La civetta nana

civetta

di Rita Simonitto

“Una civetta filosofa o detective? Un po’ l’una e l’altra. La tenace bestiola non recede dalla volontà di conoscere nonostante la contraddittorietà delle esperienze che la contornano: ma avvicinarsi troppo alla verità a volte costa un prezzo molto alto, soprattutto quando sono in ballo gli umani. Più feroci degli animali e più inspiegabili di sicuro sono i loro comportamenti. E.A.]”

“Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, e dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”
G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione, Laterza, Bari 1965, p. 17

La civetta nana quella sera non aveva granchè da fare. Aveva già trovato sistemazione nel nido di un picchio che era migrato altrove, per cena si era fatta un sorcetto, ma era stata veloce e silenziosa, come al suo solito, senza infierire.
Poteva dire – non aveva timore di esagerare – che lui non se ne fosse nemmeno accorto: era passato dal greve sonno alle dolci praterie dei sorci, estensioni di frumenti e girasoli e contornate da alberi di ghiande, cespugli di nocciole e colline di formaggio.
Questa era la legge del bosco dove lei viveva, fare le cose ‘pulite’, almeno così la intendeva: chi era il predatore e chi la preda lo si sapeva dal tempo dei tempi e, tranne qualche rara eccezione in cui si creava una specie di ‘simpatia’ tra le due figure, e quindi si ‘cedevano le armi’, mai si era visto accadere il contrario.
Tutto cambiava quando arrivavano i cosiddetti ‘umani,’ i quali si mettevano a sparacchiare qua e là; e una volta aveva assistito, impotente, alla agonia di un falchetto a cui una raffica di pallini aveva tranciato un’ala e lui era fiondato giù a vite e poi era rimasto lì a dibattersi inutilmente…e lei aveva preferito allontanarsi perché si era accorta che la sua presenza lo terrorizzava ancora di più: ed era comprensibile. Quando si è antagonisti nel pieno delle forze e sopraggiunge una qualche debolezza o stato di inferiorità, il cambiamento di paradigma, a volte, non ci fa vedere che molte cose di contorno possono cambiare e che, nelle relazioni così mutate, possono essere attivati stati d’animo diversi. La pietà, ad esempio. Così veniva chiamata nel mondo degli ‘umani’. La chiamavano, sì, ma forse la pietà era sorda perché non rispondeva quasi mai.
Lei ne aveva le prove. Anzi, non direttamente.
Nonostante la sua ragguardevole età (aveva ormai superato i dieci anni) quel tempo di vita non era sufficiente – ma ciò poteva riferirsi a quasi tutti gli animali che abitavano là – per avere conferme di quanto invece sembravano bisbigliare i faggi, narrando di guerre violente tra gli uomini, lotte durate molti e molti anni e di cui lei poteva solo cogliere nefaste testimonianze: i cambiamenti dei paesaggi, crateri che non avevano alcuna ragione morfologica per essere lì, i ruderi di incendi, e quel senso di spavento legato ai rumori improvvisi che sembrava tramandarsi, senza un perché, da una generazione all’altra.
E ciò si accompagnava all’inserimento di un ‘nuovo’ che nulla aveva da spartire con le sequenze naturali, le nuove gemme, i nuovi frutti, l’alternanza di innovazione e diversità: si trattava di un ‘nuovo’ così straniero da sembrare inutile opporre resistenza e, nel contempo, difficile da assecondare.
Anche Brigida, sua nemica ma diventata quasi amica durante un suo breve periodo di cattività, ne aveva fatto esperienza e l’aveva rischiata grossa cercando di becchettare, come fanno tutte le gazze curiose, un anellino pendulo che sporgeva da un buffo ananasso di metallo. E si salvò per puro caso poiché quello strano frutto incominciò a rotolare lontano lungo la collina prima di esplodere in migliaia di penne infuocate.

