Calabria nei miei pensieri

Luigi Amato (1898-1961) - pastello - Jennaro , pastore calabrese
Luigi Amato (1898-1961) – pastello – Jennaro , pastore calabrese

di Eugenio Grandinetti

Le poesie e la nota in appendice
sono tratte dall’ Ebook omonimo (scaricabile qui)

Le castagne

Quando d’autunno i ricci si spaccavano
al mattino in paese era un fervore
di voci che si affacciavano dagli usci,
si aspettavano sulla soglia e tutte insieme
si avviavano in montagna alla raccolta
delle castagne che già cascolavano.
Alla fine del giornale stipavano
sopra gli assiti laschi
delle caselle rustiche, mentre sotto
accendevano fuochi di frasche umide
che facessero fumo e disseccassero
i frutti dentro i gusci membranacei.
Era un lavoro duro: ginocchioni
nel sottobosco umido, con le mani
punte dai ricci e spesso lacerate
dai rovi nascosti, e con gli occhi
gonfi di fumo e rossi e lacrimanti
e con la preoccupazione dei bambini
(il grande che non voleva andare a scuola
e il piccolo con i vermi intestinali)
lasciati in custodia a una vicina
ormai troppo vecchia per andare
anche in montagna alla raccolta
delle castagne. Ma alla sera
c’era almeno una pentola ben colma
di castagne bollite e a volte pure
una bella padellata di porcini
trovati a caso in mezzo al castagneto.

Ora non ci sono più voci al mattino
ma ci sono i rumori
delle porte che sbattono delle automobili
che partono; e le donne
non si aspettano più, ma vanno
ognuna per suo conto sulla piazza
a prendere il pullman per raggiungere
la città più vicina dove fare
i servizi nelle case dei ricchi
senza che gli altri lo sappiano
e non dicano
che vai a fare la serva.
Qualcuna poi si è fatta
anche la macchina, magari usata
ma ancora in buono stato, e per i bambini
c’è l’asilo e si riesce a ritornare
prima che chiuda. Certo
è un vivere più comodo ora e la sera
si mangia pasta ed un secondo piatto
magari anche di carne. Le castagne
chi le raccoglie più? In montagna
sono rimasti solo boschi cedui
da tagliare ogni tanto e ricavarne
travi e tavole: Il frascame
lo si lascia marcire a terra perché adesso
non serve per attizzare il fuoco alle caselle
né ci sono ormai più i carbonai
a utilizzare tutte le ramaglie per stiparle
in una piramide d’argilla
e farne il carbone, perché tanto
chi lo comprerebbe il carbone di castagno
che non fai in tempo ad accenderlo e si spegne
ora che non ci sono in paese più le forge
dove si poteva tener vivo
col soffio di un mantice di pelle?
Forse è un bene anche questo.

Perché in paese ora si riesce
al mattino a dormire più tranquilli
senza il continuo assillo del martello
e del maglio battuti sull’incudine. I fabbri
rimasti senza lavoro son partiti
chi in Germania, chi in Canada e qualcuno
più fortunato anche negli Stati Uniti,
a inventarsi un mestiere, qualunque altro
mestiere, certo meno faticoso,
per tirare a campare e poi tornare
in paese qualche volta, dimostrando
di esser riusciti ad aver successo
e di godere adesso di una vita
certo molto migliore.
Ma pure
quando mi sveglio presto e poi non riesco
a riaddormentarmi subito, mi pare
ancora di sentire
il batter dei martelli sull’incudine,
e il cigolio degli usci che si schiudono
da cui donne s’affacciano, si chiamano
a voce bassa per andare insieme
in montagna a raccoglier le castagne.

 

Aquilino

Dalla pietraia nuda il sole ardente
brucia con il riverbero ogni fronda
e spegne ogni voce.
Il Savuto impigrito dall’arsura
indugia tra le arcate al ponte nuovo
timoroso di scorrere su un greto
scabro ed asciutto.
Ritto e nodoso come un tronco secco
Aquilino sull’uscio della torre
guarda le stoppie della scorsa annata
pronte al prossimo debbio,
guarda la vigna che tra gialli pampini
spinge al sole arrossati radi grappoli
che spera arriveranno alla vendemmia.
Il tempo della memoria si è fermato
a quel meriggio di una calda estate,
ma gli anni invece son passati ed hanno
cambiato molte cose. Forse
Aquilino è già morto ed i suoi figli
sono sparsi tra Melbourne e Vancouver.
Al posto della torre c’è la sede
di un’autostrada dove le automobili
inseguono percorsi già predisposti.
Quelli ch’erano coltivi a gran fatica
strappati alla pietraia son tornati
sterili, dove stenti
spuntano radi cisti e calcatreppole.
Solo il Savuto a ponte nuovo ancora
pare seccarsi nell’estate e aspetta
le piogge dell’autunno per gonfiarsi.

