Poesia ed esercizi di poesia

abbigliamento-palestra-2

Per rispetto della buona regola di stare rigorosamente al tema del post proposto, trasferisco qui la interessante discussione avviatasi  dopo la pubblicazione del post “Esercizi di poesia” (qui) e continuata impropriamente in quello di Marcella Corsi (qui).  Il titolo riassume i due punti di vista che si stanno confrontando.  Il lettore appena arrivato si orienterà scorrendo i commenti riportati qui di seguito o rileggendo soprattutto gli ultimi, che mi pare mettano bene a fuoco i dilemmi irrisolti. [E.A.]

ro

13 novembre 2014 alle 7:49

Autorizzo Ennio a cancellare questo intervento laddove risulti fuori tema e soprattutto sconclusionato. Volevo già intervenire di nuovo ringraziando Marcella per aver colto il peso della mia indole, poi ancora leggendo Rita, invece alla fine intervengo per “abatizzarmi” (criticare non proprio morbidamente una certa emytologia 🙂 ) ma anche confessarmi e mettere in relazione certi pesi e misure troppo inconciliabili, almeno ai miei occhi, fra certe dinamiche presenti in altro post ( quello sul ritorno di certi esercizi , ergo i due testi di Annamaria e la critica)..

Confesso di aver duramente criticato Marcella in uno scambio epistolare fra me e Ennio… la critica non riguardava la sua immensa capacità poetica ma, a mio avviso, l’ingenuità e il probabile rischio di strumentalizzare o offrire possibilità di strumentalizzazioni della morte del nostro carissimo e infinito Gianmario Lucini. In quell’occasione, come già in altre, l’atteggiamento di Emy fu solo di scagliarsi contro certe mie obiezioni e dubbi sollevate con proposte di letture, stile quelle accennate anche nelle segnalazioni a questo potentissimo canto di Marcella Corsi. Emy rappresenta ovviamente una moltitudine impenetrabile e altrettanto ovviamente non ce l’ho con lei, di cui comunque apprezzo e so distinguere le sue qualità, comprese quelle poetiche, ma quando Ennio s’interroga, soprattutto nell’altra pagina su certi esercizi, ritenendo giustamente la questione “apertissima”, mi ritrovo in quanto frequentando e leggendo (alcune volte piu in silenzio, altre piu rumorosamente) anche questo spazio fatto di “poeti”, mi disoriento soprattutto laddove sento una frattura fra la vita, il pensiero e il linguaggio, in questo caso poetico. So come ben dice Ennio che il linguaggio poetico, come quello musicale o teatrale, cinematografico o scultoreo, si dipana su piani “altri” rispetto al pensiero e alla vita, ma tutti i diversi linguaggi, almeno per me, sono collegati o connessi a quell’unico nucleo che è la vita stessa e la sua speciale capacità, rispetto ad altre forme di mera esistenza, di fare ed esprimere pensiero. Essere più vicini a questo nucleo, brucia e anche disorienta, fra innocenza e colpevolezza in un movimento continuo che in altri tempi si chiamava autocoscienza. La ricerca continua impone di fermarsi e muoversi incessantemente, anche rischiando disorientamenti ( lo dico soprattutto per Annamaria Locatelli che dichiarava, ieri, di essere disorientata come fosse un meno a suo sfavore e può essere invece tutto il contrario)… il mio intervento così irruento per essere a suo fianco, è aumentato quando , tanto come avviene sistematicamente ogni giorno per mille situazioni simili dentro il quotidiano di ognuno di noi, c’è stata la consueta e prevedibilissima Emy ( ripeto la prendo solo come tipo umano molto diffuso e non perché ce l’abbia con lei) che voleva buttarla a tarallucci e vino. Tanti come s’inchinano si possono infuriare per rigettare ogni dubbio pur difendere “la classe” a cui appartengono. Danno lezioni ad altri di adorazione della “critica”, addirittura della critica poetica, ma quella pre poetica , sempre presente al nucleo da cui si dipanano tutti i linguaggi, compresi quelli artistici, è a loro cosi preclusa, da prenderti a mazzate o respingerti , cosa che per chi è pieno stracarico di zeppo, aumenta l’autocoscienza e l’autocritica sul fatto di essere i soliti incapaci ad esprimersi… Nel caso di Annamaria, la cosa che mi abbatte tuttora, è come poter pensare di confrontare ed adottare gli stessi pesi e la stessa austerità, per misurare i risultati di un componente dei moltipoetanti come se fossero identici e sullo stesso piano dei premi nobel o dei mostri (nel senso buono) o delle bestie sacre delle antologie , raccolte, volumi su volumi dei grandi….Questo mi riporta a questo post, e al fatto che ha ispirato MArcella nella sua potente poesia. Cioè, non riesco a capire chi come Emy – e non come Marcella stessa, Ennio o Rita- abbia potuto fare un unico assoluto metro di posizionamento nell’impegno “civile” che indurebbe questo canto di Marcella .Né tantomeno riesco ad afferrare come un insieme moltipoetante abbia così poco frequente il desiderio di Marcella o di Rita, di scavare in quel nucleo che io chiamo nuda vita per trasporre in linguaggio poetico qualcosa che nella sua tipica qualità di ambiguità, sia abitato da ragioni del tutto inavvicinabili da coloro che di pre-poetico, d’impoetico (cit Lucini) e di poetico hanno solo da guadagnarci nelle loro ragioni di morte, saccheggio, inferno, (anche fosse, quest’ultimo, l’inferno, unicamente quello di renderci ogni giorno sempre più colpevoli senza che nemmeno più fossimo in grado di accorgercene).

emilia banfi
13 novembre 2014 alle 8:44

@ Rita

Lusinghe!?!?!?
Ma se ho preso solo mazzate! Adesso sorrido io.

ro
13 novembre 2014 alle 11:22

Emy ciao, volevi rispondere a me e a Rita in un unico contesto? 🙂
a parte questa domandona, continuiamo le nostre scaramucce o dispettucci, visto che di fronte alle vere e proprie mazzate degli eliminators imperiali, anche queste riflessioni fanno danno o hanno un peso di innocenza o di colpevolezza molto molto relativo ..passiamo duqnue alle mazzate che dici. Mi spiace essermi “abatizzata” piu del solito stamattina e averti preso a mazzate, tuttavia, meno male o purtroppo, se prendo mazzate, ma soprattutto se vedo che qualcuno le prende di santa e non santa ragione, divento una bestia ( come l’uomo non sa fare per la sua specie, ma i lupi o i castori o i delfini , eccome se si!)…sicché ho reagito alle tue mazzate di altro ieri, o di altri giorni e situazioni, e te le ho suonate anch’io. Non si può affermare quando c’è da fare tarallucci e vino, che un bravo attore o un bravo poeta deve saper lavorare le critiche , assistere alle eventuali mazzate , proprie e soprattutto altrui, con pseudoleggerezza , e poi invece quando c’è da far funzionare lo spirito critico minimalissimo, di confronto sulla stessa realtà, sglui stessi soggetti o oggetti della realtà, sottrarsi alla critica stessa, e per giunta finendo comunque a tarallucci e vino o con l’inchino…muore ammazzata ogni compartecipazione, ogni spirito che sa distinguere i pesi per valutare un nobel da un dilettante, per pesare i grammi di una colpevolezza o un’altra, o più semplicemente ucciderei dall’empatia alla mitica critica.

Annamaria Locatelli
13 novembre 2014 alle 11:35

Cara Ro, chissà se anch’io riusciro’ a dire qualcosa di sensato…
Parlo della tua dolcezza che si fa battagliera quando ti sdegni ed é cosi’ assoluta da lasciare senza “difese”, poi vedi cosi’ in trasparenza da lasciare “scoperti”…noi oggi cosi’ impreparati agli abbracci…
Ritorno sulla potente poesia di Marcella: “siamo tutti ugualmente innocenti”, ovvero siamo tutti ugualmente colpevoli verso le vittime, da chi scaglia la prima pietra, magari una parola maldicente, a chi con indifferenza continua la sua vita…e nel terzo verso fa riferimento ad una comunità che impone ad un padre di portare al capestro la figlia, la bellezza da lui generata, quasi un gesto sadico e incestuoso…cosi’ che si possa liberare da ogni colpa: lui l’ha fatta e lui la distrugge. Ma anche lei non si ribellerebbe, potendo, succube di un credo religioso-politico…Certo quella descritta è una società particolarmente feroce, ma anche la nostra non scherza, per quanto ben mascherata…E’ cosi’ che tutti siamo a volte colpevoli, a volte innocenti…essere solo innocenti equivarrebbe ad una sola cosa, oggi difficilmente raggiungibile: libertà da ogni condizionamento…Quanti di noi? E come? Beh, la vita di tempo in tempo ci butta tutti in mare, e li’, innocenti e colpevoli, a boccheggiare, ad annaspare…quanti incontri si fanno li’ sotto che ci liberano dei nostri ruoli, quanto sale beviamo…
In questo gruppo di poeti o solo di persone ho trovato una comunità in ricerca di libertà, e cio’mi fa sentire in buona compagnia…diamoci una mano

Luciano
13 novembre 2014 alle 12:39

Uccisi un giorno, un maledetto giorno di fine agosto, l’ipocrisia e la falsità. Dovevo farlo per me e la mia sopravvivenza. Tre giorni dopo uccisi il di più: l’amore non vero e il sogno. Poi uccisi me stesso. Dovevo farlo. Sono innocente.

emilia banfi
13 novembre 2014 alle 14:43

@ Ro

Per quanto riguarda Rita Simonitto ribadisco che la sua critica è davvero molto interessante e mi insegna sempre qualcosa come del resto anche quella di Ennio. Io ho provato anche a fare critica premettendo sempre che non sono certo adatta perché non la so fare. Riesco comunque sempre ad emozionarmi e a considerare ciò che gradisco con grande entusiasmo (fa parte del mio carattere). Pe quanto riguarda le “mazzate” che poi tanto mazzate non sono
fanno male, ho ancora qualche postumo , ma grazie a dio le so curare da me.
Devo chiedere scusa se qualche volta ho voluto sdrammatizzare il tono del Blog scherzando un po’?
Il vino e i tarallucci li lascio a te , a me non piacciono. ciao

Ennio Abate
14 novembre 2014 alle 12:00

TRA POPULISMO E ELITARISMO LINGUISTICI OVVERO TRA “NUDA VITA” E PURA “FINZIONE”.

@ ro

Ma perché “abbatizzarti” o confessarti?
La vera questione – seria e, come detto, aperta – è quella del legame tra vita-pensiero-linguaggio poetico). Su cerchiamo di far chiarezza.
C’è continuità o discontinuità tra vita e poesia? C’è scivolamento “naturale”, “spontaneo”, “irresistibile” dalla vita al linguaggio o no?
E se, invece, ci fosse frattura o cesura (storica e non dovuta a solo capriccio)?
Se vita e linguaggio non coincidessero (più), non fossero la stessa cosa?
Se tra le parole e le cose (Foucault) intervenisse un filtro, artificiale, costruito dagli uomini (il linguaggio appunto simbolico nelle sue varie forme) e dovessimo ammettere che le parole, le immagini, gli alfabeti non sono naturali, ma convenzionali; e dunque comprensibili a chi vi entra in contatto (come uditore, spettatore, lettore) solo se egli impara – oh, che fatica! – a muoversi in quella convenzione, che rende tali simboli sociali e comunicabili (in qualche misura…), cosa pensare di questa *finzione*?
Che è solo *menzogna* e *trucco* per fregare gli *innocenti* o gli *ingenui* o gli *onesti*? O che è *storicamente reale* e che dobbiamo farci i conti; e che non solo siamo costretti ad usare i linguaggi storici (così come ce li hanno consegnati quelli prima di noi) almeno per tentare di farci intendere dagli altri, ma possiamo usarli per scopi accettabili ( il “bene”) o per scopi inaccettabili ( il “male”) e possiamo – forse! – cambiarli ulteriormente a vantaggio di pochi o di molti?

A disorientarsi per questa situazione, che tende al disordine, al conflitto, al caos, non sono solo gli “innocenti” o gli “ingenui”. Sono anche gli “intellettuali”, i “teorici”, gli “specialisti”, gli “scienziati”. (E virgoletto per far capire l’inquietudine di saperi alti, medi o bassi costretti a usare linguaggi – come chiamarli? – ballerini, equivoci, ambigui, continuamente mutevoli nelle forme, nei significati; e che svelano sempre – inevitabilmente! – la loro distanza più o meno grande dalla agognata “realtà” o “verità”.

