e = -1

dell'aquila borgesiano

di Salvatore Dell’Aquila

Hay, entre todas tus memorias, una
Que se ha perdido irreparablemente;
No te veràn bajar a aquella fuente
Ni el blanco sol ni la amarilla luna.

(J.L.Borges, Lìmites)

Conobbi D.F. una domenica di luglio, era mezzogiorno forse, a Roma nell’anno 2005, in circostanze definibili come fortuite, sebbene in seguito il progredire del nostro rapporto trovò il modo di strutturarsi in poco tempo in una forma più solida, in grado di resistere efficacemente per qualche anno, fino all’interruzione traumatica che ne fu l’esito.
La canicola, che nelle grandi città a quell’ora e in quel periodo dell’anno arriva a essere perfino minacciosa, oltre che coadiuvante nell’insorgere di sospese allucinazioni, insisteva su uno dei tanti banchi di vecchi libri nel mercato di Porta Portese.
Là eravamo entrambi, ancora ignari l’uno dell’altro, a compulsare volumi usati, più o meno vecchi, esposti inelegantemente, inconsapevoli di comporre un simulacro minimo, neppure simbolico, di bouquinerie orfane della Senna anche se non lontane dal meno vanitoso Tevere.
Fu lui a notare me poiché, dopo aver acquistato una copia di scarso valore di un saggio di Vasilij Kandinskij, chiedevo al tenutario della rivendita, un tale dalla barba incolta cui l’afa aveva del tutto annullato la già limitata tendenza al buon esercizio dell’igiene personale, il prezzo di un volume degli anni Sessanta contenente la traduzione (o forse la riduzione, non so dire, dato che la trattativa non andò in porto) della Pietra di Luna di Wilkie Collins.
D.F. fece un commento che la mia memoria non ha conservato con esattezza, ma tale da esprimere tanto l’apprezzamento per la qualità del volume quanto la disapprovazione per l’entità del denaro che ne veniva chiesto in cambio.
“Collins. C’è chi l’ha considerato più grande di Dickens”, aggiunse.
Da vigoroso lettore di Charles Dickens, trovai naturale chiedergli se appartenesse alla categoria di persone di cui aveva appena annunciato l’esistenza. Da questo prese l’abbrivio una conversazione che spaziò dalla letteratura, naturalmente, al gioco del calcio e a molte altre cose tra le quali, ultime, giunsero anche le nostre opinioni politiche.
Ci sono innumerevoli modalità secondo cui tra due individui di sesso maschile può innescarsi quel fenomeno che, senz’altro superficialmente, chiamiamo amicizia: tra i banchi di una scuola, nelle sale di un circolo, in un luogo di culto, in un pullman di gitanti, sugli spalti di uno stadio, in un bar. In ogni modo e luogo è però indispensabile che qualcosa di indecifrabile faccia da vettore d’attrazione tra gli elementi del potenziale sodalizio, un elemento simile ad un magnetismo che non preveda, però, al contrario di come avviene nell’universo delle onde elettriche, che i poli per sentirsi trasportati l’uno verso l’altro siano dotati di cariche opposte. Ci scambiammo i recapiti e ci promettemmo di non perderci di vista e così effettivamente avvenne, contrariamente a quanto quasi immancabilmente capita dopo incontri casuali del genere.
Nelle settimane, nei mesi successivi, la nostra conoscenza si approfondì. Ci vedemmo ancora, ma mai presso la mia o la sua residenza, pranzammo insieme più di una volta in trattorie modeste rispettivamente da noi conosciute in gioventù, come a volerci dare per sfondo ambienti consoni a giovanili entusiasmi; passeggiammo per i quartieri di Monteverde e dell’Esquilino, mi invitò nella birreria dove tutti lo conoscevano come ‘il Professore’. Non mi preme di tentare di raccontare compiutamente chi fosse D.F. Era un gentiluomo, non trovo termine più confacente, prossimo ai cinquant’anni, di padre siciliano e di madre nata a Vienna e di religione ebraica, dalla quale, come da ortodossa usanza, aveva ereditato un’appartenenza alla tradizione del popolo d’Israele cui aveva dato un’interpretazione, assolutamente laica (atea sarebbe probabilmente più corretto dire), ma al tempo stesso in qualche modo devota, osservante. La descrizione del suo modo di essere sarebbe difficile anche avendo a disposizione uno spazio e un’intenzione non limitati. È però necessario e funzionale a quello che si vuole narrare in queste righe che si sappia che D.F. era un uomo di maestosissima cultura, scrittore e lettore, conoscitore in maniera approfondita di almeno sei lingue, tra cui il viennese (che non esclude l’austriaco) e lo yiddish, strabiliante creatore di storie e capace di narrarle agli altri e a se stesso in modo tanto convincente da giungere a trasformare l’invenzione in realtà, fino all’estrema conseguenza di perdersi al loro interno e avvolgersi in una matassa così imbrogliata da non poter più distinguere il vero dal falso. Non sono giunto a comprendere quando tale sua attitudine all’invenzione fosse nata e fiorita; ho più volte immaginato che, come avviene per i tratti fondamentali che connotano il carattere di ogni essere umano, sia stato già nei primi anni della sua esistenza che D.F. avesse imparato ad adornare i suoi racconti con ciò che riteneva più bello e più gradevole per l’orecchio di chi lo ascoltasse narrare le vicende comuni e piane che gli capitavano. Un’attitudine forte a compiacere il prossimo.
D.F. aveva ereditato una consistente fortuna; tale condizione lo aveva esentato dalla ricerca e dalla pratica di un’occupazione di cui vivere. Purtroppo, come capii nel tempo, quella fortuna egli andava dilapidando con intensità e velocità tali da non potersi spiegare con motivazioni comuni e semplici. Non ho mai avuto notizia certa su come egli potesse giungere a spendere cifre tanto considerevoli. Certamente lo aveva fatto prima che ci conoscessimo o anche durante il periodo della nostra frequentazione, ma in qualcuna delle altre realtà da lui attraversate, lontane da quella cui io appartenevo.
Negli ultimi tempi, egli versava ormai in condizioni economiche assai precarie, che rendevano difficoltoso perfino l’acquisto delle quotidiane sigarette e dell’essenziale per nutrirsi.
Fu in questa fase della sua vita che avvenne quanto ora racconterò.