 

Il resto della storia

Serba nella memoria il rosa stinto
dei garofani penduli da un vaso
troppo stretto. Stringi
gli occhi perché le immagini,
che sgretola la ruggine del tempo,
non ti sfuggano, o dimentica
tutto, perché resti deserto
l’attimo che trascorre e la tua vita
sia la goccia pendula, il granello
di sabbia nella strozzatura, e non esista
più altra sabbia che cada e che s’accumuli.
Ma, violenta o furtiva, la memoria
s’insedia in noi
e allora è meglio scegliere
ancora la vecchia casa, il vaso
dei garofani pallidi, la speranza
di evadere, ma fermarsi
a questo punto e non volere
più procedere, non chiedere
il resto della storia.

 

La terra del ricordo

La terra del ricordo che si leva
aspra di picchi e di scoscendimenti
forse m’accoglierà quest’anno ancora
come uno che ritorna, o forse come
un forestiero.
Dopo la svolta della Surda, estranee,
le case nuove dai giardini pensili,
dai tetti di eternit, mi guarderanno
con gli occhi freddi di mansarde assurde
e non mi riconosceranno. Come un intruso
affretterò ad occhi bassi il passo.

Lontane voci hanno fruscii che passano
inavvertiti nell’aria.
Una voce che torna vibra un poco
come una corda tesa e si ritrae.
Le case ora non sentono, hanno muri
di mattoni forati che separano
dal mondo intorno con una barriera
spessa di vuoto.
Ed io non ho parole.
Tu non sei
il luogo del ritorno
sei soltanto
un luogo come un altro, estraneo,
ostile. Queste case
sono come castelli timorosi
col ponte levatoio sempre alzato.
Chiunque arrivi è un nemico.
Ci si chiude
entro le proprie mura. Ci divide
sterminato un fossato di silenzio.
Non ho una stella che mi guidi i passi
a una promessa,
ho solo un filo che dall’altro capo
nessuno regge più,
e segue il corso di un percorso attorto
e si svolge a fatica, s’attorciglia
attorno alle mie dita,
s’impiglia in qualche spigolo ed attarda
il corso dei miei passi.
Ed io non ho parole.
E altri passi si destano stupiti,
voci dal suono già dimenticato:
Forse tornano sogni che ho lasciato
o che mi hanno lasciato
in qualche luogo occulto della vita.
E il tempo è solo un lento rarefarsi
di voci che si perdono e non resta
altro che il suono di una voce sola
nel silenzio, dispersa.
Ed il silenzio ha un’ombra che s’avanza
dal fondo valle a poco a poco e avvolge
questa costa di monte, ove più lento
è già lo sguardo.
Come in un sogno immagini sospese
si levano dal nulla all’improvviso
e all’improvviso dopo poco crollano
senza relitti.

E forse a un luogo ove non c’è più nulla
mi chiama un’eco o un suono di conchiglia,
ma il filo s’è spezzato,s ‘aggroviglia
ora davanti a me, e il buio
della sera che avanza mi sorprende
e rende più timidi i miei passi. Forse
perché non c’è più ritorno. Mi fermo
e sto in attesa
di un’altra alba che forse non verrà.

 

Ritorno alla vecchia casa

E dove tornerò ora
se pure volessi ritornare,
ché la casa nel vuoto ora s’è fatta
estranea, perché un lungo aspettare
è una chiusa parentesi ove il tempo
usa parole nuove per comporre
frasi sospese di cui forse non resta
memoria nuova e pure la memoria
d’altri tempi è ormai mutila
come frase che a mezzo s’interrompa
e immutabile fissi un già dismesso
discorso ellittico .
E forse la vita stessa ora ci appare
come un discorso senza predicato
che conclude alla fine un arbitrario
punto fermo.
Punto fermo o forse evanescenza,
come parola a caso suscitata
in una stanza vuota ove per poco
vibra per uno stupore inaspettato
il ristagno dell’aria.
E chissà, forse un giorno ritornando
rivedrò la veranda e il verde chino
di un cespo già sfiorito di garofani
ed il filo di muschio e la cedracca
sul muro stonacato,
là dove l’acqua della pioggia stagna
per crepe imprevedibili.

