Ancora su Fortini e Adorno

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di Giorgio Mannacio

Ho letto con interesse il “ resoconto “ di Ennio Abate sulla serata Adorno-Fortini tenutasi alla Libreria popolare di via Tadino a Milano con intervento/regia di Ezio Partesana (qui). Un resoconto necessariamente sintetico, ma che ha toccato punti che ho visto come cruciali e che mi hanno indotto alle osservazioni che seguono.

1.
Ho notato che una costante accompagna tutte le nostre epoche storiche: la laudatio temporis acti. Persino i più antichi degli uomini hanno pensato che la loro epoca sia stata preceduta da una più felice: l’età dell’oro. Sembra che nessuno sia soddisfatto dell’età in cui vive. Rispondendo ad una sollecitazione fatta da Partesana aggiungo che ciò non mi scandalizza affatto. La mia era solo una costatazione. A cosa attribuire tale atteggiamento? Si, certo in esso vi è una parte nobile che si fonda su quell’insoddisfazione che è la radice nella ricerca del miglioramento.Esso può essere ritrovato anche nel passato ( questa sorta di tempo immodificabile che è quasi una iperrealtà ), posto che è mia convinzione che il progresso non abbia un andamento rettilineo e continuo. Bisogna però considerare che la nostra visione del passato ( soprattutto di quello remoto ) è falsata in via generale dalla condizione di noi osservatori che, modificata nei suoi presupposti, finisce per influenzare la visione dell’oggetto stesso della nostra osservazione. Si può anche ipotizzare – e lo hanno fatto pensatori di grande statura – che la vicenda umana sia retta da una regola simile a quella nota come secondo principio della termodinamica che implica una costante degradazione dell’energia originaria.
La tentazione della nostalgia del passato si annida anche nei “ rivoluzionari “, se non ho letto male qualche passo di Marx. Tutte le osservazioni sull’alienazione del lavoro umano non richiamano forse l’antico tempo in cui vi era l’immediato godimento del frutto ? Eppure anche Marx sa bene che non si ritorna al tempo in cui Adamo semina, raccoglie e consuma ed Eva tesse e veste il prodotto del proprio telaio.
Appartiene poi all’indagine politico-economica-filosofica lo stabilire se tale stato di natura sia esistito e, se esistito, quanto sia durato e perché sia finito. Ma qui mi fermo.

2.
Veniamo, più specificamente, alla situazione attuale delle arti in genere e della poesia in particolare. La nostalgia del passato ci porta a lamentare la fine del tempo dei mecenati e dei signori, committenti di dipinti, sculture, poemi, tempo durante il quale si sarebbe svolta in armonia non disturbata dalle leggi ( vituperate o osannate ) del mercato, la vita delle arti.
Possiamo ipotizzare che sia stato davvero così, ma non è questo il punto centrale. Bisognerebbe, invece, a mio giudizio, sottoporsi ad un esperimento mentale di tipo diverso. In primo luogo pensare che certe condizioni si sono verificate per un mutamento radicale del nostro modo di essere e che questo, come un edificio, si regge – in equilibrio precario – secondo regole rigidamente interconnesse. In secondo luogo, pur non “ accettando “ la condizione esistente, procedere ad una valutazione rigorosa delle condizioni in presenza delle quali è possibile incidere nel senso del cambiamento e, infine, prevedere le conseguenze che tale mutamento non potrebbe non determinare. Immaginare, cioè, nel nostro caso, che cosa comporterebbe davvero la ricostituzione di un mondo in cui vivevano – come pesci nel loro mare – i mecenati, i signori committenti e i loro rispettabili o non rispettabili compagni.
3.
Nel rovesciamento del razionale nell’irrazionale cui accenna Partesana, ho la tentazione, a volte, di inserire anche quella conquista che definiamo democrazia. Ne vedo la sua essenza nell’esaltazione dell’individualità e nella considerazione della singolarità come valore in qualche modo assoluto. Il numero, in essa, è essenziale ma nel senso che presuppone la moltiplicazione dell’uno cioè dell’individuo. Si tratta, a mio giudizio, di un mutamento di prospettiva che opera sia verso l’alto che verso il basso. In via teorica aumenta sia la platea dei
possessori di capitale, potenziali fruitori delle opere d’arte che quella degli autori di esse. Quello che nel “ glorioso passato “ era stato un rapporto “ pochi tra pochi “ ( di relativa stabilità ) è diventato un rapporto “ molti tra molti “, più dinamico e conflittuale.
La vittoria dell’individuo è così una sorta di “ vittoria di Pirro “ perché il rapporto “ molti tra molti “ determina inevitabilmente uno schema di relazioni più complesse di quelle del passato
E’ dubbio se le cose mutino da un punto di vista “ qualitativo “ ( io credo che il rapporto tra popolo e e arti resti segnato da un certo “ privilegio “ ) ma mi sembra che da un punto di vista “ quantitativo “ il rapporto risulti frammentato in tanti soggetti quanti sono i componenti la società cioè tutti. Da qui nasce, mi pare, la contraddizione tra una dignità particolare delle arti e la “ volgarità” della contemporaneità.
Ma nessuno dovrebbe mettere in dubbio le conquiste della democrazia.

4.
E’ difficile – e pericoloso – in tali condizioni socio-politiche contestare la legittimità dei centri di potere letterario o artistico in generale dato che ciò significherebbe porre in discussione il valore di ciascuno di noi come individuo, centro a propria volta, di potenzialità aggreganti.
Il destino degli artisti e delle loro opere non è, perciò, “ assegnato “ in virtù di un privilegio
“ naturale “ ( quale si pensa – per comodità e convenzione – che sia avvenuto nelle epoche beate ) ma è segnato “ dal sudore della fronte “ ed è conquistato attraverso una sorta di competizione in cui viene affermato il valore del soggetto. Sono perciò “ naturali “ la vittoria e la sconfitta in termini di riconoscimento o disconoscimento della propria presenza ma deve essere “ naturale “ anche il giudizio di relatività di questi esiti.
La cronaca – che a volte è magistra vitae più della Storia – ci mostra poeti e romanzieri contestatori che pubblicano presso editori contestati nelle loro scelte politiche; produzioni a catena in funzione di mera economicità etc ma non si può pensare che questi ed altri deprecati atteggiamenti non siano altro che aspetti dello struggle for poetic life ?
Del resto e in linea pratica stento a pensare che un’epoca così ricca di potenzialità non permetta a ciascuno di esprimere in qualche modo le proprie esperienze artistiche. La limitatezza spaziale e sociale di ciascuna di esse dipende dall’esistenza di altre sfere di influenza che – vicendevolmente – si fronteggiano. Credo che le condizioni attuali non consentano altra soluzione se non quella di opporre la propria individualità/diversità a quella degli altri. Essa non è di per sé “ isolamento solipsistico “ se la conclusione è letta come apertura di ricerca di individualità/diversità omogenee alla propria.
In tale conclusione è presente il pericolo di una sorta di relativismo dal quale si esce solo attraverso l’esercizio di virtù etiche applicate alla propria attività artistica. Insomma: impegno, disinteresse, consapevolezza, responsabilità. Invocare l’etica è una bestemmia o una eresia ? E in tal caso contro chi e rispetto a che cosa ?

31 pensieri su “Ancora su Fortini e Adorno

  1. Caro Giorgio,
    provo a commentare alcune (solo alcune) delle tue riflessioni, anche perché sei stato così generoso da indicarmi come uno dei motivi che ti ha spinto a farle e mi sentirei in debito di una risposta se non ci provassi.
    Come già ebbi modo di accennarti in privato, l’uso utopico del passato o del futuro non mi desta alcuno scalpore e trovo anzi normale che si disegni quel che si desidera attingendo immagini da realtà che non sono mai esistite e probabilmente non esisteranno mai. Del resto, dove altro di dovrebbe andare a prenderle? L’unico limite che secondo me bisogna porre è la differenza che passa tra narrare di un’epoca felice dove sulla terra scorreva latte e miele e farne un progetto politico. Perché un conto è aver nostalgia di cose passate (reali o immaginarie) altro è pensare di restaurarle, e del resto il termine “restaurazione” viene da qui no?
    Su Adorno il discorso è un po’ diverso (e su Fortini anche). Il filosofo francofortese visse esattamente il passaggio da un’epoca dove la produzione culturale era per lo più affidata a grandi potentati o alla nascente borghesia (meglio sarebbe dire: i figli “scapestrati” di quella nascente borghesia) a un’altra dove la cultura viene prodotta come ogni altra merce e come ogni altra merce gestita. Presente il titolo del famoso saggio dell’amico-nemico di Adorno “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”? Ecco, Benjamin affronta lo stesso tema dal lato però dell’esperienza dell’opera d’arte, mentre Adorno è più preoccupato dell’ideologia capitalista sulla cultura.
    Detto questo però bisogna sempre considerare come per un dialettico quale Adorno certamente era la verità della cultura non è né il suo passato né il suo presente e, si presume, futuro prossimo. Dire la verità sulla produzione culturale coincide col riuscire a cogliere il passaggio dall’un modo produttivo all’altro, nei suoi aspetti progressivi e in quelli regressivi, fissandoli per un momento in esempi sino a che compongano una costellazione, un campo di forze di concetti e oggetti, che si lasci leggere nel suo complesso. Quando Adorno lamenta dunque, per esempio, che un tempo non c’erano i giradischi e quindi nelle buone famiglie tutti imparavano a suonare qualche strumento per poter ascoltare musica, non credo intenda parlare a favore della soppressione della radio e del grammofono, quanto rilevare come un processo di democratizzazione abbia portato con sé anche un impoverimento delle facoltà propria di coloro i quali proprio i beneficiari di quel processo avrebbero dovuto essere.
    Poi è vero, e già te lo dissi, che in Adorno c’è anche una buona quantità rammarico per una perduta cultura di élite nella quale si trovava sicuramente a suo agio, senza però che questo, a me pare, lo porti a propugnare alcun ritorno al passato in alcuna forma. Da qui potrei subito passare al punto da te espresso sul quale ho qualche perplessità, il tema della democrazia della cultura intendo, ma vorrei ancora prima dire due cose su Fortini.
    A me pare che un procedimento dialettico simile a quello adornano (anche se non so quanto da lui derivato) sia all’opera anche nella tesi cruciale fortiniana sulla fine del mandato degli intellettuali. Nella tripartizione che Fortini fa tra mandato ottocentesco degli intellettuali (diciamo Risorgimento per intenderci), mandato politico degli intellettuali (e anche qui per intenderci diciamo Pci) e fine del mandato degli intellettuali (e imporsi dell’Industria culturale), non c’è alcun rimpianto per lo smarrimento dell’intellettuale umanista come “coscienza nazionale” né dell’intellettuale organico come educatore, molto più realisticamente si prende atto della mutazione e si cerca di comprendere quale sia ora (cioè “allora”) il modo di produzione della cultura, le sue funzioni, la sua ideologia etc. Certo che si può dire: il prestigio dell’intellettuale ottocentesco lo sottraeva al meccanismo della autocensura preventiva, ma questo non significa certo che Fortini rimpiangesse l’esistenza di Manzoni o immaginasse De Amicis come modello di scrittore nazionale da riproporre!
    Naturalmente tutte queste sono sciocchezze se non ci si pone anche il problema della critica, e ricordo che alla fin fine Fortini insegnava storia della critica. Ed è qui che mi trovo, credo di capire, in disaccordo con te.
    Tu scrivi: “Il destino degli artisti e delle loro opere non è, perciò, “ assegnato “ in virtù di un privilegio “ naturale “ […] ma è segnato “ dal sudore della fronte “ ed è conquistato attraverso una sorta di competizione in cui viene affermato il valore del soggetto. […] Del resto e in linea pratica stento a pensare che un’epoca così ricca di potenzialità non permetta a ciascuno di esprimere in qualche modo le proprie esperienze artistiche”. Ora, si può anche essere d’accordo sul fatto che il moltiplicarsi degli strumenti di pubblicazione e il conseguente abbassamento dei costi, insieme a una scolarità minima posseduta da molti, portino a un aumento tendenziale della possibilità per ciascuno di “esprimere le proprie esperienze artistiche”. Credo che l’amico Ennio Abate sarebbe decisamente d’accordo con te, io lo sarei un po’ meno, sospettoso sul fatto che un aumento quantitativo debba essere considerato per forza di cose un accrescimento della libertà individuale, ma lasciamo perdere.
    Il punto è – o a me sembra che sia – che il tuo discorso elude due punti cruciali, e cioè a dire la sfera della circolazione e la qualità delle opere d’arte. Nella “struggle for poetic life” che tu immagini, le qualità darwinianamente selezionate sono di tutti i generi tranne quelle specificamente artistiche, e basta scorrere una classifica dei libri più venduti o dei film che hanno incassato di più, o verificare lo schema di cooptazione in una qualunque università o medio-grande casa editrice o televisione per rendersene conto. Il fatto che chiunque possa scriversi il suo libro e pubblicarlo o girare un film e metterlo su Internet, insomma, non è affatto una garanzia di espressione artistica ma semmai di libertà narcisistica. Quel che fa opinione e cultura è scritto o diretto da poche centinaia di persone, che si conoscono quasi tutte tra di loro e si vogliono, sospetto, anche un sacco di bene. Così che alla fine la libertà di espressione di rovescia (dai, oggi siamo in celebrazione della Dialettica dell’Illuminismo…) in impotenza a comunicare e confrontare ogni espressione artistica non sia stata licenziata sul mercato da uno degli apparati preposti alla faccenda.
    Chiudo con un ultimo dubbio che non riguarda direttamente le tue riflessioni ma mi sta assai a cuore, ed è questo: che ne è del giudizio di valore? La trafila insegnante, studi, lettere a artisti stimati, apprendistato, concorsi, pubblicazione, recensioni e critiche e via dicendo, garantiva a chi si volesse cimentare nella produzione culturale continue verifiche sul proprio livello, verifiche che se non eran certe e infallibili almeno servivano a dare una misura della fatica e degli sforzi necessari a ottenere un buon lavoro. Oggi ci sono i “mi piace” su una qualsiasi piazza virtuale disponibile, che sono molto più democratici, indubbiamente, ma temo non altrettanto formativi. Quando tutti sono scrittori e tutti sono critici – scriverebbe Adorno – la letteratura e la critica non sono più in grado di dire “no” a nulla. La funzione di resistenza e sprono alla fatica che era esercitata dai maestri, non sempre in buona fede certo, sembra oggi essere sostituita dalla moltiplicazione infinita dei circoli minuscoli di lettere tra sé e sé. Mentre le scelte che contano e i posti che contano sono fatte e assegnati altrove. La spinta che avrebbe dovuto cancellare la divisione tra alta e bassa arte, mi pare abbia solo moltiplicato la bassa e messo a buon profitto il resto.

  2. «Ora, si può anche essere ‘accordo sul fatto che il moltiplicarsi degli strumenti di
    pubblicazione e il conseguente abbassamento dei costi, insieme a una
    scolarità minima posseduta da molti, portino a un aumento tendenziale
    della possibilità per ciascuno di “esprimere le proprie esperienze
    artistiche”. Credo che l’amico Ennio Abate sarebbe decisamente
    d’accordo con te, io lo sarei un po’ meno, sospettoso sul fatto
    che un aumento quantitativo debba essere considerato per forza di cose un
    accrescimento della libertà individuale, ma lasciamo perdere.
    […]
    Il fatto che chiunque possa scriversi il suo libro e pubblicarlo o girare un film e metterlo su
    Internet, insomma, non è affatto una garanzia di espressione artistica ma
    semmai di libertà narcisistica.
    […]
    Quando tutti sono scrittori e tutti sono critici – scriverebbe Adorno – la
    letteratura e la critica non sono più in grado di dire “no” a
    nulla. La funzione di resistenza e sprono alla fatica che era esercitata
    dai maestri, non sempre in buona fede certo, sembra oggi essere sostituita
    dalla moltiplicazione infinita dei circoli minuscoli di lettere tra sé e sé» (Partesana)

    Grazie di questo chiaro intervento di Ezio Partesana. Per ora mi limito a ricordare che «l’amico Ennio Abate» ha pure lui sempre sospettato che più lettori o scrittori (di poesia e non solo) non automaticamente garantisca «espressione artistica» ( siamo appena usciti da una tribolata discussione su “poesia ed esercizi di poesia!: https://www.poliscritture.it/2014/11/15/poesia-ed-esercizi-di-poesia/; https://www.poliscritture.it/2014/11/10/esercizi-di-poesia/ ) o più «libertà» individuale o generale.
    Non la faccio lunga, ma ho sempre parlato di contesto mutato (tecnologie, scuola di massa, ecc) entro il quale POTREBBE darsi «una possibilità». Ecco quanto scrivevo nel lontano marzo 2003:

    « Di fronte a questo stato di cose, il fenomeno della scrittura poetica dei molti, spesso presentato come una boriosa avanzata di un Quarto stato scrivente senz’arte né parte, una prova per alcuni dell’attuale «declino della poesia», può invece rappresentare un segno di vitalità e un tema capace di rinnovare l’asfittico dibattito sulla poesia, arenatosi su posizioni nostalgiche, resistenziali o di ritorno al valore assoluto di una poesia fuori dal tempo.
    Infatti, malgrado limiti estetici, ambiguità pratiche e rischi di derive privatistiche, rispetto alla chiusura corporativa, la nebulosa poetante ha il vantaggio di essere dinamica e legata alle forme di lavoro e di vita dei molti. Certo, non è chiaro se un tale legame sia consapevole e alimenti in profondità la ricerca dei molti scriventi poesie. Tuttavia la loro diffusa presenza nel più ampio corpo sociale offre una possibilità: creandosi delle condizioni favorevoli e non solo nel campo della poesia, questi molti potrebbero esprimere, più direttamente e da vicino, bisogni, desideri e problemi finora rappresentati e filtrati da un lavoro poetico prezioso ma pur sempre di pochi».

  3. L’unico rapporto positivo che vedo nella democrazia sta nel fatto che, pur accettando le decisioni della maggioranza, posso starmene schierato liberamente, con questa o con la minoranza. E perché no anche starmene per conto mio, con le mie idee. Tenendo conto che in arte la democrazia non può avere vita facile, perché l’arte, come ogni altro lavoro intellettuale, è cosa che normalmente si fa in solitaria (e questo vale per i pochi quanto per i molti), bisogna accettare il fatto che la democrazia sia un esercizio successivo alla stessa; vale a dire che l’autore accetterà anche i pareri negativi al suo lavoro, almeno quanto quelli positivi… come dire che la democrazia non ha cambiato una virgola delle usanze secolari degli artisti.

  4. Ho lasciato questo commento sotto il post di Luca Lenzini su LE PAROLE E LE COSE:
    L’impermeabile scuro. Ricordando Franco Fortini a vent’anni dalla scomparsa

    Ennio Abate
    29 novembre 2014 a 23:16

    Caro Luca Lenzini,
    in che mondo schifoso e americanizzato tocca ricordare Fortini a vent’anni dalla sua morte!
    Non stupisce il silenzio dei mass media, né dell’accademia a lui ostile ma è mai possibile che quasi tutti quelli ancora in vita che lo ricordarono a dieci anni dalla morte in un convegno a Siena oggi tacciono? E che non ci sia nessun commento sotto il tuo post di nessuno dei redattori anche di LPLC? Mentre tutti questi giovanotti continuano a chiacchierare – qui nella stanza-post accanto – di poesia lirica e di poesia di ricerca come se la poesia fosse nata con loro!
    E ancora: si può ricordarlo in quel modo per me sciocco, narcisistico, infantile, ipocritamente pietistico, con cui l’ha fatto Franco Loi in questo video della Rai (http://www.letteratura.rai.it/articoli/franco-loi-lirascibile-fortini/26280/default.aspx), dove, incontenuto, si abbandona a veri pettegolezzi da bar o da salotto e gli dà addirittura dell’«ideologizzato»?
    Così in basso gli intellettuali di sinistra non sono mai arrivati.
    Grazie del tuo post.

    Il tuo commento è in attesa di moderazione.

  5. Ho visto il video e non trovo commenti adeguati se non stanandoli in quella libertà narcisistica di espressione che oggi va tanto per la maggiore e dove si confonde il parlare della parte umana di un personaggio e dei suoi chiaroscuri, con l’entrare nella sua ‘intimità’, nelle sue ‘idiosincrasie’ seguendo i modelli televisivi arcinoti.

    Comunque il mio intervento verteva su altro.
    Tenendo conto anche di quanto è stato scritto nel precedente post del 22 ottobre su Fortini e Adorno a proposito del personaggio di Odisseo, faccio un’osservazione quasi a mo’ di battuta.
    Il (secondo me) dissennato attacco alla borghesia portato avanti con determinazione ‘talebana’ ha colpito indiscriminatamente anche l’eroe omerico, visto come il *prototipo dello stesso individuo borghese il cui concetto ha origine in quella compatta affermazione-di-sé di cui l’eroe pellegrino fornisce il modello preistorico…*, con ciò consegnandoci mani e piedi all’altro mito fondativo, quello del “pio Enea”, rispettoso in massimo grado del volere degli dei e delle cui gesta il ‘buon’ Virgilio fu il cantore. Il ‘politicamente corretto’ esisteva già allora.
    Dalla padella alla brace! Che débacle!

    Quanto all’intellettuale, rimanendo sulla scia dell’eroe omerico, questi dovrebbe essere colui che è dotato della capacità di vedere al di là del contingente e delle costrizioni politiche o sociali che siano (per Odisseo = colui che è dotato di Metis).
    Per l’eroe, questa capacità non proveniva soltanto dalla dea Athena, con la quale egli anche si scontrò, ma dalla sua esperienza.
    Esperienza che Omero ci fa percorrere tutta quando descrive l’eroe che prende in mano l’arco e lo riconosce millimetro per millimetro, ne dimostra la ‘competenza’. Invece i Proci ne conoscono solo l’uso, tant’è che se lo passano disinvoltamente l’un l’altro pensando che è facilissimo l’usarlo.
    [Ogni riferimento attuale alla capacità di riconoscere o meno il valore di un’opera è puramente casuale!]
    Così come quando Odisseo rinarra la storia del suo letto nuziale. Sono i Proci che conoscono solo l’uso e non la storia, ovvero sono loro che *praticano quell’unità di sesso e possesso* che Penelope respinge da sé.
    Il concetto di famiglia che Ulisse istituisce si basa attraverso il riconoscimento ‘reciproco’ del talamo nuziale, la storia condivisa tra lui e la moglie. E’ l’esito di un percorso dell’eroe, che si sgancia dal potere degli Dei per acquisire la sua soggettività, la sua capacità di scelta, passando attraverso le varie fasi della crescita e della maturazione. Fosse stata soltanto la spinta al piacere a muoverlo, ne avrebbe ben avuto la possibilità e con Circe e con Nausicaa.
    [Ogni riferimento ad un oggi in cui il diritto ad avere qualche cosa non fa fronte ad una fatica ma ad una grazia ‘superiore’, è puramente casuale!].
    Odisseo è l’unico eroe mitologico (assieme, ad un livello minore, ad Ettore e ad Alcesti) in cui si faccia luce la nozione di “intimità” (P. Brunel) e che contempla una dialettica interno/esterno.
    Chiamiamolo pure prototipo di individuo borghese, ma mi piacerebbe incontrarne qualcuno anche oggi.
    L’attacco all’individualismo borghese ha portato ad attribuire ad Odisseo dei tratti che gli erano del tutto estranei. Perchè, tra le varie capacità poliedriche a lui assegnate (polytropos/dal carattere multiforme; polymetis/dalle molte astuzie; polymechanos/capace di trovare molte soluzioni) c’era anche il philetairos/colui che pensa ai suoi marinai.
    Quindi l’ attribuzione a-posteriori che contempla *i marinai-servi con le orecchie tappate dalla cera che remano e lavorano e nulla odono di quel canto* [quello delle Sirene] è funzionale solo a voler dimostrare che Odisseo è un privilegiato mentre i marinai-servi sono dei poveri sfruttati. *O che Odisseo si compiace del lavoro che fa mentre gli altri poverini lo fanno solo per vivere*. Ma questa procedura interpretativa è sterile perchè non porta nessuna conoscenza che non sia già implicita nella dimostrazione. E’ un C.V.D. (Come Volevasi Dimostrare) che non porta a nessuna illuminazione nuova.

    R.S.

    1. Gentile Rita Simonitto,
      non commento il suo intervento, per altro interessante, perché non ho competenze adeguate in merito. Vorrei solo ricordare che Adorno e Horkheimer quando parlano di Odisseo lo fanno all’interno della Dialettica dell’Illuminismo, e dunque con un intento critico specifico sull’individuo moderno che per loro è, al meglio e al peggio, rappresentato dal borghese. Non credo proprio avessero di mira una interpretazione filologica di Omero… Del resto non so cosa il buon Ennio abbia riportato della mia breve conferenza e dunque può anche darsi si tratti semplicemente di un fraintendimento.

  6. @ Ezio, Ennio e altri.

    Sì, mi scuso anch’io per la mia imprecisione. E’ che ho fatto un mix di un intervento che avrei voluto postare in ottobre su qui:
    https://www.poliscritture.it/2014/10/22/segnalazione-4/#comment-5988–
    e poi non ho avuto modo di completarlo – e il post attuale.
    Il riferimento ad Odisseo – ovviamente estrapolato da Dialettica dell’Illuminismo nel seguente passo dove Horkheimer e Adorno sottolineano il lato borghese di certi comportamenti dell’eroe omerico: “…cantare l’ira di Achille e le peripezie di Odisseo è già una stilizzazione nostalgica di ciò che non si può più cantare, e il soggetto delle avventure si rivela il prototipo dello stesso individuo borghese il cui concetto ha origine in quella compatta affermazione-di-sé di cui l’eroe pellegrino fornisce il modello preistorico…” -, aveva l’intento di torcere il bastone nell’altro senso, riabilitando, se possibile, l’importanza della ragione e del mito che la sottende. E utilizzando il mito come quel sistema dinamico in cui interagiscono simboli, archetipi e schemi e che, sotto la spinta di uno schema sociale, economico o religioso in atto, tende a strutturarsi in un particolare racconto privilegiando, metonimicamente, un aspetto anziché un altro…
    Perché, se concordo in linea di massima con Ennio che scriveva in quel post * ha spiegato Partesana ricorrendo al concetto di ideologia di Marx – quella percezione della realtà distorta è una sorta di “autodeformazione” ma serve a mantenermi in vita*, volevo tentare di cambiare “autodeformazione”, trovandone un’altra più redditizia, sempreché possibile.
    Grazie e di nuovo scusate.

    R.S.

    1. Tipo togliere alla Dialettica dell’Illuminismo la dialettica?
      Scherzo naturalmente.
      Grazie e buona giornata.
      Ezio.

      1. L’idea, invece, non sarebbe niente male. Fosse per me, toglierei del tutto la Dialettica stessa fintantoché non potrà esibire di nuovo le sue credenziali. Forse si sveltirebbero e si chiarirebbero alcune dinamiche che di dialettico hanno ben poco. Perché, oggi, continuiamo ad essere convinti che la Dialettica esista mentre invece al suo posto domina una inesausta monolessi.(*) E’ come quando, in treno, occupiamo un posto vuoto con il cappello, o il giornale, sostenendo che arriverà qualcuno. E passano le stazioni una dietro l’altra e non arriva nessuno. E che dialogo mai ci può essere con il cappello o il giornale?
        Il problema che si pone poi è che cosa ne facciamo di ciò che togliamo. Dove lo buttiamo?
        Idem dicasi per la democrazia che non sto mettendo in dubbio (G. Mannacio *Ma nessuno dovrebbe mettere in dubbio le conquiste della democrazia*), ma sto solo dicendo che il suo posto è vacante.
        E che faccio? La ‘tolgo’ tutta insieme? Oppure ‘togliamo’ il ‘demos’ (visto che di popolo, di identità di popolo è problematico parlare)? Oppure ‘togliamo’ il ‘kratèo’ (il comando, tanto sembra che anche qui si sia operata una inversione e cioè che “futtiri è megghiu ca cumannari”)?
        Scusate dell’incursione !!!

        (*) non mi assolvo da questo peccato!

        R.S.

        1. Lei è molto agguerrita, ma io non posso né voglio imbarcarmi in una difesa della dialettica; segno solo che il genere di esistenza della dialettica non è esattamente quello di un palo della luce, di un confine nazionale o di una frase detta in dialetto… 😉

  7. AFFERMAZIONI APODITTICHE.

    @ Ezio ed Ennio

    Grazie prima di tutto dell’attenzione. Ho scritto un intervento di risposta molto lungo e viziato da un certo “ narcisismo autobiografico “. Dunque ho deciso di sostituirlo con le seguenti affermazioni apodittiche. La loro caratteristiche presenta due vantaggi: a ) per chi legge: di calibrare con precisione le loro obbiezioni; b) per me: di rendermi conto con chiarezza dei limiti del mio pensiero. Insomma apoditticità come specchio della propria immagine.Ecco le affermazioni.
    1 ) Il “ mondo della poesia “ si divide in “ mondo antico “ e “ mondo moderno”.
    2 ) Il mondo antico si estende dai primordi delle manifestazioni poetiche ai giorni nostri ( fino alla comparsa dei due grandi sistemi di organizzazione della società e cioè la struttura democratico.borghese capitalista e il totalitarismo )
    3 ) Nel modo antico il poeta trovava la propria legittimazione nell’essere prima mago, poi via via uomo dotato di cultura selettiva rispetto al vulgus. La sua sopravvivenza fisica si fondava su queste due qualità e trovava espressione nel mecenatismo che si atteggiava in modi diversificati secondo le epoche. Alla fine del mondo antico i mecenati sono i grandi editori.
    Il canone è dettato dai poeti riconoscibili o dall’essere taumaturgici o dall’essere oggetto di protezione da parte dei mecenati o dei grandi editori.
    In un primo tempo, la selezione è per così dire “ naturale “ ( grazie dell’arguto richiamo a Darwin ) nascendo da qualità suppostamente oggettive del mago,dalla protezione dei potenti, dall’accoglienza dell’editore.
    4 ) Nel mondo moderno si verificano importanti “ crisi “ di tali modelli. Infatti: a ) l’individuo viene considerato come soggetto dotato in sé e per sé di una carica assoluta di libertà e di dignità ( anche i totalitarismi promettono liberazione ) ; b ) un tratto di tale libertà può esprimersi attraverso la scrittura sempre più accessibile data la scolarizzazione di massa e la disponibilità di “ depositi culturali “ ricchissimi; la liberalizzazione degli strumenti di comunicazione; la relativa facilità di autogestire le proprie esperienze poetiche.
    Finito il periodo magico in cui la credenza oggettivata di un potere esistente legittimava la reverenza, il poeta è sempre “ sedicente poeta “ nel senso che si riconosce e si “ apre “ così nella propria identità /apparenza.
    5 ) Il mecenatismo finisce per motivi economici e culturali che possono essere facilmente individuati attraverso un’ analisi sociologica e, nello stesso tempo, la banalizzazione dell’evento poesia ne accentua la caratteristica di oggetto, sottoposto o alle leggi del mercato o alle scelte del potere dello Stato. Tale banalizzazione comporta la coesistenza di canoni diversificati e introduce elementi di disorientamento oggettivo nella stessa critica che è figlia e non genitrice della poesia.
    6) L’oggetto-poesia privo di un valore intrinseco deve essere caricato, – per essere commerciabile ( cioè legittimare la sua presenza oltre i confini del cassetto del poeta ) – di un “ plusvalore “ che è costituito dalla ricreazione di un “ modello “ ideale ( la poesia come la più nobile delle attività dell’uomo, un sigillo di immortalità, la porta della fama e della variamente atteggiabile rilevanza sociale…).
    7 ) Questo , non del tutto innocente, compito si propongono le “ scuole di poesia “ e quello che vi sta intorno come modalità strumentale : scuole, università, seminari ad hoc, formazioni sociali etc… le quali a loro volta si trovano – però – a dover “ scegliere “ tra tutti i possibili oggetti-poesia circolanti “ sul mercato “. E’ giocoforza allora predisporre un metro di valutazione ( il canone ) che ha una doppia funzione: a ) legittimare la scelta sì che essa non appaia eccessivamente arbitraria e come tale rifiutata e b ) convincere gli altri che la scelta è quella giusta.
    Queste le premesse .Il resto sono deduzioni,connessioni particolari,sviluppi.
    Panorama triste ? Solo Benigni dice che la vita è bella.
    Non per altro se non per utile informazione segnalo, a chi avesse voglia di qualche dettaglio in più, alcuni miei interventi: 1 ) La poesia come oggetto in Moltinpoesia 20 giugno 2012; 2 ) Poeta primate e poeta sapiens in Poliscritture 17 novembre 2011, 3 ) Sui veri poeti in Poliscritture 9 maggio 2014; 4) La poesia alla prova del fuoco in Poliscritture 21 febbraio 2014.
    De hoc satis

    DUE BREVISSIME POSTILLE PER ENNIO.

    I . Su Fortini

    Ho letto in questi giorni alcuni interventi su F. ( non Loi che vedrò sul P.C ma dal quale non mi aspetto grandi cose ) . F. dunque non è stato del tutto dimenticato . La misura , la qualità e la funzione di questo “ ricordo “ meritano certo un approfondimento che non so fare. Non conosco i suoi rapporti con l’Accademia,ma certo non è il solo intellettuale di spicco che abbia avuto con essa rapporti di diffidenza reciproca. Le tue notazioni ,che nascono da una profonda simpatia e partecipazione che apprezzo e stimo, mi richiamano, più in generale, un detto di memorabile verità che solo “ un folle “ come Dino Campana poteva concepire ed esprimere così:
    Letteratura nazionale
    Industria del cadavere
    Si Salvi Chi può
    ( Dino Campana- Opere – Ed Tea 1989,pag. 254 )

    2 ) Mondo …americanizzato.

    Penso sia sinonimo di cineseria o marocchineria, termini che indicano qualità mercantili scadenti e di basso valore.
    Non sono mai riuscito a leggere il secondo Camilleri. Via anche Veronesi e Pennacchi e Gruber e Veltroni e così via…Ma leggo romanzi americani di grande intensità e interesse: Mc Ewan, Roth e da ultimo F.Meyer . Il Figlio ( Einaudi ) Te lo raccomando.
    Un carissimo saluto. Giorgio.

    1. @ Mannacio

      Solo su un punto. Per ‘americanizzazione’ intendo la subordinazione politico-culturale dell’Italia alla potenza statunitense. Jazz, romanzi, cinematografia non sono di per sé veicoli di tale subordinazione. Lo sono diventati, appunto, con l’industria culturale di massa che nel nostro Paese, dagli anni Sessanta in poi, ha spazzato via, con l’adesione prima tentenante poi entustiasta ( Ahi, Veltroni!), ogni resistenza a questa colonizzazione. Preso atto di questo fenomeno, non mi pare una contraddizione leggere o amare Faulkner , Roth, ecc. e contrastare la politica di Obama.

    2. Caro Giorgio,
      sono d’accordo con quasi tutte le tue affermazioni “apodittiche”; certo, io le avrei scritte un po’ più confuse, ma qualche vizio ai filosofi bisogna lasciarlo, no?
      L’unica cosa che vorrei criticare, perché oramai mi sono assunto questo “ruolo”, è una certa mancanza di dialettica nel riassumere o far proprie parte delle tesi di Adorno.
      In fondo la tesi centrale di Dialettica dell’Illuminismo è che il mito è già Illuminismo e, a sua volta, l’Illuminismo si rovescia in mito. Lo stesso procedimento vale, a mio avviso, anche quando si parla di Industria culturale: non è che prima ci fosse il mecenate puro e dopo solo l’industria. Potremmo cercare elementi di industria della cultura anche nel mecenatismo più classico (Firenze rinascimentale va bene?) e trovare che nell’odierna struttura della produzione culturale qualcosa c’è che appare una ritorsione della gratuità contro la merce. Certo, poi non è detto che l’una o l’altra cosa siano meglio (o peggio), ma importante è riuscire a cogliere sempre il movimento (se si parla di dialettica si parla di movimento, altro “vero” non c’è in giro). Così, per dire, è perfettamente lecito criticare l’Industria culturale mostrando come si è arrivati alla situazione attuale, che è più “povera” rispetto a un tempo, ma è altrettanto lecito – come mi pare faccia Ennio in alcune sue convinzioni – criticare il mecenatismo (oramai lo chiamiamo così, ma ricordiamoci che è solo una convenzione) come nucleo di una struttura della gestione della cultura complice del potere economico e politico.
      Avessimo tempo sarebbe bello organizzare un piccolo dibattito….
      Un abbraccio a tutti,
      Ezio Partesana.

  8. COMMENTI SU “LE PAROLE E LE COSE” (http://www.leparoleelecose.it/?p=16904) CHE HANNO QUALCHE RELAZIONE CON QUESTO POST

    roberto buffagni
    3 dicembre 2014 a 13:45

    Metto a disposizione un aneddoto.
    Conversando con Costanzo Preve, più di una volta mi disse che due italiani della sua generazione, o poco più vecchi di lui, molto avevano capito e molto lo avevano aiutato a capire: Franco Fortini e Augusto del Noce.
    Secondo me aveva ragione; e mi ha sempre fatto piacere pensare quanto entrambi fossero legati a Giacomo Noventa (del Noce ha lungamente studiato il Noventa pensatore, Fortini di Noventa – poeta, saggista e uomo – fu allievo).Ennio Abate
    3 dicembre 2014 a 19:46

    @ Buffagni

    Caro Roberto,

    certamente Del Noce, Noventa hanno lasciato il segno su Fortini. Nella mia rilettura di “Disobbedienze I,II” io pure ho sottolineato:

    “[Fortini]Temeva il legame tra il marxismo e il «radicalismo borghese». Diffidava cioè, sulla scorta della Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer, dei limiti della «tradizione laica e illuministica» (117, I). E, prendendo sul serio il filosofo cattolico Del Noce (115, I), vedeva nella storia del pensiero e della politica marxista «una contraddizione profondissima e vitale». Dalla quale poteva discendere «lo schiavismo tecnologico-burocratico» o «la rivoluzione anticapitalistica su scala mondiale». (116).”.

    Ma insisto a chiedere (anche se so che non c’è accordo tra noi): possiamo espungere Marx, Lenin, Mao, Adorno dal pensiero di Fortini? Dobbiamo arrenderci alla scomparsa (reale? apparente?) di quella “contraddizione profondissima e vitale”?

    Come mi pare faccia il poeta Bordini in un post accanto a questo scrivendo:

    Nella mia gioventù sono stato
    trotskista per molti anni. (gli anni migliori). Soggiacqui
    al fascino di Trotsky,
    uomo sconfitto.
    Soggiacqui a questa angoscia della sconfitta
    a questo fascino dell’angoscia della sconfitta,
    quest’uomo sconfitto,
    doppiamente sconfitto,
    Io studente soggiacqui.
    Quest’uomo nobile e dolente,
    e insieme forte,
    io che ho avuto un padre
    generale, e fascista, e non molto affascinante,
    Soggiacqui.

    dovrei/dovremmo dire che soggiacqui/soggiacemmo (ah, masochismo della bella poesia dei giorni nostri!) al “fascino” di Marx, Lenin, Mao e del “nobile e dolente” Fortini?
    E no, eh! Che ripensamento della *nostra storia* (parlo per me…) sarebbe questo? Con Fortini resto tra i “perdenti”, ma non perché sia «bello scegliere la parte perdente», ma semplicemente perché abbiamo perso. E mai era possibile, da quella nostra collocazione sociale e politica, *scegliere* la parte vincente a meno di non vendersi. E perciò, da perdenti ma non per questo rassegnati, mai accetterò/accetteremo di riportare quella *nostra storia* nelle cornici dei vincitori.
    Scrive Bordini: «vissi una situazione di millenarismo». Parlerà per lui! Rivendico che quell *nostro* marxismo fu, anche grazie a Fortini, *critico*, insufficiente quanto si vuole alla bisogna, ma non riducibile a un medioevale millenarismo. Un caro saluto.

  9. 4 dicembre 2014
    @ Ezio – Ennio

    Caro Ezio, prima di tutto grazie del tuo riscontro, puntuale come al solito. Ho dato forma apodittica al mio ragionamento solo per cristallizzare e storicizzare i vari periodi che ho preso in considerazione : fermare il movimento per afferrare meglio l’oggetto dell’analisi è un’esigenza ( e debolezza ) tutta mia. Mi sto addentrando con una certa fatica
    ( dovuta alla mia mancanza di “ fondamentali “ come direbbe un allenatore a proposito di un mediocre giocatore !) nel tuo libro. Con piccola soddisfazione- propria del profano leggo – dopo aver parlato nel mio testo di poesia e maghi – che “ fin da quando il linguaggio entra nella storia i suoi padroni sono sacerdoti e maghi “ ( pag. 47 del tuo saggio ).Come leggo con la stesso innocuo narcisismo l’interesse di Adorno per la prova di Anselmo d’Aosta. Fin dai remotissimi tempi del Liceo ho pensato che se c’è una prova dell’esistenza di dio questa è proprio e solo quella ontologica. Ma tornando all’illuminismo, leggo e interpreto il
    “ movimento mito/illuminismo – illuminismo/mito “ in un modo forse troppo banale o reso tale dalla mancanza di cui sopra. Le cose starebbero così: la conquista dell’opinione sulla fallacia del mito si “ rovescia “ nell’illuminismo come mito cioè nel disvelamento della fallacia ( anche ) di esso. Se è così, come non essere d’accordo? In questo senso mi dò un ‘epochè di riflessione che ne arresti il drammatico percorso.
    Proprio le notazione della tua pag. 47 mi riportano alla poesia e ne fanno oggetto di una conclusione che mi sta diventando “ tutta politica “. Penso che quanto meno “ il cammino intermedio “ della ricerca di Ennio e della mia, sia sostanzialmente comune. A questo punto se lo sia anche l’origine poco importa. Forse è solo l’esito che ci allontana o, meglio, ci è ad entrambi ignoto. La sua proposta del poeta esodante mi è congeniale ma il maledetto illuminista che è in me mi porta a conclusioni di tipo elitario che sono da un lato sconfortanti e dall’altro irritanti per un democratico. Come vedi sono anch’io “ incatenato nella tua
    dialettica “.
    Sì, mi piacerebbe continuare questo dialogo che per me è – in un certo senso – “ vitale “
    Un carissimo saluto. Giorgio.

    P.S
    Anche i dati delle neuroscienze (mi interessano: sono in un certo senso un medico mancato ) sembrano indicare che ogni struttura organica del nostro corpo/mente è in perpetuo movimento e interazione. Dunque come possiamo afferrare qualcosa se ci vengono a mancare attimi per attimo anche i presupposti di identificazione della “ cosa cercata “ ? G.

  10. … . lo smile ops non è venuto fuori era una faccetta sorridente ed era per E. Partesana a cui non ho voluto rispondere subito (suo post del 30.11 ore 18.09), proprio per non fare un ‘botta/risposta’: non sono per niente ‘agguerrita’, volevo anch’io ‘scherzare’, ma forse ho voluto strafare come quando si cerca di spiegare una barzelletta. Si perde il ‘timing’ e…. adieu!

    Tornando ‘a bomba’, se G. Mannacio può prendersi il lusso, in virtù delle sue competenze, di procedere per *affermazioni apodittiche* io metterò dei pensieri spersi in ordine sparso, raccogliendo, però, una sottolineatura di E. Partesana che scrive: * importante è riuscire a cogliere sempre il movimento (se si parla di dialettica si parla di movimento, altro “vero” non c’è in giro).*

    Mito.
    Il mito non può essere visto in una accezione ‘statica’, isolato e costretto in un tempo arcaico. Il mito appartiene ad un processo vivo per cui, accogliendo l’accezione di ‘mitologema’ (K. Kerényi), esso è una ‘costruzione aperta’ che, per essere tale, fa da PONTE tra due registri, quello del ‘reale’ esperito e quello del ‘fantastico’ e/o immaginario.
    Traghetta con un linguaggio narrativo delle immagini ‘selvagge’, non addomesticate, che fanno fronte ad analoghi vissuti umani.
    E’ quindi disponibile a molte letture: la polisemia del mito ha delle similitudini con la polisemia del sogno e del dire poetico; letture che, pur mantenendo il nucleo originale, variano a seconda dell’epoca storica, o momento temporale, in cui avviene l’interrogazione. Inoltre, mito, poesia e sogno sono accomunati dal partecipare ai movimenti profondi, inconsapevoli dell’animo umano.
    Ad esempio, il mito di Edipo, che strutturò la psicoanalisi, non tratta solo l’ordine del tabù dell’incesto ma anche le mutate dinamiche di un nuovo ordine politico e di potere che si andava costituendo.
    Poi, in quel mito, non c’è solo Edipo ma c’è anche Tiresia, l’indovino, quindi il rapporto con la verità per seguire la quale a tutti i costi si può essere soggetti ad hybris. E qui si apre un altro filone.
    Infine c’è il rapporto con la Sfinge e la conoscenza. In quel contesto, alla domanda della Sfinge, Edipo risponde arrogantemente “E’ l’Uomo”. Ma questo ‘sottilissimo ragionatore’ (parafrasando il “forse tu non pensavi ch’io löico fossi”, di dantesca memoria), con la sua risposta chiude con ogni domanda ulteriore, satura anzitempo il campo della problematicità e così fa suicidare la Sfinge, la Sfinge che è la rappresentante ‘eterna’ dell’enigma. Edipo con la sua ‘ragione’ elimina ogni dubbio legato ad eventi imperscrutabili. E qui altro filone che si apre, altre ramificazioni.
    Un mito che può riguardare l’ oggi potrebbe essere il mito di Babele, un mito legato al linguaggio e ai suoi destini. Oppure il mito dell’Eden.

    Illuminismo.
    Alla pur giusta tensione a ‘illuminare’ le parti ‘oscure’, si sovrappose la falsa coscienza’ dell’averne il controllo, il potere. In questo modo, la lotta contro l’antropomorfismo e la proiezione del soggettivo nella natura si concretizzò basandosi su due illusioni. La prima, fissando l’Uomo (con la U maiuscola) come principio assoluto e dominatore e, la seconda, fondando la (effimera) certezza che i miti, le illusioni, le false credenze, gli idoli e i feticci, ecc. potessero essere annullati dalla ragione. Ma non possiamo dire allora che la lotta illuministica “dialetticamente” si è rovesciata nel suo opposto. A mio vedere non c’è stata alcuna ‘dialettica’. Piuttosto direi che inconsapevolmente si è restaurata – sotto altra forma, molto, ma molto più subdola -, quella mancanza di razionalità contro cui si era rivolta.
    Detto freudianamente: ha prodotto il ritorno del rimosso. Ha svegliato i vampiri. Anche Freud, dovette ricredersi che realizzare il proposito del “Dov’era l’Es ci sarà l’Io” era in realtà più complesso e problematico di quanto lui credesse all’inizio.
    Oppure, a proposito di vampiri, citando P. Bourdieu, in merito al concetto espresso da Marx “Le mort saisit le vif” (**), ciò che non è stato fatto proprio e metabolizzato si rende nuovamente ‘cosa’, si ‘reifica’. Il vivo, afferrato dal morto, diventa ostaggio di come il ‘morto’ interpretò la realtà, delle sue categorie politiche e culturali.

    Ragione.
    La ragione, quando intesa come strumento di DOMINIO (anziché di comprensione) diventa a sua volta oggetto divinizzato da buttare giù dal piedestallo quando non assolve all’illusione che l’ha generata e lasciando così INALTERATO il meccanismo, il processo, che porta al bisogno e alla costituzione degli dei.
    Se scopriamo che “il progresso non è garanzia di libertà”, l’atteggiamento critico non dovrebbe portarci a cancellare il progresso, a demonizzarlo, quanto, piuttosto, a rivedere quel concetto di ‘garanzia’ che è stato messo lì a legare due sistemi, che non sempre sono fra loro compatibili, e, assolutamente, non ‘sinonimi’ come, in modo ‘artefatto’, si è propagandato.
    Quanto all’idea della ragione come ‘strumento di dominio’, possiamo fare delle ipotesi.
    Dietro il falso mito che “sapere è potere” (F. Bacone) i movimenti di rivolta contro il potere si sono alleati al sapere inteso come sistema forte per togliersi dai lacci del dominio (D. Fo: “L’operaio conosce 100 parole e il padrone 1000, per questo lui è il padrone”), istituendo un predominio del quantitativo che nulla ha a che vedere con la qualità della conoscenza. Conoscere è anche verificare continuamente quanto poco conosciamo, perché non si tratta soltanto di computare ma anche entrare in contatto con l’ignoto.

    Dialettica.
    La intenderei, appunto, come esercizio critico o, come scrive Partesana, “movimento critico”, e non può essere dunque un mero ribaltamento nel contrario: progresso/regresso; ragione/irrazionalità. La dialettica presuppone una possibilità di critica, non un confronto tra due assoluti uno dei quali deve venire sconfitto. Perché, se l’Illuminismo assolutizza se stesso e la sua potenza, si ‘ripropone’ in quella veste ‘mitica’, non criticabile e non superabile, così come ha fatto nei confronti del mito.
    Senza contare che, nella “logica del dominio” non può esserci nessuna dialettica, solo un avvicendamento delle parti.
    La critica non può nemmeno essere presa come una asserzione totalizzante. La dialettica scompare se la critica viene trasformata in affermazione tout court. Ragion per cui il pensiero scientifico-filosofico non potrà più esercitare una libera critica del presente perché condannato dalla ideologia che afferma che ogni prodotto del pensiero ricade sotto la forma di dominio delle merci. E allora?

    Poesia.
    Se la parola come ‘segno’ può passare alla scienza, la parola come suono, immagine si configura maggiormente nell’arte e lì si creano non pochi problemi.
    La poesia che sta sul confine che dà sulla realtà esterna e, dall’altro lato, sulla realtà intima (realtà ognuna delle quali ha un suo specifico linguaggio rappresentativo), oggi si trova necessariamente in difficoltà a coniugare dialetticamente l’esigenza di rappresentare un reale effettivamente regredito, e qualche cosa che comunque permane nel tempo e che è *oggetto di bellezza, di commozione o di espressione* (Fortini). E questa comunicazione come può essere portata avanti? Attraverso l’ “uso indisciplinato delle parole” oppure attraverso il linguaggio dell’effettività , oppure con un linguaggio che riesca ad essere partecipativo di ambedue i registri?

    Trovo significativo questo pezzo di Mannacio: * Penso che quanto meno “ il cammino intermedio “ della ricerca di Ennio e della mia, sia sostanzialmente comune. A questo punto se lo sia anche l’origine poco importa. Forse è solo l’esito che ci allontana o, meglio, ci è ad entrambi ignoto. La sua proposta del poeta esodante mi è congeniale ma il maledetto illuminista che è in me mi porta a conclusioni di tipo elitario che sono da un lato sconfortanti e dall’altro irritanti per un democratico. Come vedi sono anch’io “ incatenato nella tua dialettica”*.
    Secondo il mio punto di vista, l’origine è importante perché ce la troveremo sempre tra i piedi lungo il percorso delineando delle differenze che andranno affrontate dialetticamente. Così come è importante che il ‘finale’ ci sia ignoto, altrimenti rischierà di determinare, come è accaduto con tutti gli ‘ismi’, il cammino che sarà viziato da quel raggiungimento. Non che questo non possa essere fatto. Ma nel percorso scientifico.

    R.S.

    (**) P. Bourdieu: Le mort saisit le vif. Les relations entre l’histoire réifiée et l’histoire incorporée.

    1. Non avrei molto da eccepire alla colta riflessione di Rita Simonitto se non fosse che il suo discorso è storicamente e socialmente astratto. L’illuminismo non ha sostituito il mito per una sorta di imperialismo della ragione contro l’altro da sé, né i riti sono stati scalzati dalla tecnica perché siamo diventati aridi e logocentrici; semplicemente la razionalità ha dimostrato di funzionare la dove la magia no. Per viaggiare velocemente è più utile il motore a scoppio della benedizione sopra un cavallo, la febbre puerperale è stata sconfitta dalla profilassi sanitaria non da un miglior rapporto tra mito e uomo, e l’energia elettrica funziona meglio di un cerchio magico se si deve far andare un macchinario in una fabbrica. Questo non significa che tutto quel che la ragione ha conquistato a sfavore della magia sia sempre e solo un bene, anzi. Però non è possibile trascurare il dato storico.
      Adorno (se ancora di Dialettica dell’Illuminismo stiamo parlando) nacque nel 1903, e era dunque un uomo maturo quando vide l’Europa precipitare nella follia; proprio quando sembrava che l’Illuminismo fosse a un passo dal poter assicurare a tutti una vita dignitosa, proprio quando la capacità di produrre quanto necessario alla vita materiale di tutti sarebbe potuta essere disponibile per dare “pane e vesti a tutti” e “occuparsi finalmente di cose serie”, anziché procedere per questa via l’umanità partorì Seconda guerra mondiale, nazismo, eliminazione degli ebrei e bomba su Hiroshima. Adorno dunque si domanda: come è stato possibile?
      La sua risposta fu – potrei dire con un pizzico di ironia – abbastanza simile a quella di Rita Simonitto: l’Illuminismo, dal quale ci si poteva potenzialmente aspettare grandi cose, ha rimosso la sua origine e, quasi fatalmente, è stato vittima del ritorno di quanto aveva voluto rimuovere. Solo che Adorno, essendo un inguaribile dialettico, aggiunge anche una parte che, mi pare, in questa discussione scompare del tutto: l’Illuminismo ricade nel mito, sì, ma allo stesso modo il Mito era già (in alcuna sua fondamentale struttura) illuministico. Al contrario di quel che si pensa dunque, per Adorno non c’è proprio alcun “mero ribaltamento nel contrario”, così come anche in Freud – del quale il nostro era buon lettore – il famoso motto kantiano “Wo Es war, soll Ich verden” (un “dover esser” topico, utile ricordarlo, e non soggettivo; la traduzione italiana inganna un poco), è in effetti assai più dialettico di quanto sembri.
      Dialettica? Nella Prima Sinfonia di Gustav Mahler c’è una famosa marcia funebre, il quarto movimento, “Feierlich und gemessen, ohne zu schleppen”. Il tema di questa marcia funebre è un famosissimo canone per bambini, che in Italia è conosciuto come “Fra Martino”. Anziché scrivere un tema ad hoc (pensate alle sinfonie di Beethoven, per esempio) tutto quel che Mahler fa è volgere la terza maggiore della canzoncina del campanaro in una terza minore, lasciando tutto il resto praticamente invariato, e al posto di un canone da cantare nel parco giochi abbiamo una delle più strazianti marce funebri di tutta la storia della musica. Ebbene, secondo Adorno, questa operazione di Mahler è un esempio quasi perfetto di dialettica: il tema fanciullesco non viene affatto cancellato, anzi, rimane e segna il canto funebre di un misto di innocenza e mesta ironia al tempo stesso, e al contempo la marcia funebre con al terza minore “mostra la verità” di quel che quel piccolo canone e simili innocenti giochi sono divenuti nel nostro tempo. Il quarto movimento della Prima sinfonia di Mahler non tornerà mai più a essere una filastrocca per bambini, è vero, ma questo non significa che quella sia persa, né che si salvata; nella dialettica dell’opera d’arte si è “cristallizzata”, in attesa che qualche cosa dal mondo, o dalla conoscenza del mondo che abbiamo, la risvegli.

  11. A proposito di dialettica negli ultimi anni sono rimasto incerto e confuso: vale o non vale? È fuori moda solo per i postmoderni o è scaduta di suo anche per quanti provenenti dal marxismo più o meno critico un occhio di riguardo per lei ce l’avevano?
    Insomma i maestri di dialettica (Brecht, Lukács, Adorno, ad es.; ma anche, da noi, De Martino, Cases, ecc.), che, essendo rimasto «nei dintorni di Fortini», m’ero messo a leggere e a studiare, sono diventati negli ultimi tempi riferimenti più traballanti. Specie quando mi sono avventurato tra le pagine, eterogenee tra loro ma tutte con forti o fortissime venature antidialettiche, dei libri – cito alla rinfusa – di Nietzsche, Freud, Althusser, Foucault, Negri, Virno, Agamben, Preve, La Grassa.

    Perciò mi sono sentito punto nel vivo da un passo del commento di Rita [Simonitto]:
    «Fosse per me, toglierei del tutto la Dialettica stessa fintantoché non potrà esibire di nuovo le sue credenziali. Forse si sveltirebbero e si chiarirebbero alcune dinamiche che di dialettico hanno ben poco. Perché, oggi, continuiamo ad essere convinti che la Dialettica esista mentre invece al suo posto domina una inesausta monolessi.(*) E’ come quando, in treno, occupiamo un posto vuoto con il cappello, o il giornale, sostenendo che arriverà qualcuno. E passano le stazioni una dietro l’altra e non arriva nessuno. E che dialogo mai ci può essere con il cappello o il giornale?» (https://www.poliscritture.it/2014/11/28/ancora-su-fortini-e-adorno/#comment-9498).

    Mi pare perciò giusto approfittare delle competenze di Partesana, Mannacio e Simonitto per tentare di sciogliere le mie incertezze. E parto dall’ultimo commento di Rita per proporre le seguenti osservazioni:

    1. Credo che siamo tutti d’accordo nel non ridurci, a Novecento concluso, all’apologia della Ragione come Assoluto. O per non rifarci al modello del «sottilissimo ragionatore» che, come dice Rita, «fa suicidare la Sfinge», cancella ogni enigma e ricalcando – consapevole o meno – le orme di Edipo « elimina ogni dubbio legato ad eventi imperscrutabili». Posizione che condivido e che mi pare la più ragionevole, appunto.

