Potessi i mitrati inverni salmodiare

zurbaran 1

di Antonio Sagredo

con una nota di Ennio Abate

Potessi i mitrati inverni salmodiare
e dal calice insidiare metafore e patiboli.
Il trono sarà una sospetta distrofia regale,
una rossa gorgiera di sentenze senza requie.

Torvo il sentiero nero come una cornacchia
becca i campi la mia parola cordigliera.
Non so se festini e maschere creano convegni:
la segnaletica degli occhi è un dono irriverente.

Dalle soglie ai portali l’anima eretica ci spia
col suo sguardo di corsaro… guercia sarà la preda!
Questo secolo non sarà migliore del trascorso:
i massacri saranno il nostro pane quotidiano.

Le Madri senza fede né speranza spolperanno
i figli prima d’una condanna o una guerra.
Il boia cercherà invano gli occhi di un poeta disossato
o lo sguardo impietoso d’una carcassa che t’accusa.

Non esiste un Nulla che mi conforti, il resto è Delirio!

Vermicino, 17 ottobre 2003

 

Nota di Ennio Abate

1.
Premetto ancora una volta, pur stando in poesia su altra sponda, che i versi ermetico-barocchi” di Sagredo, così irti di riferimenti e simboli sfuggenti e lontanissimi dalla modernità, meritano attenzione e scavo critico. Non lodi generiche più o meno convinte né rifiuti frettolosi o sospettosi. Già in passato, presentando altri suoi versi su questo blog, ho insistito sulla necessità di iniziare da una parafrasi, anche se l’autore – vivente – rifiutasse per ragioni sue di collaborarvi. Bisogna insistere a tentarla. Perché la parafrasi è una sorta di elementare e indispensabile “traduzione”. Tanto più necessaria nel caso delle poesie di Sagredo, che più di altri si distanzia dal linguaggio in ogni caso mai comune della poesia. Diciamo pure che la parafrasi ci dà un “surrogato logico” del testo poetico. E che – lo sappiamo in partenza – non potrà mai chiarirlo del tutto nelle sue ambivalenze,  nella sua metaforicità o nelle vere e feconde (a volte, non sempre!) oscurità. Ma ci fornisce una misura o quasi un doppione o una riproduzione ingrandita del testo poetico. Che ci permette di riosservarlo meglio e comunque ce lo avvicina.

2.
Provo allora a parafrasare questa poesia, esaminando i “versi-frase” (quasi tutti distici) di cui sono composte le quattro strofe principali; e parto dai due primi versi:

Potessi i mitrati inverni salmodiare
e dal calice insidiare metafore e patiboli.

A parlare, ad esprimere un desiderio che non è di semplice canto ma di canto religioso («salmodiare» ) è il Poeta. La maiuscola è d’obbligo, perché Sagredo pensa l’esercizio poetico quasi come una funzione sacerdotale o parasacerdotale. Il Poeta non solo salmodia (o vorrebbe farlo, ma è frenato da qualche ostacolo), ma pare maneggi un «calice» (quello della Poesia?). Quell’«insidiare metafore e patiboli» può essere inteso come un tentativo da parte sua di aggirare ostacoli o rischi rappresentati dalle «metafore» (tipiche della poesia). L’accenno ai «patiboli» potrebbe far pensare sia al senso di sofferenza che caratterizza la vera ricerca poetica sia a quelli reali, che hanno a che fare col tema del Potere (religioso e politico-militare), di cui presto parlerò. Il Poeta, dunque, vorrebbe poter ancora cantare in senso religioso, ma di cosa? Di stagioni oramai ridottesi a «inverni» (quindi raffreddatesi o congelatesi?). Questi inverni vengono definiti «mitrati». Un termine a prima vista secondario. Eppure pieno di allusioni ancora una volta religiose (e antiche). Può indicare, infatti, sia – per metonimia – i religiosi che portano la ‘mitra’, simbolo di un alto potere sacrale, ma anche (e forse soprattutto, se penso all’afflato – nostalgico e critico al tempo stesso – verso una religiosità forte e non corrotta che percorre quasi sempre i versi di Sagredo), le lontane epoche, che vanno dal I secolo a.C. al V secolo d.C. e che videro la diffusione del culto misterico del dio Mitra e i suoi intrecci col cristianesimo primitivo.