Egli aveva abituato chiunque lo frequentasse a ripetute e prolungate assenze. Dopo periodi in cui accadeva d’incontrarci più volte e di tenerci in contatto per mezzo del telefono o del computer, D.F. all’improvviso si eclissava. Non c’era verso di mettersi in contatto con lui. Alle chiamate telefoniche rispondeva il consueto ‘non raggiungibile’, alle missive si opponeva un silenzio totale. Erano questi periodi diversi da altri, più rari in cui, sì, spariva mantenendo tuttavia una comunicazione costante con me attraverso la posta elettronica, nella quale riversava un profluvio di storie che lo vedevano protagonista di incontri e di avventure, di amori anche (sempre casti), tra la Sicilia, l’Austria, la Svezia, l’India e altre contrade.
Una sera, dopo qualche settimana di scomparsa totale, mi giunse da lui la lettera elettronica che riporto testualmente:
“Carissimo, la ricerca di alcuni documenti appartenuti alla famiglia di mia madre mi ha tenuto molto e a lungo occupato. Mi ritrovo a Vienna, dove sono giunto dopo un rapido soggiorno a Praga (nessuna traccia del Golem, per inciso). Il frutto delle mie ricerche è stato scarso per quello che riguarda gli obiettivi prefissati ma sono stato ampiamente ricompensato dal rinvenimento di un libro rimarchevolissimo, nascosto (così devo dire, data la circostanza) in un baule colmo di stoffe che a mia madre era giunto dalla moglie inglese di un suo zio caduto durante la prima guerra mondiale (come vissero lui e la moglie l’appartenenza agli schieramenti tra loro antagonisti? Mia madre non ebbe mai a parlarmene). Sarò a Roma tra pochi giorni. Devo assolutamente mostrartelo.”
Tre giorni dopo D.F. mi telefonò e la sera stessa ci incontrammo nella birreria dell’Esquilino. Si era in marzo, per la precisione era il giorno 10 del mese, e lui arrivò con la sua andatura lenta, appesantita da una lieve zoppìa (come se avesse male alla gamba destra che, un po’, trascinava), calzando gli stivali di pelle scamosciata a punta quadra dello stesso tipo che indossava anche il giorno in cui ci conoscemmo (benché, come detto, allora fosse luglio). Ci accomodammo ad un tavolo abbastanza appartato. Aveva un aspetto vagamente trasandato: capelli spettinati ma non tanto da dare un’idea di eccessiva scompostezza, barba lasciata crescere più del solito, la pelle del volto e della fronte irritata e screpolata, occhi arrossati, unghie delle mani percettibilmente più lunghe del solito, imperfettamente pulite.
Da una busta di plastica estrasse un volume e lo appoggiò di fronte a me, sul tavolo.
Era un libro in ottavo grande, all’incirca 25 per 15 centimetri, scritto in inglese ed era di 365 pagine. Sulla gialla sua costola di cuoio lessi queste parole che il frontespizio ripeteva: A first Encyclopaedia of Tlön. Vol. X. Furzl to Hlab. Non v’era data né luogo di pubblicazione. La prima pagina, e la velina di una delle tavole, portavano un timbro ovale, turchino, con questa iscrizione: Orbis tertius.
Non compresi immediatamente cosa avevo di fronte. Dapprima, un senso sottile di sospesa vertigine, poi un disagio, come di dover ricordare qualcosa senza esserne capace. Quindi, un’impressione intermittente di giungere a capire continuamente sgusciante, impossibile da fermare. Infine, s’accese la fiammella del ricordo: si trattava di uno dei volumi della leggendaria enciclopedia di cui narra Borges in un altrettanto leggendario racconto della raccolta Ficciones. O, almeno, sembrava averne l’apparenza.
La mia lettura di quel libro di racconti (tra i quali anche Funes o della memoria, il più appassionante e impressionante), era avvenuta ormai da troppi anni perché io potessi, in quello stesso momento ed in quel luogo, giungere ad una comprensione più approfondita. Provvide D.F. a colmare alcune lacune della mia memoria.
“Hai compreso?”
Annuii.
“Questa non è una copia dell’undicesimo volume di cui parla Borges. Questo è il decimo. Hai idea di cosa significhi?”
Di nuovo risposi soltanto con la mimica, volendo intendere che capivo che era una cosa straordinaria, ma non mi tornavano alla mente i particolari di quella storia.
“Significa che nessuno da anni l’ha mai visto, che l’Enciclopedia di Orbis Tertius esiste davvero, che Ezra Buckley realmente ha coordinato l’immane creazione di un mondo, che forse nella famiglia di mia madre c’è stata una persona che ha fatto parte dell’infinita schiera dei redattori.”
La nebbia nel mio ricordo si diradava lentamente.
“Quando l’ho trovato faticavo a crederci. Ho pensato ad una contraffazione, naturalmente, a una copia costruita di recente, ma, per quello che so di conservazione della carta e di tecniche di stampa (che non è pochissimo), questo volume è stato stampato tra gli anni Venti e gli anni Trenta. È molto improbabile che esista ancora, funzionante, una macchina da stampa con le caratteristiche di quella usata per imprimere questi fogli, almeno cinquant’anni fa. E, soprattutto, sono certo che quel baule sia rimasto abbandonato e chiuso per decenni.”.
Era estremamente serio. Non l’avevo mai visto esimersi dall’arricchire qualunque suo discorso con generose dosi di ironia e di spirito. Stavolta era così contegnoso da non sembrare neppure lui.