 

Il bosco del Monte

Sono passato in questo bosco tante
volte con la memoria, che mi pare
di pungermi ancora alla ginestra
spinosa, di staccare
un ramo di castagno e farmi un flauto
di corteccia.
So dove nasce il ciclamino, dove
striscia la vinca esile e s’avvinchia
all’erica scoparia, dove
tra le rosette basse leva il caule
rigido la digitale ferruginea,
e so dove le tortore hanno il nido
ruvido di sterpi,
o dove lo costruisce invece il merlo
soffice di lanugini.
Passo tra ombra ed ombra. Gli alberi
hanno voci di vento esili, incantesimi
remoti che ritornano. Poter ritornare
ad una quiete verde ancora,
dove la vita è sempre una crudele
vicenda, pure se inconsapevole,
dove la pica predatrice prende
le uova dai nidi, dove il ragno tende
reti agli insetti,
e le processionarie a frotte spogliano
gli alberi, mentre s’indovina
sotterranea una lotta di radici.
Ma è qui che torno quando più frequenti
si fanno estranei i giorni
e straniero percorro strade sterili
d’asfalto e folte di solitudini.
Guardo le case ostili che s’assiepano
e hanno muri ch’escludono, porte
che non son fatte per aprirsi,
con tutte le inquietudini, i timori
di vivere, con le lotte
occulte, con le ultime
speranze, che s’attardano a spegnersi.
E il sogno è quello di tornare al bosco
del Monte, a ripercorrere
i sentieri scoscesi dove il sole
ha riflessi di verde ancora tenero
di foglie nuove,
di sentir crepitare sotto i passi
gli stecchi secchi ch’erano speranze
ma caddero prima d’essere rami,
e non si fecero
ruvidi e attorti alle intemperie,
di fermarmi e sedere infine all’ombra
di una farnia e chiedere
come per rito ad un cuculo il calcolo
degli anni che restano,
senza però aspettarmi una risposta.

 

Migranti

Questa Calabria che ci sta nel cuore
come una spina e duole
e più ci si agita e più s’infigge fonda
nelle carni e ci tormenta
come il pensiero di un figliolo infermo
che si lamenta ma non vuol guarire;
questa Calabria, pendulo
sfasciume tra due mari, tormentata
da frane ed abbandoni, arsa
d’incendi a monte e deturpata
da case di vacanza alla marina,
fitte come in città, con scarichi
fognari al mare;
questa Calabria che non sa capire
che pubblico vuol dire di ciascuno,
che eleggere non sta a significare
consegnar nelle mani di qualcuno
che ci prometta appoggio personale,
la gestione dei beni collettivi,
ma significa scegliere tra tanti
coloro che ci paiono i migliori
per idee,competenza ed onestà.
….
Dai boschi della Sila, dai dirupi
dell’Aspromonte, dalle Serre rigate dai torrenti
dal Pollino dormiente e dai rilievi
sovrastanti le coste del Tirreno
i fiumi s’affrettano a raggiungere
il mare,
perché anch’essi non vogliono restare
in questa terra dissennata e scelgono
di dissolversi in acque inquiete, dove
venti e correnti tra di loro lottano
generando marosi che s’abbattono
ostili contro le coste, o che si fanno
acque stagnanti di bonaccia, dove
gli eventi imputridiscono. Anche gli uomini
che nel tuo seno nascono s’affrettano
presto a lasciarti per andare
lontano da te, lontano dai tuoi monti
magari oltre i confini o anche
oltre gli oceani
tra gente estranea ostile che li guarda
come intrusi che portano disordine
e malattie, che rubano il lavoro,
non uomini uguali agli altri ma piuttosto
babis, dago, terrun, comunque gente
da evitare, gente
senza coscienza e senza dignità;
o se non possono o non sanno osare
di andare alla ventura, col pericolo
di non trovar lavoro e di dovere
tornar sconfitti, vendono la vita
per il salario magro
di poliziotti al servizio dei padroni,
di guardie carcerarie o addirittura
di soldati mercenari,
che per ipocrisia chiamiamo volontari
e mandiamo lontano a sostenere
guerre di pace, esposti
all’odio di coloro
che nelle loro terre lottano
contro interessi che a noi sono estranei.
E se ci lasciano la vita – e solo allora –
sono considerati eroi e meritevoli
del funerale a spese dello Stato
con la partecipe commozione
delle autorità civili e militari
che pure si dovrebbero sentire
responsabili di queste guerre inutili
dove quelli che muoiono non sono
loro né i loro figli,
e quelli che rimangono e che soffrono
per la morte dei loro familiari
non sono certo quelli che decidono
della sorte degli altri, ma sono gli umili
che accettano il pericolo
di morire pur di sopravvivere.
Ed anche oggi
nuovi migranti partono, abbandonano
il loro paese
che ora compiangono e che rimpiangeranno
stranieri ormai per sempre: nelle terre
che mal li accolgono e anche in quella
che era la loro terra, perché altrove
si svolge ormai la loro vita, lontano
dalle loro radici, lontano
dalla loro adolescenza. Certo avranno
altri amici, ma non quelli
degli anni ancora acerbi, quelli
dei giochi dell’infanzia
con cui ci si scambiavano speranze
di una vita piena di glorie
e di soddisfazioni.
E forse ci saranno altre speranze,
ma anguste ormai e senza più stupori,
e i luoghi del passato non saranno
più luoghi della memoria, ma memorie
di un paradiso ormai perduto.
E invece continuerà ad essere reale
questa Calabria di cui noi vediamo
il suolo franare a valle e gli uomini
perder fiducia in sé, non essere
più popolo consapevole, ma sentirsi
clienti e sudditi che si affidano
alla furbizia e non all’intelligenza,
che s’ingegnano a cercare
mezzucci e protezioni,
invece di difendere
il diritto di vivere; che vivono
sempre nel timore
di dispiacere a quelli che comandano
ed anche a quelli che pensano che essere
veri uomini stia a significare
imporsi con la violenza ed ottenere
il silenzio omertoso e l’ubbidienza.

