NATALIZIE: Armando Tagliavento + Francesco Di Stefano

ubriacone

L’aria è diventata inquinata. Non per questo non respiriamo più. Natale non è più il groppo di candore e malinconia di quand’eravamo bambini. Non per questo non ci pensiamo più.  Ripubblico per l’occasione una poesia su Natale di Armando Tagliavento (1930 – 2012), il bidello scrittore di cui  trovate testi e notizie qui, qui e qui e tre sonetti  sempre sullo stesso tema di Francesco Di Stefano, anche lui ben noto ai lettori di Poliscritture. Sono autori legati a un modo di sentire  che ancora può essere detto a ragione popolare. Nello spazio dei commenti ciascuno/a può aggiungere  (sobriamente!) altri versi o considerazioni. [E.A.]

 

La Notte di Natale
di Armando Tagliavento

E’ la notte di Natale.
Va un tale
ad accattare in un bare un cartoccio di sale
per la sua zucca astrale.
Egli s’insacca nella sua mantellina sbrindellata
e ingerisce di volata
i diciassette piani del palazzo in cima al quale
tana. Egli è povero, non ha un cavolo.
Inoltre è detentore di un lercio ceffo sul quale
affiorano rimarcabili caratteristiche da farlo
da tutti reputare un rospo cornuto.
Ebbene, questo figlio di cagna, tutto impettito,
tronfio d’ignoranza e arrotolato in un paltò crivellato
di mozzichi d’incinte mignatte, squarciando lo smog
entra nella fumigosa mescita summentovata.
Egli è avvolto nelle pene nere
del mondo le più megere.
Tiene gli occhi bruciati di pianto
e s’alluma un mozzone di sigarro raccattato
perterra fuori dal bare
ai piedi della soglia di pietra di Trani.
E’ la notte di Natale
e sotto i suoi fracichi, sporadici denti,
da vetusto tempo costui non mascica un tubo.