Alla luce di questa questione, i tuoi interventi “irruenti” a difesa della “disorientata” Annamaria(Locatelli), a tuo parere “mazziata” da Mayoor o Anna Cascella o Abate o persino Emy «che voleva buttarla a tarallucci e vino», a me paiono da ricalibrare.
Qui non c’è nessuna difesa della “classe” (poetica? sociale?) a cui apparteniamo. Non vengono date « lezioni ad altri di adorazione della “critica”». Non si vogliono respingere o escludere per mero pregiudizio “signorile” certi linguaggi “ingenui” a vantaggio di altri “elaborati”. Non si vuole zittire nessuno/a.
Si vuole però ragionare sulla questione davvero complicata dell’uso poetico del linguaggio e muoversi sui differenti livelli – dal dilettantismo al premio Nobel – evitando la semplice pacca sulla spalla a chi si reclude nel linguaggio che parla o scrive giudicandolo “unico”, “naturale”, “sincero”, “schietto”, “spontaneo”, “vero”. E si vuole pure evitare il semplice sberleffo o marameo o disprezzo più o meno livoroso nei confronti di chi, a sua volta, ( e per buone o cattive ragioni, che andrebbero valutate) si reclude nel linguaggio “specialistico”, “artificiale”, “neutro”, “iperletterario”, “al di là del bene e del male”, ecc.
Quale *politica del linguaggio(poetico)* allora? Questa è la questione ineludibile e che però, in questo periodo di incertezze, ci fa oscillare paurosamente, come un albero investito da venti contrari, tra populismo ed elitarismo (tra apertura indiscriminata ai molti e chiusura gelosa tra i pochi, che parrebbero o pretenderebbero di essere per forza anche buoni).
Su questo blog hanno cittadinanza sia gli “esercizi di poesia” sia le poesie. È una scelta d’apertura, ma problematica. O vogliamo far saltare la differenza *di qualità* che esiste tra esercizi di poesia e poesia? Vogliamo far finta che non esiste? Ma allora non si spiegherebbe le attenzioni e commenti favorevoli ricevuti dalla poesia di Marcella (Corsi)?
Oppure – sull’altro versante – trascurando completamente il fenomeno dei “moltinpoesia”, occuparci esclusivamente del “meglio” e litigare per proporre solo il “meglio” o addirittura solo l’”ottimo”? (Magari senza esplicitare alcun criterio per distinguere questi valori?).
A mio parere vanno combattuti sia lo snobismo di massa sia lo snobismo d’élite. Tengo ancora ferma la prospettiva fortiniana della costruzione di uno spazio (laboratorio, piazza, blog) dove il filosofo possa dialogare col tonto. Ma si sappia che è un esperimento davvero arduo e forse impossibile se non si riuscirà a costruire una *politica del linguaggio (poetico)* che eviti gli estremi. Finiremo o nelle spire dei populismi o in quelle degli autoritarismi. E non solo linguistici.

ro
14 novembre 2014 alle 19:10

Molto articolata e perfetta come sempre , Ennio, la tua risposta riflessione, ma premesso che l’ “abatizzarmi” era ovviamente dovuto a un estremo figurativo irraggiungibile della tua capacità di mazzata maestra, un po ‘come in zen , io ho espresso una domanda piu terra terra …l’ho rivolta a Emy . Non voglio insistere perché mi presenti la sua rsposta, domanda, o pensiero ma sono come ferma al mio bisogno primario, soddisfatto il quale posso passare a un livello piu articolato di approfondimento.

Ripeto la mia domanda:
come si concilia per un poeta e la sua vita , la necessità (dichiarata in mille e piu interventi ad esempio da Emy, ma anche da altri) di avere vitale bisogno di critica sulla propria produzione e parimenti su quella altrui con sollecitazione di “baffi veri o finti” sempre sulla pelle altrui, quando, invece, da un altro lato, che cronologicamente è primo rispetto al precedente, si rifiuta tout court o ci s’inchina, ma sempre tout court, alla madre e il padre della critica poetica, che è la capacità critica , non tout court, di esaminare, analizzare, domandare, interrogare la vita nei suoi aspetti individuali, oppure collettivi, o nella storia etc etc fino agli aspetti socio politici (di questa o quella Reyhaneh, etc etc ) o peggio, si rifiuta di provare quanto appena brevemente elencato, si rigettano tout court inviti motivati a desiderare tali interrogazioni, peraltro anche vantaggiosi, proprio per quei “baffi” poetici , del secondo livello rispetto al primo, che potenzierebbero non poco anche l’attività specificamente poetica.
Rispondi
ro
14 novembre 2014 alle 19:17

ps
per quanto relativo invece alla specifica situazione di (questa volta) Annamaria o (altre volte, passate o future) altri, dilettanti come lei…il mio punto di vista, del tutto relativo, è che la critica, deve avere regole sul “come” e modalità tali da distinguersi nel caso in cui si dibattano testi di grandi e testi di dilettanti, come è in tutte le altre discipline, dallo sport alla musica etc…. Tanto più questo è vero quanto più tale critica avviene da dilettanti a dilettanti.

Giuseppina Di Leo
14 novembre 2014 alle 22:04

Se ho compreso il pensiero di Rò, la critica dovrebbe avere le stesse modalità tanto per i poeti affermati che per i più o meno in poesia, cioè si dovrebbe esercitare sempre, cosa peraltro ribadita anche da Ennio. Se è così, io sono d’accordo su questo.

Quando succede, e capita, che ci sono problemi ad assolvere, dico così, a tale compito, ciò può dipendere da una serie di fattori, ultimo e non ultimo il fattore tempo, nonché le varie ‘quisquilie’ personali che ciascuno di noi ha. Faccio questa premessa anche per dire, facendo il mio caso, che poesie postate altrove di autori come Fischer o di Luca Chiarei avevano sollecitato in modo positivo la mia curiosità, se tanto può bastare, detto com’è fuori onda, o contesto, che dir si voglia.

Fermarsi a riflettere è diventato difficile, e questo poco tempo che dedichiamo a ciò che realmente vorremmo, dovrebbe farci pensare. Proprio per avere ragione di quella continuità tra vita e poesia di cui chiede Ennio. Perché mancando la capacità critica anche la nostra poesia (mia/tua/sua) si impoverisce.

Resta il fatto che alle volte diventa complicato per chi legge (il lettore dilettante, secondo la definizione appropriata di Rò) saper ‘tradurre’ con parole proprie il linguaggio altrui. Cosa che in sé è sicuramente un limite, dal momento che siamo tutti in grado di leggere e scrivere e far di conto. Il problema della lettura di un testo altrui ci pone però talvolta di fronte a una difficoltà che spesso preferiamo baypassare, magari con la scusa della mancanza di tempo, complice anche la velocità e il numero considerevole di post che si susseguono in questo o quell’altro blog.
E questo non è giusto, soprattutto perché nella vita siamo tutti dilettanti, perché siamo dilettanti ‘della’ vita.

Nel commento alla poesia di Annamaria Locatelli avevo posto l’accento sull’elemento ‘favolistico’ della poesia e ho detto che “l’ingenuità” non può essere presa come parametro, che non c’entra. Ho omesso di dire *mi piace* *non mi piace*, non essendo nemmeno questo (a mio modo di vedere) un criterio. Dico ora che a me la poesia di Annamaria non rientra nel genere che preferisco, ma dico anche che, nel leggerla, sono rimasta stupita dal candore.

Ora, indipendentemente da ciò che quella lettura ha potuto provocare in me X persona, l’elemento importante – sempre a mio vedere – è che Locatelli con quella poesia (mi riferisco alla prima) ha espresso esattamente ciò che ella sente in se stessa. La scrittura deve essere riconoscibile se vogliamo che un poeta (grande/piccolo, sono criteri di valutazione molto soggettivi e li vedo inappropriati) possa dirsi coerente. E Annamaria è coerente. La sua “ingenuità” è reale, fa parte di se stessa. Anzi, è il tratto che caratterizza la sua poesia. E nella sua poesia mancheranno pure dallo stile alle figure retoriche (carenze che si possono sempre colmare), ma sta di fatto che – per me – Locatelli è riconoscibile.
La stessa cosa non la trovo in Emilia Banfi, la quale mi perdonerà per questo mio dire. Trovo cioè che Emilia usa un linguaggio poetico ‘oscillante’ tra una cronaca, alcune volte (come in questo caso), in cui si fatica quasi nella lettura; altre volte invece la poesia sa elevarsi e sa essere molto piacevole oltre che ricca di senso.
La poesia di Chiarei, per finire, si pone su un altro livello, ed io la preferisco, per quel modo problematico di interrogare il lettore.

Su quanto dice Ennio mi ritrovo, in particolare sulla necessità di combattere lo snobismo e l’elitarismo, mentre non so che significa “politica del linguaggio poetico”, o perlomeno ho delle perplessità, considerando le differenze che ciascuno di noi mostra di avere.

Annamaria Locatelli
14 novembre 2014 alle 22:24

…sono d’accordo sul P.S. di Ro. Se alcuni testi sono pubblicati come esrcizi di poesia, non si dovrebbe usare il lapis rosso-blu per sottolineature e correzioni. Tantomeno ci si aspetti pacche sulle spalle che é anche peggio…Che il filosofo dialoghi con il tonto ( a quale categoria umana appartiene?) mi lascia perplessa, mentre con il matto sarebbe un’altra cosa …

Giuseppina Di Leo
14 novembre 2014 alle 22:36

… in effetti avevo dimenticato il passaggio sul quale riflette Annamaria: va bene perseverare nella “prospettiva fortiniana della costruzione di uno spazio”, meno (ma di molto: per niente) valutare aprioristicamente dove sta il filosofo e dove il tonto…

emilia banfi
15 novembre 2014 alle 1:39

@ Ro e @ Ennio

La critica è importante , ripeto, per poter arrivare alla maturazione del poeta . Per quanto riguarda la mia posizione, giustamente come riscontra Giuseppina, spesso provo con diverse forme di stile e altrettanto spesso mi sono accorta ,soprattutto attraverso le critiche, di sbagliare. Certo è che una critica negativa messa nel Blog ci scopre al parere di molti e può essere davvero molto scocciante. Penso che, chi ne sa sicuramente più di me riguardo letteratura e poesia (vedi Ennio,Rita,Marcella, Giorgio Mannacio ed altri), abbia senz’altro i mezzi per farlo e di conseguenza accetto le loro critiche . Certo è, che quando le critiche sono positive un po’ mi lusingano , mi sembra normale.
Quando ho parlato della pelle dell’attore , ripeto ancora, mi riferivo anche al mio disappunto nel leggere critiche negative , ma che bisogna reggere se vogliamo migliorare. Vorrei aggiungere:
-Cavoli! E’ ben chiaro che Ennio ha intitolato esercizi di poesia il post in questione per poter arrivare a scatenare critiche sulle differenze tra poesia e tentativi di poesia, c’è riuscito.- Spero che trovi altre cavie e lo dico con benevolenza . Ennio ha criticato negativamente anche poeti “d’alto livello”, ma la critica non deve fermarsi davanti a nessuno. Chi si vuol esporre lo fa , chi non vuole esporsi o s’incazza e reagisce come uno che pensa di essere inattaccabile, bene faccia a meno di questo Blog. Che si critichino, che si apprezzino o no i miei versi sono comunque alla fine solo miei ed io per ultima trarrò le conclusioni.Se non sono stata esaustiva, cara Ro, mi spiace ma non ho nient’altro da aggiungere. Mi piacerebbe che il discorso relativo ai miei versi e alla mia posizione finisse qui. Grazie

emilia banfi
15 novembre 2014 alle 1:47

Forse non era in questo post che avrei dovuto rispondere ma è qui che mi è stata fatta la richiesta,

Ennio Abate
15 novembre 2014 alle 8:42

Care amiche,
quando la discussione perde di vista l’argomento del post e, per giunta, si restringe ad alcune di voi, diventando fin troppo personale, è un brutto segno e dovreste porvi rimedio.

P.s.
Brevemente su alcune richieste di chiarimento:

– a Di Leo: «politica del linguaggio poetico» per me significa che tra i vari flussi linguistici (dialettali, specialistici, gergali, più o meno formalizzati e gerarchizzati e quindi: bassi, medi, alti), che investono il campo (sempre instabile) della poesia, il singolo poeta, un gruppo di poeti, una comunità poetico-letteraria (qualora nella bufera della globalizzazione potesse essere costruita) sceglie quello (o una sintesi di quelli) che gli pare più adatto a influenzare la fascia di addetti ai lavori o di lettori o di potenziali suoi *alleati* a cui rivolgersi. (Ci si può rivolgere esclusivamente ad una élite che si ammira, a una cerchia di amici con cui si condivide qualcosa, agli anonimi o ai posteri…). «Politica del linguaggio poetico» vuol dire avere la consapevolezza che, scrivendo poesie o esercizi poetici, uno/a modella il proprio linguaggio in vista anche dei destinatari che si scelgono.

– a Locatelli:

Se per «lapis rosso-blu» s’intende sviluppare un discorso critico, non si capisce perché da esso bisognerebbe esentare gli esercizi di poesia. Farlo significherebbe proprio limitarsi alle «pacche sulle spalle» e accettare, fissandolo definitivamente, quel confine tra poesia e non poesia, tra poesia e parapoesia o similpoesia (Raboni) o poesia espansa (Kemeny), tra poesia riuscita e esercizio poetico, tra poeti dilettanti e poeti professionali che, nella mia prospettiva (tante volte spiegata) dovrebbe essere mobile, poroso, mai definitivo.

L’espressione fortiniana del filosofo che deve dialogare e incontrarsi col tonto è una semplice metafora a favore del tentativo di fluidificare e non cristallizzare le differenze e le gerarchie professionali o sociali. ‘Filosofo’ sta per dotto, specialista, scienziato, professore, ecc. ‘Tonto’ sta per ignaro, ignorante, ingenuo, inconsapevole, distratto dal discorso che altri fanno, ecc.

– a Banfi: Sì, il mio intento (e da tempo; e come già detto qui sopra Di Leo e Locatelli) è di invitare ciascuno/a che s’interessi alla poesia ad attrezzarsi per navigare in un mare in tempesta e a non illudersi di poterlo fare con una barchetta di carta o a rifugiarsi in un tranquillo laghetto o in un porticciolo amicale. È solo un invito. Ciascuno/a farà come crede. La critica fa parte dell’attrezzatura necessaria. La si può volere e rifiutare.
In questo senso è improprio parlare, anche se con benevolenza, di ‘cavie’. Io semplicemente dico come vedo il contesto in cui ci troviamo, invito a tenerne conto. Se altri/e lo vedono diversamente, penseranno e agiranno inevitabilmente in altro modo.

ro
15 novembre 2014 alle 9:50

Ciao a tutti…stavo per rispondere ringraziando chi è intervenuto da ieri, e ho letto Ennio ..sono d’accordo su tutto tranne che l’evoluzione di questo post si sia ristretta a un fuori tema per poche o pochi.

La domanda che avevo rivolto a Emy e a chi avvesse voluto accoglierla, era in quei paraggi e vicinanze relative al concetto di “innocenza” sollevato dalla denuncia poetica di Marcella.

C’è stato un intervento che recupero, perché può tanto tanto aiutarci e, soprattutto, non deve rimanere accatastato fra i mille altri fra cui per primi i miei diventano del tutto superflui. E’ dell’altro ieri ed è di Luciano:

“Uccisi un giorno, un maledetto giorno di fine agosto, l’ipocrisia e la falsità. Dovevo farlo per me e la mia sopravvivenza. Tre giorni dopo uccisi il di più: l’amore non vero e il sogno. Poi uccisi me stesso. Dovevo farlo. Sono innocente.”

Lo ringrazio perché a due giorni da questo suo breve testo, sto ancora scavando ..trovando mille e più sfaccettature di questo quarzo che riguarda: vuoi il concetto di innocenza interrogato da Marcella, vuoi tutti quelli che possiamo leggere in ogni piccolo, prima che grande, spicciolo quotidiano , esempio il dibattito a questo post, o altri, o altri ancora come questo da mettere in relazione con altri, vedi l’altro sul testo e la relativa critica ad Annamaria.

Mi spiace che si sia manifestata agli occhi di Ennio una personalizzazione o un fuori tema che io non vedo nella mia “innocenza”, tanto come Emy non ha visto la mia domanda nella sua . Infatti anche dal suo ultimo commento, è assente la riflessione sulla relazione fra le due innocenze, che riesplico in altre parole, prendendo a prestito una sfaccettatura di ciò che ci ha trasmesso Luciano, sia che lo intendesse così, sia che lo limitasse al fatto che per essere del tutto innocenti, bisognerebbe cadere in un paradosso mortale : togliersi la vita. E proprio perché , questa è per me un ‘estremizzazione necessaria , del concetto che stava alla base della mia interrogazione a Emy e a tutti gli altri, vado a riproporre la domanda, consapevole che è in questo paradosso, una delle soluzioni:

se devo essere aperto ad uccidere me stesso, ogni giorno, in ogni momento, situazione, passione, ragione etc etc e dibattito, interventuo fra me e me e/o fra me e gli altri, quanto sopra vale non solo davanti a chi mi espone le sue ragioni, passioni, emozioni, sentimenti etc tali da farmi mettere i suoi occhi , la sua mente e il suo spirito per rivedere e rivivere qualcosa delle mie azioni, pensieri, distruzioni e creazioni ( come anche quelle dell’attivita poetica) e arricchirle, migliorarle, denudarle e rivestirle , magari a nuovo ma anche riportandole come erano già, ma con un’altra consapevolezza a valore aggiunto. Tale consapevolezza è talmente dirompente che l’altro, che è nelle mie stesse situazioni, sa che può uccidersi tanto come sa quanto e come può uccidere in questo stesso senso. Di solito queste uccisioni si dicono reciprocamente a fin di bene, ma al di la del bene, appunto, è il come che qualifica la possibilità di morire e di risorgere, oppure in caso contrario si muore e basta: “innocenti” della propria morte o quella altrui.

Tuttavia quanto sopra vale ancor più, quando nella suddetta trasformazione della attività di pensiero (con o senza attività pure o addirittura creativa, ricreativa o massimamente artistica) non c’è ancora in ballo un mio io, un suo prodotto né tantomeno quello altrui (in questo caso poetico o di allenamento, esercizitazione, prova etc etc), ma più semplicmente strumenti o altre creazioni di settori diversi dal mio e dei miei simili, che dirompono d’improvviso o lentamente e uccidono le mie convinzioni acquisite fino a quel momento, per farle rinascere , con la mitica critica , non tanto di misura o qualità d’innocenza maggiore rispetto a quella che avevo fino al momento precedente, ma con la consapevolezza che non mi ucciderò mai abbastanza e che dovrò continuare a darmi mazzate continue, non per masochismo, ma per aumentare fino all’istante ultimo della mia vita (fisica) il mio sguardo (e figuriamoci quanto per chi si esercita nell’arte della poesia) sull’accecante realtà.

Per esempio, per sì personalizzare a questo punto su Emy: tanto tempo fa leggendo le sue poesie da una parte e i suoi interventi dall’altra, le chiesi se aveva una gemella e perché fosse così diversa “l’innocenza” della sua attività poetica e del bisogno di relativa critica, da quella della sua attività crtica sulle cose della vita, singola o collettiva, antropologica o politica o geopolitica. Questa frattura è una frattura d’innocenza che in casi ben più pesanti rispetto a quelli di Emy, portano l’innocenza di che assiste a tali fratture a rendersi ancor più fragile. Mi ha sempre stupito infatti che grandissimi artisti, quindi anche poeti, vivano come due vite disgiunte, due “innocenze” del tutto inconciliabili, in cui fanno e sanno fare e dare e desiderano il massimo nel loro campo artistico, tanto come al contrario franano in ogni aspetto di pensiero e comportamento prepoetico e prepolitico tanto da chiederti da dove viene e come può generarsi il loro talentuosissimo sguardo intellettuale e artistico. Si uccidono ogni giorno come diceva Luciano?se no, allora, come rendono fertili le terre della loro “innocenza”?Con l’altrui uccisione? magari , mirabilmente avvolta dalle potenti attività intellettuali della loro mente?

emilia banfi
15 novembre 2014 alle 10:59

La terribile innocenza è il credere di essere innocenti al punto di arrivare a non vedere nella consapevolezza di uno stolto credo, l’ incapacità di capire i nostri limiti , che ci porta a ribellarci con la pietà o la rabbia , sia nei nostri confronti che in quelli degli altri escludendo in questo modo una vera riflessione e coerenza.

Annamaria Locatelli
15 novembre 2014 alle 11:59

…mi sono di nuovo smarrita con il pensiero…ma devo proseguire ad esporre i miei dubbi. Non so se il post é quello giusto. Intanto devo dire che spero di non parlare a livello meramente personale, ma perchè vorrei capirci qualcosa in generale riguardo al fare esrcizi di poesia…Non sono contraria alla critica, tutt’altro… ma come si esrcita nei confronti degli esercizi di poesia? La critica più severa che dice cose del tipo: non c’é un verso presente…non si fa uso di metafore…come dire questo scritto urta contro ogni mio senso estetico, non mi fa prendere sonno, quasi uno scandaloso rapportarsi a un mondo che non ti appartiene…Oppure la posizione di Ennio (se ben ho capito) che sente poroso ed esodante il confine tra fare poesia e dilettarsi di esercizi poetici, ma in che misura o termini accoglie il secondo? L’autore dovrà sottoporsi alla critica di chi ha più competenze specifiche, cercare di migliorare, se gli riesce possibile, il suo linguaggio e la forma poetica…E siccome dobbiamo ucciderci tutti i giorni (grazie Luciano Nota) a me sta bene, ma la porosità esiste anche nella direzione opposta? Esiste uno “statuto” degli esrcizi di poesia? Quale il loro valore in sé? Fatte salve le trasformazioni morte vita e vita morte a cui non possiamo sottrarci, un uccellino o una gallina appartengono al mondo dei volatili quanto un’aquila, un cigno? Quanto possiamo chiedere loro di cambiare la loro natura?

Giuseppina Di Leo
15 novembre 2014 alle 12:44

Per te, caro Ennio, «politica del linguaggio poetico» significa individuare “tra i vari flussi linguistici” che “investono il campo (sempre instabile) della poesia”, *quello (o una sintesi di quelli)* che al poeta (da solo o in gruppo/comunità) “gli pare più adatto a *influenzare* la fascia di addetti ai lavori o di lettori o di potenziali suoi *alleati* a cui rivolgersi”.
Scusa, ma sono più confusa di prima. E lo sono in quanto ritengo non ammissibile ‘cambiare bandiera’ così come cambia il vento, se, da quanto dici, è questo che si chiede a chi si appresta con gli esercizi di poesia a dire la propria o a chi, poeta tout court (ma ne siamo sicuri?) usa come mezzo espressivo la poesia per dire, rispondere e interrogare. A parte il fatto che una simile posizione, come quella di rendersi amabili verso chi si ammira, sia esso una élite, sia a una cerchia di amici, come tu dici, significa comunque, per come la vedo io, fare la parte del camaleonte, mi chiedo se una tale posizione giovi poi ai fini di quel tanto invocato confronto di cui si ciancia.
E non sarebbe meglio, invece, al posto di tutto questo, se ci auspicassimo che ciascuno di noi trovi finalmente, attraverso la poesia, la maniera per uscire dall’impasse tra realtà e vita interiore (e quant’altro), senza adottare filtri di sorta e senza ricorrere al modello?
Vi è senza dubbio un *adattamento del proprio linguaggio nel momento in cui ci raffrontiamo con gli altri, cosa che mettiamo in atto fin da bambini, dal momento in cui siamo consapevoli che viviamo in una comunità, ma questo aspetto ci aiuta anche a prendere coscienza di noi stessi e degli altri, nella diversità. Mi rendo conto di dire cose in maniera elementare, perché non sono esperta di linguaggi specifici, tuttavia mi sembra inevitabile che adeguarsi a un cliscé in quanto gli altri vogliono così, nel suo esito lo vedo come l’esatto opposto della consapevolezza di sé e degli altri. E un poeta che *modella* il proprio linguaggio in vista degli *altri* lo lascerei tranquillamente alle ortiche.
Per quanto riguarda gli esercizi di poesia, il termine ‘esercizio’ ha valore, magari fossimo in grado sempre di fare esercizi, significherebbe che per lo meno abbiamo appreso le basi della teoria.

44 pensieri su “Poesia ed esercizi di poesia

  1. Carissime e carissimi, questa volta lo dico pure io quanto e come sono più confusa di prima…ma lasciatemi dire che per primo ringrazio Abate di aver colto quel tanto di cruciale, avvenuto in pagine precedenti, tanto da averne dedicata una ad hoc con questo post, che ha delle tag o etichette, su cui un bravo poeta ma anche un semplice dilettante potrebbe sbizzarirsi per giorni e notti:
    critica, elitarismo, esercizi di poesia, falsità, filosofo, finzione, ipocrisia, libertà, linguaggio poetico, Moltinpoesia, nuda vita, poesia, poeti affermati, politica del linguaggio poetico, populismo, poti dilettanti, qualità, tarallucci e vino, tonto

    E Poti dilettanti è un refuso da premio assoluto. Però , alleggerito per un attimo il fardello immaginando la mia pratica poetica rigorosamente da dilettante, non sono d’accordo , questa volta, caso assolutamnte unico, sull’immagine scelta da Ennio…. i dilettanti che ho conosciuto in questo spazio, e che per prima sono io, non sono così aerobici, io mi metterei in una versione sportiva, che ovviamente non può più essere la spada o il nuoto, ma anche se lo fosse, per il contesto e le cose che ci siamo detti, è uno sport un po’ più ruspante e in cui l’arte della caduta è tutto. Insomma avrei preso una bella immagine contadina e comunque lontana da sport evoluti o fitness o americani…una bella di corsa nei sacchi evvia 🙂

    Detto ciò , spero che questa non venga sganciata dalla sua esegesi, che per chi ci leggesse per la prima volta su questa nuova pagina, per quanto mi ha riguardato, prende l’avvio da due atti di vaga o indubbia, definita o indefinita “disobbedienza”. Entrambe le ho collegate al potere-dovere di uccidersi e di uccidere per risorgere o per dare vita. Anche se tale disobbedienza può essere sembrata distinta e diversa, non è detto che lo sia sol perché manifestata e genrata da due diversi contesti poetici e distinti esercizi di dibattito.

    Non sono confusa per i motivi di Annamaria o di Giuseppina, che comprendo ma se partissi dalla mia comprensione, personalizzerei andando a parlare delle condizioni di uguaglianza o addirittura fraternità fra dilettanti e poeti…sono confusa perché il chiaro discorso di Ennio, laddove parla della pacca sulla spalla che abita la comunità fra poeti ma anche quella fra i dilettanti poeti, rischia di essere frainteso. Mi spiego.La critica alla poesia di Annamaria o a quella di Marcella per non correre il rischio né della violenza fine a se stessa della mazzata, né quello della pacca sulla spalla, ha bisogno di regole chiare tali che la condivisione o il dissenso, non siano una questione dove l’uno domina l’altro , né un riconoscimento come dice Ennio fra gli stessi dna e che dirò a mie parole più esplicite se ho minimamente afferrato qualcosa del suo discorso. E’ meraviglioso fare /costuire una comune, nel nostro caso di uno spazio in cui ognuno mette ciò che ha da dare all’altro, filosofia o poesia, affetto o dissenso, altre arti e strumenti o critiche, letture etc etc ma, sempre/con metodo, ogni componente deve aver presente il rischio che si corre nella costruzione di una comune o di un ultimo baluardo o avamposto( poetico -critico come nel caso , credo , di poliscritture e così anche di questo spazio). Il rischio è quello di diventare un rifugio , un riparo non strettamente legato a denominatori comuni di ragioni, sentimenti, sostegno, fraternità, ma così autoreferenziale a se stesso da divenire né più né meno che uno dei tanti cerchi e cerchietti magici : vuoi un cerchietto magico di dilettanti per contrapposizione a certi spocchiosi (perché per primo avviene da secoli nelle varie élite ..faccio un esempio, il blog di Linguaglossa dove ultimamente si sono letteralmente azzanati Abate, allo stesso modo con cui un certo tipo di critica senza regole, stava per “eliminare” come nei reality anche Annamaria. Oppure sempre nello stesso blog, caduta nel vuoto la richiesta di Giuseppina di dedicare uno spazio di memoria alla morte di Gianmario etc etc), vuoi di un’altra èlite (come quella che a volte si stabilisce anche in questo spazio), laddove alcuni autori e autrici, più impegnati negli standard di una certa società “democratica”, fanno presa fra loro perché sanno rendere, nelle loro relazioni come nel linguaggio poetico, la politica del disgusto o l’autocoscienza civile su certi temi come gli immigrati o gli ebrei, la mitica finanza o la crisi, le/gli impiccati in Iran etc etc Era questo, cara Giuseppina, credo il senso per cui ENnio ti ha esposto certi pericoli del linguaggio politico poetico, non per avere cambiato bandiera, ma per consapevolezza su come certi cnnotazioni poetiche possono compiacere una nicchia già predisposta a sentirsi dire certe denunce ma mai altre etc etc tuttavia, visto che ora sono del tutto disorientata, potrei aver confuso tutto…e quindi spero di leggere e leggere ancora tutte/i coloro che su questi temi vorranno interrogarsi, uccidersi , rinascere …
    un caro saluti a tutte/i
    🙂

  2. @ Locatelli (15 novembre 2014 alle 11:59)

    Non vedo differenza tra esercizio della critica nei confronti dei dilettanti o ‘scriventi versi’, come diceva Majorino) e poeti che pubblicano con Mondadori o Einaudi (per indicare case editrici di prestigio… una volta!). Ci possono essere, sì, dei modi diversi – più cannibali o più civili, più aggressivi o dialoganti – di condurla. E questo fa la differenza, ma *dal punto di vista psicologico* non nella sostanza.
    Il giudizio positivo o negativo (con tutte le sfumature tra i due opposti poli) deve risultare chiaro. Altrimenti ci si prende in giro o si rimane nel vago, nell’incertezza, nel diplomatismo. Ad alcuni/e può anche andar bene. Io preferisco la chiarezza e, semmai, a distanza di tempo la correzione del giudizio, se ci sono gli elementi per farlo.
    Non vedo in quello che ha formulato Mayoor nei confronti dei tuoi testi nulla di offensivo. E poi non è detto che chi critica o giudica non possa sbagliare. O che uno che scriva versi o si senta poeta si faccia automaticamente arrestare da un giudizio negativo. Che può essere, invece, spunto per rivedere quanto fa, per confermare la strada imboccata o mutarla. Presentare, insomma, il critico come un carnefice o uno che la sa sempre lunga e il poeta come una vittima o un ingenuo da difendere a me fa ridere, non ha senso.
    L’elemento conflittuale c’è sempre, anche in questo rapporto poeta/critico e non è detto che la pretesa di emergere o di affermarsi o di imporsi venga sempre dal critico.

    Altra questione è fissare «il confine tra fare poesia e dilettarsi di esercizi poetici». Quello non lo fissa Abate o Mayoor, anche se la loro opinione individuale può contare. Ma in questo ambito amicale, in questo blog. Basta spostarsi su un altro blog e l’opinione mia o di Mayoor deve affrontare altre opinioni e non è detto che venga condivisa. Su FB vedo apprezzamenti di poesie di amici e conoscenti che io non apprezzo. Quindi siamo nel campo della relatività. Oggi massima, perché non esiste un critico o una scuola critica autorevole, capace di imporsi o di far accettare la sua opinione e i suoi criteri alla comunità dei critici, che è frammentata e ciascuno ha sott’occhio al massimo poeti amici e più o meno vicini. Per cui il poeta X, che si sente incompreso o bastonato dal critico Y, basta che vada dal critico Z e ottiene quel riconoscimento (precario, a mio parere) che soddisfa le sue attese più segrete. (Queste, tra l’altro, farebbe meglio a esplorarsele e a tenerle a bada, secondo me).
    Insomma il confine tra poesia e non poesia, tra “professionisti” e “dilettanti”, si allargherà o si ridurrà, sarà più poroso o più invalicabile solo alla fine di un lungo e complicato processo che oggi – come la crisi che attanaglia le nostre società! – nessuno è in grado davvero di prevedere e definire.
    In questa situazione non mi pare che ci siano doveri fissabili dall’esterno. «L’autore dovrà sottoporsi alla critica di chi ha più competenze specifiche, cercare di migliorare, se gli riesce possibile, il suo linguaggio e la forma poetica»? Non è detto e non è escluso. Ciascuno può provare a sottoporre i suoi testi al giudizio di qualcuno che egli (o altri) riconosce con «più competenze specifiche». Ma è una scommessa, un gesto di “affidamento”, che può giovargli ma può anche lasciare le cose come stanno.
    Né dai versi di Luciano Nota mi pare si possa trarre una morale tipo «dobbiamo ucciderci tutti i giorni». Col cavolo. A me questo “suggerimento”, anche solo metaforico, non va. Né, per quanto detto all’inizio, c’è da consultare uno «”statuto”» per fare i propri esercizi di poesia. Quest’ottica scolastica a me pare inaccettabile. Mille volte meglio che ciascuno scriva, scriva, scriva e poi ripulisca, ripulisca, ripulisca. O strappi o cancelli. Uno/a si può sentire poeta o scrivente versi – “uccellino” o “gallina” o “aquila” o “cigno”? Ma è una figura immaginaria, una maschera che si dà (difensiva, offensiva) e guai a pensarla come *natura*. Importante è fingersi l’uno o l’altro di questi volatili e vedere cosa ci ricava in poesia ( o nella vita).

    1. …secondo me, Ennio, come si presenta la critica é molto importante…La chiarezza e la sincerità stanno al primo posto d’accordo, ma poi anche altri aspetti contano,come quello psicologico a cui accenni. E qui il dovere di indagarsi sul modo di procedere o di reagire ritengo che sia da entrambe le parti…La persona che la riceve, secondo me, non deve aspettarsi nulla, medaglia o lettera scarlatta che sia, ma un approccio dialogante penso di sì…perchè viceversa sarebbe sterile e non apporterebbe a nessuna crescita..E chi la fa pure potrebbe indagarsi sulle sue ragioni e modalità…Alla fine, si accolgono gli esercizi per incoraggiare ( implicito il lavoro di miglioramento continuo della propria scrittura) o per suggerire di desistere? Il dubbio ormai ce l’ho e, se continuo, é perchè ho bisogno della poesia…

  3. @ Giuseppina Di Leo
    15 novembre 2014 alle 12:44

    Se leggi attentamente qui sopra la mia risposta a Annamaria (Locatelli), ti accorgerai che non sto teorizzando nessun comportamento da banderuola o «adattamento del proprio linguaggio nel momento in cui ci raffrontiamo con gli altri» o a un clichè «in quanto gli altri vogliono così»; e non invito affatto a «rendersi amabili verso chi si ammira, sia esso una élite, sia a una cerchia di amici» o a fare il «camaleonte».
    E sarebbe bene anche analizzare con pignoleria quanto ho scritto per spiegare cosa intendevo per «politica del linguaggio poetico»:

    «politica del linguaggio poetico» per me significa che tra i vari flussi linguistici (dialettali, specialistici, gergali, più o meno formalizzati e gerarchizzati e quindi: bassi, medi, alti), che investono il campo (sempre instabile) della poesia, il singolo poeta, un gruppo di poeti, una comunità poetico-letteraria (qualora nella bufera della globalizzazione potesse essere costruita) sceglie quello (o una sintesi di quelli) che gli pare più adatto a influenzare la fascia di addetti ai lavori o di lettori o di potenziali suoi *alleati* a cui rivolgersi. (Ci si può rivolgere esclusivamente ad una élite che si ammira, a una cerchia di amici con cui si condivide qualcosa, agli anonimi o ai posteri…). «Politica del linguaggio poetico» vuol dire avere la consapevolezza che, scrivendo poesie o esercizi poetici, uno/a modella il proprio linguaggio in vista anche dei destinatari che si scelgono.».

    I destinatari di una poesia sono scelti dallo stesso tipo di linguaggio che il poeta elabora. E ci sono sempre, anche quando non sono indicati per nome e cognome o per categoria sociale. E chi si fa l’occhio su un poeta lo capisce subito: i destinatari (ripeto: impliciti o espliciti) di una poesia di Fortini in «Foglio di via» sono altri da quelli di una poesia di Luzi de «La barca”».

  4. @ ro
    15 novembre 2014 alle 17:10

    Nel mio ultimo commento ho espresso il mio punto di vista sul come intenda il fare poesia. Ciò in risposta, considerando quanto Ennio aveva precisato, ponendo quindi le perplessità che tu stessa rilevi. Ma su questo aspetto di leggere quanto Ennio dirà.
    Che esistano cerchi magici e circoli viziosi in letteratura come in poesia la cosa è sotto gli occhi di tutti, ed il fatto che sia avvilente non significa che lo si può ignorare o accettare come un dato di fatto. Quindi va benissimo che se ne parli, come fa Ennio qui o Linguaglossa nel suo blog: porre all’attenzione questi aspetti per dir così ‘reconditi’ della questione non è mai soverchio.

  5. Per Giuseppina
    Ciao 🙂 …tutto ok salva una precisazione. Dove ho scritto che sarebbe soverchio porre l’attenzione sui cerchi magici di questo quel settore, fino a quello poetico? o in specifico questo di questo blog o altri? Ma anche: dove penso e ho trasferito per iscritto che voglio fare lo struzzo, ignorando che vi siano tale formazioni magiche? forse quando ho parlato dellla consapevolezza del rischio che si corre in tal senso, devo proprio essermi espressa in modo completamente scomposto e plurifratturato rispetto a quanto vivo e penso rispetto alle dinamiche di gruppi , gruppetti e gruppettini , a circoletti o altre tondità o presunte tondità in questione

    Per Annamaria
    completamente d’accordo sul fatto che il mitico, modo o come, non sia stato preso in considerazione, tanto nel fatto che ti ha riguardato personalmente, tanto in altri fatti analoghi già successi, se non respingendolo tout court, come ancora , Ennio in primis anche in questa nuova pagina . Di nuovo, anche in questi avvenimenti, non ci si vuole mettere se non nel proprio io, peraltro dimenticando le buone regole di qualsiasi indagine: chi? dove? quando? quanto? come? perchè? etc etc

    Peraltro, in aggiunta alla rimozione assoluta del come, grave rimozione per chi ama la storia come noi tutti, e la sua commedia, e tragedia e farsa, si è rimosso anche il quando. Se si vuole sollevare la responsabilità di determinate azioni, che nelle loro modalità hanno svilito, nella modalità della traiettoria, il bersaglio che desideravano ottenere più che colpire ( cioè “a fin di bene”, ergo per donare all’altra di passare da un livello a un altro ma che mettesse in condizioni l’altra di accoglierne le motivazioni), occorre avere a cuore l’esegesi e la cronologia da cui si è generato nel concreto, il fatto che ci fa di nuovo trovare in questa pagina. E’ quindi parziale parlare di Lucio come colui che , fra dilettanti, a un’altra sua pari, avrebbe azionato la leva di un dissenso e di una critica, svolta nel suo come senza ombre per Ennio, necessaria a qualunque costo per Emy, o scomposta per la sottoscritta. A parte che da dilettanti e ancor piu da poeti fatti o finiti o presunti tali, ma anche da semplici lettori di poesia, è assolutamente naturale aspettarsi una marcia in più rispetto ad altri “generi” che si dedicano alle attività di ispirazione e creazione, dai droghieri agli attori, meccanici o fitoterapeuti, falegnami o muratori etc etc. Qualcuno potrebbe dire che vivaddio che esiste il narcisismo anche in poesia, io da semplice lettrice o altro ancora lo vedo come qualcosa di estremamente negativo in ogni genere creativo ma anche semplicmente riproduttivo….Il come di un poeta e/o dilettante poeta va talmente a quel nucleo fr_agile della vita e rigido della storia, che aspettarsi un minimo livello di sensibilità verso l’altro (pur nel dissenso più motivato circa i suoi prodotti intellittivi) è il minimo del minimo da aspettarsi di chi dice o vorrebbe dirsi o vorrebbe amare un linguaggio poetico. Capisco che su questo tasto o registro ci siamo quasi mai compresi, con Ennio e non solo. Ma ciò , ritornando alla cronologia dei fatti in questione e del dibattito, proprio per mettermi anche nei panni di Lucio , non deve tirare in ballo solo lui. Lui è intervenuto solo in un successivo momento. Può anche andare che come io mi sono schierata dalla tua parte, lui si sia messo non contro di te, ma da un’altra…ma sempre che si abbia a cuore il tuo apprendimento, appunto del mitico “liguaggio” poetico, il suo dissenso è intervenuto dopo che , con modalità che definire bizzarre è poco, qualcunl’altro preferendo un suo come “assurdo”, aveva del tutto stracciato il tuo testo ( insieme a quello di Emy che però , vista il suo slogan sulla critica per la critica viva la critica “a prescindere” , non ha battuto ciglio). Quando lessi quell’intervento rimasi del tutto ammutolita, pensai che ogni mondo deve essere “poeta” se , quando meno te l’aspetti, quando ormai tutto è avvenuto, non è vero che tutto è avvenuto per esercitarsi alla vita e/o alla poesia, prima o poi un altro agguato arriva di fronte al quale ai precedenti sono bazzecole….
    Di fronte a tutto questo, avvenuto prima della ripresa degli esercizi 2 ( noi ora siamo al post n 3 in tema) , arriva bello bello Lucio e nell’oblio dell’accaduto al precedente esercizi 1, anziché scegliere una modalità finalmente creativa per regalarti strumenti di approfondimento ed eventuale mitica “crescita”, fa il replay di quanto avvenuto nella prima puntata . Se in poesia, come nella vita (ma non come richiamava Emy prendendo a prestito i famosi esami di Eduardo) siamo soli di fronte allle nostre prove di suicidio, da rinviare al giorno dopo e giorno dopo ancora, non stupiamoci poi di vite di poeti e poete che se ne sono andate all’altro mondo come pozzi, campane o greco, facendoci su articoli o commemorazioni o indagini, che mai potremo fare per giunta di tutti i nomi dilettanti allla corrida.

    Per Ennio
    visto che siamo in dibattito sulla critica, cosa ne pensi della mia sull’immagine che hai scelto? perché proprio quella così americana e postumana per questi esercizi e dilettanti ?

    1. A Ro
      Il mio discorso era riferito in merito alla risposta di Ennio, che peraltro ha poi precisato e detto in altre maniere la sua posizione.
      Quello dei cerchi magici è stato solo un imprestito di quanto hai detto, e scusa se non ti ho citata come mia abitudine, ma di certo sono conclusioni mie, non tue quelle che affermo. Scusa per l’equivoco.

  6. a Ennio

    Ho riletto (dopo che avevo letto attentamente) e ribadisco il mio disaccordo.
    Perché mai un lettore si dovrebbe avvicinare alla poesia ‘confezionata’ sul suo gusto? A questo punto è vero che è così, ma è così non perché il poeta individui il suo lettore ideale ma proprio perché una diversa sensibilità fa avvicinare a un determinato poeta alcuni anziché altri.
    Volendo fare un esempio, a me

  7. scusate, ma il commento è partito da sé… misteri del giorno!
    Aggiungo brevemente che poeti come Luzi mi trasmettono poco quanto nulla, invece continuo a rileggere Panero senza mai annoiarmi… (spero di riprendere la discussione non appena possibile)

    1. Sono molto d’accordo con Giuseppina in questo suo ultimo commento. Certo ci si avvicina meglio al poeta che tocca le nostre corde, anch’io ho alcune preferenze. Credo comunque che alla critica non sia concesso considerare solo poesie di un certo tipo ,scelte per gradimento, ma deve avere il dovere preciso di poter dare il ” giusto” giudizio a tutti i poeti che si presentano e che devono essere considerati da persone con grande conoscenza e cultura in merito.
      La critica comunque non deve essere limitante, ma un mezzo per riflettere meglio su ciò che vogliamo dalla poesia.
      Ciao Giuseppina ti leggo sempre con piacere.

  8. Velocemente, solo sul punto sollevato da Rò:
    *non sono d’accordo , questa volta, caso assolutamente unico, sull’immagine scelta da Ennio….Insomma avrei preso una bella immagine contadina e comunque lontana da sport evoluti o fitness o americani…una bella di corsa nei sacchi evvia *

    Io ho trovato l’immagine molto pertinente e congrua con il titolo del post “Poesia ed esercizi di poesia”. Le immagini proposte da Rò (immagine contadina oppure una *bella corsa nei sacchi*) pur interessanti, sarebbero, come si suol dire oggi, troppo ‘telefonate’, ovvero mettono già il lettore/spettatore in un clima ‘adeguato’ (così come quando ci disponiamo ad andare a vedere un film ‘romantico’ e ci aspettiamo che lo sia).
    Qui, non so quanto intenzionalmente, ma credo proprio di no (penso che sia intervenuto quell’Altro di cui parla Fortini e che ci fa fare delle cose interessanti, ovviamente quando cazzo gli pare – l’Altro, intendo -), Ennio produce, in primis, l’effettaccio di contrasto (esercizi di poesia versus esercizi di fitness?). In secundis, se riusciamo a non reagire come se fossimo punti da un tafano di fronte a questa blasfemia, osserviamo meglio l’immagine.
    Vengono presentati quattro personaggi ognuno dei quali interpreta lo stesso (così sembra) esercizio.
    Si potrebbe dire che sono ‘bravini’, ‘carini’, aerobici al punto giusto. Quasi perfetti e quasi ‘fatti con lo stampino’, come le ‘veline’ o i ‘velini’.
    Ma osserviamoli meglio.
    Il giovane con la maglietta gialla sembra pensare: “Mo’ me sbrigo con ‘sti movimenti da burino. Nun vedo l’ora de sortì, che ce sta la gnocca che m’aspetta”
    Quello con la maglietta bianca sembra rivolgersi all’istruttore: “Nevvero che sono bravo? Che faccio l’esercizio corretto? Sì, ci ho sudato sopra: per questo allievi come me non si trovano così facilmente!”
    La ragazza in rosso, bionda e silfide come solo le silfidi sanno esserlo, cerca lo sguardo ammirato del mondo: “guardate come mi viene bene questo esercizio! Io sono fatta così. Un dono ci ho. Un dono! Che ci volete fare. A me, i movimenti sgorgano da sé”.
    Osserviamo infine l’ultima figura, quella della ragazza con la maglietta azzurra.
    Il suo corpo è sinuoso, esprime un movimento che delinea uno spazio in cui si dà una oscillazione avanti e indietro; metaforicamente, verso il fuori e verso il dentro.
    Il punto centrale è il volto e il focus è lo sguardo. E’ come se dicesse: “Guardami, è con te che mi sto relazionando (dove quel ‘tu’ non è un ‘tu’ particolare bensì qualsiasi ‘tu’ che si aggancia al suo sguardo), io e te possiamo fare questa danza insieme”.
    Non sta soltanto facendo un esercizio, che le riesce bene, ma ti sta parlando di un contatto con l’espressione artistica che lei esperisce in quel momento e il tuo mondo. E’ un contatto affascinante e pericoloso, che ti può far perdere la testa come fece esperienza il Battista con Salomè!!!!!!

    Non sappiamo, infatti, come è la ragazza quando esce dalla palestra, potrà essere una squinzia qualsiasi, farà dannare il suo ragazzo perché ne tiene altri due di riserva, farà la cresta sulla spesa per comperarsi qualche spinello, oppure…. non lo possiamo sapere.
    Ma in quel momento lì, ella è ‘poesia’.
    Certo, possiamo ipotizzare che la sua vita, ‘fuori’ da quella palestra speciale in cui fa poesia, possa alla lunga inquinare la poesia stessa ma…. non andiamo fuori tema!

    R.S.

  9. ok, mi hai convinto Rita e ritiro la mia critica a Ennio sulla scelta di accompagnamento al testo. Era solo una provocazione e non lo avevo proprio capito nel primo “step” di percezione atletica del mio occhio troppo facilmente impressionabile come una lastra. Sopratttutto mi hai convinto per consecutio logica, perché trasferendo il mio discorso al tuo, nella ragazza in blu Annamaria, “scientificamente” alla pari della squinzia nella tua analisi, si deriva che da denunce/critiche di assenza di “poesia” nei testi proposti e poi riproposti della nostra “squinzia” Locatelli, non si può parimenti escludere che ella sia in ogni veste e tempo, quella e solo quella squinzia, bensì in quell’ “oppure” che dici ,e che non possiamo sapere, essere vera e propria poesia. Diciamole comunque questioni di “step”…
    ….
    solo una precisazione per quanto riguarda la scontata immagine della corsa dei sacchi(ovviamente la prima che mi è venuta in mente, ma ora ne avrei anche altre)…tale corsa non ha nulla di romantico, anzi è molto violenta, ma ha regole tali tutte racchiudibili in un suo come ben chiaro e specifico al di la dei regolamenti : i partecipanti sono squalificati se non si concentrano esclusivamente sul loro sacco, ergo laddove con sgambetti e azioni analoghe, palesi o simulati, si concentrino (pur di ritardare la loro caduta , o di vincere, etc etc) nel saccheggio dell’altro che corre nel sacco a fianco, dietro o avanti…

    1. @ Rò Rita Giusi e Annamaria
      Certo che la Rita ci ha messo sulla strada della drammatizzazione fatta così bene che la sua efficacia mi ha portato a considerare più attentamente quella foto. Quegli esercizi per corpi flessuosi e sguardi invitanti chiusi però in quattro mura se pur con tristi vetrate. Esercizi dentro esposti solo a pochi sguardi , senza rischio, senza gente che può farsi trasportare, senza aria , sole o pioggia . Vuoi mettere la corsa nei sacchi della Rò…- Una visione ludica di forza ,regole, esercizi che coinvolgono e l’aria…dove la mettiamo l’aria che serve per respirare tutte le grida, i messaggi, la voglia di capire di tutti coloro che collaborano al gioco. Avanti tutta e attenti a non cadere!!!!!
      Qui non finisce a tarallucci e vino….forse con qualche cerotto, un po’ di salame e qualche focaccina e beh.. il vino non può mancare. Rò sa quanto mi piacciono i saltelli.

  10. …per fortuna solitamente gli esercizi si svolgono in un clima non competitivo e senza classifiche. Forse i giovani dell’immagine si stanno preparando per un saggio dove sarà premiata l’armonia del gruppo…

  11. Cara Emilia,
    Il dovere del critico dovrebbe essere l’imparzialità, sono d’accordissimo con te, ma così non è, evidentemente, altrimenti non ne staremmo qui a discutere.
    Un dato altrettanto sconfortante è quello della uniformità della critica: tutti i poeti recensiti nelle riviste sono eccelsi, giovani o vecchi, morti inclusi, non fa differenza. E questo è un dato che trovo allarmante. Ma più ancora degli autori, con la loro biografia, formazione, ecc., sono le loro poesie a rientrare in un giudizio calderone unico.
    Un’altra preoccupazione mia è per quegli autori che, da vivi non se li curava nessuno e che invece, una volta morti, diventano casi letterari (come la Nadiella Campana), ma di esempi se ne potrebbero fare tanti. Una speculazione che mi fa orrore.

    a Ennio
    Su quanto dici nel commento ad Annamaria, le differenze di opinione sullo stesso componimento sono la riprova che la principale attenzione la dovrebbe avere il poeta nei confronti di quanto scrive. Ed è sicuramente giusto quando dici che il lavoro di pulizia e scarto spetta al poeta.
    Aggiungerei solo che occorre leggere, leggere, leggere… e non solo poesia.

  12. Completo qui, con qualche opinione sul come esercitare critica, il commento sul fare poesia che avevo promesso a Maria Maddalena e che per questo ho aggiunto al post tutti ugualmente innocenti (l’ho mandato stanotte ma, non so perché, compare prima dei due ultimi di tre giorni fa).
    Credo che il giudizio sui versi di un autore – conosciuto o sconosciuto che sia – debba soprattutto essere motivato (da qui anche la necessità che chi giudica conosca quell’autore per averne letto ben più di un testo), altrimenti rimane un’opinione del tutto personale e per di più gratuita.
    Personale una valutazione lo è sempre, chiunque la esprima e anche quando fa riferimento a un canone condiviso. E questo dovrebb’essere tenuto presente da chi riceve il giudizio. Lo stesso critico farebbe bene a sottolinearlo.
    E poi un giudizio a mio parere dev’essere motivante, deve cioè anche indirizzare in positivo: oltre a dire qui non va per questo e quest’altro motivo, deve anche dire qui va per questi motivi, questa è la direzione che secondo me devi seguire, qui è la tua forza o la tua particolarità.
    Per il resto chiarezza, sincerità, metterci tutta la conoscenza, l’intuito, la simpatia di cui si dispone.
    C’è pure da dire che anche chi si sottopone alla valutazione altrui deve usare alcune accortezze. Per es. non dovrebbe farlo se non si sente abbastanza determinato a continuare a scrivere (qualunque sia il giudizio ricevuto), e ad utilizzare quello che il critico dice indipendentemente dal garbo con cui possa averlo detto.
    Da ultimo, dovrebbe mettersi nell’ottica di acquisire autonomamente qualche strumento di valutazione degli altrui e dei propri versi (e qui certo leggere, leggere, leggere).
    E’ naturalmente del tutto lecito invece che qualcuno voglia solo scrivere, continuare a scrivere come gli viene naturale senza sottoporre a valutazione critica quel che scrive per migliorarne l’efficacia narrativa (anche la poesia narra). Capita, credo, a chi scrive solo per sé. Ma in genere prima o poi anche chi ha iniziato a scrivere solo per sé matura il desiderio di comunicare ad altri e di farlo in modo efficace…

  13. LA CONFUSA DILETTANTE (?). OVVERO SUI MODI DI FAR CRITICA SU QUESTO BLOG

    @ ro

    Cara ro,

    e allora parliamo pure dei *modi* di far critica su POLISCRITTURE. Io ho da fare al tuo *modo* le seguenti osservazioni/ obiezioni:

    1. Seguire la tua “prosa poetica” mi affatica. Preciso: non voglio correggere il tuo stile. A me basterebbe soltanto che tu prima di pubblicare i tuoi commenti, rileggessi una volta o due. Per eliminare i troppi errori di battitura che ci lasci. (Per fretta? Per non perdere l’ispirazione? O per sciatteria? O per un atto di libertà?).

    2. Non so se altri te l’hanno detto prima di me, ma io, ogni volta che leggo un tuo commento, mi sento come un nuotatore che sa di potervi trovare alcune perle di pensiero critico (per fortuna ci sono!), ma sa pure che deve predisporsi a cercarle in un fiume fangoso di parole, dove t’arriva in faccia di tutto: complimenti eccessivi e non richiesti ( a me i complimenti, specie enfatici, suscitano sempre diffidenza!), allusioni ambivalenti che afferro e non afferro (ad es. «grave rimozione per chi ama la storia come noi tutti, e la sua commedia, e tragedia e farsa, si è rimosso anche il quando» ), ideologismi sovrabbondanti ( ad es. «A parte che da dilettanti e ancor più da poeti fatti o finiti o presunti tali, ma anche da semplici lettori di poesia, è assolutamente naturale aspettarsi una marcia in più rispetto ad altri “generi”… etc»), scelte di metafore (ad es. «cerchietto magico») che subito mi fanno venire l’orticaria. A volte il tuo linguaggio è cifrato o involuto (vedi tu…)e richiederebbe una parafrasi frase dopo frase.

    3. Altre volte, anche dove potrei essere d’accordo (ad es: la critica alla spocchia, alle varie élite), una riga o due dopo devo ricredermi, perché tra le varie élite metti anche quelle …che scriverebbero su questo sito («un’altra èlite (come quella che a volte si stabilisce anche in questo spazio»).
    Ora, fortinianamente, a me va bene di scrivere il mio nome tra quelli dei nemici. A patto di vedere che tu faccia lo stesso col tuo. Il che non mi pare.

    4. In più le tue critiche (a me, a Mayoor, a Emy) sono impressionistiche, mai circostanziate e argomentate a sufficienza. Non stanno alla questione, che a me pare qui in discussione: poesia e esercizi di poesia. La saltano completamente. Le tue critiche non partono da precise affermazioni mie o di altri/e, che sarebbe possibile ricontrollare e sulle quali si potrebbe intervenire eventualmente correggendole. Partono da una tua scelta di fondo (ideale/ideologica a mio parere) e da un ruolo che (sempre: mi pare) ti sei data: quella di paladina delle vittime, (in genere donne “fragili”; in questo caso è toccata a Annamaria Locatelli, che coi suoi versi rappresenterebbe per te – mi par di capire – proprio «quel nucleo fragile della vita»).

    5. Vediamo quelle di questa tornata:

    5. 1. A Mayoor. Avrebbe sbagliato il *modo* di criticare i testi di Annamaria (« il mitico, modo o come, non sia stato preso in considerazione, tanto nel fatto che ti ha riguardato personalmente, tanto in altri fatti analoghi già successi, se non respingendolo tout court» ). Non avrebbe mostrato la “minima sensibilità” («Il come di un poeta e/o dilettante poeta va talmente a quel nucleo fragile della vita e rigido della storia, che aspettarsi un minimo livello di sensibilità verso l’altro (pur nel dissenso più motivato circa i suoi prodotti intellettivi) è il minimo del minimo da aspettarsi di chi dice o vorrebbe dirsi o vorrebbe amare un linguaggio poetico»).
    E più avanti: « arriva bello bello Lucio e nell’oblio dell’accaduto al precedente esercizi 1, anziché scegliere una modalità finalmente creativa per regalarti strumenti di approfondimento ed eventuale mitica “crescita”, fa il replay di quanto avvenuto nella prima puntata».

    5. 2. A me di essere stato, prima di Mayoor, degradato stavolta a dilettante, il fautore o l’iniziatore di un modo di far critica “distruttivo” («E’ quindi parziale parlare di Lucio come colui che, fra dilettanti, a un’altra sua pari, avrebbe azionato la leva di un dissenso e di una critica»; «proprio per mettermi anche nei panni di Lucio , non deve tirare in ballo solo lui. Lui è intervenuto solo in un successivo momento»), alludendo forse al fatto di aver intitolato il primo post «Esercizi di poesia nelle pieghe del quotidiano» (qui: https://www.poliscritture.it/2014/10/05/esercizi-di-poesia-nelle-pieghe-della-quotidianita/);

    5. 3. All’”innominato” Chiarei e alla Emy: «il suo [di Mayoor] dissenso è intervenuto dopo che , con modalità che definire bizzarre è poco, qualcun’altro [sic!] preferendo un suo come “assurdo”, aveva del tutto stracciato il tuo [di Annamaria Locatelli] testo ( insieme a quello di Emy che però , vista il suo slogan sulla critica per la critica viva la critica “a prescindere” , non ha battuto ciglio».

    Di fronte a queste critiche (?) – ripeto: che troverei legittime, se fossero argomentate e circostanziate – provo a chiedermi da dove nascono. E rispondo:

    1. da una pretesa astratta che esistano già « condizioni di uguaglianza o addirittura fraternità fra dilettanti e poeti»;

    2. da una visione altrettanto astratta del compito di POLISCRITTURE, che per te sarebbe o dovrebbe essere quello della « costruzione di una comune o di un ultimo baluardo o avamposto (poetico –critico)»;

    3. dal sospetto (fondato su cosa?) che POLISCRITTURE possa « diventare un rifugio , un riparo non strettamente legato a denominatori comuni di ragioni, sentimenti, sostegno, fraternità, ma così autoreferenziale a se stesso da divenire né più né meno che uno dei tanti cerchi e cerchietti magici»; sospetto ribadito in altro punto sempre in modi ellittici e allusivi («siamo soli di fronte alle nostre prove di suicidio, da rinviare al giorno dopo e giorno dopo ancora, non stupiamoci poi di vite di poeti e poete che se ne sono andate all’altro mondo come pozzi, campane o greco, facendoci su articoli o commemorazioni o indagini, che mai potremmo fare per giunta di tutti i nomi dilettanti alla corrida»);

    4. dal vedere tutto ossessivamente in termini di schieramenti («Può anche andare che come io mi sono schierata dalla tua parte, lui [Ennio] si sia messo non contro di te, ma da un’altra»);

    5. da una visione ancora una volta astratta del compito da attribuire alla valutazione dei testi di poesia o esercizi di poesia che vengono pubblicati su POLISCRITTURE («sempre che si abbia a cuore il tuo apprendimento, appunto del mitico “linguaggio” poetico»), ventilando l’idea di una “scuola o scuoletta di poesia” che personalmente ho sempre respinto;

    P.s.
    All’inizio dell’esperienza del “Laboratorio Moltinpoesia” alla Palazzina Liberty di Milano un amico poeta mi consigliò di lasciar perdere, di non sprecarmi in spiegazioni, polemiche, discussioni con chi non fosse già nel giro “giusto”. Cosa direbbe oggi dando un’occhiata a questa discussione?

    1. …no comment, Ennio perché le manipolazioni sono così tante e del resto tutte prevedibili, e ostacolate da così tanto fango, che la distrazione dalla corsa nel mio sacco , sarebbe letale per le mie gambe. Ti lascio nel tuo scatto e sacco e soprattutto nel tuo come, palestra fitness compresa.

      1. @ ro

        No comment a un commento che mi è costato un pomeriggio di lavoro?
        Che eleganza nell’uscire dalla scena, madame!

        1. Ennio caro, come vedi, anche da questo tuo “come”, proietti le tue scelte e i tuoi orientamenti sull’altro come lo scatto, di foto o di sacco.

          Qualificando il tuo come, in conflitto violento da sempre con il mio, si può prendere, in questo caso, anche solo il tempo. Una volta ti scrissero se eri uno di quei strani manettari che stanno tutto il giorno con il c…appiccicato nella sedia davanti al pc. Fu un ‘uscita violenta che mi fece restare basita, come i fatti piu recenti sul blog di Linguaglossa, dove ti sbranarono. Tanto come fu un fulmine, a scoppio ritardato di settimane,dopo il tuono, l’agguato di Chiarei ad Annamaria ed Emy.

          Voglio dire che tu solo puoi scegliere di passare intere giornate, di cui un intero pomeriggio a scrivere di me. Guai, per il mio come, a chi ti azzannasse per queste tue scelte. Tuttavia, e qui sta la differenza inconciliabile del nostro come, sarebbe sciocco, irresponsabile, contronatura dire da parte miaad Annamaria (a prescindere dalla sua vicinanza o lontananza e a chiunque si trovasse nella sua situazione/simbolo), che le ho dedicato parte preziosa del mio tempo, perché proprio non potendolo pensare, non ce l’ho nemmeno come attrezzo in ciò che Lucio chiama retrobottega (spazio che escludo, come mia opinione, quindi del tutto relativa, ad essere esclusiva di certe vite e tantomeno di una sola arte).

          ….
          Il suono “madame” è, poi, la ciliegina sulla maglietta dello step o della palestra, molto attinente a questo punto all’accoglimento illustrato di Rita a quell’immagine. E’ noto ormai, infatti, che madame si è molto allontanato dal suo significato originale e se la madama equivale a una forza, madame a un’altra che significa puttana. Avevo un capetto tempo fa che si divertiva, povero lui, a impiegare il suo tempo, nel prendersi per il c…. una collega apparentemente un po’ tonta e vibilmente molto molto carina..quando arrivò un collega nuovo, direttore del servizio, in trasferta da Torino, e il piacionismo del capetto credette di sedurre il nuovo boss, con certi suoi comportamenti anche sulla madame, successe il finimondo. Il nuovo direttore era il marito. Se non lo fosse stato, la corsa nei sacchi sarebbe continuata a libero arbitrio con unico arbitro il perenne sgambetto? credo proprio di sì.

          Visto che il tuo tempo è prezioso, rimane la speranza che da questo esercizio/esperienza, tu possa scegliere quando vale la pena regalare il tuo tempo.

          un caro saluto

          1. @ ro

            «tutto il giorno con il c…appiccicato nella sedia davanti al pc. … ti sbranarono…agguato di Chiarei ad Annamaria ed Emy».
            Ti lascio questi ultimi sfoghi. Se non cambi tono e insisti, cancellerò i tuoi prossimi commenti.

          2. @ ro

            Una cara amica mi ha fatto giustamente notare che ho frainteso la prima parte della frase riportata nel tuo commento:

            “Una volta ti scrissero se eri uno di quei strani manettari che stanno tutto il giorno con il c…appiccicato nella sedia davanti al pc. Fu un ‘uscita violenta che mi fece restare basita, come i fatti piu recenti sul blog di Linguaglossa, dove ti sbranarono. Tanto come fu un fulmine, a scoppio ritardato di settimane,dopo il tuono, l’agguato di Chiarei ad Annamaria ed Emy.”

            Mi scuso pubblicamente per aver attribuito a te accuse di altri nei miei confronti che tu semplicemente riportavi.

  14. @ Ennio
    Dire con chiarezza ciò che si pensa , soprattutto nella critica, oltre ad essere un compito difficile è anche imbarazzante, come in tutte le occasioni della vita in cui serve dare con fermezza il proprio parere (quando viene richiesto naturalmente) . Resta forse la diplomazia, la gentilezza d’animo che comunque non devono mai arrivare all’ipocrisia. Il mondo è pieno di ballisti, di gente che preferisce le menzogne alla verità, ma la vera offesa è sapere che qualcuno ti nasconde il giusto per non offenderti. Bisogna abituarsi ad uscire da questo pantano , che troviamo oggi in ogni ambiente.
    Sarò noisosa , ma vi mando a questo proposito una poesia del mio amato Eduardo De Filippo:

    ‘O pparlà nfaccia
    Io chesto tengo:
    tengo ‘o pparlà nfaccia.
    Pure si m’aggia fa nemico ‘ Ddio
    e me trovo cu “isso”
    faccia a ffaccia,
    nfaccia lle dico chello c’aggia dì.
    Se scummoglia ‘o fenucchio?
    E se scummoglia!
    Ccà, pè tenè cupierte st’altarine,
    se sò mbrugliate ‘e llengue
    e nun se sàpe
    chi te fa bene
    e chi
    male te fa.
    Si nun se mett’ ‘o dito ncopp’ ‘a piaga
    e se pulezza scafutann’ ‘a rinto
    fino a che scorre ‘o sango
    russo e vivo
    cumm’ a chello ‘e Giesù
    nostro Signore
    ‘a piaga puzza!
    E siente nu fetore
    ca t’abbelena ll’aria
    ‘a terra
    ‘o mare.
    E nuie vulimmo ll’aria fresca e pura
    celeste e mbarzamata
    e chillu viento
    ca vulanno
    e passànno
    a rras’ ‘e mare
    se piglia ‘addore
    e ‘a mena int’ ‘e balcune
    pè dint’ ‘e stanze
    e arriva ncopp’ ‘e lloggie
    d”e case noste.

    1

    1. p.s.: “fenucchio” significa buono a niente, insignificante…Ma Ennio che conosce il dialetto napoletano sicuramente meglio di me, forse potrà spiegarlo meglio.

      *Nota a cura di E.A. da http://www.club.it/autori/grandi/eduardo.defilippo/poesie.html:
      [se scummoglia ‘o fenucchio: si sfoglia il finocchio, cioè si mette a nudo ciò che era nascosto; llengue: lingue; pulezza scafutann’ ‘a rinto: pulisce raschiando a fondo; abbelena: avvelena; mbarzamata: balsamica]

  15. Ricordo una trasmissione televisiva di parecchi anni fa, dove Carmelo Bene si rivolse a Giovanni Raboni dicendogli che le sue “poesiucole” non erano degne nemmeno per essere gettate nel cestino della carta straccia. Ovviamente non sprecò tempo a dare spiegazioni, lui era Carmelo Bene e l’altro Giovanni Raboni: se si vuole era un rapporto tra pari, piuttosto schietto. Fa grande differenza se tra “dilettanti” si fa allo stesso modo?
    A me il termine dilettante non piace. Andrà bene in altri settori o attività, ma in arte non tiene, non fosse altro per il fatto che gli artisti lavorano in solitudine e quindi si prendono per intero la responsabilità per quel che fanno, o scrivono. A meno che uno non si dia un datore di lavoro, come Bach che si scelse Dio in persona… per dire dell’umiltà. In arte non esistono dilettanti, chi lo disse? io sapevo di Manet quando lo disse al giovane Gauguin, ma forse anche la sua era una citazione.
    E’ un mito da sfatare? può darsi, ma resta un parlare tra pari se si è poeti, altrimenti capisco che possa sembrare assurdo. E’ scuola dura, la poesia, nel suo retrobottega.

  16. In un mio commento avevo scritto che nella vita siamo tutti dilettanti, perché siamo dilettanti ‘della’ vita, quindi è chiaro che il termine non va se riferito ad alcuni, come in questo caso noi, che non apparteniamo alla grande editoria o non abbiamo altra visibilità se non i blog che ci ospitano. Sono d’accordo con te, Lucio, e dici bene in merito alla responsabilità che ognuno di noi ha su quanto produce.

  17. …quando ero bambina, mella mia osteria, quando, e non raramente, vedevo volar coltelli, fuggivo terrorizzata. Sapevo che una o più persone rimaneva a terra ferita gravemente. Sono adulta (?), ma ancora non sopporto la vista del sangue…Vorrei riprendere il discorso, controvoglia lo ammetto, ma visto che sono spesso nominata, per non “lavarmi le mani”, come ponzio pilato, se c’è un’innocenza da difendere, che tuttavia non é la mia. Cara Ro, essere ripetutamente identificata con “la vittima” o con “la brava” genera non fastidio, perchè ti sento sincera e appassionata, ma disagio perchè sono “maschere” che ti vengono attribuite troppo impegnative, mentre io desidero sentirmi, o aspiro a sentirmi, libera e in movimento…Detto questo, in cui mi ritrovo in parte nel discorso di Ennio nei tuoi confronti, per il resto invece quello che dice in negativo della tua prosa poetica, io lo vedo in positivo…Ritornando ancora all’argomento di fondo, cioè sugli esercizi di poesia, e su quanto asserisce Mayoor che non esistono dilettanti in arte perciò la critica va applicata a tutti i testi o opere…ho delle riserve e cerco di esporle. Se si parte dalla distinzione “poesia ed esercizi di poesia”, molto chiara sul blog, allora, se vogliamo attenerci alla metafora della scuola, un professore non dovrebbe classificare questi ultimi (come farebbe con i testi delle verifiche in classe) e magari riportare il voto in pagella…se invece ci rifacciamo alla metafora della frontiera, e si dice che gli scritti sono contrabbandieri, e si accettano così, allora non passa la guardia di finanza a chiedere passaporti e scontrini fiscali…anche perchè il contrabbandiere passa dai boschi, dalle montagne, cerca altre vie…Se si vuol far decadere la distinzione, e perchè no?, volentieri mi sottoporrei alla critica così come é stata esposta da Marcella Corsi…non fa scuola, scuoletta di poesia, ma fa simpatia…

  18. @ Locatelli

    Cara Annamaria,
    se si cresce o regredisce, in poesia, nessuno lo sa o può dire con sicurezza. E anche se quel che scriviamo rientrerà nei parametri di poesia, che una volta erano abbastanza certi e verificabili e oggi sono ballerini, o si smarrirà nella mondiale marea degli esercizi di poesia o del dilettantismo o del sottobosco poetico o dei moltinpoesia, dipenderà da fattori complessi e impadroneggiabili.
    Non sarà certo una stroncatura di Tizio o di Caio a fermare la ricerca poetica di chi sente e sa coltivare, innanzitutto nella sua mente, una spinta, che è oscura e quasi sempre indecifrabile. (Cfr. sotto * i versi di Milosz, che ho già pubblicato in altra occasione). E quindi mai del tutto addomesticabile, scolasticizzabile, programmabile. Né da chi la sente. Né dagli altri – amici, critici, ecc. – che, non sentendola se non indirettamente per quanta empatia possano avere, possono solo pronunciarsi – e secondo me è giusto che lo facciano: fa parte di una “politica del linguaggio poetico” affermare certi valori e negarne altri – sui suoi effetti visibili, cioè quelli che si depositano alla fine nelle parole di un testo, in linguaggio.

    Marcella (Corsi) sostiene che «un giudizio […] dev’essere motivante, deve cioè anche indirizzare in positivo: oltre a dire qui non va per questo e quest’altro motivo, deve anche dire qui va per questi motivi, questa è la direzione che secondo me devi seguire, qui è la tua forza o la tua particolarità».
    Io, realisticamente, direi che un tale giudizio è auspicabile, può diventare prassi di un laboratorio o gruppo di amici. A patto che si sappia che esso è relativo, circoscritto. Ci sono tanti altri che darebbero giudizi diversi e più influenti. O che troveremo sempre sulla nostra strada il Carmelo Bene di turno che – tracotante o schietto – ci dirà che le nostre sono “poesiucole”. E non è detto che un tale giudizio stroncante non possa servire. Quantomeno a capire come va in generale il mondo; ché, appena si esce da un ambito protetto (la nostra mente, la cerchia degli amici), quello che a noi pare soddisfacente può essere svalutato, sbeffeggiato, disprezzato: il nostro può essere un vaso di terracotta in mezzo a vasi di ferro. L’incertezza non è mai placabile. (Cfr. sotto **testimonianza di Fortini).
    E allora?
    A me verrebbe quasi da dire che sarebbe stato un bene se tu, quando vedevi volare coltelli nell’osteria della tua infanzia, avessi trovato la forza di non fuggire e di contenere il tuo terrore abituandoti anche al sangue. Perché i sanguinari ci sono veramente e non sempre si riesce a fuggire da loro. E dobbiamo farci i conti (io spero assieme a buoni compagni e non da soli…).
    Quanto alla «distinzione “poesia ed esercizi di poesia”», il tentativo /dovere di distinguere riuscito da non riuscito (o buono e cattivo) va fatto. E questo non ha nulla a che fare – le metafore (specie quelle abusate) sviano – con voti in pagelle o passaporti. È semplicemente il lavoro che fa una buona critica. Altre vie non ce ne sono. E non si capisce perché si dovrebbe far «decadere la distinzione». O adottare due pesi e due misure: una per le poesie e una per gli esercizi di poesia. Anche perché fra le poesie entrate nei vari parnasi ce ne sono anche di brutte e che fra gli esercizi di poesia *ci possono essere” delle perle.
    Che poi, di fronte a una stroncatura, si cresca o ci si deprima è altro discorso (quello che ho fatto prima…).

    Note

    * da “Ars poetica”

    […]
    Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
    sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
    sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre,
    ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
    Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon,
    benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo.
    È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,
    se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.
    Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni
    che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,
    e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano
    cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?
    […]
    L’utilità della poesia sta nel ricordarci
    quanto sia difficile rimanere la stessa persona,
    perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave
    e ospiti invisibili entrano ed escono.
    Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia,
    perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
    spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
    che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.

    (Czesław Miłosz, Poesie Adelphi, Milano, 1983, traduzione di Pietro Marchesani)

    ** da Intervista a Fortini:

    “Quando si è adolescenti, molti scrivono poesie; poi, crescendo, può venir meno il movente psicologico, la possibilità di continuare a fare poesia. Una delle caratteristiche della poesia è che nessuno ti dà mai la garanzia di quello che fai. Cerchi continuamente il conforto di qualche amico, di qualche critico, di qualcuno che ti dica: “Ma si, sei bravo…” Eppure questa garanzia non ce l’avrai mai. Muori senza sapere mai esattamente che cosa hai scritto. “

  19. Non so, a me pare di avere cosparso di “secondo me” ogni cosa che ho scritto. Mi riesce ancora difficile tentare della critica scritta, ma in avvenire mi sforzerò di essere più gentile e di motivare meglio quel che mi passa per la mente, promesso.
    Mi spiace solo che Annamaria abbia visto della competizione nelle mie parole, non era mia intenzione. A dire la verità, non trovandomi in sintonia con i suoi componimenti, ero tentato di non commentare affatto. Fortuna per lei che non abbia scritto Sagredo.

  20. ( nell’intervento di Ennio, del “18 novembre 2014 alle 11:16 “, non c’è il pulsante del rispondi, segnalo pertanto fra questa parentesi che intendo farlo in quanto segue)

    Ciao Ennio, ti ho appena letto e mi viene “di getto” , da dirti, senza taraluccio o altro: ma allora tu non vuoi proprio liberarti di me?
    🙂

    la butto in questo sorriso, ma non per trascurare le tue scuse o, tantomeno, per non ringraziare colei che è riuscita a raggiungerti rispetto a me e a quanto volevo esprimerti.

    Non devi temere, non sei l’unico che non riesco a raggiungere, ma se ricordi io sono già morta e nelle mie diverse agonie , da fantasma o ombra quale sono, ogni tanto scelgo delle battaglie simbolo. La sarebbe stata anche quella, se fossi intervenuta, in cui ti ho visto, diciamo accerchiato. Non sono intervenuta per non aggravare la situazione con il mio linguaggio poco attrezzato fra vivi. Non mi sono pertanto offesa o risentita dai tuoi toni o modi e incomprensioni. Nel mondo delle diverse agonie, morte a morte (come fra vivi si dice “via via”) s’impara, con le proprie e quelle altrui, a non avere una lingua , ma soprattutto una traduzione, né dei gesti, né del corpo, né di altri alfabeti. Si rimane statue e si sanno i rischi che si (rin)corrono, è una cosa che fra vivi forse si chiama la forza dei perdenti e che nel linguaggio fra fantasmi assume altre vesti e altri suoni, molto spesso intraducibili o non confezionabili nel senso che i vivi danno alle stoffe, o ai fili, le forbici o i modelli etc etc. E’ meglio, però, che qui mi fermi sorridendoti e ringraziandoti ancora. Per il linguaggio dei vivi rivolgo a mia volta una scusa particolare ad Annamaria perché mai avrei voluto che, prendendo a simbolo di certe battaglie,la situazione che l’ha riguardata , si sentisse poi limitata, come ci ha riferito, nella sua libertà..

    un caro saluto

    1. @ ro

      A dire il vero di nessuna donna che ho incontrato nella mia vita mi sono veramente “liberato”. (Forse è successo il contrario…).
      A parte questo, quando mi sento rispondere «no comment » a un tentativo di capire l’altro/a, ci resto male.
      Che tu preferisca metterti nella posa della «già morta» o del «fantasma» o dell’«ombra» o della «statua» non mi turba. La situazione è dura e le maschere dell’ottimista, del disincantato, dello speranzoso sono un po’ logore. Ma il fatto è che una già morta, un fantasma, un’ombra, una statua dovrebbe rispettare le regole del suo ruolo. E invece tu – guarda un po’ – proprio non le rispetti; e non fai che scegliere «delle battaglie simbolo» come fanno tutti i poveretti ancora vivi, svelando proprio i pregi e difetti dei vivi.
      Un saluto e alle prossime scaramucce…

  21. …cara Ro, era mia intenzione chiederti a mia volta scusa, perchè la tua generosità nell’abbracciare “le giuste cause”, vale molto di più di molti miei distinguo…
    Annamaria

  22. Poesia ed esercizi di poesia-
    1.
    A.M Locatelli ha mandato a Poliscritture due componimenti in versi preceduti da alcune considerazioni introduttive.In esse sono contenuti due punti che ritengo interessanti. Il primo è un interrogativo: perchè scrivo poesie ? Il secondo una risposta ad esso. Comincio da quest’ultimo. Dice A.M.L , fornendo in sostanza una risposta negativa: non scrivo certo per ottenere un’affermazione sociale. Credo che tale tipo di risposta sia una dei tanti esempi delle difficoltà che incontra chi tenta di indicare “ le ragioni “ dello scrivere poesie o, come preferisco dire, di “ iniziare un’ esperienza poetica “.Anch’io ho iniziata tale cammino da moltissimi anni, direi da quando ho cominciato a possedere la capacità di formulare organicamente un pensiero in forma scritta. Le parole di A.M.L rappresentano dunque per me la spia di un problema comune. Anch’io mi sono interrogato sul perché del mio percorso ed anch’io non sono riuscito a dare una soddisfacente risposta di tipo positivo. L’idea che tale esperienza ed i suoi risultati possano “ garantire una sorta di immortalità “ o la “ fama “ mi sono sembrati – alla fine – non il fiat di essa ma piuttosto una giustificazione “ razionale “ di una attività che mi si è ( im ) posta davanti come una necessità. Giunto a tali conclusioni ho accettato di ritenere impossibile o quanto meno inutile la soluzione del quesito.
    2.
    Nel corso della mia esperienza ho perciò preferito trascurare il problema ed affrontare teoricamente ( mi si passi la pomposità del termine ) alcuni quesiti “ collaterali “ e aggirare l’ostacolo insormontabile. Ho scritto anche qualcosa su Poliscritture ma non ho riscontrato – rispetto a tali interventi – risposte “ esattamente correlate “ e cioè consensi o dissensi rispetto alle mie specifiche argomentazioni. Non escludo che questo mio rilievo nasca da una incapacità di afferrare il modello del dialogo on line che certo non mi è congeniale. Ma poichè – come usa dire qualche politico di moda – mi interessa il bene della nazione e non il mio personale, ritorno sull’argomento senza risentimenti.
    3.
    Affrontando ed eludendo allo stesso tempo la domanda “ perché si scrive poesia “ ho cercato di definirla inserendola – alquanto genericamente – nella categoria della comunicazione . Essa presuppone un “ uscire da sé stessi “ , inteso non nel senso parapsicologico dell’ectoplasma fantasmatico, che ha solo rapporti riguardanti il mondo dell’al di là, ma in quello concreto del mettersi in rapporto con altri per condividere una serie di notizie ( preferirei parlare di
    “ novità “ dato che si tratta di notizie filtrate dal poeta e, dunque, nuove rispetto a chi le
    riceve ) relativa al loro mondo comune. In questa direzione si può postillare che non esistono “ oggetti poetici in sé “ e aggiungere che il poeta, almeno nel momento in cui si esprime, non vuole morire perché sta costruendo qualcosa che va comunicato e gli sopravvive. Non occorre dunque pensare ad una qualche immortalità ma riconoscere che ciò che si è scritto non appartiene solo a noi stessi.
    4.
    Ho sempre pensato – e vi ho accennato – che queste osservazioni originarie identificano, prima ancora che “ la poesia quale opera “, il poeta come uomo che sperimenta un certo tipo di comunicazione. Questa attività che si estrinseca in un certo fare ( secondo l’etimologia di poesia ) rappresenta un’insopprimibile manifestazione di libertà individuale che va accettato e rispettato comunque. Tale attività si manifesta in direzioni diversificate, innanzitutto nella identificazione e nella scelta degli oggetti da rappresentare.
    Ritornando indietro e ai testi di A.M.L, penso che si debba avere rispetto ad essi una sorta di curiosità per la caratteristica che li contraddistingue. Intendiamoci: non si tratta di una originalità in senso assoluto ( che non esiste ) ma senza dubbio di una singolarità. E’stato fatto – correttamente, mi pare – il nome di Gianni Rodari. Forse rispetto ai di lui versi si può rilevare una certa “ dose in più “ di surrealismo. Ma anche in questa direzione vi sono tradizioni significative. Ricordo i nonsense e i limerick di E.Lear ( Londra 1813 – Sanremo 1888 ), scritti – diceva l’autore – per divertire i propri figli ( o nipoti ). Uno – riportato nella non mai lodata abbastanza Enciclopedia dei Ragazzi – Mondadori ante guerra ) diceva così:
    “ C’era una bella donna di Sarzana – che portava le mosche alla fontana …. versi illustrati da una figura femminile che recava una schiodata di insetti.
    Dunque A.M.L recupera una tradizione che si alimenta di un libero gioco di fantasia modulato in cadenze divertenti e insolite. Esso può assumere, oggi ( ogni mutamento di tempi induce a mutamenti di senso ) , significati diversi da quelli di mero divertimento e addirittura risultare emblematico della nostra vita senza senso.
    5.
    Con questo richiamo a un “ prodotto “ dell’estro di A,M.L cioè dal suo essere poeta nel senso sopra precisato siamo rimandati necessariamente a temi più generali e più complessi.
    Dando ordine, prima di tutto al mio stesso pensiero, osservo che l’uomo poeta è necessariamente un “ sedicente poeta “ non in senso spregiativo ma in quello più proprio di una rivendicazione di identità significativa. In questa prima fase l’uomo-poeta non ha da fare i conti se non con sé stesso e la battaglia è vinta o presa solo secondo la valutazione che egli stesso può dare del proprio momento. Ma lo scenario cambia – e di molto – quando costui risoltosi ad uscire da sé stesso e a comunicare l’opera deve fare i conti con il destinatario delal comunicazione. Egli si trova di fronte all’esigenza si giustificare e quindi definire la natura della propria opera. Egli si rende conto – in ragione dell’evidenza – che la propria comunicazione presenta delle singolarità rispetto a numerose comunicazioni che è solito effettuare nel corso della giornata. A questo punto è la sua opera che viene prepotentemente alla ribalta staccandosi dall’autore e pretendendo un interesse esclusivo che prescinde dalla vita dell’autore e ne rivendica quasi l’estraneità. Ci imbattiamo, ancora una volta, in categorie negative. La sua opera non contiene la posizione di regole di condotta; i suoi versi non attribuiscono diritti e non impongono doveri; non risolvono operazioni matematiche né descrivono processi fisici o chimici. Considerando empiricamente la storia della letteratura e della poesia in particolare ci si può convincere che non distinguiamo la poesia dalla non poesia ( non nel senso crociano e spregiativo di cui al noto Poesia e non poesia – ed Laterza
    1935,ma in quello di una divisione categoriale tra comunicazione poetica e comunicazione non poetica ) attraverso i contenuti o il tipo di effetto che essa produce. Uno e l’altro sono o almeno io li vedo come “ esterni “, aggettivi di un sostantivo che resta nucleo forte della comunicazione. Mi viene allora in mente di definire la poesia come “ dono “, nozione dalla quale è estranea la considerazione della qualità e degli effetti ,essenziale essendo – invece – la considerazione che il dono è gradito in sé. Ipotizzo che il poeta, meglio la sua opera dica:
    eccomi, accoglimi e fa delle mie notizie l’uso che vuoi. Ho sempre visto nel fare poesia un’attività gratuita e priva di utilità pratica,non nel senso che essa non dica nulla e non voglia dire nulla ma nel senso che essa non costituisce la risposta ad un problema, non serve a risolverlo. Il destinatario indirizza il messaggio verso un luogo della sua mente, lo decifra e in questa decifrazione vede l’unico scopo della poesia che ha letto.
    6.
    Di cosa deve allora aver cura l’autore ? Di ricercare e trovare sintonia col destinatario e ciò presuppone che il messaggio sia gradito. In termini “ estetici “ che esso piaccia giusta la fulminante definizione di Tomaso d’Aquino : è bello ciò che piace alla vista ( si aggiungano altri dei cinque sensi ). Si entra così nel campo di quella che chiamiamo estetica che presuppone un primo giudizio ( pregiudizio ) di gusto. La definizione che ho sopra riportato non è affatto semplicistica. Essa include, infatti, alcune possibilità. In primo luogo consente di includere nella categoria del Bello estetico anche il Brutto. Essa non esclude che il giudizio di
    “ piacere “ sia comune ad un intera comunità è costituisca – all’interno di questa – un canone di giudizio : moda ( che andrebbe rivalutata ) o spirito del tempo che sia .

    Nel momento in cui ricerca il proprio destinatario la sua opera deve “ responsabilmente “ adottare alcune misure che sono condizioni per piacere. Da qui la necessità di utilizzare strumenti di tipo tecnico attinti in varia misura dalla tradizione e/o dall’innovazione. La diversa misura del ricorso ad uno o all’altro dei due “ serbatoi” dipende dallo stato culturale e sociale della comunità entro la quale il messaggio si forma.
    Come dipende dallo stato culturale e sociale hic ed nunc anche “ il successo “ dell’opera e il livello della sua collocazione.
    Anche su questo ho scritto alcune cose, ovviamente del tutto opinabili, alle quali mi richiamo.
    Vorrei – e lo dico anche a me stesso – che nel dialogo on line si cercasse sempre di più la oggettiva correlazione della risposte alle domande e sempre meno l’estemporanea manifestazione ( a volte anche interessante ) di sfoghi personali, risentimenti,osservazioni oblique e non strettamente attinenti al tema. Solo così si può essere reciprocamente utili.
    E’ ovvio che sono più le cose ancora da approfondire da quelle che risultano dal mio apodittico e stringato intervento. Un cordiale saluto. G.M

  23. “A.M Locatelli ha mandato a Poliscritture due componimenti in versi preceduti da alcune considerazioni introduttive.”

    Resta il fatto che GM non riesce a dire che sono poesie. Io scrissi di Svolgimenti e di Non-ancora-poesie. Capisco, è un interrogativo superfluo ai fini dell’utile colloquio, forse anche dannoso per AML, ma credo che nel bene o nel male le siano stati offerti numerosissimi spunti di riflessione. E io questo lo chiamo incoraggiamento (accoglienza, benevolenza, solidarietà, partecipazione ec), per non dire delle chiavi interpretative, Rodari e ora i nonsense di Edward Lear, per dire di questo linguaggio che sembra rivolto all’infanzia, anche se non ho ancora capito se Annamaria si sia resa conto di questa sua direzione stilistica. I miei non erano giudizi ma domande, sicuramente mal poste (a quanto pare il punto interrogativo nella grammatica poetica è decisamente il meno usato), ma 60 commenti mi sembrano tutto sommato un buon bottino.

    20 novembre 2014 alle 12:46

    … per cominciare.

    [*Nota:Per evitare doppioni ho trasferito qui il commento di Mayoor [E.A.]

  24. @ Mayor e Locatelli.
    Giusta l’osservazione di M. Non ho detto se i versi di L. siano o no poesia. Preciso: non ho voluto dirlo e mi spiego. Sono sempre un po’ restio ad assumere ruoli di giudicante,sopratutto in poesia, in ciò coerente con le mie posizioni più volte spresse di un logoramento del ” canone ” e di una sostanziale molteplicità dei modeli espressivi adottabili. La mia ” polemica ” contro ” i veri poeti ” e i poeti affermati è contenuta in alcuni miei interventi su P. e non mi ripeto. Li legga chii ne è interessato. Non posso però sottrarmi a dare risposte più specifiche. Ho proposto la distinzione tra poeta come soggetto che esperimenta la comunicazione poetica e poeta – autore per individuare il compimento – nel testo – di tale esperienza. Orbene io credo che A.M.L sia in una fase aurorale nella quale le si è presentata l’esigenza invincibile della comunicazione poetica ma non ancora la precisa direzione verso la quale muoversi e realizzare un testo compiuto . Forse per questo – è una mia ipotesi – si attesta, attualmente, su una poesia minimale e per così dire infantile in cui si dà risalto alla ” novità,gradevolezza e stranezza ” formali in attesa ( a scapito ) di più maturi approfondimenti. Il limite generale dei nonsense è che si finisce per cristallizzare la conquista di tale traguardo- senza dubbio interessante – a scapito della conquista di territori più significativi. Che siano questi i traguardi credo si possa desumere da ciò: anche noi lasciamo i territori dell’infanzia e non possiamo più parlare secondo un linguaggio che vorrebbe – ma invano -perpetuarsi. Majora premunt. Un cordiale saluto. G.M.

  25. …ringrazio tutti e certo non immaginavo tanti commenti: hai ragione Mayoor. Ringrazio in particolare Giorgio Mannacio che é riuscito a trovare altri sensi (parola che ha ben tre significati) ai miei componimenti, che essenzialmente restano degli esercizi (di poesia)…e si ritorna al titolo del post. Qualche volta la soluzione di un enigma (fanciullesco, si intende, non quello della Sfinge) é davanti agli occhi di tutti, sul caminetto come “la lettera rubata” di Edgar Allan Poe…

  26. “Nella vita come nella poesia
    Bisogna essere profondi, intensi e leggeri
    Bisogna imparare a volare
    E a tacere per essere ascoltati
    E a volte bisogna diventare invisibili
    Per essere più presenti
    Bisogna avere la pazienza del bruco
    Che all’improvviso diventa farfalla
    Bisogna essere visionari e fantastici
    Ma soprattutto restare veri
    Essere e voler restare umani”
    Donato Di Poce

  27. A titolo di premessa non posso non complimentarmi, leggendo gli interventi in questo post come in altri, con tutti gli autori vista la quantità e tempestività degli interventi. Ne prendo atto con piacere. Nella mia normalità di vita (lavoro, una famiglia un po’ sparpagliata, l’impegno politico-sindacale, lo studio ecc) e di limitata capacità intellettuale, tale assiduità è per me inimmaginabile. Dico questo senza ironia perchè credo che tale presa d’atto e rispetto sia dovuta reciprocamente anche per chi, come me, interviene quando può, quando riesce, quando è in grado e forse non quando dovrebbe (a parere di chi poi?).
    Nel merito a quanto scritto aggiungo agli interventi di Mayoor, Ennio e Marcella nel post precedente di argomento analogo, che condivido pressochè integralmente, una banalità di cui mi assumo tutta la responsabilità: io quando devo valutare, giudicare, criticare una qualsiasi forma di arte non posso non partire anche dai miei gusti personali. Credo che anche il critico più preparato e consapevole non ne possa prescindere completamente. Certo il gusto personale da solo non basta e non ci si deve fermare a questo: il gusto va educato, raffinato, reso consapevole con lo studio intellettuale e non solo con il sentimento; deve essere orientato e la critica che ne scaturisce argomentata, perchè anche il gusto può cambiare in un senso o in un altro se si è disponibili a mettersi in discussione.
    Dunque confermo che le poesie di Emilia e AnnaMaria, anche nella successiva ripresa, non corrispondono al mio gusto (sarò un po’ rozzo forse a metterla così…ma perchè devo dire qualcosa che non penso?) per le ragioni che dicevo nel precedente post. Le trovo impregnate di una ispirazione che non è la mia, percepisco uno scrivere proprio di quel filone della poesia sentenziosa per Emilia e ingenuo bucolico per Anna Maria che non mi interessa approfondire particolarmente. Devo farmene una colpa se a loro preferisco la poesia di Sagredo o di Attolico o Mayoor o Marcella?
    Se ad uno piace leggere non per questo compra tutti i libri in circolazione: alcuni si e altri no e non solo per ragioni economiche. Magari mi sto perdendo qualcosa di bello e vero che semplicemente non comprendo ma alla fine chi ne “pagherà” le conseguenze se non io?
    Per par-condicio posso aggiungere che ad esempio non tutte le poesie di Abate mi convincono: quella sulla paternità o il ricordo di Lucini le ho trovate di una forza profonda, semplice ma assolutamente convincente. Lucini non l’ho conosciuto se non per alcuni testi ma quei versi di Ennio mi hanno collegato all’umanità di quella persona senza averla mai vista.
    Altre come quelle della sua ultima raccolta invece non mi convincono fino in fondo, probabilmente perchè la poesia politico/polemica è un genere che mi lascia perplesso o forse perchè – come gli dissi in occasione di una presentazione del suo libro – l’idea di fondo (se ho capito bene) di una storia che si è fermata nel momento in cui l’opzione politica per un paese socialista, o comunista (?) non si è realizzata, mi pare errata.
    Mi rendo perfettamente conto, come avevo già premesso, che la mia capacità di fare critica è assolutamente inadeguata come per altro la mia capacità di scrivere poesie. Mi domando però perchè nessuno si è mai “indignato” per la pochezza dei miei versi (pubblicati in vari post su poliscritture e blog precedenti), o ha gridato all’agguato per i miei endecasillabi fuori controllo, mentre invece questo accade nel momento in cui esprimo un giudizio (tra l’altro auspicato dal senso generale del post “esercizi di poesia”) su delle poesie e, sottolineo, non sulle persone che le hanno scritte che neanche conosco.
    Vorrei che non si dimenticasse, banalmente, che la decisione di rendere pubbliche le proprie poesie è una scelta personale. Le poesie pubblicate nel post “incriminato” le ho inviate io, mica è venuto Ennio a chiedermele…dunque se il cassetto lo apro dovrò mettere nel conto che potrò incontrare le reazioni più diverse, apprezzamento o disprezzo, lode o indifferenza (nel mio caso direi quest’ultima, ne prendo atto e vado avanti). Il problema vero allora è quanto rilevante sia per la determinazione di scrivere la reazione che incontrerò, se la visibilità e il riconoscimento pubblico incidono in modo determinante sulla mia sensibilità di autore e sulla necessità di scrivere. Se è così allora varrà la pena che gli interessati ci spendano qualche riflessione ulteriore.
    Sono convinto infine che il critico “sindacalista” di questo o quell’autore contro presunte cerchie “autoriali” (si può fare ovviamente, non è vietato…) mi pare sia un atteggiamento antitetico a qualsiasi tipo di critica ragionata. Personalmente il sindacalista l’ho fatto oggi in piazza per lo sciopero generale, insieme e con i “moltinoninpoesia” e i miei/nostri problemi quotidiani dai quali, detto senza retorica, trovo ancora le ragioni per l’impegno politico, culturale e anche poetico.

Rispondi a ro Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *