IL POETA E LA SUA CITTÀ: Antonio Sagredo/Lecce-Praga-Roma (2)

ottone 2

Lecce-Praga-Roma

Come è strano questo maggio, oggi,
dopo che Riccardo ha scritto la sua tragedia.

La mia strada fu come la tua: un fuga,
un’intuizione verso un suicido altrui.

Il broccato di mogano della tua fronte
è più che un crepuscolo d’altri tempi,
e avrai capito che un verso assetato di assoluto
è la solitudine di uno straniero tra le ombre.

Ma non cerchiamo l’astratto, ma un concreto di sangue,
come suoni di cinabro tra gli androni
bianchi e odorosi di una città barocca.
Città mia, mi si ripete tante volte lo stesso sogno
ed io mi aggiro spaventato tra palazzi e viuzze d’oro!

Non è una visione, non è un assalto dei Turchi:
temo la devastazione del futuro e dell’oscuro risultato.
Non ho amici, non ho ragazze a cui affidare la mia dolcezza,
che possano intrecciare con violenza una corona di speranza,
ma un ricordo saraceno è quanto mi rimane dalla storia
ed io non posso, non posso numerare le sue pietre nere,
di questo cristo crocefisso ad un crocicchio!

Sono il figlio bastardo della luce verde della mia città,
amaro e acre…
gridano e fiammeggiano gli ateismi di Cesare Vanini,
perché la luce sia una eterna festa pagana
o una miseria teatrale alla Odin Theatret!

Antonio sagredo
Roma, 23 /5/1976
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Dopo aver trascorso a Praga diversi, lunghi e fruttuosi periodi per motivi di studio: dalla filologia, lingue e letterature slave alla storia della Boemia, alla sua poesia specie dell’800 e del ‘900, me ne ritornai a Roma nell’aprile del 1975, anche per laurearmi con uno slavista eminente: il mio relatore A. M. Ripellino. Sarei ritornato nella capitale boema nel 1977
per un ultimo lungo periodo… per completare alcuni e specifici studi.
Ai componimenti in versi fatti a Praga si aggiunsero quelli scritti a Roma. I versi che qui presento sono una ricapitolazione affettiva verso tre città, ciascuna col suo barocco a volte strampalato e riflessivo, a volte tanto severo da parere obbediente a una geometria
e atmosfere autoctone a cominciare dalla qualità e colore della pietra con cui furono costruite chiese, cattedrali, statue, chiostri, altari, arcate e volute, facciate ecc. Mentre terminavo la tesi sul maggiore poeta simbolista ceco, Otokar Březina, maestro di futuri
poeti come Holan , Nezval, Halas, Seifert e altri di non minore importanza, riflettevo (in versi, quasi come sempre) sul significato del mio ritorno a Roma… dovevo riallacciare alcuni cari rapporti come col poeta Tommaso Riccardo (morirà a 44 anni nel 1990),
che nel frattempo aveva forse definitivamente terminata la sua grande Opera, che qui all’inizio di questi versi chiamo la sua tragedia.
Le due strade, la sua e la mia, verso la poesia erano similari, quasi parallele e preferivamo che fossero gli altri ad ammazzarsi invece che noi!.
Era un maggio strano per me, mi sentivo come spaesato, dopo un lungo periodo d’assenza da Roma. Dopo due distici, la terza strofa si apre con un primo verso baroccheggiante “Il broccato di mogano della tua fronte” accentuato dalle movenze di un crepuscolo
crespato, disegnato a rilievi contorti quasi per catturare chi sa quali spazi intorno a se stesso…. che è la ricerca solitaria di un creatore di un assoluto…. con le parole, con le forme tra giochi di luce e di ombre.
Ma invece di volare nell’etere sfarfallando parole poetiche, anche inutili, ovunque, ciò che mi premeva era ricercare concretamente con furia – con la memoria anche questa avviticchiata – i colori e i suoni e gli afrori acri e dolciastri di piscio umano e gattesco sia
della città salentina, che trovavi dentro e dietro gli androni bianchi-dorati (l’oro diluito dal rosa!) dei suoi palazzi e nelle viuzze (giravolte)… sia, allo stesso modo, a Praga dove, al contrario, sul nerastro dominavano i rilievi d’oro, ricamati senza pudore su tutte
le forme disponibili a ri-farsi il trucco, sulle tortili colonne e facciate, sugli stucchi, sui grandi portoni dei palazzi, agli angoli delle straduzze, ecc.
Ma qui in questi versi non sai se è Lecce a dominare su Praga o viceversa poi che nella mia memoria si intrecciavano, e mi ritornavano le antiche ossessioni infantili: le incursioni dei turchi ovunque sulle coste dalmate e italiche e le stragi otrantine dei saraceni (che nel 1968
Carmelo Bene aveva fissato nel tempo col suo capolavoro Nostra Signora dei Turchi!), e poi il susseguirsi delle architetture moresche fuse con la nera pietra della città vltavina! [1]
L’ultima strofa chiude con un sentimento bastardo, da figliastro, e mi ritornano altre manie del passato: le fiamme di Tolosa che dettero gloria  immortale a Giulio Cesare Vanini, il paganesimo come età felice, e l’attualità di un teatro d’avanguardia di Eugenio Barba (nord-sud!), spogliato del tutto dal barocco (misero per questo!) dileggiato e beffeggiato (direi anche troppo) dal Bene: signori entrambi della scena teatrale mondiale
di quel tempo!
Questi salentini come amano il volo… finto, fittizio, sedicente e seducente… cartapestate ali!

Fu un’estasi unica l’ultimo volo di Desa: ne fu gelosa – Santa Teresa!*
antonio sagredo
* nb. come dire, Roma gelosa di Lecce!

 

[1] vltavina, cioè la città della Vltava, la Moldava, il fiume.

5 pensieri su “IL POETA E LA SUA CITTÀ: Antonio Sagredo/Lecce-Praga-Roma (2)

  1. …Le città della nostra vita: è stato il caso a porle sul nostro cammino o sono loro ad esserci venute incontro? Quanto ci assomigliano? E noi a loro? Domande che pongo al poeta quanto a me stessa…
    In questa poesia di Antonio Sagredo le tre città agognate vivono nel loro assoluto splendore solo nel sogno, un sogno in punta di piedi per il timore di veder svanire tanta bellezza: barocca, piena, preziosa, felice…Ma la realtà che si impone nel tempo è quella di uno scempio e di un degrado inarrestabili. La sofferenza del poeta per la città perduta è immensa e tale che neppure nell’amicizia e nell’amore il poeta crede possibile ritrovare la forza di una speranza…Si sente vicino a coloro che hanno perso la vita per aver difeso un’utopia di felicità, di giustizia, di bellezza: “cristo crocefisso ad un crocicchio”…”Cesare Vanini perchè la luce sia una eterna festa pagana”…
    Il poeta comunque appare a se stesso inadeguato, sconfitto: ama e tradisce l’oggetto del suo amore, quella luce verde… e forse solo la scrittura poetica e teatrale possono per lui positivamente agire…
    Ringrazio Antonio Sagredo per questa bella poesia e per la presentazione calata nella sua vita e negli studi

  2. …rischio di innamorarmi di Antonio Sagredo o della sua signorina Poesia, quindi non è più attendibile qualsiasi mio ascoltare e riportare ciò che ho ascoltato . Inoltre non perché, non ho strumenti di conoscenza o razionali per dire ciò che sto per dire, ma ha una tecnica della “finzione” così incorporata nella sua anima, che può aver già visto tutto di ciò che è avvenuto o da venire, di ciò che è stato, lui, nella sua vita e che non è stato, di ciò che sarà ancora o non sarà mai, che questa “finzione” è tutto il contrario della manipolazione , simulazione o artificio che certi poeti come i mezzi mediatici usano per alterare la realtà rendendola un superinferno inaccettabile e al contempo accettatissima.

    Ovviamente il nudismo politico di Sagredo è diversissimo dal genere più palesemente ” impegnato ” di questo o quel poeta civile, ma solo perché, e ripeto che è solo un mio intuito, Sagredo è come un attore tragico e comico, muto o iperparlante, comparsa e primo attore, burlone e introspettivo ….dalla sua poesia non si direbbe, anche perché credo che oltre la sua bravura ci siano occhi affatticati da notti e anni e decenni di notti di studio, ma dentro o nella vita di tutti i giorni, dalla campagna alla megalopoli, lo vedo così, spero che la sua colomba mi perdoni.

  3. La Vincitrice

    Come un incubo o un urlo mi fissava
    il monte a oriente del tuo venere.
    Brillava l’ardesia sottocutanea delle cuspidi
    e i glutei delle cupole, simili ai tuoi,
    tracimavano in navate di sangue
    solitarie metropoli della peluria…
    troppo se il pulsare indenne
    perseguivi di madreperla lungo le dorsali
    di contrafforti in lagrime…
    serafini detestati dai timballi
    espugnavano i tramonti in detriti, in cocci…
    fasciati i moli dalle gorgiere s’abbattevano
    sul talamo che Giuditta trovò inattuale,
    lei, l’impreparata, la disattesa al martirio!

    antonio sagredo

    Vermicino, 18-20 febbraio 1998
    (pubblicata in “Poemas”- Zaragoza, 2001)

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