Questa Calabria amara a cui ci chiama
la nostalgia,  che non è che dolore
del ritorno negato ad un passato
ormai remoto, ad una vita
più partecipe, forse,
pure se come ora
per sopravvivere occorreva andare
oltre i confini
del proprio paese, oltre i monti e magari
oltre gli oceani, per diventare
babis,dago,terùn, e per sentire
sempre il dolore della nostalgia
di questa Calabria che ci sta nel cuore
come una spina e duole.

APPENDICE

Nota dell’autore

Quando sono a Milano e sono in procinto di partire per la regione dove sono nato, penso che sto “tornando” in Calabria; ma quando poi finisce il periodo di vacanza penso che devo “tornare” a Milano: Ma qual è allora il luogo del “ritorno”?
Inoltre, quando sono in Calabria, gli amici che vogliono venire a trovarmi dicono ”andiamo dal milanese”; ma a Milano gli altri pensano a me come al “calabrese”.  Se sono amici, l’appellativo serve solo a distinguermi magari dai miei omonimi; altrimenti viene caricato di una punta di disprezzo, anche se a volta mitigata da un “ma lei è diverso dagli altri calabresi”. Sono comunque uno che viene da un altro mondo, e che, pure se non sono del tutto assimilabile agli extracomunitari portatori di malattie epidemiche, sono comunque uno che ha tolto occasioni di lavoro alla gente del luogo e che comunque ha contribuito a tener basso il costo del lavoro. Inoltre c’è sempre il problema dell’importazione della malavita e comunque quello della mentalità omertosa, per cui sarebbe stato meglio se i terroni se ne fossero rimasti a casa loro. Ricordo che una volta un signore belga che avevo conosciuto durante una vacanza, al sentire che ero calabrese, scherzosamente disse: “calabrese col coltello”; e mi venne in mente che magari negli Stati Uniti, dove mio padre era vissuto per molti anni come emigrato, qualcuno lo avrà chiamato “dagu”(accoltellatore) e sì che mio padre era l’uomo più mite e più fiducioso che io abbia mai conosciuto. E la reazione degli emigrati non potrà che essere duplice: l’una un senso di ostilità nei confronti di quelli che si sentono ostili, l’altra di nostalgia per i posti dove sono nati e che hanno dovuto abbandonare per poter sopravvivere. Poi però subentra la riflessione e allora si comincia a considerare che l’ostilità del popolo che malvolentieri accoglie i migranti fa parte di un piano concepito nei luoghi del potere per il quale, se si vuol mantenere l’ingiustizia sociale esistente, occorre creare divisioni tra etnie diverse, e, nell’ambito della stessa etnia, tra ceti socio-economici diversi, tra persone che hanno ideali diversi o che professano religioni diverse o che svolgono attività lavorative diverse o che addirittura parteggiano per squadre sportive diverse.
Per quanto riguarda la nostalgia, essa è un sentimento irrazionale che ci spinge a mantenere comportamenti irragionevoli. La prima nostalgia è certo quella per un paradiso perduto: Ma quale paradiso e perché perduto? Se “fatti non fummo a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, allora l’allontanamento da questo presunto paradiso a causa della ricerca di conoscenza (sia essa rappresentata dalla manducazione di un frutto proibito o dall’uso del fuoco riservato solo agli dei) allora non si dovrebbe provar nessuna nostalgia, se è vero che da quel paradiso cerchiamo di allontanarci ogni giorno di più con la nostra inesauribile sete di sapere.
E questo stesso discorso vale per la nostalgia che noi proviamo per la nostra terra di origine e nel mio caso per la Calabria: una regione che non ha saputo difendere nemmeno il suo nome, ma ha lasciato che le venisse imposto quello di un’altra regione che i suoi conquistatori avevano dovuto abbandonare ad altri conquistatori. E certo i calabresi non dovrebbero rimpiangere il loro paese che li ha lasciati andare indifesi per il mondo a cercar nuovi mezzi di sussistenza e nuova dignità. Eppure si trovino essi nelle new Italy del Canada, o nella Millerose park (Melrose park) dell’Illinois, o nei paesi dell’America Latina o in Germania dovunque li ha sospinti il bisogno, quando pensano alla Calabria sentono vivo il dolore del non ritorno, perché questa Calabria sta nei loro cuori come una spina e duole.