3.
I versi successivi:

Il trono sarà una sospetta distrofia regale,
una rossa gorgiera di sentenze senza requie.

affrontano di petto il tema del Potere. Il trono è suo simbolo generico e tradizionale. Qui si ipotizza che esso (il trono, il Potere) sia sospettabile di una «distrofia regale» (della regalità?), di una patologia. (Come quando il medico diagnostica una sospetta frattura…). Ma il trono è (o si potrebbe dire: è avvolto da) « una rossa gorgiera di sentenze senza requie» (o è proprio questa gorgiera stessa). Importante è l’aggettivo «rossa». Se pensiamo che la «gorgiera» era la fascia a protezione della gola dei cavalieri impegnati nei combattimenti o parte ostentata dell’abbigliamento dei notabili, che la gorgiera è «rossa» come il sangue (o, potremmo persino dire, per il sangue che la conquista o il mantenimento del potere obbliga a versare…pensiamo ai drammi di Shakespeare…) e che tra i potenti, vengono evocati indirettamente i giudici, e cioè gli addetti alla emissione di «sentenze senza requie», vediamo delinearsi, dopo quello religioso, il “blocco” del Potere politico-militare.

4.
Negli altri due versi siamo posti davanti a un ben lugubre paesaggio:

Torvo il sentiero nero come una cornacchia
becca i campi la mia parola cordigliera

La frase ha una sua ambiguità. La possiamo riordinare in questo modo: la mia parola cordigliera becca i campi come una cornacchia [becca] il torvo sentiero nero. Oppure in quest’altro: un torvo sentiero, nero come [è nera] una cornacchia, becca (lui, il sentiero? al posto della cornacchia?  e nel senso di ‘tagliare’ o ‘intersecare’?) i campi ; e (becca?) la mia parola cordigliera. È sul significato della «mia parola cordigliera» che voglio soffermarmi. Inizialmente le prime due strofe della poesia mi avevano fatto pensare a un tempo storico, che, se non era proprio quello dell’Inquisizione e della Controriforma, molto ci somigliava. Proprio per l’abbondanza di termini riguardanti la religione (mitrati, salmodiare, calice) o che alludono ad ambienti regali o principeschi (trono, gorgiera) o giuridici (patiboli, sentenze). E per la suggestione di sapere Sagredo cultore di Giulio Cesare Vanini: qui. Anche il termine ‘cordigliero’ mi aveva fatto pensare troppo facilmente a un sinonimo di ‘ribelle’ o ‘rivoluzionario’ (nel senso di un appartenente al club di Danton ai tempi della Rivoluzione Francese). Ero fuori strada. Mi era sfuggito il primo significato di «cordigliero» (in francese ‘ cordelier’, da ‘corde’ corda, cordiglio’). Che rimanda al francescanesimo e più precisamente allude – mi è stato fatto notare – ai vv. 52-54 del XXVII canto dell’Inferno di Dante (ottava bolgia, dell’ottavo cerchio). Qui sono puniti i consiglieri fraudolenti. E a parlare di sé dicendo: «Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero,/ credendomi, sì cinto…» è Guido da Montefeltro, un condottiero protagonista di gesta militari in Romagna poi entrato nell’Ordine francescano (“cordigliero”), i cui membri  appunto cingevano i fianchi con il ‘cingolo’ o ‘cordiglio’. Nuovamente e sottilmente si allude al rapporto aggrovigliato ed ambivalente tra Potere religioso e Potere politico-militare. Ma rientra in primo piano ancora la figura del Poeta. Che con la sua «parola cordigliera» – possiamo dire – si aggira anche lui nei dintorni del Potere (religioso e politico). E possiamo ipotizzare che egli stesso – il Poeta – è carico di ambizioni (ambisce a un suo potere, al potere della Parola) affiancandosi in modo concorrenziale alle ambizioni dei re e dei religiosi. Nell’esercizio della Poesia (?) il Poeta è presentato come una nera (e antipatica) cornacchia che becca i campi su un «torvo» sentiero (quello del Potere?).

5.
Passo ad altri due versi:

Non so se festini e maschere creano convegni:
la segnaletica degli occhi è un dono irriverente.

Se riferiti ancora al Poeta, possiamo intendere che egli non capisca più se quei (suoi?) «festini» (di parole?) o quelle (sue?) «maschere» (immagini che costruisce con le parole?) creino «convegni» (cioè momenti di accordo, di condivisione?) o producano invece solo tetra confusione, finendo per ridurre ad un «dono irriverente», e dunque niente affatto chiarificatore o rivelatore (della Verità?), tutto quell’agitarsi di sguardi e di emozioni: «la segnaletica degli occhi», che potrebbe essere riferita sia al Poeta, di cui più oltre si dice che ha uno «sguardo corsaro», sia  ad una indefinita folla (di lettori?) partecipanti ai «festini».

6.
Nei due successivi:

Dalle soglie ai portali l’anima eretica ci spia
col suo sguardo di corsaro… guercia sarà la preda!

possiamo dedurre – sempre se riferiti ancora al Poeta – che egli sembra ora svelare una sua «anima eretica». Il suo «sguardo» è «da corsaro» (aggressivo, rapace) e «spia». Egli  muove il suo sguardo «dalle soglie ai portali». Le due indicazioni spaziali le riferirei genericamente a chiese o a palazzi regali e principeschi, che starebbero ancora per il Potere religioso e politico. Che qui sembra personificarsi e, quasi avvertendo una minaccia  nello sguardo «corsaro» o il pericolo rappresentato dalla «parola cordigliera» del Poeta,  dice in prima persona plurale: «ci spia» (= spia noi: uomini di Chiesa e Prìncipi). Poi come un’attesa ( i tre puntini sospensivi) e subito un’oscura, imperativa, conclusione: «guercia sarà la preda!». Che sembra contenere una premonizione o una minaccia di punizione riferibile all’anima eretica, che ha osato appunto gettare il «suo sguardo di corsaro» sui potenti ma non riesce ad annullare il loro potere.

7.
Passiamo a:

Questo secolo non sarà migliore del trascorso:
i massacri saranno il nostro pane quotidiano.

Qui il significato è abbastanza limpido. Può esserci il dubbio su quale sia il secolo e a quali tipi di massacri ci si riferisca. Ma la lettura di precedenti poesie di Sagredo conferma che egli rifiuta la storia intesa come mutamento (progressivo o caotico: questo è altro problema). Il tempo (o il Tempo) è per lui un continuum. Ogni partizione in secoli o qualsiasi periodizzazione storiografica  appaiono irrilevanti: non c’è distinzione possibile tra epoche di massacro e epoche senza massacri o con meno massacri ( e quindi tra guerra e pace). In una mia precedente nota su altre tre poesie di Sagredo avevo scritto: «[Sagredo è] sempre tenacemente fuori dalla storia, anche quando pare alludervi. Fissato in un dove in cui si ritrova l’unità dei miti antichi e soprattutto delle visioni religiose poi corrottisi e andati in rovina»). E’ abbastanza spontaneo, dunque, pensare a quello appena iniziato per noi; e ritenere che chi parla, proprio perché ha accolto senza meraviglia o sorpresa la conclusione del secolo appena «trascorso» (da Hobsbawam definito “breve”), al massimo metta in guardia da attese progressiste e ottimistiche.

8.
L’intera ultima strofe che prepara il verso conclusivo:

Le Madri senza fede né speranza spolperanno
i figli prima d’una condanna o una guerra.
Il boia cercherà invano gli occhi di un poeta disossato
o lo sguardo impietoso d’una carcassa che t’accusa.

pur rimanendo sempre storicamente indefinita, ha un senso abbastanza chiaro. La maiuscola del termine ‘Madri’ ci rimanda quasi automaticamente all’ambito mitico-religioso. E quindi alla Grande Madre, ipotetica divinità femminile dei primordi, che simboleggiava la generatività, il femminile. Ma il termine è al plurale; ed è associato ad altri due termini: ‘fede’ e ‘speranza’. Possiamo allora chiederci: chi sono queste «Madri»? quale tipo di «fede» o «speranza» non hanno più? e perché ne sono ora prive? Pare di poter dire che Sagredo pensi alle religioni: ebraismo, cristianesimo, islamismo (e al “materno” delle religioni?); e al loro svilimento. In questa poesia le religioni-Madri, come Niobi giunte alla disperazione sotto l’assalto di un «boia» (?), di fronte alla minaccia incombente «d’una condanna o una guerra» che non può in alcun modo essere fermata, sembrano determinate a disfarsi con un gesto (folle anche se di aristocratica dignità?) dei propri figli, non essendo più in grado di trasmettergli il nutrimento indispensabile: fede e speranza. Ma che c’entra il «poeta disossato»? e perché è «disossato»? Il Poeta – pare di capire – è per Sagredo l’ultimo argine alla disfatta delle religioni-Madri. Egli è il Veggente, l’unico ancora capace di Visione; e quindi in grado di restituire quella fede e quella speranza che le religioni-Madri non sanno più offrire. E’ il Poeta allora che il boia (una specie di Erode?) cerca furiosamente tra i figli che le religioni-Madri hanno finito per “spolpare”. È il Poeta che nei suoi occhi conserverebbe ancora la “polpa” della Visione. Ma non è certo. Pare, infatti, che, al posto del Poeta, ci sia soltanto il poeta (con la minuscola), che appare «disossato» (io intendo: senza ossatura, senza energia). Ed è quindi incapace ormai di Visione. Il Poeta o la Poesia è «carcassa che t’accusa» (io intendo: che accusa quel ‘tu’ poeta «disossato», incapace di Visione). Per questo venir meno dell’immagine altissima della Poesia e per il dubbio che essa possa davvero sostituirsi alle perdute Religioni s’impone il grido nichilistico e solitario (anche rispetto alle quattro strofe che l’hanno preparato) dell’ultimo verso. Che dice tutto lo sconforto e il disprezzo per quel che resterebbe alla fine di questo dramma metafisico-spirituale:

Non esiste un Nulla che mi conforti, il resto è Delirio!

9.
Anche in assenza di una “spiegazione” esauriente e soddisfacente di tutti i significati particolari di versi e parole di questa poesia, è il tono generale che passa comunque con un suo vigore violento e tragico. È un tono cupissimo, lugubre, freddo (inverni, sentiero nero). I colori evocati – abbiamo visto – sono il rosso (rossa gorgiera), che si collega necessariamente al sangue, e il nero (il sentiero nero, ma anche la cornacchia ha il piumaggio nero), che fanno pensare alla morte. Lo stesso termine «carcassa», che rimanda allo scheletro di un animale morto o di un corpo umano mal ridotto, è coerente con il tono generale della poesia. Sintetizzando e semplificando, l’interpretazione della poesia potrebbe essere la seguente: Il poeta canta il fallimento del Potere religioso e politico-militare, che ha perseguitato «senza requie» «l’anima eretica» e ha impedito di uscire dal Nulla e imposto che questa storia cupa di massacri si ripeta incessante.  La Poesia è condannata al Delirio (= uscire dal solco, “farneticare”). Il quadro che la poesia ci dà è di desolazione nichilistica e di catastrofe.

5 pensieri su “Potessi i mitrati inverni salmodiare

  1. @ Ennio Abate:
    grazie per questo importante studio. La poesia così ha una tua esperta spiegazione, che pare lasci aperto un varco a comprensioni di diverso tipo. Chissà se Sagredo questa volta ne esce soddisfatto, chiediamoglielo.
    Una poesia che colpisce come fucilata.

  2. Sarà anche barocca – e non lo dico certo in accezione riduttiva – , certo è poesia di forte impatto , veemente , critica , sostanzialmente antagonista , robusta ( v. aggettivazione ), quindi molto concreta / godibile . Quanto alle “zone d’ombra”ben vengano lasciate all’interpretrazione : non mi sembra che Sagredo ci speculi sopra , non è un flaneur , non gigioneggia . Per lui vale l’aforisma di Blanchot , esperito ( credo ) in perfetta buonafede : ” Vale la pena di tentare sempre di trasmettere l’intrasmissibile “.
    Encomiabile l’impegno esegetico di Ennio Abate .
    Grazie a tutti e due .
    leopoldo attolico –

  3. Nulla sapevo di Antonio Sagredo, neppure della sua esistenza. Immediata l’adesione cultural-emotiva alla sua poesia, al suo linguaggio. Ma non concordo con la parafrasi di E.A.: centrata sull’avvertimento di sé del poeta, mentre all’impronta la mia lettura è stata oggettivante: il poeta non sta nella scena, ma guarda/ legge. Legge una realtà sovradeterminata storicamente, con la ricchezza barocca e crudele di tutta la nostra tradizione (imprescindibile? io credo di sì e che ora questo appaia chiaramente).
    Faccio qualche esempio (non mi spendo in una contestazione puntuale di E.A., può bastare qualche nota solo perché desidero capovolgere l’interpretazione):
    la parola cordigliera che becca i campi è un gesto, quello della cornacchia, che traccia un linea, un sentiero, dall’alto (ecco perché è una cordigliera, anche un cordone, volendo…), sui campi.
    La prima strofa è un campo-controcampo tra interno e esterno: i mitrati inverni sono il gelo come una mitra su tutto (alberi, monti), all’interno (da dove si guarda) forse brindando con quel calice si vedono/guardano panorami socialgeografici come troni e gorgiere: metafore e, in realtà, patiboli.
    All’interno -d’inverno- convegni e eresie (anche dai portali: in velocita informatiche, con la incosciente libertà della comunicazione istantanea) però “questo secolo non sarà migliore”… ecc.
    Perfino il legame essenziale madri-figli, e poesia-verità, ha più né senso né realtà.
    Con l’ultima strofa: impossibile una visione (qualsiasi) metafisica: il Nulla non esiste, solo “delirio”. Quindi concordo con le ultime parole di E.A.: ”Il quadro che la poesia ci dà è di desolazione nichilistica e di catastrofe”, ma solo qui, nell’ultimo verso, il poeta richiama se stesso.
    La poesia non è critico-profetica sulle perversioni del potere, ma affronta il tema della realtà “in generale” per dire come essa sia significata nella nostra cultura, e afferma che la “traduzione” in cui abitiamo da millenni non sta salvando il mondo.

  4. …secondo me, la parafrasi di Ennio Abate presenta spiegazioni significative, quanto dubbi (dato il testo di difficile interpretazione), ma risulta in tutti i modi molto chiarificante e convincente per i riferimenti culturali a me in parte sconosciuti, perciò lo ringrazio….
    La poesia di Antonio Sagredo mi sembra molto concentrata sul poeta: c’é questo inizio enfatico “Potessi i mitrati inverni salmodiare…”, in cui il pronome “io”, pur sottinteso,é presente con tutto il suo peso emotivo…nella seconda strofa ritorna “…la mia parola cordigliera”…e nell’ultimo verso “Non esiste un Nulla che mi conforti…”. Certo lo sguardo del poeta comprende il mondo presente, replica dei mondi passati, come luogo dove regna un potere feroce, fatto di sentenze e di patiboli, in cui anche le Madri ( le religioni, i miti?) senza ombra di fede e di speranza si sono vendute al consumismo e divorano i loro figli prima di guerre e condanne. Anche il ruolo del poeta si é immiserito, non riesce con il suo fiero disprezzo a seppellire il suo boia… E’ la poesia del grande sconforto…

  5. Il subire fino all’annullamento anche cercando di esorcizzare tutto il potere con ghigno sorprendente. Resta la constatazione contestabile attraverso una realtà che resta nel poeta quasi come una disgrazia e anche di più. Sagredo è bravo.

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