col basilico e insieme al caldo abbacinavano i sensi e la voglia possente del pensiero di vedere lei, Luigia. Fu allora che cambiai idea a proposito del nome Luigia:prima non mi diceva niente, poi lo declinavo e ci passeggiavo assieme, mano nella mano, anche di notte sia in sogno che ad occhi aperti spalancati nell’oscurità.

    Mi ricordo che a Montesanto, poco distante dell’ospedale dei Pellegrini nel cuore del centro storico, ci stava uno che attorniato da altri quattro o cinque suoi compari, col suo banchetto pieghevole, faceva il gioco delle tre carte. Io andavo lì per guardare non solo le tre carte ma tutto quello che succedeva intorno alle tre carte.

    La vita è il gioco delle tre carte, cioè questa vince questa perde e tutto quanto. Anche il 15 di agosto funziona così. Però non c’erano il tizio e si suoi compari, il banchetto e le tre carte, ma era tutto invisibile.

    Mi ricordo che quella volta, nientemeno che il pomeriggio del 15 agosto, i nostri dirigenti organizzarono per quelli che non erano andati in vacanza o al mare del lido Mappatella, un ritiro spirituale che poi il ritiro spirituale significava per te e quelli come te, andare avanti e indietro nel cortile e pensare.

    A me capitava che più volevo pensare e meno pensavo però pensavo a come pensare personalmente dentro questo fatto del ritiro spirituale che ti dava la possibilità di trovarti addirittura a tu per tu con Dio che come tutti sanno è la massima espressione dell’invisibilità e non materialità.

    E così pensai al gioco delle tre carte a Montesanto, proprio di fronte alla chiesa della piazza. E almeno dal mese scorso il parroco ha fatto esporre una statua appena fuori l’ingresso della chiesa, se ricordo bene di padre Pio.

    Mi ricordo che al gioco delle tre carte bisogna sempre tenere gli occhi aperti, può giocare degli scherzi. O degli equivoci. Che gli equivoci sono come i proverbi e le pizze fritte che bisogna girare e rigirare.

  3. Mi ricordo la Palestina, a cui si nega la sua terra o gli si concede una striscia in cui viene rinchiusa, carcerata, vessata e martoriata e, al suo interno, cioè in quel territorio di macerie e di tombe riaperte dai bombardamenti dello Stato d’Israele, viene aperto, non so da quanti anni o mesi, uno zoo. E dall’ultima guerra recente, fresca di giornata, viene bombardato o comunque danneggiato gravemente il suddetto zoo. Ebbene, per quanto mi riguarda e rispetto a come la penso nei riguardi degli animali, quello zoo non avrei permesso di aprirlo. Penso che i bambini palestinesi dovrebbero battersi anche contro l’istituzione e la carcerazione degli animali in questi luoghi deprivanti chiamati zoo. Forse istituendo uno zoo ai bambini palestinese diamo a loro quello che invece hanno i bambini delle nazioni occidentali e progredite? No, non sono né saranno gli zoo a dare parità, diritti, democrazia e pace ai bambini palestinesi.

    L’animale è uno degli anelli più deboli nella catena degli esseri viventi insieme alla terra e ai suoi paesaggi naturali.
    Israele, agli Stati Uniti, l’Inghilterra, Francia e Germania hanno ridotto il popolo palestinese e la terra di Palestina a uno zoo.

    Un popolo sofferente e martoriato come quello palestinese non deve assolutamente mantenere aperto uno zoo nel suo territorio, perché è come se ammettesse a praticasse l’apartheid, anche se in questo caso si tratta di animali. E poi perché mai gli animali di varie specie devono essere rinchiusi e carcerati come se avessero commesso semmai gli atroci delitti dei nazifascisti. Liberando gli animali e chiudendo i lager chiamati zoo si libera gli uomini.