Soltanto ogni tanto ei getta i suoi occhi abbottati
di debiti nel ventre della vetrina
di una tavola calda, mirando, traverso
la lastra vetrosa, gli altri le coscie dei polli
sbranare, bicchieri ricolmi di sangue di vite
trincare, e leccarsi le dita cosparse di vermiglia
vernice di caviale.
E’ la notte di Natale.
L’individuo se ne va piangendo il male
che tiene all’addome, e d’allora
non mangia, e soffre dolori di fame.
Nel bare si stiracchia, appoggia le spalle
aggobbite al termosifone
e gode un po’ di calduccio ghisoso, e un languore
gli bazzuca nel cuore dardi scagliati
da un arco baleno d’amore.
Egli guarda, adesso, le facce sgualdrine
dei giocatori di tressette, e il mozzone toscano
gli brucicchia le labbra spaccate,
tinte di morte.
Lo rimira ognora nel bare la gente
e lui pensa: “E’ la notte di Natale
e il tossicoso locale
mi guarda cogli occhi alcolini.”
Egli se ne frega; si muove, si raggomitola
rannicchiosamente raggomitolato sul peccoso bancone
e col suo brutto muso di cane barbone
tracanna un ponce. .
Appresso si sbavacchia la bocca fetente di trinciato forte
colla manica lurcia del suo malnato cappotto .
e sfodera a sorte
dalla saccoccia delle sue brache stinte e rattoppate
cento lire ammaccate.
E ammicca al barmanne se dentro
quel bare ci fosse un juke-box da suonare.
“Bighellone abbuffato di pidocchi maledetti!
– gli sparacchiano a musincinti gli avventori
e la racchietta mogliettina del gestore -¬
Il suonatore a bottoni eccolo là!
Non ci vedi? Sei strabbicco, cieco o baccalà?”
La gente del bare l’attornia, lo vuole scannare.
Menomale!
E’ la notte di Natale.
E il mandrillo mugola: ”Ma come, siete stati voi a dirmi
che quel coso là non è affatto un juke-box, bensì una cucina
a gas, allora cos’aspettate?
Su, datemi un pentolino e un ovo, ho fame!
Io colle mie cento lire volevo suonare delle canzoni!
Magari! – pensava il gringo fra sé e sé – un ovo di struzzo
scapolo al tegamino, sarebbe buono, oppure una braciola
di maiale.”
E’ la notte di Natale.
Gli avventori del bare, scocciati del parlo del tale,
se ne stanno andando, quando
egli mormora: “Ma si può sapere checcazzo di mescita
è questa, che non possiede neppure un tegamino nel quale
poter cucinare quel gatto soriano
che viene adesso di qua, o qualche microsolco suonare?”
Gli scagnozzi giocosi, snudandosi fuori dal bare,
se ne vanno, quando uno chiama un altro: “Andiamocene, Peppe!
Non lo vedi? E’ stato sempre così scemo e ignorante quellolà! ”
E la folla, noncurante, se ne va.
E’ festa.
Il tipo accatta il sale per la sua testa.
Sbocca dal locale
e, gridando, se ne va appazzato nell’interno del viale.
E’ la notte di Natale.
Ei corre col cuore schiacciato nel focolaio dell’ariaccia
smogosa. Si porta dal giornalaio
e chiede un panino imbottito.
“Signore, ma lei forse è ammattito?
– gli spara l’edicoloso – E’ la notte di Natale,
non posso darle, barbone, che un giornale.”
Eppoi all’illuso lo vede un bambino,
che gli fa una pernacchia e gli dice: “Cretino!”
E’ umiliato il tale.
“Ma questo zozzo mandrillo è proprio un deficente?”
pensa un mercenario della Polizia Stradale.
E’ la notte di Natale.
Egli si diparte colle spalle gelate
e chiappa un tassì provinciale.
Mentre l’illuso non fa altro che granfare il tram
che va alla Previdenza Sociale.
E’ la notte di Natale.
Il criminale azzecca ansimante i diciassette
piani del palazzo sul quale tana.
Ma non piglia l’ascensore.
Forse ha perduto la chiave,
o che non paga la pigione quell’essere astrale?
E’ la notte di Natale.
Ha le labbra screpolate di voraggini di fame,
quel brutto muso di cane.
Questo tale
lo si chiappa sempre nelmentre si stende
come una maledetta scolopendra
o un porcello di Santantonio sotto il ponte
ove egli effettivamente cova il suo odio
come un serpente velenato,
il fetentone, il megalomane nato.
Cionondimanco si trova adesso sul grattacielo
e guarda dabbasso la rapa dell’animale
e le cappotte di metallo addebbitate
che scorazzano sopra la cambiale.
E’ la notte di Natale.
Ridacchia come un Belzebù questo figlio di varana.
Si fabbrica una cerbottana,
colla quale,
dopo aver abbussolettate le bollette non saldate,
le bazzuca sul peccato ch’è dabbasso
e ridacchia come un Drakula.
Soffoca, sventra l’apertura della gelosìa,
ammocca la testa matta dalla bocca della casa
e scorge sulla strada il mercatante che viene a scannarlo
e a sequestrarlo corre il mobiliere
e l’altro usciere azzecca a bazzucarlo,
solo perché il tale
non pagava la cambiale.
E’ la notte di Natale.
Si catenaccia nella sala capita1ista di polvere
e ragnatele
e sullo storpio tavolino traccia un (O) con un bicchiere
di vino e scribacchia sciocche poesie.
Adesso a1luca, grida ei come un disgraziatone
e violentemente molla tutto quanto giù dal finestrone
sino a riempire di elettrodomestici e di mobilio
tutto il mondo,
questo tale,
questo idiota, questo cane vagabondo.
Il tipo ha uccisi tutti,
dimodoché persona più protesta,
e solamente lui al mondo resta
a gettare gli occhi sul viale
alla notte di Natale.
Egli sta nel bare a piangere tristezza e miseria
vicino al juke-box, e ode il disco (Lo Straniero).
Finalmente muore il tale
cadendo col capo sul davanzale
e accattando il sale
per la notte di Natale.

(1982)

 

Tre sonetti sulle feste di Natale
di Francesco Di Stefano

Er profumo der Natale

Armeno pe noantri piccoletti
se sentiva l’odore der Natale
ch’e ancora er zole scallava li tetti
quanno qui a Roma d’ottobbre è normale.

Era sempre l’istesso rituale
de preparà na sfirza de dorcetti
e de liguori na scerta speciale
co mi fratello che li pupazzetti

der presepio controllava ogni sera.
Poi la credenza come an dindarolo
s’empiva co più robba de magnera

che nun fusse la spesa un botto solo.
A partì inzomma da la Concezzione
ciavevo n’aqqualina de cenone

che de niscosto m’entignevo er becco
a na nocchia, a na noce, an fico secco
o più mejo an ber tòcco de torone

rischianno de pijà no sganassone.

 

Babbo Natale

Da sempre c’è la bona tradizzione
ch’en fijo ar padre infila a la sarvietta,
quanno a Natale è pronto per cenone,
na letterina in cerca de liretta.

Appena regolata la quistione,
d’avecce in mano misera paghetta,
a quer tempo la prossima occasione
nun è che t’arivava tanto in fretta.

De fatti solamente la Befana
a vorte te portava na cosetta
che già t’aricordava la campana

de preparà li libbri e cartelletta.
Allora è stato propio un toccasana
che contro a st’ingiustizzia colossale

ha preso piede poi Babbo Natale.

 

Na vorta a la Befana

Ogni anno a la Befana de mattino
papà co mi fratello ce portava
a ritiracce un quarche regalino
ch’er Ministero all’epoca assegnava.

Fu che na vorta a lui un cammioncino
je diedero che a molla camminava,
ner mentre a me de stoffa un cagnolino
me ce toccò che manco t’abbaiava.

S’è naturale che li strilli e pianti
in certi casi fora hai da buttà,
nun ce lo so com’è che nun la pianti

finché lo scambio nun arivi a fa’.
Ma rotto er cammioncino in pochi istanti
ripresi er cagnolino pe giocà.

4 pensieri su “NATALIZIE: Armando Tagliavento + Francesco Di Stefano

  1. il povero gringo e la piccola fiammiferaia infine si sono incontrati
    il gelo della sera e una musica straniera…
    danza di fiammelle e humor nero popolare
    il pranzo di natale
    il ghiaccio è servito nelle coppe delle mani
    e il cin cin sulle punte delle dita
    è una sfera cristallina
    a rifletter fredde stelle e sguardi affanni…
    altri arrivan quella sera a condividere sui sentieri delle strade
    il malinconico natale

  2. SEGNALAZIONE: Natalità e mortalità
    SOB! Save Our Box-office! Non era quello che si intendeva con “salvezza”, ma da molti secoli il mondo cristiano va in questa direzione. [ di Piero Pagliani]

    http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=113913&typeb=0

    Interessante la sintesi storica, anche se il finale (“Qualcuno convocherà i potenti per inchiodarli alle loro responsabilità? Il papa ha recentemente riconosciuto che stiamo vivendo una guerra mondiale a pezzetti. Verrà dunque da lì l’iniziativa? O si preferisce attendere, vedere come si mette, decidere che è meglio stare da una parte invece che da un’altra? Che la Realpolitik val bene una messa, ma la profezia no?”) non mi convince e temo purtroppo che la Realpolitik la spunterà ancora.

  3. neanche a me convince molto perchè mi pare sia il solito appello al dover essere che non si realizza mai…come trasformare l’idealpolitik in real, con chi, quando,dove, questo mi pare sia il vero problema…intanto non perdiamoci di vista.

  4. El Bambin al riva puerin
    al frecc e al gel
    ma ariven anca i pastur
    tùcc cun ròba da mangià
    ariven a tùti i ur
    S’el voeur dì vès un Signur!

    Arriva il Bambino poverino
    al freddo e al gelo
    ma arrivano anche i pastori
    tutti con roba da mangiare
    arrivano a tutte l’ore
    Cosa vuol dire essere un Signore!

    EmY

    Tagliavento e Di Stefano GRANDI!

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