    2. Per quanto mi riesce, tento di non confondere o identificare la (per me giusta) «volontà di sapere» con la «volontà di potere».( salto qui tutte le precisazioni da fare…). Ma, allora, se io riuscissi ad usare la ragione non «come strumento di DOMINIO» ma «di comprensione», inevitabilmente finirei per trovarmi tra le mani un pericoloso «oggetto divinizzato»? O, in altri termini, per capire se la lotta illuministica si è o si sarebbe rovesciata “dialetticamente” nel suo opposto, è necessaria o no ancora una volta la *ragione*?

    3. A me pare che Rita (in parte e giustamente) chiama al tavolo di discussione Freud. Ascoltando il quale, invece di qualsiasi “dialettica”, ci troveremmo soltanto a fronteggiare un «ritorno del rimosso». E , dunque, mi par di capire, alla prova dell’inefficacia della ragione (e della dialettica). Quasi totale, pare di capire dalle parole di Rita, se Freud stesso «dovette ricredersi che realizzare il proposito del “Dov’era l’Es ci sarà l’Io” era in realtà più complesso e problematico di quanto lui credesse all’inizio». (Il che darebbe credito alle critiche alla parte “ottocentesca” di Freud, tanto sbeffeggiata da Deleuze e Guattari).

    4. Dato questo “fallimento”, all’uomo della strada verrebbe da pensare che ragionare parrebbe – esagero! – un’operazione vana (o non dissimile dal delirio e dal sogno). La mente umana si darebbe tanto da fare, ma per velare più che per svelare. E inevitabilmente! La “realtà”, malgrado questi sforzi (quasi comici invece che eroici), resterebbe intatta là. Oppure sarebbe stata (dalla stessa ragione? e solo da essa?) semplicemente rimossa («ha prodotto il ritorno del rimosso»). E qui sarebbe da capire meglio se questo «rimosso», siccome torna, s’è comunque, mentre la ragione operava, allontanato un po’. Oppure no, è stato sempre là, anch’esso sempre intatto, mentre la ragione faceva soltanto casino per rappresentarselo o pretendendo addirittura di cambiarlo “a sua immagine e somiglianza”.

    5. A me pare che Rita eviti conclusioni liquidatorie (della ragione). E suggerisca solo che essa, visto che ha fatto (dal Settecento in poi?) un po’ di guai, si “comporti bene”. Sia o resti, insomma, «critica» (come voleva Kant…). Tant’è vero che Rita non cancella neppure dalla nostra vista l’ieri mitizzato e oggi squalificato concetto di ‘ progresso’ («Se scopriamo che “il progresso non è garanzia di libertà”, l’atteggiamento critico non dovrebbe portarci a cancellare il progresso, a demonizzarlo»).

    6. Eppure a me pare che – sempre tenendo il discorso sul piano ironico – Rita faccia la ramanzina alla ragione per difendere ( a spada tratta?) il mito. E qui colgo un pizzico di contraddizione (o di dialettica?). È come se dicesse: Cara ragione (con la minuscola), non “mitizzarti” e non assumere quell’atteggiamento spocchioso verso il mito, come hai fatto in passato, squalificandolo assieme alle illusioni, false credenze, idoli e feticci vari. Insomma “coniugati dialetticamente”con questo benedetto mito, « che comunque permane nel tempo e che è *oggetto di bellezza, di commozione o di espressione*», come dice pure Fortini, che qui su Poliscritture viene ancora preso sul serio.

    6. Ma qui il problema enorme: come partecipare ad «ambedue i registri» (della ragione e del mito)? « Attraverso l’ “uso indisciplinato delle parole” oppure attraverso il linguaggio dell’effettività»? ( Cioè, io intendo, attraverso sua il linguaggio della poesia che quello razionale/scientifico).
    Qui il problema mi pare irrisolto. E oscilliamo tra aut aut o conciliazioni troppo generiche. Personalmente resto guardingo sia verso posizioni che tornano a presentare la ragione come un rottame, esaltando acriticamente (per me) un “pensiero mitico” a cui tornare dopo «la distruzione della ragione» (Lukács) o la «crisi della ragione» (Gargani) sia verso gli illuminismi senza macchia e senza paura. (Tra l’altro, senza saperlo, Rita si riallaccia a una accesa discussione in corso tra alcuni redattori di Poliscritture, che per il momento non riferisco in questo contesto per evitare di travisare le posizioni, ma che spero più in avanti di rendere pubblica anche col consenso degli altri partecipanti).

  12. Premessa.
    Avevo scritto un commento in risposta a Ennio e stavo per postarlo quando ho letto quello di Partesana. Come comporre dialetticamente quello che viene prima (i miei pensieri ormai strutturati in un discorso) con quello che viene dopo (ciò che ho letto e che, in parte, sembra contraddirli), ma che in realtà è apparso prima (perché la pubblicazione di Partesana ha anticipato la mia)?

    @ E. Partesana

    Si parva licet, facciamo come G. Mahler che prende (dopo) qualcosa che c’era già prima (le meravigliose canzoncine dei bambini, condensato di ‘sense’ e di ‘non-sense’). E dove l’intento è dare vita a quell’apparente ‘non-sense’, quella ripetitività che dovrebbe essere giocosa e tranquillizzante e invece è tragica. Continuiamo infatti a morire. E ciò non ci tranquillizza affatto. Din, don, dan.
    Non sto facendo un giochetto simpatico, ma vorrei fosse una spinta alla riflessione proprio su storia e società chiamate in causa da Partesana:
    a) so che sfondo una porta aperta, ma vorrei lo stesso ribadire che la ‘storia’ non è solo un succedersi di date, un prima e un dopo, ma anche un condensarsi di eventi prima sparsi qua e là, che poi precipitano in una specie di Maelstroem.
    L’espressione *vide l’Europa precipitare nella follia; proprio quando [già, quando?] sembrava che l’Illuminismo fosse a un passo [!] dal poter assicurare a tutti una vita dignitosa [!]*, ci fa porre la domanda: ma fino a quel momento, in che epoca storico sociale vivevano i nostri illuminati (ovvero accecati)? Quale stupro invece subì Europa (torniamo di nuovo al Mito?) per produrre il mostro che ne nacque (Minosse e poi il Minotauro)? Nessuno si accorse di quella violenza?
    b) anche qui so che faccio delle affermazioni che Partesana conosce, e cioè che la ‘storia’ è anche una società con le sue contraddizioni d’epoca: sociali, economiche, politiche. E dove quelle politiche – venendo progressivamente a cadere, con l’avvento del capitalismo, la conflittualità strategica motivata dal potere dinastico – incominciavano a mostrare le unghie e i denti sbattendosene ampiamente dei cosiddetti ‘lumi’, i quali, anziché illuminare sulle conseguenze (fallito tra l’altro ogni codice d’onore che, all’interno delle leggi nobiliari, imponeva anche delle regole da rispettare), davano loro enormemente fastidio.
    Però, anche uno zuccone capisce che se aizzi le parti più irrazionali e scateni le parti brutali della vendicatività, non fai che instaurare un circolo non solo vizioso, ma fatale. Puoi non evitarlo, ma saperlo, sì. Non puoi dire “Ops! Ma che cosa è successo?!”
    L’uomo maturo (e non prenderei dentro solo il povero Adorno ma proprio Horkheimer) non può parlare di follia e basta (*dunque un uomo maturo quando vide l’Europa precipitare nella follia*) senza tenere conto di ciò che la Prima Guerra Mondiale, la Grande Guerra, aveva fatto. Non si era mai visto niente di simile in termini di atrocità. Quanti poeti e artisti avevano allora inneggiato all’eroismo sollecitato dalla guerra per doversi ricredere, troppo tardi ahimè, per alcuni. Inoltre, a guerra finita, c’era un’Europa messa in ginocchio, da un lato dall’iperinflazione della Germania e, dall’altro, dalle nazioni europee super indebitate con gli Stati Uniti ai quali avevano chiesto prestiti sia per la gestione economico/commerciale che per gli armamenti.
    E quindi, spinti da varie motivazioni politiche e ideologiche: War! War! War!
    E continuare a pensare che la colpa andasse attribuita al fallimento di quell’Illuminismo che è diventato Mito a se stesso perché dal (e del) Mito (ne) ha preso le origini, mi sembra un po’ uno sviamento dal voler guardare più a fondo nel pozzo.
    Il Mito dava sì, lumi, ma anche a seconda dell’interrogante.
    Se uno non interroga, e porta il suo ‘sacrificio’ (qui inteso come sacrificio della propria superbia), il Mito non risponde. Tiresia cerca di dissuadere Edipo dal conoscere, perché il giovane gli si presenta in modo tracotante, “sta attento, gli dice. Quello che potrai conoscere ti potrà essere letale”.
    E, poi, quando mai la follia potrà essere compresa dalla ragione!
    S. Agostino scriveva: “Come si può far stare la vastità del mare in una piccola cavità nella sabbia?”. E aveva già capito tutto.
    Quanto al *né i riti sono stati scalzati dalla tecnica perché siamo diventati aridi e logocentrici; semplicemente la razionalità ha dimostrato di funzionare là dove la magia no*, sarei d’accordo. Con dei distinguo. Innanzitutto tra rito e mito. Ma qui non mi addentro.
    Ma soprattutto nel campo della soggettività.
    Lo spirito ‘magico’ continua a funzionare indipendentemente dalla ragione, così come quando un/una paziente ti dice: “So che lei non può farci niente perché molte cose dipendono da me. Però so che lei può fare ciò che io non posso fare”. Non è forse un investimento ‘magico’, onnipotente, al di là della sua importante giustificazione terapeutica?
    Che è il paradosso dell’essere umano, potente e impotente al contempo.

    @ Ennio

    Quanto alla dialettica sì o la dialettica no è un falso problema.
    La dialettica è una ‘relazione’, quindi un movimento (Hegel diceva che è la legge che regola il divenire e mi sento sufficientemente d’accordo, ovvero d’accordo sulla linea del pensiero, non del tutto nella prassi), e non può essere trattata come ‘cosa’, un nome vuoto che serve solo a celebrare se stesso.
    E’ questo tipo di reificazione che intralcia, oltre che a non servire.
    La dialettica non è una invenzione, nel senso che prima non c’era e poi è arrivato il pensatore che l’ha inventata. Fa parte di un certo funzionamento della mente. Così come l’inconscio: non è che Freud l’ha tirato fuori dal cilindro del prestigiatore, l’ha individuato e ha cercato di dargli una sistematizzazione.
    Facciamo un esperimento: se dico fascismo/antifascismo, esprimo una posizione dialettica? Direi di no. E’ solo una opposizione. Perché quando dico ‘antifascismo’ intendo, aprioristicamente, che il fascismo non ci può stare, non lo accetto. So “ciò che non vogliamo”, scriveva Montale. E come fai a dirlo? E come fai ad esserne accreditato? Solo perchè sei un poeta?
    O, che certe espressioni che hanno caratterizzato il fascismo, non ci possono stare. Allora vuol dire che ce ne erano altre che invece potevano starci? E quali, ad esempio? Qui le domande si fanno scivolose perché c’è sempre in agguato il rischio dell’operazione mentale arcinota che funziona secondo il principio della ‘pars pro toto’ unitamente alla paura di cadere dentro le accuse: “Se salvi questo salvi tutto!”. “Ma allora sei fascista! Confessa!”.
    Ma lasciamo da parte questa antinomia (perché è di questo che si tratta): qui volevo solo far vedere come entrano anche altri aspetti, di natura emotiva, che poco c’entrano con la dialettica fintantoché essa rimane nel registro della logica.
    Ma non c’è solo l’emotività: c’è anche l’ideologia.
    La peggiore accusa che ti poteva essere rivolta era: “sporco borghese”. Mostrare di avere un certo gusto estetico significava allearsi alla decadenza borghese ed essere un nemico di classe (quella proletaria).
    Ma la cosa più sconvolgente fu scoprire, poi, che mentre ‘coram populi’ si affermavano queste parole d’ordine, nottetempo e di nascosto, si flirtava con il nemico, il fascista, il borghese. Però, come di solito accade, ciò che si impara di nascosto, rubacchiando qua e là, si impara male e, soprattutto non può essere mostrato se non dopo essersi fatta una verginità. E sappiamo bene com’è la verginità rifatta! [A chi non lo sa, lo spiego un’altra volta!]
    E quindi vediamo fascisti che non sanno nulla di fascismo (e tantomeno di comunismo), borghesi senza borghesia e…. proletari senza rivoluzione.
    Ma anche qui, non ci vedo l’ombra di dialettica, nessun segno di quel superamento che la tensione dialettica dovrebbe portare con sé.
    Perché la dialettica nasce da un differenziale non da una opposizione.
    (Vedi l’operazione di G. Mahler riportata da Partesana)
    Quindi, non si tratta di dire se la dialettica *vale o non vale* (Ennio).
    Quanto cercare di capire che cosa ostacola il suo funzionamento.
    Emotività viscerali? Ideologie al servizio del mantenimento dello status quo? E la ragione? Che fine ha fatto la ragione?
    Se non c’è un ‘individuo’ che la supporta (individuo e cioè un portatore di emozione, ragione e di relazione con l’altro – perché ci individuiamo soltanto in virtù di una relazione io-altro -, e il concetto di individuo è stato attaccato come sinonimo di ‘individuo borghese’, causando un enorme fraintendimento con l’individualismo), la ragione è messa sotto scacco, è resa inefficace dalla presenza di ostacoli che la inibiscono nella sua funzione. I suoi limiti (ad esempio, non può sostituirsi paro-paro all’emozione), vengono agiti contro di lei: se non è in grado di funzionare davvero secondo il principio Hegeliano “ciò che è reale è razionale”, allora buttiamola al macero. Non sempre ciò che è ‘reale’ (e nel ‘reale’ includo anche la realtà psichica) è accessibile con la ragione. O, per lo meno, non lo è SUBITO. Chissà, diamole del tempo, forniamole nuovi strumenti o, sennò, mettiamocela via senza buttare il bambino con l’acqua sporca, *in attesa che qualche cosa dal mondo, o dalla conoscenza del mondo che abbiamo, la risvegli* (chiedo scusa a Ezio se saccheggio le sue osservazioni!).
    Con la poesia la cosa si fa difficile perché adoperiamo le parole, non i colori anche se utilizziamo immagini, evocazioni di pitture, e né la musica, anche se usiamo i suoni. E’ l’uso delle parole che ‘impone’ una logica.
    Mayoor tenta di sconvolgere questa sudditanza della poesia al logos usando le parole come pennellate o come suoni che si inerpicano e si inabissano. Ma poi ci troviamo di nuovo alla ricerca di qualche cosa che dia un senso a tutto questo, e che non sia solo emozione. E per dare un senso abbiamo bisogno di un discorso verbale o no che sia, ecc. ecc.

    R.S.

    1. Gentile Rita, facciamo a capirci; ovviamente in quanto lei cita con molti punti esclamativi (“L’espressione *vide l’Europa precipitare nella follia; proprio quando [già, quando?] sembrava che l’Illuminismo fosse a un passo [!] dal poter assicurare a tutti una vita dignitosa [!]*, ci fa porre la domanda: ma fino a quel momento, in che epoca storico sociale vivevano i nostri illuminati (ovvero accecati)? Quale stupro invece subì Europa (torniamo di nuovo al Mito?) per produrre il mostro che ne nacque (Minosse e poi il Minotauro)? Nessuno si accorse di quella violenza?”) intendeva dire che le forze produttive sarebbero state in grado, con società diverse e non basate sullo sfruttamento, di assicurare a tutti una vita dignitosa e non certo che l’Europa fosse sull’orlo di una esistenza paradisiaca per tutti!
      Cosa che, del resto, è vera ancora oggi e in un certo senso a maggior ragione. Volendo ci sarebbe da mangiare, vestire, studiare e curarsi per tutti…

  13. Anatre.

    L’anatra del tabacco nasce in Scandinavia
    OGNI anno, il 25 dicembre.
    L’ombra delle cime di Scandinavia
    decora i labirinti dello scaffale.

    L’anatra del modem ha UN piumaggio di Lucette
    Che si accendono ancor di Più verso sera.
    Nel pomeriggio senza numero riconosco Nei libri
    Il Profumo del tabacco.

    Di quella Che sembrava l’anatra
    Più canterina dello stormo, riconosco
    l’ombra Che si aggira sullo scaffale,
    Tra i libri e UN fumetto di Walt Disney.

    Si è persa NEL pomeriggio senza numero
    per Troppa libertà, si direbbe, un’ombra in cerca.
    Non s’allontana dalle cime più alte dei Volumi
    che stanno poco al di sotto di Quelli inesplorati

    dove raccolgo la lista dei Debiti
    Che ho da Pagare.

    Allego qualche commento che ho ricevuto dopo aver pubblicato Anatre sul mio blog perché mi sembra pertinente con quanto detto fin qui:
    Emilia:
    Fammi capire ti prego!
    M:
    E’ un divertissement, la spiegazione è nell’ultimo verso. Ma c’è lo scaffale coi libri, il modem… sogno e realtà, conti da pagare eccetera. Ma non chiedermi cosa sono le anatre.
    M:
    Si sarà capito che non sono un forsennato sostenitore del logos, della ratio che serve anche in poesia per non farla venir meno ai suoi doveri comunicativi. Talvolta mi basta il fatto che ci si possa intendere, anche laddove non si può capire. Non si tratta però di scelta dettata da estetismo: la musicalità del verso non mi attrae particolarmente e il surrealismo non è tra i miei obiettivi. Vero è che le parole si cercano tra di loro stranamente, ma considero che l’inconscio andrebbe frequentato maggiormente per ragioni di salute mentale. Perché è inutile negare che siam fatti anche così.
    M:
    Traggo da un articolo di Antonio Lucci che ho letto stamattina su “L’ombra delle parole”:
    “Sloterdijk definisce i noggetti come realtà che spiazzano l’osservatore, ponendogli di fronte qualcosa che non ha ancora una presenza oggettiva, oggetti non dati, realtà che aboliscono la divisione soggetto/oggetto, perché la precedono.”
    M: Nel grande parco della dialettica e dell’illuminismo, da qualche parte un’uscita di sicurezza ci deve pur essere. Se non è Lacan è Lowen. La mia casa sta poco oltre, nel quartiere zen.
    Emilia:
    potrebbe essere una poesia
    potrebbe essere una sbornia
    potrebbe essere marijuana
    potrebbe essere una sottana
    sia quel che sia resta della vita
    da provare una lunga lista.

    1. potrebbe essere una poesia
      potrebbe essere una sbornia
      potrebbe essere marijuana
      potrebbe essere una sottana

      Scusa se faccio il saputello ma se fosse una poesia, e lo è, io mi sarei fermato qui. Ha il senso delle filastrocche, con qualcosa in più. Da imparare a memoria.

    1. Grazie per la segnalazione Ennio.
      Ho più di una perplessità su questo genere di “ricostruzioni”, come ben sai, ma sempre meglio leggere che non.
      Un abbraccio,
      Ezio.

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