Su «I santi padri di Amelia Rosselli» di Antonio Loreto

amelia rosselli

di Ennio Abate

Avvertenza. «I santi padri di Amelia Rosselli.”Variazioni belliche» e l’avanguardia» di Antonio Loreto (Arcipelago Edizioni 2014) verrà presentato mercoledì 17 settembre, ore 21 alla Libreria popolare di Via Tadino 18 a Milano. Insieme all’autore, interverranno i critici Paolo Giovannetti, Jacopo Grosser e Paolo Zublena. Coordina la serata Alessandro Broggi.[E.A.]

In questo saggio Antonio Loreto esplora il rapporto tra un’opera fondamentale di Amelia Rosselli, «Variazioni belliche», raccolta di poesie uscita nel 1964 da Garzanti, e l’avanguardia (storica e nuova). Semplice e chiara è la sua tesi: «la devianza linguistica della tardivamente italofona Rosselli» colloca la poetessa nelle vicinanze delle avanguardie artistiche, musicali e letterarie del Novecento; e tuttavia la sua originale «ricerca del tempo perduto» (p. 16) ha uno stile talmente innovativo da distanziarsi dagli sperimentalismi della coeva neoavanguardia.
Partendo da alcune dichiarazioni della stessa Rosselli, che parlò della propria ricerca come di un processo di «auto-ricostruzione» (p. 13) individuale e collettiva (dai risvolti anche psicoanalitici), Loreto contrasta i due clichè più abusati su Amelia Rosselli: quello dell’irrazionalismo del suo linguaggio poetico e quello che spiega la sua opera ricorrendosoprattutto alla sua vita, che fu certamente inquieta e segnata da eventi tragici. (Basti qui ricordare che Amelia fu figlia di Carlo Rosselli, il teorizzatore di un socialismo liberale ucciso da emissari fascisti in Francia nel 1937 assieme al fratello Nello e che quel trauma la segnò profondamente). Loreto, invece, sottolinea con forza che la poetessa non cedette mai all’autobiografismo e contribuì da protagonista al dibattito letterario di quegli anni Sessanta tumultuosi e letterariamente fecondi.
Per sviluppare la sua tesi, nella prima sezione del libro («Avanguardia») Loreto ripercorre l’intero tragitto storico delle avanguardie del secondo Novecento e dei loro antenati primonovecenteschi. Accenna alla musica di Stockhausen, Boulez, Berio, Cage (p. 22). Ricorda Queneau, «il poeta logico che gioca» (p. 23), e le ricerche di Balestrini, che nel 1961 inaugurò un suo procedimento combinatorio di creazione utilizzando per la prima volta un calcolatore elettronico (p. 24). Con una raffinata analisi individua poi nell’«orinatorio di Marcel Duchamp» del 1917 il «nuovo paradigma per l’arte contemporanea». E non si ferma al Novecento. Il suo excursus risale fino al Seicento – «epoca d’oro dell’arte combinatoria» (p. 26) – toccando la metafisica di Leibniz e il suo sogno di «creare una lingua universale» (p. 27) e poi la «ricerca degli universali linguistici» condotta nell’abbazia di Port Royal (p. 28), per ritornare infine  agli studi delle strutture sintattiche e alla teoria trasformazionale dell’ancora vivente Chomsky (p. 28).
Tanti sono i riferimenti filosofici qui squadernati o sfiorati a volo d’uccello: l’empirismo logico (p. 30); la fenomenologia (p. 31); il «Leibniz oscuro di Gilles Deleuze»; quello «limpidissimo, per molti versi ispiratore dei cosiddetti “discepoli di Wittgenstein”; i filosofi analitici» (p. 31); la questione del metalinguaggio trattata da Marina Mizzau in«Logica della finzione» (p. 32). Un intero capitolo è dedicato alle «eredità duchampiane» e al passaggio da «l’art pour l’art» a «l’art sur l’art» (p. 34). Questa prima sezione del libro – al di là di ogni valutazione sull’importanza che Loreto attribuisce soprattutto a Duchamp – dà conto della salda cornice teorica entro la quale almeno una parte (credo) dell’avanguardia praticò quella «critica del linguaggio» che mirava a  svelare il “gioco dell’arte” e a democratizzarla (p. 33), fornendo al pubblico «istruzioni e modes d’emploi» (p. 42) o altri elementi paratestuali (p. 43) – e qui abbondano i richiami a Ejchenbaum, Sklovskij, Brecht, Benjamin – che facessero risaltare l’«aspetto logico-concettuale dell’operare artistico». Proprio quello, cioè, che, dal Romanticismo in poi,  è stato «sacrificato al momento intuitivo» (p. 46) e ha imposto l’idea di un’arte intuitiva, sensibile, naturale o  capace addirittura di «mostrare una qualche realtà senza mediazioni» (p. 47).

Nella seconda sezione («Variazioni belliche»), tornando al testo di Amelia Rosselli, Loreto s’intrattiene dapprima sulla contesa tra Pasolini e la neoavanguardia a proposito della pubblicazione di quell’opera (p. 103), diventata – pare – oggetto di contesa tra i due fronti politico-letterari contrapposti (pasoliniani e sanguinetiani per semplificare). Pasolini avrebbe raccomandato la pubblicazione della raccolta alla Garzanti, tentando così di impedire che la Rosselli fosse cooptata nelle file avversarie della neoavanguardia (p. 103).  Loreto riconosce a Pasolini un ruolo attivo anche nell’articolazione di «Variazioni belliche» in tre sezioni: Poesie, Variazioni e Spazi metrici (quest’ultima è un allegato in cui la Rosselli espone le proprie riflessioni sulla sua pratica di scrittura, p. 108), ma sempre per sottolineare ancora una volta  l’indipendenza, l’originalità e l’”antiscolasticismo“ della Rosselli.
Pur ricorrendo a una terminologia che abbonda in tecnicismi, in questa seconda sezione egli chiarisce molto bene l’innovazione formale cui perviene la Rosselli in«Variazioni belliche». La poetessa arriva, infatti, a rifiutare sia il verso tradizionale che quello libero (p. 110) per  adottare come contenitore del testo la «forma cubo» (p. 115). In ciò Loreto intravvede ancora l’influenza dei Novissimi, che proprio in quegli anni avevano cominciato ad usare forme chiuse con l’intento di “trattenere” un materiale poetico molto informale (p. 110). Ma la «forma cubo» della Rosselli  è più innovativa. Si tratta di una concezione in primo luogo grafica della forma (p.134). Il verso non è più una «entità solamente acustica»: «Rosselli non ha pensato i suoi versi come segmenti unitari […] ma ha accostato stringhe che prescindono dalla misura dello spazio metrico, stese una di seguito all’altra correndo fino al margine impostato sulla macchina da scrivere e proseguendo oltre con l’unica preoccupazione di non tagliare le parole» (p. 118). Il verso rosselliano rimanda perciò alla battuta musicale che «nella sua durata prestabilita accoglie un numero variabile di suoni, e pause» (p. 119). «Il componimento termina in pratica come andando abnormemente a capo (passando alla pagina e alla poesia successiva), e risulta perciò scritto come un verso unico» (p. 123). È il «tutto d’un fiato» tipico della sua poesia «che sembrerebbe omologare il più possibile la modalità di lettura a quella di scrittura » (p. 123). Ma c’è, fa notare Loreto, anche la possibilità che il testo venga scritto per frasi e venga letto per versi (p. 124). La Rosselli poco si preoccupa degli a capo: riempie la «forma cubo» «in modo del tutto indifferente alla costruzione di ogni singolo verso» ossia andando a capo come si fa quando si scrive in prosa (p. 130). E tuttavia ambiguamente può dire “questi sono versi” (p. 138). Questa importante innovazione – sottolinea Loreto – permette di «rivedere la definizione di verso grazie a ciò che non è verso» o quella di arte grazie a ciò che non è arte. Egli precisa pure che le ricerche metriche della Rosselli si riallacciavano a quelle di Charles Olson, che nel 1950 in Projective Verse indicava un nuovo metodo compositivo, «che tra le sue caratteristiche ha quella di essere strettamente legato all’uso della macchina da scrivere» (p. 139). E inquadra storicamente l’innovazione della Rosselli nella tendenza, ampia nel secondo dopoguerra, a fare una poesia narrativa da contrapporre all’astratta purezza della poesia lirica (p. 146). Come accade da noi nelle opere di Luzi, Sereni e Giudici (p. 147).
La Rosselli, però, al procedimento della forma chiusa affianca presto un’altra notevole innovazione: i «periodi organizzati per variazione» (p. 148). E così «i testi di Variazioni, oltre a fissare nella maggioranza dei casi una congiunzione o una preposizione ( e di lì un motivo sintattico) che ricorre con regolarità e in posizione inevitabilmente incipitaria […] producono evidenti addensamento intorno a pochi termini chiave» (p. 151). Dalla puntualissima analisi di molti stralci di «Variazioni belliche» Loreto giunge alla conclusione che contrasta, come ho già detto all’inizio, con le opinioni correnti che vorrebbero la Rosselli irrazionalistica e “profetessa” più o meno invasata. Invece «il soggetto di Variazioni belliche è una sorta di anti-profeta – con buona pace di tutti coloro che Sibilla o Cassandra hanno chiamato Rosselli – che non solo ignora il futuro e di fatto lo rimuove dal proprio orizzonte, ma neppure ha la cognizione esatta degli eventi del passato con conseguenze non del tutto dolorose» (p.160). Rosselli, invece, è sempre lì ad interrogare continuamente il proprio passato nel tentativo di «ripristinare i collegamenti interrotti» (p. 160). E in questo tentativo di recupero del suo passato personale si serve sia di un «orizzonte mitico-eroico», le cui figure permettono in modo indiretto di ricostruire in qualche modo la storia e l’identità dell’io (p. 173) – e si tratta dei personaggi di Ofelia e di Lady Macbeth (p. 183) –  sia di figure del suo «consunto mondo quotidiano» (p. 171). Anche per questa capacità di  muoversi allostesso tempo in spazi mitici e quotidiani, pur essendoci una «autoesibizione ossessiva del soggetto», Rosselli non cade mai nell’autobiografismo (p. 173).

Il libro di Antonio Loreto mi ha attirato sia per l’argomento trattato sia perché volevo capire come un giovane studioso affronta oggi un momento importante e tempestoso della nostra storia letteraria. Mi pare un buon libro da discutere con impegno, anche se devo dire che non ne condivido il messaggio estetico-politico che di fatto propone.

Comincio dalla prima sezione. Certo, chi non concorderebbe sull’importanza della avvenuta «emancipazione dal magistero paralizzante di Croce» (p. 59) o sul ruolo pionieristico svolto dall’«anti-crociana “Critica del gusto”» di Galvano Della Volpe (p. 59)? Su questa strada oggi si corre in discesa. Specie se il discorso è rivolto ad ambienti culturali “innovatori”, “democratici” e “globalizzanti”. Meno convincente, invece, trovo il modo in cui Loreto respinge l’accusa mossa alla neoavanguardia di «asintattismo» (p. 51) o «asintassia». Accusa venuta – è bene chiarirlo – da posizioni materialistiche e marxiste, quali quelle di Romano Luperini e Pietro Cataldi. Loreto non vi si sofferma più di tanto. E temo che sottovaluti quanto si sia davvero accresciuta negli ultimi decenni la «distruzione della possibilità di comunicazione» e si sia spezzato il «nesso che unisce letteratura e realtà» (p. 51). Il Leibniz logico, che «confida nell’esistenza di un ordine o di una funzione (detto matematicamente) anche nell’apparenza del caos» (p. 52), non mi pare un riferimento sufficiente per i nostri tempi caotici. Anche se nelle esperienze più arrischiate dell’avanguardia persistessero «alcune regole che, divenendo note grazie a qualche paratesto, agiscono anche nella fruizione» (p. 54), non è detto che «il tradizionale accordo tra i parlanti» (p. 54) sia facilmente e presto ristabilito. Loreto parla con entusiasmo di un «disvelamento desacralizzante che permetta ai fruitori di comprendere meccanismi e regole di funzionamento». E pare convinto che «la democraticità artistica sarà tanto maggiore quanto maggiormente diffusa la pratica della spiegazione»(p. 89). Per me non basta che ai fruitori “profani” (che restano nel discorso di Loreto folla vaga e non indagata) vengano fornite le regole del “gioco artistico” dagli stessi autori. Il rischio di incomunicabilità  non è debellato in questo modo “illuministico”. Né bastano i paratesti incorporati nel volume dell’opera (p.79). Come non è bastato che i Novissimi corredassero le loro opere di «scritti tecnico-teorici, di guide per il lettore» o che commentassero le loro poesie con note esplicative o facessero seguire ai testi brevi saggi degli stessi poeti intorno ai problemi di natura teorica ed estetica o, altre volte, ricorressero a introduzioni-manifesto (p. 82). Malgrado quel loro «impegno a favorire la possibilità di capire l’opera» (p. 83), l’incomprensibilità di certi testi per un vasto pubblico è rimasta intatta. Perché ha ragioni storiche ben più profonde. E non può essere aggirata esclusivamente dalle volenterose spiegazioni degli autori stessi. Le quali in fin dei conti raggiungono un pubblico comunque di addetti ai lavori: i “quasi specialisti” (magari di formazione più scientifica che umanistica) già addentro alle questioni sempre un po’ ostiche di poetica.

Non condivido perciò l’enfasi con cui Loreto parla di democratizzazione dell’arte: «È come se si aprisse la stanza dei bottoni, o la città proibita (non per farne un museo, però), in un atto di desacralizzazione che si compie non più (solo) testualmente, come succede in Baudelaire o in Brecht, ma che paratestualmente riconduce l’arte al mondo» (p. 84). Credo invece che l’intellettualizzazione spinta che ha caratterizzato tanti paratesti della neoavanguardia sia stata sintomo di crisi dell’arte invece che di una sua reale democratizzazione. E ho anche dubitato di una “desacralizzazione” che, avvenendo all’interno o nei dintorni dei laboratori delle corporazioni artistiche e letterarie, è risultata sempre meno desacralizzante e democratizzante di quanto proclamassero i suoi paladini. Tanto più che Loreto stesso deve ammettere a mezza bocca che non sempre questa pratica è stata attuata in modi soddisfacenti e che «le spiegazioni, quando ci sono state, non si sono distinte per affabilità» (p. 90).

L’altra accusa alla neoavanguardia che Loreto respinge è quella di «epigonismo» (p. 61). Per lui sarebbe un «errore» confrontare i «due periodi dell’avanguardia», il primo e il secondo Novecento. «Che cosa hanno in comune – si chiede – la tabula rasa di Marinetti e la critica del linguaggio di Balestrini? Che cosa la scrittura automatica di Breton e la cura teoreticamente motivata di Pagliarani per la sintassi?» (p. 77). Collegando strettamente la neoavanguardia alla filosofia analitica, perché conduce una «critica fondata sulla consapevolezza della convenzionalità e storicità di qualunque linguaggio» (p. 62), riduce la componente corporeo-sensibile dell’opera d’arte e incrementa «la quota logico- concettuale» dell’opera (p. 72), delinea – potremmo dire con un pizzico d’ironia – un’immagine quasi “classicista” e fortemente antiromantica  della neoavanguardia.  Questa, lungi dal perseguire le «istanze ribellistiche» degli antenati  primonovecenteschi ( e un po’ “fascistelli”) o il «sovvertimento di ogni regola», come fecero i surrealisti, avrebbero puntato esclusivamente ad un «ripensamento profondo, analitico, dei concetti stessi di arte e di linguaggio» (p. 61). Mi viene da chiedere: Ne siamo sicuri? E questo ripensamento fu davvero senza equivoci? Qui Loreto dimentica, credo, l’esperienza fugacemente “sovversiva” ma sintomatica di «Quindici». E, comunque, trapela dal suo discorso la convinzione della indiscutibile bontà del passaggio (progresso?), in arte e filosofia, «dalla conoscenza intuitiva alla conoscenza logica» (p. 57). A me pare che così vengano separati e contrapposti troppo rigidamente questi due modi del conoscere. Specie  quando egli dichiara la preminenza o, addirittura, l’imprendiscibilità di «una concezione pragmatica del valore estetico» (p. 57). E cresce a questo punto la mia convinzione che egli – sarà una questione solo generazionale? – abbia depoliticizzato drasticamente lo scontro che si ebbe negli anni ’60-’70 tra la neoavanguardia e i suoi oppositori. Liquida, infatti, sbrigativamente i «detrattori di Novissimi e Gruppo 63», Pasolini e Fortini in particolare. Di quest’ultimo non accetta l’accusa (condivisa tra l’altro dalla stessa Rosselli), che Sanguineti e il Gruppo 63 abbiano accettato di saldare definitivamente letteratura e «ordine borghese-capitalistico» (p. 85). (Ma sarebbe più concreto dire letteratura e industria culturale). Con altrettanta decisione respinge le accuse di irrazionalismo fatte a suo tempo da Roversi sui «Quaderni Piacentini» (p. 86) o quelle di aristocraticismo e di esoterismo mosse da Spinazzola (p. 86) e Pignotti (p. 87). Nell’accomunare in un unico blocco tutti i “detrattori” Loreto non intende né analizza le ragioni diverse della loro opposizione alla neoavanguardia. In particolare non fa distinzione tra la richiesta di una «democratizzazione della letteratura» (p. 87) e la critica fortiniana ai rapporti sociali capitalistici sui quali la letteratura si reggeva e si regge. La critica sembra fermarsi al «funzionamento dell’opera». Mai si inoltra sul terreno di una critica all’industria culturale che quelle opere programma e produce. E si capisce il perché. Per “disvelare” il funzionamento dell’opera basta in effetti «la pratica della spiegazione» (p. 89) specie se gestita dagli stessi autori e critici legati all’industria culturale e all’accademia. Per spiegare (non posso più dire ‘cambiare’, se no mi mettono alla gogna!) l’organizzazione dell’industria culturale ci vuole… un’analisi dei rapporti sociali della produzione capitalistica.

Passando alla seconda sezione, la mia obiezione è una sola e minima. Mi chiedo se l’«ipoteca pasoliniana» sulla Rosselli (p. 108)  sia stata davvero così pesante, subdola o “lobbistica”? Perché, come ricorda ancora lo stesso Loreto, la Rosselli, malgrado avesse partecipato ai convegni del Gruppo 63, teneva alla propria autonoma di scrittrice, non era stata tenera nel recensire Wirrwarr (p. 105) e accusava i rappresentanti della neoavanguardia di scoprire in ritardo il modernismo angloamericano, sul quale lei era ben informata prima di loro (p. 106).

2 pensieri su “Su «I santi padri di Amelia Rosselli» di Antonio Loreto

  1. voi che poliscrivete, non dovreste scrivere la fonte dell’immmagine di Amelia Rosselli? Anzi utilizzare il link e non appropriarvi così delle scritture altrui, così, semplicemente? mah.

    1. @ videor

      Nessuna volontà di appropriazione. Come al solito prendo le immagini da Google.
      Se ci sono diritti d’autore o segnalazione di fonti precise, siamo pronti a rispettarli o ad indicarle. O al limite a cancellare l’immagine.
      Ci faccia sapere.

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