  4. …sottoscrivo tutto quello che dice Transit sugli animali rinchiusi e snaturati negli zoo, forse la peggiore tortura, perchè anche loro, gli animali, sono nati liberi…E proprio in Palestina, quasi si volesse passare ai bambini il messaggio: siate felici come in questo zoo, insomma guardatevi allo specchio. Come regalare le bamboline vestite da suora alla futura monaca di Monza…Apprezzo molto anche i testi di Transit in dialetto napoletano.
    Passando alla narrazione di Franco Nova… quel srotolarsi di sogni e di ricordi dai quali affiorano le immagini di un volto femminile e di un vigoroso ontano bianco per poi svanire oscurate da una nube nera mi sembra la rappresentazione del mito di Orfeo ed Euridice. Sembra volerci dire: si può fare quacosa riguardo ai nostri desideri solo se non si guarda “troppo” a ciò che si sta facendo, senza veti e paure. In fondo le cose belle solitamente si realizzano nella spensieratazza, spontaneità e nel coraggio della giovinezza…Se si perde il momento svaniscono la fanciulla e il robusto ontano, insieme ad un futuro più solido e più sereno. Ma é proprio così? Tutto é perduto? Lo scrittore sembra suggerirci di no: Orfeo sa ancora cantare un grazioso motivetto. In fondo la giovinezza é una dimensione dello spirito…

  5. Mi ricordo. M’arricordo.
    C’era una cassapanca invisibile che stava sempre tra la radice degli occhi e i piedi e le labbra in ascolto.

    Mi ricordo.
    Ricordare non è mai dimenticare anche quando li separa l’ombra invisibile dell’oblio. Dimenticare è tradire, anche quando non si vorrebbe che nemmeno ti passa per la testa tradire. C’è stata una volta mi sono esercitato. Ci ho provato, a dimenticare, ma è stato peggio. Tradivo me, quelli intorno a me e addirittura l’intera umanità.

    Ricordo. M’arricordo.
    Io, sapete, non sono uno soltanto. Ho la mia faccia di tante altre. Io, anzi noi, siamo vite a non finire. I nazisti e i fascisti d’ogni nazione si sono messi insieme e come obbiettivo, da allora a oggi, hanno come obbiettivo volerci finire nel forno del campo di concentramento. In polvere.

    Ricordo. M’arricordo.
    Dovete aver pazienza quando scrivo m’arricordo: è un termine del mio dialetto; parte del mio corpo. Sono cresciuto con il latte della lingua madre. Pirciò, tengo la parlata internazionale del dolore.

    Ricordo. M’arricordo.
    Ci presero e ci portarono via in un treno dai freddi vagoni. Il gelo nel sangue. Eravamo venti. E tutti piccoli. Tra il primo e l’ultimo ci differenziano quattro anni. Siamo una piccola gamma.

    Ricordo. M’arricordo.
    Mi chiamo Sergio. Io sono Anna. Mi chiamo David. Io sono Ester. Mi chiamo Giuseppe. Io sono Sara. Mi chiamo Igor. Io sono Cecilia. Mi chiamo Giacobbe. Io sono Ciro.
    Mi chiamo Simone. Io sono Maddalena. Mi chiamo Spartaco. Io sono Anastasia. Mi chiamo Giovanni. Io sono Isabella. Mi chiamo Sebastiano. Io sono Ipazia. Mi chiamo Alessandro. Io sono Maria. Ci seviziano. Ci fanno del male usando strumenti chirurgici per studiare come reagiamo. Ci offendono. Ci violentano a turno o insieme. Ci ammutoliscono nella polvere.

    Ricordo. M’arricordo.
    Ma i ricordi emergono non appena splende il sole o quando la notte scura cala nell’anima e nel corpo. Nonostante la lotta con l’oblio, nulla è assente. La goccia che cade dalla grondaia. Il fruscio di una foglia. I passi sui basoli di lava. Il mare largo e scuro dei fondali ci accoglie umido. I nostri ricordi sono dolore che come gobbe spuntano dentro e fuori di noi, ma che nessuno vuole vedere e toccare. Non ricordateci per ciò che siamo stati, ma per le vite che non abbiamo vissute e amate.

    Ricordo. M’arricordo.
    Il tempo del dolore che in voi sopravvissuti non passa mai. Quel tempo di allora e di oggi che ci tiene in pensieri di catene. E che non libera nemmeno noi. Qui, però, ognuno è noi tutti, disse quella giovane madre intervistata dalla televisione.

    Mi ricordo. M’arricordo.
    Vedo che i tempi si accorciano come il personaggio di un fumetto che si chiamava Tiremmolla. I bambini non ne parlano e ormai non l’ho incontrato nemmeno in strada. La vita di ognuno è unica e importante, ma pe’ chello che si sente e si vede, onestamente parlanno, pareno tutte fesserie ‘e cafè, mentre ‘o pizzaiuolo sforna n’ata piazza cavera e profumata nella sua semplicita di farina, acqua e pummarola.

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