NB: La presente raccolta non é stata concepita come raccolta a sé stante, ma comprende materiali presenti in altre raccolte, edite ed inedite.
Bisogna anche tener presente che la Calabria di cui si parla non coincide in maniera univoca con la regione d’Italia indicata con tale nome: la mia Calabria, infatti, è solo quella della valle del medio Savuto, dove ho passato l’infanzia e l’adolescenza. La stessa Cosenza, pur così vicina, era un luogo quasi estraneo: era il luogo dove si andava a studiare e rappresentava perciò la tristezza dell’allontanamento dalla famiglia e dagli amici. L’altra Calabria, quella di Sant’Elia e di Capo Zeffirio è venuta dopo, quando, tornato da adulto, ho avuto i mezzi per andare in giro a visitare i luoghi più belli e più interessanti. Ma anche questi erano luoghi estranei,dove non c’era più la traccia degli affetti ma solo la curiosità del conoscere.

19 pensieri su “Calabria nei miei pensieri

  1. “la mia Calabria, infatti, è solo quella della valle del medio Savuto, dove ho passato l’infanzia e l’adolescenza. La stessa Cosenza, pur così vicina, era un luogo quasi estraneo”.
    Chiudersi in una ristretta solitudine, nel luogo geografico di una valle, e tutt’intorno una regione estranea quasi come il mondo intero, mi fa pensare che i luoghi descritti da Grandinetti siano in realtà quelli del suo animo; e che la Calabria c’entri in modo accidentale, perché un colore e un sapore dobbiamo pur averlo. Io e altro, io e gli altri, dove fan più compagnia i rovi e l’incognita di una morte altrettanto solitaria. Si potrebbe dire che questa è la sorte di ogni uccello, di ogni serpe, di ogni animale che viva a dispetto della modernità e delle convulsioni del mondo. L’estraneità di cui si parla, quella dei calabresi, nasce nell’intimo di ciascuno di loro? Se così, vale il principio per cui possiamo vedere solo ciò che abbiamo dentro. Ma Grandinetti si guarda dal giudicare, piuttosto sembra voler mettere ordine, cerca di capire e tenta di spiegare. Infine a me sembra di leggere la testimonianza di un’etnia, di una tribù che potrebbe appartenere ad un altro continente; e in questo mondo dove milioni di voci si alzano allo stesso tono e si parlano con scritture diverse, dove cadono le disuguaglianze culturali, in questo mondo tutto è possibile, tutto appartiene alla contemporaneità. E tuttavia pare che Grandinetti voglia sottrarsi anche alla poesia, se è vero, come a me sembra, che non la osi più di tanto, preferendo una prosa che a tratti di poetico non ha proprio nulla: a meno che non si creda che sia poetica la malinconia di per sé. Ma la scrittura è cadenzata, scorre lenta, senza sussulti, come un ampio fiume, come la vita. Ma la propria soltanto.