Dal fondo della valle – e dal fondo di una estate senza particolari eventi di rilievo – sentiva arrivare fino al limitare boschivo dove lei si trovava, il solitario frinire di una ultima cicala la quale, invece di fare gee-gee come le sue colleghe, era intenta a ripetere il motivo conduttore di una mazurka, quella che durante l’intera giornata la sezione Alpini del posto aveva cantato fino allo sfinimento: “me piase i bigoi co’a luganega, Marieta dàmela, Marieta dàmela, per caritaaa” e così via all’infinito.
E quella cicaleggiava : Geregere geregere gee. Geregee. Geregee. Geregere geregere geee. Estenuante.

Non aveva voglia di infliggere a quella pettegola la fine che una sua antenata, una civetta di rango maggiore, fece fare proprio ad una cicala: disturbata da quel frinire, la attirò a sé con l’inganno e poi se la pappò. Eh, sì. Astuzia e violenza da una parte ma anche dabbenaggine e disposizione alle lusinghe, dall’altra.
Ma lei si asteneva dal farlo non solo perché si sentiva sazia, e quindi con un assetto d’animo più incline al ‘vivi e lascia vivere’ – situazioni di necessità escluse -, ma perché si sentiva fatta così, diversa. Ed era fiera di questo.
Anche se, pur ringraziando Athena per i doni di lungimiranza e saggezza che le aveva donato, aveva un inespresso contenzioso con la dea che continuava a roderle dentro.
Perché era nana? No, tutt’altro.
Le piaceva la sua corporatura minuta che la faceva sentire così jolie, leggera e veloce nei suoi spostamenti.
Quando si era trovata in cattività, le aveva fatto un certo effetto stare intrespolata su qualche cosa di caldo e palpitante, il dito di un ragazzino: lui l’aveva raccolta e salvata da un’ondata improvvisa di gelo che l’aveva spinta a ripararsi in una stalla. E sentire la dolcezza della mano nella quale si era accoccolata come in un nido accogliente mentre un alito tiepido andava avanti e indietro tra la testa e il dorso, carezze leggere che mai avrebbe dimenticato, era stata un’esperienza unica. Adatta alla sua misura.
Le contestazioni nei confronti di Athena riguardavano problemi di natura ben più profonda.
Che le serviva capire le parole degli umani quando queste era portatrici di doppi e tripli sensi e che lei non riusciva ancora – forse per inesperienza? – a decifrare. “…Marieta dàmela, per carità”, ad esempio. Che significava?
Che cosa produceva in loro quel gorgoglio godurioso mentre cantavano: il vino bevuto? la fraterna compagnia? le parole della canzone?
E la “Marieta” a cui chiedevano l’attenzione non veniva trattata con lo stesso rispetto che si ha nei confronti di una Dea: lei lo sapeva bene come andavano le cose quando doveva rivolgersi ad Athena. Anzi, tenendo conto di quelle voci sguaiate, sembrava tutto l’opposto.
E poi, che utilità aveva quel suo privilegio quando, viceversa, gli umani non capivano il suo, di linguaggio? Come far comprendere ai genitori di Yuri, il ragazzino che l’aveva sottratta a morte certa, che lei non era portatrice di nessuna disgrazia e che invece era partecipe alla sofferenza altrui? Infatti, si sentiva impotente di fronte alle lacrime di lui che l’aveva nascosta in un solaio all’insaputa dei suoi perché loro non la volevano.
“Hai Brigida, gli dicevano, e questo ti deve bastare”.
Ma Brigida aveva tutt’altro carattere, era frenetica. Quando cercavi di prenderla, si divincolava e beccava. Pure a lei aveva riservato una accoglienza tutt’altro che gentile: prima sospettosa, e poi tormentandola nel suo sonno diurno come a provocarne l’aggressività. Alla fine, non che avessero fatto chissà che amicizia, ma almeno rispettavano i loro tempi e i loro territori. Invece Yuri aveva bisogno di un confidente, una relazione in cui c’era più da sentire che da dire, e lei faceva proprio al caso suo.
Quando il ragazzino arrivava, era sicuro di trovarla lì e non in giro per i cortili o nel bosco come faceva Brigida, che dava segno della sua presenza ora a valle ora a monte schiamazzando con il suo cra-cra.
A volte capitava che lui la svegliasse quando invece lei avrebbe voluto continuare in sogno le sue volate notturne, ma quel risveglio non la disturbava poi tanto. Non solo perché il bisbiglio di lui e le sue carezze così lievi la facevano ripiombare in un dolce dormiveglia, ma era come se il sogno stesso si arricchisse di una dimensione ‘altra’; chissà se Athena sarebbe stato in grado di spiegargliela. Una dimensione che aveva a che fare con il ‘viaggio’, il viaggio di due esperienze così diverse eppure così ‘compatibili’.
Anche se la Dea l’aveva minacciata a non fare mai ricorso al ‘concetto’ di anima, eppure, in modo confuso, la civetta nana era come se sentisse di avere un’anima che volava con il suo Yuri in territori inesplorati, in una esperienza che rendeva gratificati tutti e due in un sentire di reciproco riconoscimento.
Tutto ciò le piaceva ed immaginava che anche lui apprezzasse quel clima di complicità che si era creato tra di loro, nel loro riunirsi nei momenti più disparati del giorno, ovvero quando per Yuri era possibile allontanarsi dalle sue stanze senza dare nell’occhio. Ma dopo qualche tempo accadde che il ragazzo non si fece vedere per due giorni di seguito e la civetta nana, dopo aver aspettato vanamente fino al calar della seconda sera, violò la regola di non muoversi dal suo nascondiglio per volare fino alla finestra della camera di lui. Fu delusa quando, dopo aver picchiettato a lungo alla lastra, Yuri le fece solo un rapido cenno come a volerla cacciare via. E lei si allontanò, mettendosi poi a litigare con Brigida che, avendo seguito tutta quanta la faccenda, cercò di becchettarla quando giunse al suo rifugio.
Quelli erano i primi segni che non poteva durare a lungo quell’idillio con la stessa intensità di com’era iniziato.