Non avevo ancora di certo capito l’enormità della scoperta che D.F. aveva fatto in fondo a quel baule. La storia narrata da Borges pian piano riaffiorava dalla mia memoria ma, per rendermi ben conto di cosa fosse quel libro, avrei dovuto rileggerla. Cosa che certamente avrei fatto appena tornato a casa.
Intanto, devo confessare che mentre D.F. parlava io mi trovavo a pensare alla eventualità più venale di tutte, che cioè quel libro avesse un valore altissimo che avrebbe risolto parte dei suoi problemi economici.
Ma non sarebbe stato così.
“Vedi” continuava a dirmi sfogliando il libro “l’ho letto per intero e alcune voci più di una volta. È assai diverso dall’undicesimo, quello descritto nel racconto. Vi si trattano quasi solo argomenti di matematica, algebra, geometria. Li chiamo così anche se davvero poco assomigliano alle discipline che noi chiamiamo con quei nomi. È anche strano che le voci, pur rispettando la scansione alfabetica prevista nel frontespizio, convergano tutte su temi di scienza dei numeri, misurazioni, definizioni attraverso formule. Ma che a Tlön la logica non dovesse essere considerata né una virtù né una categoria del pensiero potevamo aspettarcelo.
I matematici di Tlön non cercano di definire formule per stabilire equivalenze, identità o difformità tra quantità reali o ipotetiche, non si interessano alla scoperta di costanti che mettano in rapporto preciso tra loro le forme geometriche o le loro parti. Il punto, la retta, la superficie non esistono su Tlön e, se esistono, sono ritenute mere apparenze di scarso o nullo interesse. Essi hanno cercato e cercano le formule capaci di descrivere le idee, le sensazioni, i sentimenti, le fasi della vita perché ritengono che la definizione esatta (ma il termine esatto ha nel loro idioma una forza sconosciuta nelle nostre lingue), qualora venga individuata, sposti il concetto dalla realtà del mondo mentale a quella del mondo reale. La loro scienza ha un’ambizione creatrice. La tecnica, come quella degli studiosi di qualsiasi disciplina su Tlön, è quella di approssimazione per tentativi, convinti che nell’infinità possibilità di ripetizione di qualsivoglia azione o pensiero giunga senza dubbio il momento in cui la verità arriva ad essere pronunciata. Nessuno scopo didattico o speculativo, solo la tensione a pronunciare i veri nomi della realtà. D’altronde il dio dei cristiani non era altro che Verbo e pronunciare il suo nome era blasfemia. Gli scienziati di Tlön non sono preoccupati per il tempo necessario a raggiungere un risultato. Per loro il tempo non esiste (ma questo lo aveva raccontato già Borges). Nulla esiste se non come idea. È vero: ogni loro disciplina non è che un ramo della psicologia.”
Credo che D.F. capisse dalla mia espressione che non riuscivo a comprendere fino in fondo le sue spiegazioni.
“Per esempio: in un giorno qualunque del passato (ma l’idea di passato è nostra, non loro) uno o più di quelli che noi chiamiamo scienziati intraprende una ricerca per definire il concetto di silenzio. Tieni conto che non è una precisa volontà a spingerli ma la cosa succede, può sembrare per caso o come fosse lo stesso oggetto a stimolare la definizione di se stesso. Senza un ordine stabilito incomincia da parte di uno o di molti la compilazione di formule, espresse in scrittura sia alfabetica (in una o più delle lingue di Tlön) che matematica (e quest’ultima indifferentemente in numeri arabi o romani), oppure solo in pensiero tanto muto che pronunciato. Le modalità di espressione non sono alternative ma coesistono. La possibilità che si arrivi, percorrendo l’infinito e inimmaginabile novero di possibilità, a identificare con precisione assoluta la struttura espressiva che racchiude il silenzio compiutamente ed in tutti i suoi aspetti è impressionantemente piccola.
C’è stato è c’è un esercito di esseri che lavora per raccogliere frutti infinitamente rari e preziosi.
Capita, a volte, che mentre si è alla ricerca della definizione di un concetto se ne definisca un altro simile, risonante. È quello che è avvenuto per le sole due formule compiute che questo volume riporta. Non mi è chiaro se si tratti delle uniche in assoluto che sono giunti a perfezionare, ma ho l’impressione che sia così”.
“E quali sono queste due formule?” non potei non chiedere.
“La prima è amore che è comparsa mentre approfondivano il concetto di madre, la seconda è morte, in cui si sono imbattuti nel ricercare la definizione di sogno.”
“Amore e morte,” ripetei “quasi banale.”
“Infatti. Alcuni di loro ipotizzano che siano stati i due concetti a voler essere definiti, proprio perché non erano l’oggetto degli studi. La cosa singolare è che le due formule sono quasi identiche.”
“Cosa fanno dopo averne trovata una?”
“A quel che sembra, nulla. Procedono con la ricerca della definizione di altri concetti.”
“Ma allora perché le ritengono così preziose da dedicare loro la vita?”
“Prima di tutto va considerato che il loro attaccamento alla vita non sembra affatto commisurabile al nostro e poi sappi che per i sapienti di Tlön nulla esiste pienamente se la formula che lo definisce non viene individuata. Quanto a pronunciarla non c’è accordo unanime. Alcuni tra di loro, che gli altri reputano eretici, prescrivono di non pronunciare mai una formula esatta e considerano abominevole chi lo faccia. Alcuni, considerati eretici a loro volta dai primi, pensano che possa essere consentita la libertà di scelta.”

L’ora era ormai tarda. Dovevo rientrare anche se la misura della tematica che D.F. aveva dispiegato e la potenza che emanava da quel libro, che rimaneva appoggiato sul piano del tavolo tra di noi, mi restavano davanti come una nebbia incompresa e per questo attraente e spaventosa.
Uscimmo dal locale. Una sottilissima falce di luna calante si mostrava nel cielo terso al di sopra della grande chiesa che si trovava lì nei pressi.
D.F. continuava ad essere serio, nessun motto di spirito, nessuna frase pronunciata in dialetto romano o palermitano (cosa che sempre invece faceva). Benché camminare costituisse per lui sempre più una fatica, si offrì di accompagnarmi al mezzo pubblico col quale avrei fatto ritorno a casa.
Quando fummo giunti alla fermata egli interruppe il silenzio che avevamo fin lì tenuto.
“Pensavo di darlo a te, questo libro.”
“Non osavo chiedertelo. Apprezzo che tu ritenga che sia in buone mani se me lo lasci per qualche giorno.”
“Non intendevo questo. Vorrei regalartelo.”
“Mi sembra troppo prezioso come regalo. Diciamo che lo tengo il tempo di leggerlo. Se la cosa mi riesce.”
“Lasciami insistere. Io ormai non saprei che farne.”
“Non posso accettare. Lo tengo per un po’ e la prossima volta che ci incontriamo te lo restituisco.”
Sorrise, finalmente.
“Detto così può andar bene.”
L’autobus si annunciò stridendo in cima alla salita. Nei secondi che intercorsero fino al suo arrivo, D.F. mi disse:
“Sfogliandolo troverai delle righe evidenziate…” e mentre ero già salito e le porte si andavano chiudendo “naturalmente io sono per la libertà di scelta.”

A casa, per prima cosa cercai e trovai la mia copia di Finzioni e rilessi il racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius. Servì a chiarirmi abbastanza il contesto di tutto ciò che D.F. mi aveva appena detto, ma della geometria di Tlön nel racconto si diceva assai poco: dell’esistenza di una disciplina visuale e di un’altra tattile, di cui la seconda subordinata alla prima, del numero indefinito come base dell’aritmetica, dell’idea che l’operazione del contare modifica le quantità e le trasforma da indefinite in definite. Solo quest’ultimo concetto mi sembrava echeggiare quanto D.F. mi aveva raccontato. Presi perciò il X volume dell’enciclopedia di Tlön e iniziai a esaminarlo. Le pagine avevano uno spessore corposo, erano consistentemente rigide, la superficie non era lucida, il carattere usato sembrava il Perpetua, l’inchiostro solo leggermente svanito. Molte pagine erano fatte soltanto di lunghi elenchi di numeri e simboli. Serie di forme geometriche inusuali, molto simili tra loro, costituivano le pochissime illustrazioni, ciascuna protetta da una velina tra le quale quella portante il timbro turchino.
Nonostante l’eccitazione, ero oramai molto stanco e l’ora troppo tarda perché tentassi di leggere qualche pagina. Avrei iniziato a farlo dopo qualche ora di sonno. Mi limitai all’idea di sfogliare il volume alla ricerca dei passi sottolineati.
Arrivato alla pagina 51, vidi due sequenze di numeri, ognuna seguita da una parola, che portavano alla base una linea tracciata a matita. La grandezza dei caratteri con cui le sequenze erano state composte era maggiore di quella di tutto il resto della pagina.
Le riporto fedelmente:

e= – 1  Death

ei x 2π=  1  Love

Fu del tutto naturale per me (perché non saprei dire) leggere la prima riga a voce bassa ma scandita, seguendo i segni impressi sulla pagina col dito indice della mano destra, come uno scolaro: “e alla i pi greco è uguale a meno uno.”
Chiusi poi il volume e, sfinito, andai finalmente a dormire quando era ormai l’alba.

P.S.:
Per una maggiore comprensione di quanto narrato si ritiene utile la lettura del racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, di J.L. Borges contenuto nella raccolta Finzioni.

Quattro o cinque righe di questo racconto sono tratte fedelmente dalla traduzione di F. Lucentini del racconto di Borges.

D.F. fu ritrovato in stato di coma e ricoverato in ospedale, a causa di una grave e trascurata infezione alla gamba destra. Morì, in pochi giorni, alle prime luci dell’11 marzo, senza aver mai ripreso conoscenza.

Note
1. Grazie a mio nipote Giovan Battista per le formule matematiche che appaiono nel racconto. [S. Dell’Aquila]

2. Questo racconto uscirà sul n. 11 di Poliscritture (cartacea) in preparazione.

7 pensieri su “

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  1. …é davvero tanto misterioso questo racconto di S. Dell’Aquila, come del resto quello di Borges a cui si ispira, quasi riflettendolo in uno specchio, dove però la storia prosegue per un altro tratto…mai conclusa certo. Entrambi introducono in un mondo (re)inventato (non esiste sulle carte geografiche) tuttavia sembra ancora avere attinenza con il nostro ma scardinato da ogni pretesa di conoscenza che si riferisca alla logica, alla filosofia, alla religione. Lo spazio, il tempo, i numeri, come i sentimenti, le emozioni, gli oggetti sono sempre da ridefinire altrimenti non esistono, come abbandonati dalla memoria. Un libro donato allo scrittore da un amico prima della morte in entrambi i racconti apre le porte a nuove possibilità (persino creatrici e magiche) di poter cambiare un mondo che non ci piace? Le scienze come la matematica e la geometria possono aiutare? E quelle formule della morte e dell’amore, così simili, come si spiegano?

  2. Ho letto con emozione crescente il racconto, bellissimo!, di Salvatore Dell’Aquila, nato da un’amicizia così preziosa e importante (come sanno esserlo le amicizie vere) da diventare opera letteraria.
    In esso la presenza degli elementi cari all’universo narrativo di Borges (lo specchio, la biblioteca, con tutte le loro implicazioni) restituiscono a quello stesso mondo i punti cardinali indispensabili per ritrovarlo.
    I dettagli dell’incontro che Dell’Aquila generosamente ci fornisce, fanno assumere al racconto i caratteri del genere fantastico, al punto che si oltrepassa il vero (ciò che la nostra mente percepisce come reale), arrivando a stabilire la circolarità del tutto.

    Un attimo di sbandamento è possibile allora, ma è proprio così che noi ritroviamo la bussola e il suo ago «turchino»; e così il fantastico cono di metallo pesantissimo che solo Borges aveva saputo afferrare (finora), seppure per un tempo infinitesimale, lasciando il palmo della sua mano così intimamente segnato. E poi, se la circolarità indica la perfezione è perché nella sua concezione la biblioteca racchiude tale concetto.

    Nella descrizione della Biblioteca, Borges dice infatti: «L’universo (che altri chiama la Biblioteca) si compone di un numero indefinito, e forse infinito, di gallerie esagonali… Da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente. … Venticinque vasti scaffali, in ragione di cinque per lato, coprono tutti i lati meno uno… Il lato libero dà su un angusto corridoio che porta a un’altra galleria, identica alla prima e a tutte. … Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze.» E nella definizione di Biblioteca: «La Biblioteca è una sfera il cui centro è qualsiasi esagono, e la cui circonferenza è inaccessibile»*.

    Un tempo «remoto» sembra dunque oltrepassare il tempo e lo spazio, canonicamente intesi, in uno spazio «inaccessibile» e «interminabile» come questo.

    Fin qui siamo forse ancora nell’ordine delle cose verificabili. Non lo stesso possiamo dire in merito al ritrovamento del tomo di cui ci parla racconto. Semmai qui si presenta l’antico dilemma: «chi furono gli inventori di Tlön?».

    Un dato però sembra certo: il pianeta fantastico di cui parla Borges esiste (a quanto pare): con la sua geografia e le sue lingue e le sue dottrine. Eppure, niente di tutto ciò serve a comprendere («Spiegare (o giudicare) un fatto è unirlo a un altro fatto; ma quest’unione su Tlön, corrisponde a uno stato posteriore del soggetto, e non s’applica allo stato anteriore, dunque non lo illumina. Ogni stato mentale è irriducibile: il solo fatto di nominarlo – id est, di classificarlo – comporta una falsificazione.»

    Mi fermerei qui, nonostante la teoria della verisimiglianza in uso in questo luogo meriterebbe di essere meglio approfondita, sicuramente da chi sa andare oltre questi mie limiti.

    Un pianeta che sparisce quando diventa una banalizzazione, questo è il rischio che sento emergere dalle parole di Borges come anche dal racconto di Dell’Aquila. E questo limite sottile, questo “rischio di perdita”, che intercorre tra realtà e immaginazione lo esprime stupendamente Maurice Blanchot (in L’infinito letterario: in Finzioni, Jorge Luis Borges, Oscar Mondadori, 1981):

    « La letteratura non è un semplice inganno, è il potere pericoloso di andare, attraverso l’infinita molteplicità dell’immaginario, verso ciò che è. La differenza fra reale e irreale, l’inestimabile privilegio del reale è che la realtà è meno reale, non essendo altro che irrealtà negata, dissoluta dall’energico lavoro della negazione e da quell’altra negazione che è il lavoro stesso. Proprio questo meno, sorta di scarnificazione e di assottigliamento dello spazio, ci permette di andare, con la felicità della linea retta, da un punto all’altro. Ma è il più indefinito, l’essenza dell’immaginario, a impedire sempre a K. di raggiungere il Castello, come per l’eternità ad Achille di raggiungere la tartaruga, e forse all’uomo di raggiungersi vivo in un punto che renderebbe la sua morte perfettamente umana, e pertanto invisibile.»

    *(La biblioteca di Babele )

    Giuseppina

  3. Grazie a Dell’Aquila. Racconto molto bello. Avendo, io, per un “disgraziato” assetto sociale, e politico, delle leggi italiane (sfratto esecutivo per fine contratto su persona anziana – Roma 1941 – , ammalata da decenni di sclerosi multipla, e d’altro operata) tutti i miei libri rinchiusi in scatoloni, in un magazzino (una impercorribile biblioteca…), non azzardo commenti ma, da “i semplici (1989)”, 2011, rispondo alle meravigliose – finali – e impossibilmente definitive -, due formule del racconto:
    amore e morte si guardano
    a distanza – la lontananza
    dell’uno ancora più sconfitto
    di quanto prima che non fosse
    amore porta l’altra ad essere
    vicino più di quanto non fosse
    morte amore.

    Grazie anche a Locatelli e a Di Leo, e prendo spunto dal commento di Giuseppina Di Leo al racconto di Dell’Aquila, per rispondere ad uno o due commenti – non avevo a quel tempo né computer o iPad, quando Ennio Abate, di sua volontà e scelta pubblicò, sul sito di “Poliscritture, una mia lunga poesia – edita in un libro nel 2011 -, i cui versi iniziali dicono “non ho sorelle, mamma, di cui / scrivere di cappotti / sulla neve – una volta…” – e Abate volle inviarmi i commenti, di lettrici e lettori del sito, per lettera -, a quelli rispondo ora, dicevo, prendendo spunto dalla “retta” citata da Di Leo (non avevo pensato a Blanchot , allora) con ancora qualche verso da quella poesia: “… / il porto / lontano nell’infanzia a piedi – / o forse in bicicletta – / la retta dei ricordi / fra le curve del
    tempo – / e delle onde) // …”.

    (Caro Ennio, ho letto la tua poesia – sul padre – che hai pubblicato sul sito).

    Anna C.L.

  4. Ha ben ragione Giuseppina di Leo nel suo (ottimo) commento a parlare di “rischio di perdita” tra realtà e immaginazione. Dell’Aquila qui viaggia attorno a questo rischio un pò come si viaggerebbe attorno a un buco nero, nell’ombra ambigua di Borges tra svelamento e dissimulazione. Nelle equazioni finali, l’indicibile viene reso dicibile, sul terreno tuttavia d’una frustrazione. Racconto notevole che oltretutto si gioca in una sottile dialettica tra tra vertigine mentale e calore dei luoghi dove viene in primo piano il rapporto tra il narratore e il suo interlocutore. Non sottovaluterei questo aspetto, necessario, della complessa meccanica del racconto.

  5. Trovo importante l’aspetto sottolineato da Antonio Del Guercio, quello della relazione tra i due autori (lasciando Borges sul fondo)del racconto. Si è come in un gioco di specchi riflessi, o forse in una porzione differente di universo/mondo: ciascuno vede ciò che l’altro non sa o non può vedere. E d’altra parte, come riporto nel commento: «Ogni stato mentale è irriducibile: il solo fatto di nominarlo – id est, di classificarlo – comporta una falsificazione.»

  6. …ciao Giuseppina, anch’io trovo importante la circolarità realtà immaginazione, che spesso ci permette di uscire dal senso unico dei nostri pensieri e di lasciarci coinvolgere da ciò che è altro da noi, sino a perdersi nel labirinto degli specchi. Ricomporre poi insieme il tutto in infiniti modi…sculture a più mani, come storie:
    una storia
    scritta su una pietra
    e vola via su una foglia d’autunno
    disegna,
    pesante e leggera,
    impronte fossili
    e linee di cielo

    1. Cara Annamaria, più che di immaginazione io parlo di una difficoltà di comprensione dovuta a una visione differente. Il segreto per superare gli ‘ostacoli’, se così vogliamo dire, sta nel saper guardare i propri limiti.
      La tua poesia è molto bella, e ti ringrazio.

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