      1. Ho pensato che sotto sotto ci potessero essere aspetti caratteriali, molto soggettivi, e che poi tutto finisca… in Calabria. Riconosco che, più che un commento, era una domanda azzardata. E anche se fosse non so cosa cambierebbe. Ma prendo atto della sua risposta, e mi perdoni se dico le cose come sentenziassi. Quanto alla poesia, mi riferivo particolarmente alla prima, Le castagne, ma al proposito ha risposto egregiamente Leopoldo Attolico. Fa niente se a me pare poco più di un buon componimento, le parole scorrono scorrono in buona compagnia e non ce n’è una strana, né si vede un bagatto. Ma questo è affar mio. Grazie

  2. Rendersi conto di quanto le radici si siano infilate profondamente in tutto l’esistere.
    il Poeta ascolta il dolore, vede immagini indimenticabili, non può e non vuole separarsi da questi ricordi che danno ancora forti emozioni e le emozioni si sa servono per vivere sempre con quella forza di cui tutti abbiamo bisogno, certo non per sopravvivere. Non è solitudine la sua ma bensì voglia di stare soli per continuare ad amare e se è il caso anche accettare la sofferenza che fa sempre parte del vivere in prima persona.I suoi sogni e la sua chiara realtà sono qualcosa di meraviglioso e di così spontaneo che mi hanno commosa. La poesia qui è di parole che non sfuggono mai al significato vero , vivo e penetrabile che ci rende partecipe al sentimento di un uomo che della sua Calabria riconosce tutto ,pregi, difetti ma soprattutto passione.Sarà che quest’anno ho trascorso le vacanze in Calabria sul mar Tirreno e in questi versi mi sono ritrovata. Complimenti e grazie.

    1. io quest’anno non sono andato in calabria,nè so se ci andrò mai più.questa raccolta vuol essere un saluto alla mia terra natia

  3. Non generica solidarietà ma convinta empatia per l’umanità e la terrestrità di questa testimonianza . Non si dica quindi che la poesia è “inutile”, come Qualcuno asseriva . Se il linguaggio ha gli attributi che gli si chiedono diventa la cattiva coscienza di quanti si trastullano con i propri versi e dimenticano di stare al mondo .
    Quindi un grazie a Grandinetti .
    leopoldo attolico –

    1. se mai sono io che dovrei ringraziare te perchè mi hai fatto capire che la poesia non è inutile se riesce a comunicare pensieri ed emozioni.ma i ringraziamenti non sono importanti.importante è che si sia creato un contatto,che è come scambiarsi una stretta di mano anche se si è lontani

  4. …apprezzo molto questi versi di E. Grandinetti e non solo per il loro valore poetico, ma perchè mi hanno illuminato su esperienze condivise…”Qual é il luogo del ritorno?” si interroga il poeta…Alcune poesie, come “La terra del ricordo ” e “Il resto della storia” esprimono molto bene la sofferenza e la solitudine del migrante: quasi fluttuante tra due mondi, non può più avere radici sulla terra (ormai terre) e allora le allunga nel cielo…Chi sei? Dove vai? Può succedere che si inverta il flusso spazio temporale in una sorta di smarrimento e la terra del ricordo può diventare quella del respingimento…Ma c’é anche la voce corale del migrante (“Migranti), con tutto ciò che é legato alla nostalgia e al rimpianto, a continuare ad amare e a soffrire per le sorti di un paese che non ci appartiene più…

    1. sono io che apprezzo il tuo intervento non tanto perchè dici parole per me lusinghiere,ma perchè comprendi perfettamente i miei pensieri

  5. E’ stato molto doloroso e al contempo molto “bello” per me leggere queste poesie…di solito lascio raramente i miei commenti poiché a volte, quando li ho lasciati, non essendo un addetto ai lavori critici ( ma semplicmente una lettrice), ho lasciato parole che in fin dei conti poco significavano rispetto alle cose trasmesse dal testo al mio spirito (cuore e mente tutto compreso). L’aspetto “poetico-contadino” di Grandinetti è tale da zappare la propria memoria in modo semplice senza altri arnesi che potrebbero alleviarne la fatica, ma al contempo lo avrebbero trasformato o in un essere del tutto “milanese”, o in un essere del tutto “locale o provinciale”. Rappresenta per me il senza terra per antonomasia, di tutti coloro che da qualsiasi parte del mondo sono stati strappati alla loro terra con una forza brutale tle che la propria , della propria fatica, è stata del tutto azzerata. Tale carIco è identico anche per chi è rimasto nella terra natale, come la milanesissima Emy, o il poeta che già leggemmo e che si dedicò al canto della terra santa, pardon del campo santo di Mormanno, ergo Francesco Tarantino e la sua spoon river, o memorie degli alberi recisi.

    Il problema/ dolore senza soluzione, e dunque di tutta fatica animica, del tutto diversa e sovraumana da quella semplice o tecnica di poter zappare un pezzo di terra ( se ce ne fosse rimasto uno per ognuno di noi), è che Grandinetti almeno per me rappresenta con la sua biopoesia colui che ci dice, ognuno secondo la sua terra natale e la ua provenienza, la sua destinazione etc etc che non è possibile ritornare più nella terra quando era quella e quella sola terra (se non nella memoria stessa….)

    ho deciso di lasciare questo commento per il grande rispetto che ho sentito leggendo e rileggendo sia le poesie che i commenti, quasi una magia come quando non eravamo senza terra.

    un abbraccio alla poesia, al poeta e a tutte/i

    1. …che caratteristiche ha la terra dei senzaterra? Tu calpesti la mia, io calpesto la tua…Che importanza ha per i senzaterra? Scorre un fiume in questa terra? Sì, ma ci sono anche il deserto, la savana, la foresta e la banchisa..Che frutti si mangiano in questa terra? Tutti quanti succosi cadono dagli alberi…Ci sono muri in questa terra? Solo ponti, lunghi sterminati ponti tra mari e oceani…Che lingua si parla in questa terra? Il silenzio che si declina nel canto e nel gesto…E il movimento? Circolare, direi, per abbracciarci tutti…

  6. Ve bene, mi avete convinto. Specialmente la definizione di rò, della biopoesia. Apro una nuova casella nella mi testolina e toh, guarda quanto spazio c’è ancora da riempire! Cancello quanto ho scritto sopra… diciamo quasi tutto, e ringrazio Grandinetti per la pazienza.

  7. A Mayoor
    anche tu ti sei dovuto trasferire . Nel tuo spazio che ancora dici di aver da riempire sei sicuro che tu non l’abbia già percorso senza provare ciò che ha provato Grandinetti?
    Il motivo per cui si parte spesso non è sempre lo stesso per tutti e per non soffrire si arriva a tentar di dimenticare. Ho voluto, cercare di capire “aspetti caratteriali molto soggettivi”. Un abbraccio.

    1. Quasi non ricordo dove sono nato, né sono certo di quale sia stato il primo inizio. Quel che siamo si completa nei primi sei, sette anni di vita; poi la personalità è fatta, e tutto può dipendere da come ci hanno costruiti. Perché i bambini nascono senza personalità, hanno solo qualità che li rendono unici e ineguagliabili. Quindi, nel viaggio, c’è chi parte bene e chi no, e questo vale tanto per i poveri quanto per i ricchi, che a farci santi o stronzi ci pensano comunque gli altri. Il cordone ombelicale che ti lega alla piccola famiglia te lo tagli da solo, anche se è vero che non pochi ti possono aiutare. I poeti sono tra questi, ma è chiaro che è scrittura, e la scrittura è idealismo (o fenomenica in sé). Quindi ci sta che si diano valutazioni di carattere estetico e si evitino personalismi. In questo senso sbagliavo nel riferirmi agli aspetti caratteriali: trovando scontata l’interpretazione “emigrante”, avrei voluto guardarci dentro, ma forse più per provocare che per sapere. Del resto Grandinetti, tempo fa, spiegò molto bene la sua posizione i n merito alla scrittura.

  8. ..continuando in questo nostro a_bracciodi cui ringrazio Lucio per la sua grande capacità di avanzare da un punto all’altro lontano dal primofino alla “stretta” che me lo ha ispirato ( “di mano”, che , a me, è stata passata a sua voltaio intrusa, e non straniera, fra le mani di Grandinetti e Attolico), vorrei aggiungere una cosa che suona di vacanza, sia come assenza sia come turismo atipico.