Infine, i genitori, che avevano sospettato che le assenze di Yuri nel solaio fossero legate alla presenza di lei, non si accontentarono dei dinieghi del ragazzino ma vollero andare a fondo. Così che un pomeriggio, irritati con il figlio che sembrava essere particolarmente improduttivo nel suo studio e imputando tutto ciò all’esistenza di quell’animale del malaugurio, convinti della giustezza delle loro ipotesi, urlando e sbraitando in modo da sopraffare i pianti del ragazzo, cercarono di entrare in quel santuario dal quale si erano sentiti esclusi.
Fu Brigida a salvarla, perché lei stava dormendo profondamente e non si sarebbe accorta del pericolo. Non solo chiassando come un’ossessa ma avventandosi e spiumando contro i due malcapitati che si erano avventurati in quella spedizione punitiva dandole così tempo per volarsene via.
Per la civetta nana fu un brusco modo per svegliarsi dal sogno: ma capì.
Ci sarebbe stato un dolore, un grande dolore patito da ambedue le parti e dovuto al modo brusco in cui la storia si era conclusa, ma ciò non avrebbe scalfito di una virgola l’intensità di quanto era avvenuto.
Bisognava invece affrontare gli esiti di quella rottura dolorosa, esiti che sono impliciti anche in ogni cambiamento.
Yuri sarebbe stato in grado di farlo? Che cosa si era venuto a troncare? Solamente un legame di amicizia, di solidarietà tra due solitudini? o non si era anche rotto un ideale, il desiderio dei desideri, quello che fa sì che la realtà si disponga a seconda della nostra necessità e del nostro piacere? Significava diventare adulti e lei lo sapeva bene quanto fosse difficile.
Lo sapeva non per esperienza personale, ma per quello che Athena, bontà sua, le segnalava ogni tanto. E sempre a giochi fatti, poi!
La Dea, in quanto eterna, anche se a dire il vero anche lei aveva avuto un inizio, sapeva tutto da tempi immemorabili. Troppo comodo fare sfoggio di quella competenza che il povero uccellino, invece, si doveva sudare!
Infatti si dava da fare a raccogliere eventi su eventi sui quali poi si allenava a formularsi qualche ideuzza.
E proprio in questa attività era impegnata la civetta nana che, in quella sera di fine estate, non aveva di meglio da fare. E, intanto che guardava giù nella vallata dove anche la cicala aveva smesso di cimentarsi con la “Marieta”, si formulò il pensiero che anche lei, quanto a periodo di vita, era poco più di quell’insetto in confronto agli anni e anni che passavano.
Questo era l’altro profondo rimprovero che faceva ad Athena!
Che senso aveva dotarla di saggezza per una durata di vita così breve rispetto a quella degli alberi longevi del bosco che…quelli sì, ne avevano viste di cose! E che potevano raccontarle in modo che non si sperdessero e che rimanesse memoria di loro… se avessero potuto … Certo, però, che non potevano, non erano strutturati per farlo…
Sembrava che, in un modo o nell’altro, mancasse sempre qualche anello per far funzionare a pieno la catena del sapere e congiungere le varie conoscenze.

La luna era già visibile e incominciava a far muovere ombre accompagnata da una lieve brezza, e, visto che aveva tirato in ballo la Memoria, la civetta nana si interrogava sul ruolo di Mnemosine, Mnemosine la bella, Mnemosine la rossa, Mnemosine dai grandi occhi, colei che mentre faceva perdere la testa a Zeus, suo nipote, si industriava a mettere ordine al Caos del mondo dando i nomi alle cose.
Athena, attraverso Metis, sua madre, dotava sì di astuzia e intelligenza ma quelle doti, senza la memoria che affondava nel passato, senza Mnemosine, appunto, potevano servire limitatamente al presente. Anzi, rischiavano di portare solo a ripetere, ripetere, ripetere senza alcun cambiamento possibile.
Invece era necessario anche ricordare. Ricordare per evitare di rifare gli stessi errori.

Presa in questi pensieri, alla civetta nana parve di scorgere il suo profilo, per quanto piccolo, proiettato su una lastra di metallo che luccicava poco lontano, là verso il prato, chissà da quanto tempo se ne stava lì. “Come fosse un antico scudo”, le suggerì la sua ‘deformazione professionale’ che la portava a leggere ogni cosa in termini mitologici.
Si arruffò il piumaggio e diede uno stridio di piacere riconoscendo nel suo profilo proprio quello di Athena, con l’elmo che precipitava dritto sul naso.
Era così intrigante quella somiglianza che decise con un lieve volo di avvicinarsi a quella superficie specchiante per rimirarsi meglio. Sapeva di essere carina, ma confermarselo ogni tanto era una buona terapia.
Chiu-chiu-chitcic cantò avvicinandosi bramosa a quella lastra lucente, chiu-chiu-chitcic.
Ora la luna, che aveva già intrapreso il lavoro consono alla sua quasi pienezza, stava illuminando quel piccolo spiazzo erboso e la civetta nana si accorse che ciò su cui aveva avuto l’impressione di specchiarsi non era che la portiera metallizzata di un’auto: era spalancata e faceva intravvedere una mano inerte che penzolava da sotto, quasi chiedesse alla terra un qualche aiuto. Vicino, una figura femminile.
Cercò di riannodarsi al ricordo. Le pareva, anzi ne era certa, di aver sentito un battibeccare di voci (un alterco tra un uomo e una donna) provenire da qualche parte lì intorno, non lontano dal suo nido. Non ci aveva fatto caso, forse erano solo gli esiti del clima alterato che si crea sempre dopo una festa con relativa bisboccia.
Nella curva del suo occhio le si era però impressa la scena di quel film che adesso cercava di riproiettarsi: ecco, c’era una donna che si lanciava a più riprese contro un uomo che barcollava. Sembrava che, fronte a lei, lui non reagisse, era come istupidito e teneva le braccia ciondoloni. Non parlava, e ad ogni attacco da parte della donna, muovendosi malfermo sulle gambe, tendeva ad indietreggiare verso l’auto. O forse era lei che ve lo spingeva.
E che cosa ricordava, poi? Le parole della donna, taglienti come lame: “E adesso sali e andiamo a casa”. Stridule. Allora si trattava di un marito, o di un compagno!
E una volta che lui fu messo sul sedile posteriore, dopo un attimo di silenzio: “No – gridò – “Tu rimani qui”.
Il rumore dello sparo che seguì e si perse via per l’aria poteva assomigliare a quello di un petardo, eppure il minuscolo eco che si estese nella valle pareva il fioco finale di una strazievole e inerme chiamata a raccolta.

Pur avendo paura, fu toccata da quel richiamo, oltre che dalla curiosità, e volle avvicinarsi di più alla scena: ma non ci si può improvvisare gazze se si è civette.
Vide che la donna puliva il calcio della pistola e stava per metterla in quella mano che prima aveva annaspato a vuoto per terra: la mano di un uomo che ora giaceva riverso sul sedile con una lama nel cuore che non fiottava più. La donna stava inscenando un delitto come se si trattasse di una legittima difesa: lui aveva un po’ bevuto, c’era stata una colluttazione, le aveva sparato e lei, per difendersi, lo aveva pugnalato?
La civetta nana ora non era più guidata dallo stimolo curioso, ma voleva capire meglio, farsi un’idea di quanto era successo e di quanto stava succedendo e andare oltre le apparenze.
Così udì il secondo colpo, inaspettato, non appena stava per posarsi più vicino.
Ma ancor prima lo aveva sentito dentro il suo piccolo corpo esplodere in tanti frammenti, spasimi che si allargavano come cerchi nell’acqua e che, come in una nenia, continuavano a ricordarle che non ci si deve fidare degli umani.

Che sono anche stupidi: quel secondo sparo, infatti, avrebbe del tutto smontato la tesi difensiva della donna togliendo credibilità alla sequenza che avrebbe raccontato: se lui era già morto, come avrebbe fatto a sparare il secondo colpo?
Ma intanto aveva colpito a morte lei. Inutilmente.
La bestiola era incredula che si continuasse a fare pensieri, se così si potevano chiamare, anche quando si stava per morire. Pensieri e dolore, ma soprattutto, dolore: che bisogno c’era di spararle, di ucciderla.
Lei non avrebbe certo parlato, non avrebbe svelato l’atroce menzogna. E a chi, poi, avrebbe potuto raccontarla? E sarebbe stata creduta?

Persone continuavano ad accorrere su dalla valle. La donna, mentre veniva portata via, divincolandosi, continuava a gridare: “è stata la civetta, la colpa è stata di quella civetta”.

Rita Simonitto
12.07.2014

6 pensieri su “La civetta nana

  1. E’ un delizioso racconto, degno di Buzzati. Ma con qualche differenza, mi pare, nella sostanza sotto intesa: quella mitologica, del bisogno di alti riferimenti, e di ricerca di un rapporto ecologico differente, più consapevole e avanzato.
    Ci ho pensato tante volte, e tante volte ho ascoltato il linguaggio degli animali nel tentativo di capire: i loro versi non sono parole significanti ma sono puro contenuto. E nel caso degli uccelli, almeno nei più canterini, mi sembra che si tratti di messaggi ripetuti: c’è un verme grossissimo vicino a quell’albero, vicino a quell’albero c’è un verme grossissimo, c’è un verme grossissimo vicino a quell’albero… ovviamente dicono di cose che interessano a loro, a ciascuno di loro contemporaneamente. Cantano.

  2. @ SIMONITTO
    Il tuo testo è sicuramente interessante e gradevole alla lettura. A differenza di L.M.T non vedo in esso alcun Buzzati. A te – mia opinione – non interessa il ” mistero ” che è presente invece ,a volte artificiosamente , in B. Il tuo, invece e sempre a mio parere, si iscrive in una tradizione in cui la trama favolistica – variamente intrecciata con spunti realistici ( vd il gustoso coro degli Alpini ) – ha intenti pedagogico-” moralistici ” ( vd Esopo,Fedro,La Fontaine rivissuti nelal modernità dell’indagine del profondo ), Sotto certi aspetti la vena pedagogioca ricorda certi versi di Rodari ( I colori dei mestieri ad esempio ) . Cerco di andare un po’ più a fondo. Ci vedo una lezione leggera e appetibile circa la contrapposizione dialettica tra natura e cultura. Essa non viene però risolta ( nè lo si potrebbe ).Anche la civetta è ambigua perchè da un lato sembra assumere la veste e il ruolo di giudice infallibile a favore del primo dilemma ( natura ) dall’altro appare, comunque, simbolo di saggezza.Ma tale saggezza non può fare a meno di una componente oscura ( vd Hegel ) che deve scontare le contraddizioni proprie dell’esistere.
    Ad esempio il fraintendimento del coro degli Alpini ( con relativa ironico giudizio ) non può trascurare che anche gli uccelli cantano per amore o per rabbia ( forse la stessa cosa ) e, dunque, c’è poco da ridere e molto da compartecipare .A me sembra – poi – che quella sorta di condanna che investe il delitto finale non sia – da parte della civetta – tranto saggio. Quì la civetta non è più Minerva ma la sua pallida e convenzionale immagine che rinuncia ad approfondire le ragioni del fatto. Alla fine civetta e donna finiscono per autolimitarsi nella loro indagine. La prima disconoscendo le ragioni del gesto e la seconda attribuendo a mala stella i motivi del delitto. In realtà in questa difetto finiscono per somigliarsi e resta sulle loro teste e piume l’aforisma di Nietzsche:vivere è essere in pericolo.
    Un cordiale saluto. Giorgio.

    1. Dicevo del Buzzati di Barnabò delle montagne, ovviamente, o se si vuole L’eleganza del riccio di Muriel Barbery, ma solo per il piacere che offrono queste letture, per la compagnia che questo racconto di Rita si merita. Pesco in quel che so, ma Giorgio Mannacio si addentra maggiormente e condivido il suo parere in merito all’episodio dell’omicidio, che se sviluppato, fosse anche solo per dare più corpo al racconto, potrebbe riservare altre piacevoli sorprese.

  3. grazie, Rita, per questo bellissimo racconto…mi sembra che la civetta nana sia un connubio di natura e cultura, ma più pendente verso la natura che é sempre bella e trasparente, come “la legge del bosco”, con in più un pizzico di saggezza, che le proviene dalla dea Atena, che l’ha istruita sulla presenza dell’ombra…non é lei ignara di come “tutto cambiava quando arrivavano i cosidetti “umani””, ma per sua natura fiduciosa é sempre pronta a intraprendere nuove esperienze. Grazie a questa dote, in fondo la vita le sorride, si apre all’amore, all’amicizia, alla curiosità. Le rotture, i distacchi fanno parte dell’esistenza e di un processo di crescita, non diminuiscono l’intensità e la bellezza dei sentimenti provati. La storia d’amore della civetta nana con il ragazzino mi ricorda, senza la conclusione tanto tragica, quella di Giulietta e Romeo…mi sembra presente in tutto il racconto un’ispirazione shakspeariana. Il finale é come la conclusione di una vita (l’aveva ormai vissuta tutta, anche se breve in rapporto a quella centenaria degli alberi), ma le restava solo un atto di coraggio, forse una testimonianza…avvicinandosi alla donna malvagia, che architetta con freddezza il suo delitto, lei, la civetta, diventa un piccolo frammento di una coscienza negata che sfugge al controllo della donna per volare visibile nel cielo. Sarà per questa ragione che verrà uccisa? L’uomo, o la donna che sia, uccide la natura, l’ultimo baluardo della sua coscienza? Si compie il secondo delitto per nascondere a se stessi il primo?
    Riguardo alla scrittura di Rita, a me piace molto l’uso di alcune parole “gonfiate” di calore e di vita, come baccelli inseminati…

  4. @ Mayoor e @ Mannacio

    Grazie dei vostri commenti, molto utili per rileggere ex post e capire ‘per differenza’.

    Anch’io, se proprio proprio bisognava farci stare dentro un riferimento a Buzzati, avrei pensato a Bàrnabo ma solo per l’aspetto legato alla vita del bosco. Ma qui, sfruttando un lapsus calami di Mannacio (*vena pedagogioca*), direi che vorrei ricalcare una forma ‘pedago-gioca’, la possibilità di giocare sui doppi sensi, usare le ambiguità del linguaggio, il tratto ludico delle parole.

    La civetta fa ricorso ad Athena, al mito, la civetta parla della memoria e della sua necessità: fa appello a chi ne sa di più. Ma, nello stesso tempo, vuole farsi la ‘sua’ esperienza, come giustamente dicono i giovani ai loro genitori. Non sanno che *vivere è essere in pericolo*, come acutamente cita Mannacio: a volte lo sapranno quando è troppo tardi. E’ il prezzo che paghiamo quando entriamo nell’agone dell’esistenza.
    Un’altra differenza riguarda la struttura dei miei racconti. Mentre per la poesia ritengo importante l’incipit, la ‘condensazione’ iniziale, per il racconto sento importante il finale, che dovrebbe arrivare inaspettato e che obbligherebbe il lettore a rivedere il percorso che si scopre essere già costellato di indizi.
    Quindi un modello indiziario. In questo caso vediamo già suggerita la diffidenza linguistica, le idealizzazioni che si spezzano bruscamente, i rapporti amico/nemico difficili a individuare nettamente nella cultura, il gioco di rappresentazioni che interfacciano natura e cultura. Infatti il nome stesso di ‘civetta’ è ambiguo per cui il grido finale della donna “E’ stata la civetta” dice il falso ma dice anche il vero: potrebbe essere stata proprio una ‘civetta’ in carne e ossa a indurre l’uomo al tradimento e la donna all’omicidio. Ma è falsa, perché non è quella, la civetta nana, il vero oggetto del contendere. Ne è il fantasma. Che paga perché si è confuso con il reale.

    @ Annamaria
    Non posso che ammirare la tua sensibilità nell’accostarti alle cose che leggi e ho trovato interessanti due momenti che hai segnalato.
    Il primo riguarda la testimonianza “come atto finale”: alla fine dobbiamo rendere testimonio a noi stessi di quanto e come abbiamo utilizzato le nostre risorse in vita.
    Qui, la civetta, ‘testimonia’ quanto la conoscenza della verità possa essere ‘periferica’: non appena si supera una determinata soglia di protezione, la verità è mortifera.
    Il secondo riguarda il “piccolo frammento di una coscienza negata che sfugge al controllo della donna”: ed effettivamente è ciò che accade quando proiettiamo all’esterno ciò che di noi ci disturba. Solo che abbiamo continuamente bisogno di tenere lontana questa proiezione: quando si avvicina troppo alla nostra coscienza ce ne dobbiamo liberare, ‘fisicamente’.

    Grazie di nuovo a tutti.

    R.S.

  5. @ Rita Simonitto.
    Cara Rita hai approfittato molto bene del mio errore ! Che sia stato da parte mia un lapsus freudiano ? Vedo che accetti la mia versione parzialmente pedagogica che era un dato positivo dei miei rilievi. Molto si apprende nel e col gioco: la pazienza nell’aspettare la carta vincente; la determinazione nel contrastare un avversario; il rilievo dell’influenza del caso; la felicità nella vittoria e la consapevolezza che si vince e si perde. Sono d’accordo anch’io sui rilievi tecnici ( per così dire ) che dovrebbero distinguere il dire in prosa e il dire in poesia. Giusto: la seconda si irraggia da una condensazione; l’altra si distende in un percorso che ha ” la sua morale ” finale,esito che ci impone di ripercorerre a ritroso il cammino fatto in funzione sia esplicativa della conclusione ma anche problematica sui possibili diversi risulatati che esso avrebbe potuto avere. Ciao. Giorgio.

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