    Siamo cioè tutti, chi più chi meno vicino allo sguardo sulle cose della terra rubata ai nostri alberi, in quella circolarità che mi viene da dire “zen” solo per via della continuità all’abbraccio cantato da Annamaria. Siamo in pratica ridotti a turisti in casa propria, come tanti giapponesi che al contrario di quel che abbiamo visto o interiorizzato nelle loro corse in terre a loro straniere , costrette in ammassi caotici pressati nel loro sguardo a storia e monumenti, colline e strade) si sono soffermati , chi fin dall’inizio atomico chi dopo l’esplosione, chi molto dopo, davanti a un prima, vivo solo in quel prima, e dentro un dopo, in cui quel prima è morto per sempre.

    E, a meno che ci si voglia raccontare balle, cosa del resto umana e comprensibilissima (perché non eravamo fatti per caricarci di ogni tipo di dolore, compreso quello atomico, fatto di bombe per ogni terra, non solo quelle convenzionalmente nucleari della terra del sol levante), non possiamo più essere viaggiatori veri e propri se non, ognuno, nella propria calabria, con i sapori delle castagne o dei fichi, nelle mani di una memoria attiva e continuamente attivata dai viaggi dentro i paesaggi interiori che, per contrasto con quelle esterni presenti, denunciano la convivenza con la propria condizione straniera di un’anima turista per caso, per caso di forze maggiori volute contro i viaggi dell’uomo.

    Andate senza ritorno le terre di ognuno, trapassate come a un parallelo extraterrestre in un dialogo obliquo e longitudinale continuo come se i vivi e i morti, i terrestri e altri di altri pianeti, chiamati alieni, potessero comunicare pur di ricordare l’era dei viaggi dell’ uomo e suoi simili abitanti di altri pianeti.

    E se muoiono queste trasmissioni, compresi i castagneti di Grandinetti, anche l’atomica stessa non sarà più la linea o la frontiera che l’uomo non doveva superare, e che poi avrebbe dovuto ricordare come fa la poesia di Grandinetti. E moriranno anche gli ultimi viaggi possibili post atomici, quelli dentro le uniche terre rimaste, una volta rubate, per sempre, le parti vive per millenni dentro quella frontiera…

    Vi saluto con un “Seta” indimenticabile di altri dimenticati..

    1. Ringrazio a tutti per la festa, i botti, e per lo santo che passò in punta di piedi. Eh, quando gli schiavi li andavano a prendere dall’Africa, quelli erano bei tempi! Mo c’è da fare la fila per farsi mettere alla catena. “Non c’è lavoro, non c’è lavoro”, ma che minchia è! A quelli che non ci stanno, perché non son né schiavi né padroni, ci tocca di usare la testa, rimirar le pietraie e i boschi della Sila. Se no perché tutto ‘sto ben di dio?

  9. …cara Ro, il tuo filmato troppo ci fa capire quanto abbiamo perso, perdendo la terra, soprattutto in appartenenza ad una comunità coesa, dove condividere il dialetto, il cibo, la fatica, il tripudio di una festa…come noi inurbati, o no, con le atomiche nel cervello, andiamo arrancando, spesso soli, per un pugno di sabbia…cerchiamo disperatamente nei granai le riserve ormai finite…ci arrampichiamo sui vetri per una cultura di microbi, come del resto fanno gli insetti quando restano intrappolati nelle case…oppure camminiamo a testa in giù, convincendosi che il campo sia il cielo…e da contadini ci facciamo giocolieri nelle fiere, pur di tirare a campare. D’altra parte, solo ieri, ho incrociato, ed é l’ultima tendenza, al semaforo di una strada, là dove una volta “i lavavetri”, un giovane agile e bello, con un cappello di lustrini in testa, improvvisarsi giocoliere per qualche monetina…Toh, un altro senzaterra, che spreco di energia, di intelligenza…che tragedia

  10. Poesia del ricordo e del distacco,ma anche dell’amara consapevolezza del non ritorno. la terra amata dal poeta è anche quella del rimorso per essersene andato quando forse avrebbe potuto operare per il suo riscatto .
    E nella memoria è presente anche l’impossibilità di recuperare quei luoghi così com’erano nel passato.
    Non esistono più e anche la rimembranza non consola.
    Ed ecco la denuncia, lo scoramento ,la voglia di non tornare più.
    L’espressione poetica di Grandinetti, sempre raffinata e armoniosa, varia da quella più musicale al verso prosastico quando l’urgenza e le problematiche
    della situazione lo richiedono.Sempre stimolante per le riflessioni che sa suscitare e l’arricchimento culturale la poesia di Eugenio Grandinetti.
    Grazie
    Maria Maddalena Monti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *