Gli sciacalli e i profittatori dello scontro di civiltà

paris 2015

di Giorgio Riolo

È il momento della retorica ributtante, del fiume di parole, del circo mediatico scatenato e senza freni, dei manipolatori di professione. I dominanti imperiali sono all’opera. Stregoni, non più apprendisti da molto tempo ormai, suscitatori, creatori e finanziatori di mostri, che qualche volta si rivoltano e non sono più controllabili a piacimento, per scatenare guerre “umanitarie”, “per la democrazia”, “per portare la libertà”. In Afghanistan, in Iraq, in Siria, in Libia, ovunque. Dominanti assassini per il controllo del petrolio, del gas, delle materie prime, per il controllo geopolitico di aree strategiche del pianeta.capi di stato a parigi
Il quadretto di capi di stato, ipocriti, cinici e manipolatori, è la rappresentazione viva di quello che oggi è in atto. I mandanti del massacro sociale nei paesi europei, e occidentali in generale, e dei massacri reali in altre aree del mondo, che sfilavano a Parigi, davanti alla folla immensa di persone mosse dall’emozione, da sentimenti e da pensieri, giusti e umani, di fraternità, di solidarietà, di pace. Alcune considerazioni si impongono.
In primo luogo, quella che Judith Butler, la filosofa femminista statunitense di origini ebraiche, benemerita attivista, non solo per i diritti delle donne, ma anche per i diritti sociali e per i diritti dei palestinesi, ha acutamente definito “indignazione ineguale”. Peculiare di noi occidentali, a fronte delle anonime, silenziose morti e stragi di bambini, vecchi, donne in Afghanistan, in Iraq, in Siria, a Gaza e nelle altre periferie del mondo. Nessuna retorica, nessun scatenamento dell’ignobile giornalismo servile, nessun richiamo ai pretesi valori universali.
In secondo luogo, i cosiddetti valori universali dell’autoproclamata civiltà occidentale sono spesso il retroterra su cui poggia il fondamentalismo occidentale, a cui si contrappongono, ma in realtà si specchiano, in “solidarietà antitetico-polare”, direbbe Lukács, altri fondamentalismi, negatori di libertà, opprimenti, odiosi, assassini. La imperfetta secolarizzazione, il progressismo e il laicismo branditi come armi, come scimitarre, la dissacrazione e la continua irrisione, tipiche del postmodernismo, anche e soprattutto “di sinistra”, delle religioni, comportano problemi gravi per il futuro della civiltà umana planetaria.
In gioco non sono solo gli aspetti ignobili e opprimenti la dignità umana che le religioni positive, storiche, in prima fila quelle della filiazione giudaico-cristiana, cattolica in specie, e della filiazione islamica, portano in grembo. Religioni positive e storiche che, occorre ricordarlo sempre, dialetticamente hanno espresso anche, in robuste correnti teologiche e sociali, movimenti di emancipazione, di liberazione. Le teologie della liberazione, in ambito cristiano, ma anche islamico, lo testimoniano.
Un conto era la sacrosanta battaglia illuministica settecentesca contro l’oscurantismo, la barbarie dell’Inquisizione, del gesuitismo, del Papato, delle orribili gerarchie ecclesiastiche, un conto è il voler estendere a tutto il mondo, a tutte le culture umane questo corredo di pensiero, nato in un preciso hic et nunc. Foriero di una rivoluzione politica, quella francese, che poi doveva alimentare la rivoluzione sociale ottocentesca e novecentesca di cui noi rivendichiamo la filiazione. Un conto è oggi. Dove abbiamo chiaro come la religione, re-ligio, è un aspetto fondamentale della dimensione comunitaria presso le varie, diversissime, culture umane. Come essa rappresenti e alimenti il legame comunitario, condivisibile o meno, degli esseri umani tra loro e tra l’umanità e la natura, il creato ecc. Nessuna irrisione potrà cancellare questo. Nessun sarcasmo potrà occultare tutto ciò.
Il laicismo volgare non potrà mai cancellare questo, nella testa e nei cuori di molti esseri umani. È sempre la prospettiva che cambia tutto. Vista con gli occhi e con la sensibilità delle vittime delle periferie del mondo, delle vittime del colonialismo, dell’imperialismo, degli orrori occidentali, in primo luogo l’olocausto negro e l’olocausto indio, le cose cambiano. È per questo che giustamente molti, in Occidente, ma soprattutto nelle periferie del mondo, “non si sentono Charlie”. Je ne suis pas Charlie. Fermo restando il sacrosanto diritto alla libertà di stampa, del pensiero, il diritto alla vita di tutti, dei suoi redattori e delle altre vittime dei fatti di Parigi in primo luogo.
Giustamente in queste periferie, anche parigine, molti sottolineano la ignobile farsa di chi pretende che un mussulmano debba giustificarsi, debba dire “je suis Charlie”. È l’equivalente di chi pretendesse che noi milanesi, italiani, occidentali dovessimo dire, a ogni pie’ sospinto, nel passato e oggi, che noi non c’entriamo niente con Bush, con Abu Ghraib, con Guantanamo, con Netanyahu, con l’apartheid sudafricano, con il colonialismo, con l’Inquisizione, con la tratta degli schiavi, con i tanti olocausti della storia e via elencando. L’ipocrisia è sempre all’opera. “È mussulmano, ma è bravo”, come un tempo ci sentivamo dire “è meridionale, ma è bravo”.
Un Pasolini redivivo ci ricorderebbe che ci sono più cose in cielo e in terra di quanto la nostra sicumera occidentale e consumistica predica, impone, esige. L’immane omologazione in atto vede invece un mondo strutturalmente ferocemente, pervicacemente, totalmente, manicheisticamente, ineguale, disomogeneo, diviso, fratto, spaccato.
La violenza dei dominanti ha spesso questo carattere impersonale, tecnico, come ridurre in un falò, in cenere, esseri umani, con un comando a distanza, con un aereo, un drone, con una decisione presa mentre si sorseggia un tè, si ascolta musica classica o si discorre amabilmente tra “signori per bene”. La turlupinatura e l’ipocrisia profonda insita in tutto ciò non deve farci dimenticare gli interessi di questi dominanti. In un tornante storico nel quale l’accumulazione del capitale, la produzione per la produzione, la rapina delle risorse e la distruzione ambientale, la politica di potenza per il controllo geostrategico mostrano ormai alla civiltà umana il loro vero volto. E mostrano ormai la data di scadenza a cui è giunta la civiltà umana, la vita nel pianeta.
Lo scontro di civiltà e il teatrino messo in atto a Parigi costituiscono una potente diversione ad uso dei dominanti, dei moderni colonizzatori. È subito scattato il richiamo, a destra e a sinistra, al paradigma sicuritario, “meno libertà e più sicurezza”, la rivendicazione di più spese militari, più forze di polizia, più controllo delle frontiere ecc. Arruolarci in questa potente diversione è la nostra più grave sconfitta. Il risultato è quello atteso, sempre dai dominanti. Meno democrazia, meno giustizia sociale, meno emancipazione, meno illuminismo, meno cultura.

64 pensieri su “Gli sciacalli e i profittatori dello scontro di civiltà

  1. Loro hanno creato la morte, e sempre loro la fanno credere vita …sono riusciti dove nessuno era mai giunto prima.Diciamo grazie ai milioni di cloni/sudditu che ancora cianciano di essere per i diritti , la democrazia e la mitica libertà di stampa, mettendosi pure la divisa da ballila democratico, con la maglietta della penna rossa financo come icona su whatsapp. Diciamo inoltre grazie a tutti coloro che sapevano di queste nostre camere a gas, ma che si sono accontentati , e tuttora s’ accontentano, di dire( ognuno per sè se non contro l’altro) quanto e come avevan previsto cosa è avvenuto e deve ancora avvenire….le migliori teste, quelle che potevano unirsi, nulla, il vuoto, la gioia dei dominanti. Sai le risate che si stanno facendo dall’inizio di questa Storia? Neanche se sapessimo scriverle o addirittura cantarle e poetarle, ci sarebbe qualcuno dei milioni di cloni a volerle ascoltare e piangete con te senza fine….

  2. Avrei qualche perplessità sull’intervento dell’amico di lunga data Giorgio Riolo (a proposito: ben ritrovato, e un abbraccio), per esempio sulla parte riguardante le religioni, perché se è vero che in un certo periodo storico e in un determinato contesto sociale alcune religioni possono aver svolto un ruolo progressivo (se cito Bloch son sicuro che Giorgio mi capisce) ne consegue, per elementare legge dialettica, che in altri periodi e variato il contesto la stessa religione può rappresentare invece un elemento regressivo o addirittura reazionario.
    Ma vorrei, invece, soffermarmi e criticare una sola frase del buon Giorgio, perché ne fa propaganda ma non lo dice.

    Scrive dunque Riolo: “Vista con gli occhi e con la sensibilità delle vittime delle periferie del mondo, delle vittime del colonialismo, dell’imperialismo, degli orrori occidentali, in primo luogo l’olocausto negro e l’olocausto indio, le cose cambiano”.
    Credo che tutti noi si possa essere d’accordo sul fatto che dal punto di vista dello sfruttamento della mano d’opera e delle pura rapina delle terre, la riduzione in schiavitù perpetrata contro alcune popolazioni africane e la conquista del Centro e Sud America a discapito degli abitanti indigeni siano stati due lampanti casi degli orrori dell’imperialismo, colonialismo e capitalismo.
    Cosa c’è allora che non va? Non va il fatto che Riolo è un intellettuale colto e raffinato e a lui si può, anzi si deve chiedere conto delle parole che usa.
    “Olocausto” è la versione latina del greco “ὁλοκαύτωσις”, impiegata nella così detta versione dei Settanta per indicare l’offerta a Dio di un animale intero e senza difetti che doveva venir bruciato su di un altare (con varie e significative differenza tra il rito greco e quello di alcuni popoli semiti).
    L’uso di questo termine per lo sterminio o la resa in schiavitù di popolazioni non europee è quindi sbagliato: cosa diavolo c’entrano le offerte votive a Dio con la tratta degli schiavisti o le stragi compiute dai Conquistadores spagnoli?
    Il fatto è che Riolo voleva dire anche qualcos’altro, e pur di affermarlo senza scriverlo apertamente è caduto nel laccio che lui stesso voleva tendere. “Olocausto” è infatti il termine che è universalmente impiegato per descrivere lo sterminio degli ebrei operato dai nazisti; anche in questo caso l’uso è sbagliato, ma è passato in consuetudine perché i corpi venivano appunto bruciati per intero così com’erano, appena morti. Quando Riolo dunque scrive che in primo luogo bisogna ricordare l’Olocausto negro e l’Olocausto indio come i primi e peggiori crimini del capitalismo colonialista, è certamente cosciente del fatto che il termine richiami lo sterminio degli ebrei, ma vuole porre l’accento su altri massacri e togliere, diciamo così, quell’aspetto di unicità della Shoà che molti invece ritengono fondamentale.
    E anche qui non ci sarebbe nulla di terribile; si potrebbe beninteso chiedere a Riolo perché non l’abbia scritto apertamente anziché giocare con un termine che male si adatta a tali tragedie, ma è lecito, io credo, ricordare che il capitalismo di crimini ne ha commessi molti e variegati.
    Un domanda però sorge: perché parlare (senza dirlo) contro l’unicità della Shoà in un intervento dove non si discute di ebrei? Sì perché Riolo dedica qualche riga a dire che naturalmente il diritto alla libertà di opinione è cosa buona e giusta, ma neanche due parole a ribadire che anche il diritto a non essere assassinati degli ebrei è cosa buona e giusta. L’unica spiegazione è che il buon Riolo abbia in realtà assunto come centrale nell’analisi di quanto accaduto in Francia lo scontro tra Israele e Palestina (o tra Israele e palestinesi, se preferite) accanto a quanto perpetrato dal capitalismo, colonialista o imperialista che sia. Ma non lo dice, si limita a usare un termine sbagliato al posto giusto, e chi ha orecchi per intendere intenda.
    Questa è un’operazione di propaganda, perché si basa sull’assunto che i lettori di quanto scritto capiranno bene, pur senza poterlo leggere apertamente, quanto è implicito nell’uso di quel termine, ma non si fornisce loro l’affermazione esplicita sulla quale si potrebbe, semmai, ragionare e discutere.

    1. Un caro saluto e un abbraccio a Ezio. In primo luogo, grazie per il commento. Cerco di dire alcune cose molto brevemente, sollecitato dalle sue affermazioni.
      1. Nell’articolo, breve volutamente, non ci si poteva dilungare nell’esplicitare molte cose, assunte come implicite.
      La dimensione religiosa, la dimensione spirituale o antropologica che va sotto il nome di “religione” è una cosa. La storia dell’umanità, dai primordi in avanti, lo testimonia. Altra cosa sono le religioni dette “positive”, storiche, con tanto di apparati, di scritture, di “tradizione”, di riti, di “organizzazione” e quindi di gerarchie ecc. E come ogni formazione storica e ogni prodotto storico, portano con sé l’ambivalenza irrimediabile. O contribuiscono a emancipare, in vario modo, l’individuo e le comunità umane, o contribuiscono a opprimere, a far regredire ecc., individui e comunità. Pertanto è pertinente il riferimento a Ernst Bloch per approcciare le religioni e la loro storia. Ma qui mi fermo. L’argomento è così importante e così vasto che il discorso andrebbe troppo lontano. Basti pensare, solo per citare un aspetto del problema, come nel capitalismo maturo, e soprattutto nella nostra era, agisca un potente “bisogno religioso”, non espresso in forme religiose, anzi spesso come negazione della religione, con tanto di sette, di esoterismi di varia indole, di aspetti del “new age” parareligiosi, di maghi, di santoni, di astrologi, di chiusure identitarie e via elencando.
      2. Qui il vero nocciolo della questione. Ezio, molto sensibile su questo punto, ha subito colto e puntualizzato. È il nervo scoperto della eterna questione. Unicità della storia del popolo eletto, unicità della persecuzione millennaria contro gli ebrei, unicità dello sterminio ecc. ecc. Non ne veniamo fuori con le unicità.
      Ogni sterminio, ogni nefandezza ecc. è peculiare, ha caratteri suoi, spesso irripetibili. L’analisi concreta della situazione concreta. E la dimensione storica di ogni aspetto della realtà, di ogni fenomeno. Neri o negri dell’Africa, popoli indigeni (dagli aborigeni australiani agli indios di Nord, Centro e Sud America, spesso organizzati in civiltà fiorenti), armeni ecc. ecc.
      Ho usato il termine “olocausto” in modo improprio, come spesso avviene nel linguaggio, nella vita. Avrei potuto usare “genocidio”, “etnocidio”, e, per rimanere nella classicità, “ecatombe”. L’ho usato perché mutuato dai tanti, ampi, profondi dibattiti nei Forum Sociali Mondiali, da Porto Alegre 2001 a Bamako 2006 a Dakar 2011 e Tunisi 2013, passando da Mumbai 2004 ecc. Il risveglio della coscienza indigena e della coscienza nera si è espressa anche assumendo le locuzioni “olocausto negro” e “olocausto indio”, usate da studiosi e da attivisti dei movimenti presenti ai Forum. Ma qui mi fermo.
      Non ho voluto insistere molto, nel breve articolo. Ho usato solo il termine “Gaza”, per indicare una delle tante nefandezze. Bambini e neonati, donne e vecchi, anonimi, bruciati, decapitati, in modo tecnico, “silenzioso”.
      Tra le cose orribili nel quadretto parigino una delle più orribili era la figura di Bibi Netanyahu. Assassino della peggiore specie. Così come orribili erano anche altri impuniti, e protetti dagli occidentali, galantuonimi dell’Arabia Saudita (il wahhabismo, favorito dalla dinastia saudita, è la fonte primaria degli integralisti-fondamentalisti islamici), del Qatar, degli Emirati, della Turchia ecc.
      Caro Ezio, l’impunità di Israele è il problema, con le sue peculiarità, le sue modalità, le sue nefandezze. Se ci mettiamo a discutere invece di antisemitismo, di identità forti contro altre identità ritenute più forti ecc. non la finiamo più. Arriviamo ai fondamenti storici e culturali di tali identità. Arriviamo, sempre più regredendo, ai Cananei, a Ur dei Caldei, alla ricorrente espressione biblica “…e fecero strage di uomini, donne e bambini”, agli “habiru” definiti così dagli egiziani ecc. ecc.
      Il problema è, ripeto, Israele. La sua unicità è la sua impunità. Grazie agli Usa, all’Europa, all’Occidente. I persecutori, gli assassini su scala industriale degli ebrei oggi svolgono questa funzione, per i loro fini, per i loro sporchi interessi. L’antisemitismo è un altra cosa, gravissimo sicuramente. Ma è un’altra cosa. E, per favore, non usiamo l’accusa di antisemitismo per intimidire chi critica Israele.
      Primo Levi, Franco Fortini, Judith Butler, ebrei, solo per citare pochi nomi a me cari, ci aiutano molto a capire tutto ciò.
      Concludo, per non tediare chi dovesse leggere in questo sito, invitando Ezio a un incontro per discutere con più più agio e tempo. A me farebbe piacere.

      1. Caro Giorgio,
        sul fatto che uno stato più piccolo del Piemonte in un territorio inimmaginabilmente vasto sia il problema, sul fatto che otto milioni di ebrei nel mezzo di centinaia di milioni di arabi e mussulmani siano il problema, avrei qualche dubbio.
        Anzi, dovessi fare un conto meramente quantitativo (e anche un poco disgustoso, a mio avviso) di quanti morti, di quanta libertà sottratta, di quanto sfruttamento, di quanti diritti negati, e via dicendo, temo che Israele rappresenterebbe sono qualche punto percentuale rispetto agli stati arabi e mussulmani che sorgono in quella regione.
        Ma Israele è nostra, è occidentale, e noi proviamo un senso di colpa che è fatto per metà dalla nostra storia di colonialisti e imperialisti, e per l’altra metà dal desiderio di individuare il colpevole odierno, odiarlo e sentirci così puri e dalla parte del giusto.
        Caro Giorgio, hai ragione quando dici che sarebbe venuto il momento di incontrarsi e parlare, solo che io non sono sicuro su quale forma dovrebbe e potrebbe avere questo confronto…
        Però sono pronto e volenteroso nel caso tu avessi qualche idea.

  3. Al vedere le foto di questo post ho avuto un cortocircuito mentale: da un lato il celebre dipinto del 1901 “Il Quarto Stato” (che inizialmente era intitolato come “Il cammino dei lavoratori”) realizzato da Giuseppe Pellizza da Volpedo e, dall’altro lato, sentire quanto drammaticamente veri erano i versi di B. Brecht: “Al momento di marciare molti non sanno/che alla loro testa marcia il nemico.”
    C’è di che rabbrividire! E di che riflettere!

    Sull’intervento di Giorgio (a cui anch’io dico ‘ben ritrovato’, mandandogli un caro abbraccio – anche a Dani, ovviamente) farei le seguenti osservazioni:
    a) non so quanto ci aiuti il pensare – Fallaci(ando), per copiare lo stile fantasioso di rò – in termini di “scontro di civiltà”, né più né meno di quanto ci sia di ausilio pensare in termini di conflitto religioso.
    Una volta definito che le religioni possono rappresentare elementi regressivi o addirittura reazionari (*in un determinato contesto sociale alcune religioni possono aver svolto un ruolo progressivo […] che in altri periodi e variato il contesto la stessa religione può rappresentare invece un elemento regressivo o addirittura reazionario*) (E. Partesana), rischiamo di non procedere oltre se non le agganciamo alla struttura storica a cui esse sono, in qualche modo, consustanziali.
    Perché esistono modalità primitive per le quali non serve, per forza, scomodare il colonialismo come causa “originale”, come fa la Rossanda, quando sostiene che *l’estremismo dell’ammazzare tutti i non fedeli al profeta appartiene ai nostri giorni, ed è molto più serio cercarne le origini nelle forme coloniali e non coloniali adottate dall’Occidente che in un passo o l’altro del Corano*. Che fa supporre – supposizione mia – che il Corano centri ben poco ma molto di più il nostro colonialismo e che, quindi, visto che noi siamo stati molto cattivi, ci meritiamo, in un certo qual modo di patire – occhio per occhio – questo estremismo.
    In ogni re-ligione sono intrinseci sia aspetti regressivi e sia evolutivi, di espansione: e in ogni libro sacro che divulga detta religione li troviamo. Dipenderà dal contesto storico (economico-sociale-politico) non solo la regressione alle forme più arcaiche del “re-ligamen” (la religione) ma il come quella regressione verrà utilizzata, in quali ambiti, e chi ne saranno i beneficiari. Non è che non ci fossero Jihadisti in Libia, tanto per fare un esempio, ma Gheddafi in un modo o nell’altro riusciva a tenerli a freno.

    b)* la politica di potenza per il controllo geostrategico mostrano ormai alla civiltà umana il loro vero volto. E mostrano ormai la data di scadenza a cui è giunta la civiltà umana, la vita nel pianeta*.

    Qui ci sono alcune cose su cui dissento.
    Innanzitutto non possiamo parlare di Civiltà Umana intesa come un apriori, un dato in sè.
    La civiltà è un portato, un esito delle varie organizzazioni sociali che hanno condotto allo sviluppo, alla crisi, alle cadute. Proprio per questo non c’è una data di scadenza, ma si produrranno altre forme di ‘civiltà’, se vogliamo mantenere questo termine ormai equivoco, visto che di ‘civis’ ha ben poco.
    Su tutto ciò non ha funzione alcuna lo smascheramento, scoprirne il vero volto se non capiamo come quel volto sta in relazione con una determinata situazione come quella attuale. Che cosa vogliono dire tutti quei politici al corteo a Parigi?
    Oltretutto, quel volto, non lo conosciamo forse? Di quanti mascheramenti siamo stati testimoni? Non si tratta di dimostrare che il Re è nudo. Noi oggi potremmo anche svelare retroscena fantapolitici ma non cambierebbe di molto il gioco del potere. Sono quei meccanismi che dobbiamo cercare di cogliere. Oggi.
    Per questo non serve pensare in termini di catastrofe (si attivano soltanto risposte emotive che porteranno alla ricerca indiscriminata di chi potrà salvarci dal disastro. Schiavi ma protetti e contenti); né pensare che il sistema sia giunto al capolinea o per cause di lotta anticapitalistica (si ricordi lo slogan “padroni, borghesi, ancora pochi mesi!”), o, come si sta pensando oggi che le lotte sono diventate fantasmi ingombranti, per cause dovute al collasso interno dello stesso. Il capitalismo (o i capitalismi, e con essi anche le religioni), si trasforma anche toccando abissi di grande reazionarietà.
    Ma non voglio dilungarmi su questo (la caduta della vecchia borghesia europea e l’avvento del capitalismo made in USA), ma tornare al punto della questione.
    Ci lasceremo ancora turlupinare dagli indegni balletti dei ‘potenti’?

    Sempre sul caso Charlie Hebdo propongo un gustoso articoletto dello psicoanalista francese, Jacques Alain Miller, che potete trovare cliccando su https://www.facebook.com/notes/istituto-freudiano/lillusione-lirica-di-jacques-alain-miller/791550827590364

    Bertold Brecht

    Il muro

    Sul muro c’era scritto col gesso
    viva la guerra.
    Chi l’ha scritto
    è già caduto.
    chi sta in alto dice:
    si va verso la gloria.
    Chi sta in basso dice:
    si va verso la fossa.
    La guerra che verrà
    non è la prima. Prima
    ci sono state altre guerre.
    Alla fine dell’ ultima
    c’erano vincitori e vinti.
    Fra i vinti la povera gente
    faceva la fame. Fra i vincitori
    faceva la fame la povera gente egualmente.
    Al momento di marciare molti non sanno
    che alla loro testa marcia il nemico.
    La voce che li comanda
    è la voce del loro nemico.
    E chi parla del nemico
    è lui stesso il nemico.

    R.S.

    1. Mi scuso per prima con la mia cara compagna di domande sul viaggio nella storia di nome Rita, ma il suo intervento é di una tale concentrata coscienza storica e consapevolezza sugli strumenti imperiali dei nostri là-droni nonché i loro servi reclutati fra i nostri fratelli europei in un modo, ucraini in un altro, siriani in un ancora, “isisiani”…che non posso (anche per mancanza di tempo) che dire, come appena scritto a Gipì e Giellegí: lunga vita a Rita! Beato, laicamente e spiritual mente sia beato chi cercherà , ad ogni storia come questa, ogni traccia del vero volto assassino. Beato sia chi resiste a Goebbels 2.0….viva Rita!

      1. Non bisogna avere paura, ormai è diventato un motto. Io ho paura e con me tanti altri. Abbiamo paura perché non conosciamo davvero chi è fra tanti il vero nemico . Abbiamo paura per i nostri figli e i nostri nipoti. Nessuno sa come fermare questo regredire dei tempi e ancora si vuol sperare in un cambiamento dall’alto…quale alto?!?!?! Il popolo forse unendosi potrà rivoluzionare la cultura degli sporchi interessi e del fanatismo religioso. I religiosi per primi dovrebbero insorgere, cristiani e islamici dovrebbero unirsi ,ma prima devono lavarsi le mani a lungo . Continuo ad avere paura la stessa paura che ha quel popolo che non ha nessun riferimento a cui rivolgersi. Resto con i miei saldi principi di comprensione giustizia e solidarietà, forse un giorno mi diventeranno indispensabili.

        1. Emy , da questo tuo intervento, i nostri serial killers imperiali (e loro servi locali, politici o mediatici, occidentali o europei, italiani o mediorientali, nazisti ucraini o ribelli siriani) potranno solo dirsi un’unica cantata: evvai! ci stiamo riuscendo, li abbiamo cotti a puntino e terrorizzati come dio u$a comandava e comanderà. evvai vai vai col terrore! evvai funziona daddio….

          1. Grazie Ro per la tua risposta. Grazie per il tuo coraggio . Grazie anche a tutti quelli come te che riescono sempre ad essere coraggiosi e con le idee chiare, senza paure. Evvai vai col coraggio e la forza ! Funziona funziona perdio!

    2. A te Rita, un abbraccio anche da Daniela. La “data di scadenza” in forma contratta si riferiva alla crisi climatica e al rapporto dello Ipcc dell’anno scorso. Oltre naturalmente ai tanti rapporti prodotti in questi anni.
      So bene che non esiste Umanità, Civiltà Umana ecc. Capitalismo ecc. ecc. se non gruppi umani, civiltà di vario tipo, capitalismi ecc. Mi riferivo alla possibile fine della vita o della civiltà, o assetto sociale e politico, a seguito di eventi catastrofici causati da cambiamenti climatici irreversibili.

  4. Alla fine dell’anno, l’8 dicembre e il 24, ad Agnone si ripete una processione di fuochi. Partecipa tutto il paese e molti vengono da fuori per assistere. Cominciano i bambini con una o due fascine per spalla, seguono giovani e adulti (raramente ragazze) con sempre più fascine che bruciano, di pino bianco, quest’anno l’ultimo ne portava quattordici per spalla, si aiutano con delle impalcature. Alla fine i mozziconi incendiati si scaricano in un falò immane, i pompieri bagnano intorno e la gente assiste in silenzio e sicura.
    Ovviamente è un rito del solstizio d’inverno, ma anche un rito della consumazione e della fine, di rinuncia a prospettive risolutive di rinnovamento.
    Non voglio collegare per vie brevi il rito agli olocausti ai colonialismi alle guerre ai domini e le falsità del potere. Ma posso collegarlo alla profonda certezza che nella specie il tempo ripete, col fuoco, nel fuoco. Siamo un popolo antico. Dico di collegarsi anche a questa antichità per capire e agire il presente.
    (Ah sì? e come, di grazia? per esempio non pensando di poter venire giù dal pero…)

  5. Lo dico chiaramente, questo modo di ragionare non mi piace. Nonostante condivida l’80? il 90? il 95% della riflessione di Riolo mi dissocio dall’idea di fondo che sottende il suo intervento e le conclusioni, per quello che sono riuscito a comprendere. E spiego il perchè:
    – la realtà del conflitto in corso è estremamente articolata e applicare in modo quasi automatico lo schema che l’occidente è cattivo e spietato e tutto quello “subisce” in termini di altrettanta spietatezza è giustificabile e meritato per me non è accettabile. Ho letto e riletto il post e non ho trovato una riga di condanna della strage. e per quanto si possa concordare con “indignazione ineguale” dei media questa omissione la trovo incomprensibile.
    – Non capisco perchè non è giusto che in questa situazione “noi milanesi, italiani, occidentali” affermiamo di non condividere ” niente con Bush, con Abu Ghraib, con Guantanamo, con Netanyahu, con l’apartheid sudafricano, con il colonialismo, con l’Inquisizione, con la tratta degli schiavi, con i tanti olocausti della storia e via elencando”? Una soluzione allo scontro in atto (se esiste una soluzione e se praticabile e se ci sono soggetti politici che possono concretizzarla…), non può essere ne unilaterale ne militare, da qualsiasi punto di vista la si guardi. Forse la cultura può contribuire ma allora deve coinvolgere tutti i soggetti in campo e dunque come io/noi ci dissociamo dai nostri capi di governo perchè questo non dovrebbe accadere anche nel mondo mussulmano, o arabo, o israeliano…? E perchè non è legittimo aspettarselo?
    – E’ certamente vero che per analoghe stragi collocate nelle periferie di questo mondo le reazioni mediatiche non sono le stesse, ma questo cosa significa? che si può fare strage della redazione di un giornale e dire, va beh, ce la siamo/sono meritata? e se fosse stata una cellula catto-fondamentalista di “neo templari” per la liberazione del “sacro sepolcro”- visto che la satira di Charlie non risparmia certo Gesù e Madonne varie? cosa avremmo detto? l’immagine dei potenti può suscitare indignazione e paura ma tutte le persone che sono scese in piazza, quelle sono cloni che non contano niente?
    – Se noi rivendichiamo e esercitiamo il pensiero critico nei confronti dei fondamenti della cultura occidentale nel suo essere predatoria verso i popoli e le risorse naturali del pianeta, ebbene io mi attendo che anche dall’altra parte, si faccia altrettanto, almeno nei confronti dei metodi stragisti e violenti con i quali si pensa di contrastarli. Solo “noi” dobbiamo avere il senso di colpa per il presente e per il passato?
    – E a proposito di sensi di colpa, che in questo caso potremmo chiamare anche assunzione di responsabilità politiche, vogliamo cancellare con questi le responsabilità personali davanti alle stragi, militari e/o terroristiche che siano? Dietro ad ogni pistola, mitra, bombardiere in azione c’è comunque un uomo che si assume la responsabilità di schiacciare il grilletto. Non tutti si fanno indottrinare dalla jhiad, non tutti si arruolano, per l’ISIS o la NATO, ancora per fortuna c’è chi pratica altre strade.
    – Per questo io dico” je suis charlie”, e non mi sento affatto clone di nessuno, perchè se è vero che il laicismo può diventare un fondamentalismo peggiore di altri, fino a quando lo si pratica con lo scritto e il disegno non si merita di ricevere una pallottola in testa.
    – Infine mi pare evidente che la premessa di qualsiasi dialogo e processo di integrazione può avere luogo solamente se riconosciamo che le culture, le religioni, le persone che le interpretano non sono uguali ma, per fortuna, diverse. E che la diversità, fuori dagli stereotipi, può provocare tra la gente difficoltà reali, pregiudizio, diffidenza, che andrebbe affrontata invece che demonizzata. Solo riconoscendo questo elemento si possono fermare le derive xenofobe cavalcate dai vari populismi e ricondurle nell’ambito della democrazia e del rispetto dei diritti di ogni persona. Io non voglio certo arruolarmi al “paradigma sicuritario, “meno libertà e più sicurezza”, alla “…rivendicazione di più spese militari, più forze di polizia, più controllo delle frontiere ecc.” ma per questo non credo che irridere quello che è accaduto a Parigi serva.

    1. Hollywood

      Ogni mattina, per guadagnarmi da vivere,
      Vado al mercato dove si comprano le bugie.
      Pieno di speranza
      Mi metto tra chi vende.
      Bertolt Brecht

    2. 1. Come dice Annamaria Locatelli, nessuna intenzione, esplicita o implicita, di irridere quello che è accaduto a Parigi. Anzi. E nessuna intenzione di giustificare la strage, le stragi, l’ammazzamento di redattori ecc. È un poco grossolano questo.
      Desideravo, tentavo, solo uscire dalla logica binaria Occidente/Oriente, religione/razionalità, amico/nemico, buono/cattivo, pazzi furiosi/intelligentoni ecc. ecc. Ma in un breve articolo spesso la formulazione contratta si presta a fraintendimenti.
      2. L’Occidente ha le sue colpe, così come i regimi corrotti, tirannici, assassini delle periferie. Colgo l’occasione qui per ricordare solo questo. Quando si pensava, prima della Grande Guerra, alla fine dell’Impero Ottomano si cominciò in Europa a disegnare le carte, letteralmente, nelle cancellerie, con righello e matita, spartendosi paesi e aree d’influenza del dopo Impero. Non tenendo conto della storia, delle culture, delle etnie, delle religioni, degli asseti tribali, Il risultato è stato quello a cui abbiamo assistito fino a oggi.
      Quando, a metà anni cinquanta, con Nasser, e poi il Baath ecc., in Siria, in Iraq, il nazionalismo arabo rischiava di sottrarre all’influenza e al controllo occidentale, Usa in prima fila, quelle aree strategiche, per il petrolio in primo luogo, ma anche per l’egemonia politica mondiale, subito Usa ed Europa si mossero per finanziare e aiutare le petromonarchie assolutiste dell’area, in primo luogo l’Arabia Saudita e si incominciò ad aiutare, direttamente o per interposta petromonarchia, gruppi e correnti di quello che oggi chiamiamo Islam politico. Subito dopo la Conferenza afroasiatica di Bandung del 1955, a opera di nazionalisti non-allineati, ma considerati come “comunisti”, fa lo stesso, subito si è tenuto il primo Congresso Islamico Mondiale. Lo ricordo qui per dire che la storia è lunga e non inizia solo con Bin Laden, l’Afghanistan del 1979, i sovietici ecc. L’Iran di Khomeini è anche il prodotto, alla lunga, come reazione antioccidentale e antimperialista, al colpo di stato organizzato in Occidente per rovesciare, nel lontano 1953, il laico Mossadeq e per riprendersi il petrolio iraniano.
      Fermo restando che la donna decapitata in mezzo alla strada l’altro ieri alla Mecca è opera di quei gentiluomini, inequivocabilmente non occidentali. Qui ci si guarda bene dal trattare l’Arabia Saudita come meriterebbe di essere trattata. Ma, come diceva Henry Kissinger, parlando dei militari del Cile e di Pinochet, sono figli di puttana quelli lì, ma sono i “nostri” figli di puttana.
      3. Sui milanesi, italiani, europei ecc. Semplicemente perché la stragrande maggioranza dei mussulmani non segue l’Islam politico e non segue, a maggior ragione, queste organizzazioni terroristiche. Così come molti, tanti, noi, non seguiamo i pazzi furiosi dei dominanti occidentali, fomentatori del caos. Da cui si trae sempre poi, in ultima istanza, l’ordine, il perpetuare tranquillamente il potere. Ma qui mi fermo.

  6. …a Luca Chiarei…leggendo lo scritto di Giorgio Riolo non ho avvertito nessuna volontà di “irridere quello che è accaduto a Parigi…”, inoltre, come sembra dal tuo discorso, non trovo accettabile “separare” così rigidamente le culture per diversità (se mai per differenze, come ci suggerisce Giorgio Mannacio) e poi accogliere senza batter ciglio “i pregiudizi”. Ma dovremmo noi per primi non averne…

  7. @ Chiarei

    Giorgio Riolo risponderà, se vorrà, alle obiezioni di Luca (Chiarei). Per mio conto vorrei però fare i seguenti rilievi al tuo pezzo, premettendo che solo per facilitare il dialogo userò i termini ‘buoni’, ‘cattivi’ e ‘senso di colpa’ che giudico del tutto inadeguati in politica:

    1. Anche se «cattivo e spietato» non è né l’intero Occidente né l’intero Islam, uno scontro effettivamente spietato è in corso tra élite: i “cattivi” occidentali armati e i “cattivi” islamici armati (Isis, Boko Ha-ram, ecc.) ; e come vediamo, sebbene asimmetrico sul piano militare e logistico, è senza esclusione di colpi e procura danni rilevanti anche ai più forti: i morti ci sono dall’una e dall’altra parte e i civili disarmati, più o meno simpatizzanti o defilati rispetto alle élite che si fanno la guerra, vengono coinvolti.
    Mannacio ha ricordato giustamente che l’asimmetria delle pratiche terroristiche può nascere da una debolezza politica dei popoli islamici. Sì, ma questo non significa che esse mancano di efficacia (e non solo sul piano militare).
    In più, a riprova che la “cattiveria” c’entri poco o nulla, come nota Roberto Buffagni su “Le parole e le cose”, esse s’iscrivono in una precisa strategia politica:
    «1) obiettivi strategici:
    formazione di una alleanza di Stati islamici modellata sull’antico califfato, anzitutto nel Levante, che individui come nemiche le potenze occidentali: anzitutto gli USA, poi l’Europa. In vista di ciò, cambiare l’orientamento politico dei governi dei paesi islamici attualmente alleati delle potenze occidentali.
    2) obiettivi tattici:
    a) disgregazione della coesione sociale nei paesi occidentali, a mezzo polarizzazione tra islamici e non
    b) nei paesi occidentali, inasprimento delle misure di prevenzione e di repressione del terrorismo islamico, che costringa le masse islamiche immigrate a radicalizzarsi e a scegliere se stare di qua o di là, le masse autoctone a perdere fiducia nelle loro classi dirigenti che non sanno proteggerle.
    c) accentuare le contraddizioni politiche tra potenze occidentali e governi islamici loro alleati, in vista del perseguimento dell’obiettivo strategico al punto 1.». (http://www.leparoleelecose.it/?p=17420#comment-302961)

    2. Fin quando non si profilerà una soluzione politica allo scontro in atto tra i “cattivi”, noi – per approssimazione: “buoni” o semplicemente disarmati o moderati o che tendiamo alla neutralità o che critichiamo o condanniamo l’”estremismo” (o fondamentalismo) dei “nostri cattivi” (come fa Riolo) o che vorremmo che anche i “buoni” del mondo arabo criticassero o condannassero l’Isis etc.- anche quando protestiamo o scendiamo in piazza, siamo in una posizione ambivalente e in fondo gregaria (nei confronti dei “cattivi”, nostri e loro).
    E’ un punto su cui dovremmo riflettere molto di più.
    Lo si è visto nella grande manifestazione a Parigi in risposta all’attentato del 7 gennaio.
    Quel possibile “noi”, e cioè la «folla immensa di persone mosse dall’emozione, da sentimenti e da pensieri», che Riolo forse con troppo ottimismo definisce «giusti e umani, di fraternità, di solidarietà, di pace» (ma che io realisticamente sospetto ben più ambigui), non ha espresso nessuna posizione di vera autonomia *politica*. Né rispetto ai “cattivi” occidentali. Né rispetto ai “cattivi” islamici.
    Quella folla ha accettato (o non poteva fare altrimenti; ma questo prova ancor più la sua mancanza di autonomia) che alla sua testa marciassero (e a debita e sintomatica distanza, come hanno fatto notare molti commentatori; e come la seconda foto prova) molti dei “nostri cattivi” o, come scrive Riolo, i «mandanti del massacro sociale nei paesi europei, e occidentali in generale, e dei massacri reali in altre aree del mondo».
    Quasi tutti quei partecipanti alla manifestazione «al momento di marciare […]non sanno/che alla loro testa marcia il nemico» (i versi di B. Brecht, ricordati da Rita (Simonitto)). Ma, anche se non volessimo considerarli dei semplici «cloni» di Holland o di Netanyahu o dei bambini frastornati che vanno dietro a dei “pifferai magici”, dobbiamo ammettere che, tranne qualche cartello garbatamente autoironico, nessun atto significativo di contestazione si è avuto. Tanto che i giornali hanno potuto parlare di rivincita di Holland.

    3. Chi dunque si dissocia oggi veramente dai “nostri cattivi” o dai «nostri capi di governo»? Singoli, minoranze, che possono scriverlo al massimo sui loro blog o pensarlo nella loro coscienza interiore. Insomma, non c’è un’opposizione politica reale e organizzata alla “guerra dei cattivi”. Il che vuol dire che saranno ancora i “cattivi” a decidere anche per “noi” o per quella folla che li ha seguiti o per i tanti che si sono sentiti di condividere il motto «Je suis Charlie».
    E gli altri – i “cattivi” islamici – metteranno questo “noi” (non autonomo, comunque gregario) nel mucchio dei nemici. Mentre i “buoni” islamici, al massimo, rimarranno pur essi ad attendere una nostra dissociazione che al momento *politicamente* non esiste. Ed anzi è ancor più impedita e resa ardua sia dalla scelta di guerra spietata delle élite “cattive”, sia dal gregarismo di fatto del “noi”.

    4. Il pensiero critico da esercitare, di conseguenza, dovrebbe interrogarsi su questo “nostro” gregarismo ambiguo, che vorrebbe dissociarsi dai suoi governanti ma non ci riesce e finisce per accodarvisi ( forse per la filosofia del “meno peggio”…). E perciò parlare di senso di colpa («Solo “noi” dobbiamo avere il senso di colpa per il presente e per il passato?») è fuorviante. Abbiamo difficoltà a criticare razionalmente e fino in fondo i nostri “cattivi”. Questo è il problema. E poi, per interrogarci, dovremmo attendere il là da un corrispettivo pensiero critico di parte araba o islamica, che dovrebbe interrogarsi a sua volta sul proprio gregarismo?
    A me pare che la critica non faccia alcun passo avanti se si ferma alla contrapposizione simbolica e superficiale «je suis Charlie» o «je ne suis pas Charlie». Che, non essendoci l’autonomia di pensiero politico di cui ho parlato, al massimo equivale a dire : io ci sto a identificarmi con le vittime di Charlie Ebdo (e la difesa dell’Occidente)/ io m’inchino davanti alle vittime di Charlie Ebdo ma non alla difesa dell’Occidente).

    5. Il rischio più grande, invece, che io vedo nella critica di Riolo al «fondamentalismo occidentale» o al «progressismo e il laicismo branditi come armi, come scimitarre» è un altro: non accorgersi di scivolare in una sorta di difesa (quasi acritica) della religioni o delle religioni. Che a me pare un regresso. L’indubbio «ritorno della religione» (o delle religioni) non viene visto più come un problema e un dato allarmante. Anzi non si tiene conto che nel discorso pubblico la dimensione religiosa sta quasi per sostituire la dimensione politica.
    Quando Riolo scrive: «la religione, re-ligio, è un aspetto fondamentale della dimensione comunitaria presso le varie, diversissime, culture umane», quando insiste a dire che essa rappresenta e alimenta «il legame comunitario, condivisibile o meno, degli esseri umani tra loro e tra l’umanità e la natura, il creato ecc.», quando distingue tra « la sacrosanta battaglia illuministica settecentesca contro l’oscurantismo, la barbarie dell’Inquisizione, del gesuitismo, del Papato, delle orribili gerarchie ecclesiastiche» e i “fondamentalisti occidentali” che vogliono « estendere a tutto il mondo, a tutte le culture umane questo corredo di pensiero [pseudo universalistico], nato in un preciso hic et nunc [nell’Europa dei Lumi], a me pare che egli conceda troppo alla religione. E si aggrappi a una visione blochiana delle religioni, senza tener conto che non esiste più la corrente calda del comunismo, che Bloch riteneva capace di rimescolare e far propri i fermenti anticapitalistici delle religioni e realizzare finalmente una «utopia concreta».
    Il rischio di accodarsi, perciò, al “comunismo” di Papa Francesco a me pare fortissimo.
    È vero che non basta irriderle le religioni. O fare del sarcasmo (o della satira) per contrastarle *in assenza di un progetto*, e quindi scivolando inevitabilmente nel nichilismo, come fanno gli eredi della degenerazione laicista/individualista dell’illuminismo. Però non riprendere o almeno attestarsi sulla lezione di Marx, per il quale la religione era «il gemito della creatura oppressa, l’animo di un mondo senza cuore» a me pare una resa. Ascoltare il gemito è cosa buona, ma, se non si esce «di pianto in ragione» (Fortini), come sarà la nostra “navigazione a vista” ?

    1. @ Ennio
      Sì sono d’accordo con te , ma ci sono voluti decenni per poi arrivare a stragi politiche e religiose. Dovremo sicuramente scegliere nuovi metodi , strategie,intese con un occidente che non vuole nemmeno sentire di cambiare politiche e tanto meno i fondamentalisti. Cercare l’attacco attraverso la satira mi sembra davvero inopportuno . Penso che molti già pensano ad uno scontro direi addirittura ad una guerra. Voltandoci a guardare la storia troviamo tutti i presupposti per uno scontro. Noi avremo molti pensatori che troveranno le strade per arrivare ad una vera democrazia ma prima…è qui che il popolo si ferma chiede la formula , può trovarla secondo me solo ed esclusivamente nel dialogo, ma il dialogo presuppone ascolto oltre che parole , incontri a quattrocchi e non solo attraverso facebook, twitter, blog ecc. ecc. . La gente ha bisogno di credere nel futuro ma senza lavoro, nulla può veramente succedere se non come si è sempre visto, in una rivoluzione e senza sangue potrebbe essere solo un’utopia, ma proviamo a credere ancora in una soluzione pacifica alla quale io aspiro ma mi sento molto sola.

  8. Lo so che ripeto sempre la solita minestra, ma anche le poesie di Ennio mettono in scena il mio tema preferito: il tempo della gente che è più lungo del tempo della generazione: “raccolse una spiga e la macinò fra le mani” e, quasi accanto, ” se toccava … il mio ginocchio magro e insanguinato … era soldato/ che palpava una ferita”, sono due tempi, quello ampio del grano macinato tra le mani e delle competenze di soldato, e quello preciso di arrampicarsi sul fico e nascondere pistola e serpe (ma anche questa è una cosa che si deve fare, e si sa da sempre!)
    Questo padre, in quella lontananza di gesti e di tempi, era vicinissimo – e un po’ estraneo – come adesso nella poesia.
    Per venire dunque a “je suis, ou non pas, Charlie”, e alla leggerezza di esserlo (perché quelli che non lo sono hanno una maggiore gravità), alla lunga argomentazione di Ennio voglio rispondere con una sola riflessione, riferita al punto 5, sulla religione. Che chiaramente è la religione nostra, “dato allarmante”, quella della polemica illuminista, quella di Marx “gemito della creatura oppressa”.
    Ma non già quella di Feuerbach, dio essenza (tempi lunghi, di specie) dell’uomo, alienata come no, ma il problema è: cosa proietta l’uomo in dio?, e Feuerbach è consapevole perfino della differenza sessuale!
    Io non sono religiosa, ma molto interessata a comprendere la forza (politica) delle motivazioni religiose, e mi “sporco le mani” con la religione, voglio scavare a fondo quanto posso nella sua grandezza e profondità – di fatto.
    Quindi non credo che basti più la critica ottocentesca alle religioni per comprendere la politica oggi, anche perché… anche, e forse soprattutto, perché il nichilismo e il relativismo sono a fondamento del senso comune gregario e irreligioso, o pagano.
    (Ovviamente mi si può additare la grossolanità e la superficialità dei fondamentalismi cattolico e cristiano, ma questo significa soltanto che la contraddizione agita anche la religione, e alla grande!)

  9. Anch’io prenderei, come Cristiana Fisher, il punto 5 dell’intervento di Ennio.
    Innanzitutto per fare una distinzione tra religiosità e religione.
    Come diceva lo psicoanalista W.R.Bion, le religioni possono trasformarsi, quand’anche sparire, ma la religiosità no. Essa è connaturata alla struttura mentale dell’essere umano in quanto cerca di istituire legami di senso e di funzione sia all’interno della sua mente, e sia nel rapporto mente e mondo esterno poiché ha sempre da confrontarsi con l’ignoto. Emozioni comprese. Compreso il mistero e tutto ciò che si sottrae al nostro dominio.
    Res-ligamen, appunto, e dove la ‘res’, la cosa, è ‘cosa’ per modo di dire in quanto essa è inconoscibile, indicibile e non raffigurabile (JHV; Allah; o il precetto di “non nominare il nome di Dio invano”; o tutte le iconoclastie al seguito).
    E questo tipo di re-ligamen è ‘unico’, anche se condivisibile e compartecipabile, perché varia da individuo ad individuo a partire dal diverso modo in cui egli si rapporta con la ‘res’ misteriosa.
    Come scrive Emilia *La gente ha bisogno di credere nel futuro*: sì, ma ognuno a modo suo.
    Così, attraverso questo tentativo di ‘legare’, o per dire meglio, connettere, ci si può sentire meno impotenti e alla deriva rispetto a qualche cosa che ci sovrasta.
    Tutto ciò non è però sufficiente a creare quella che Giorgio Riolo chiama *dimensione comunitaria presso le varie, diversissime, culture umane», anche se ne costituisce la base.
    E la ‘base’ su cui si fonda questo bisogno è una base arcaica e, tutt’al più, fonda una associazione gregaria mirata più alla sopravvivenza che alla evoluzione. Perché per accedere alla dimensione comunitaria, più evoluta di quella gregaria, bisogna introdurre l’individuo e il conflitto.
    Sostenere l’idea che la re-ligione *rappresenta e alimenta il « legame comunitario, condivisibile o meno, degli esseri umani tra loro e tra l’umanità e la natura, il creato ecc.», come Ennio cita da Giorgio Riolo, ci porta, tutt’al più ad una specie di Pan-naturalismo, oppure un “Deus sive Natura”, conciliando ‘spinozianamente’ il dualismo mente/corpo, facendo Dio la causa immanente della Natura.
    Proprio per questo è legittimo il sospetto di Ennio che * nel discorso pubblico la dimensione religiosa sta quasi per sostituire la dimensione politica* e che * Il rischio di accodarsi, perciò, al “comunismo” di Papa Francesco a me pare fortissimo*.
    Onde evitare la forza disturbante che l’individuo può avere nel gruppo, e che il gruppo, così acefalo (in quanto il gruppo non può pensare) possa ‘disgregarsi’ – i detentori dell’ordine gruppale, inizialmente i sacerdoti-filosofi e tecnici, comunque gli amministratori del sacro, rappresentarono i privilegiati, coloro i quali avevano il privilegio di entrare in contatto con il mistero.
    A loro venne affidato questo potere gestionale, agli altri rimase comunque la paura che rinforzò, ovviamente, l’affido a chi è autorizzato all’esercizio di questo sapere.
    Così, quando Cristiana scrive: * Io non sono religiosa, ma molto interessata a comprendere la forza (politica) delle motivazioni religiose, e mi “sporco le mani” con la religione, voglio scavare a fondo quanto posso nella sua grandezza e profondità – di fatto*, in realtà lei è religiosa, nella accezione di cui sopra perché vuole lei ‘sporcarsi le mani’ per capire, e a ciò non delega alcuna religione istituita.

    A questo punto, non è che [non] basti, come sostiene Ennio *irriderle le religioni. O fare del sarcasmo (o della satira) per contrastarle *in assenza di un progetto*, e quindi scivolando inevitabilmente nel nichilismo, come fanno gli eredi della degenerazione laicista/individualista dell’illuminismo*.
    E’ semplicemente crudele questo tipo di irrisione. Perché si accanisce contro chi non ne può nulla, contro chi è inerme di fronte alle sue angosce. La satira, ancor più dell’ironia, è uno strumento sopraffino e quindi va saputa utilizzare. Non si usa il laser a sproposito con il rischio di danneggiare anche ciò che c’è di sano.
    Certo che mi sto riferendo a coloro che si trovano in una situazione di gruppo di base. Non mi riferisco ai potenti che gestiscono la religione. In quel caso, si può fare la satira politica solo che questo diventa problematico quando il potere religioso fa tutt’uno con quello politico, come ben (anzi, mal) seppero coloro che satireggiarono ai tempi della Roma Papalina!
    Non si tratta, quindi, di avere o meno “colpe” (*(«Solo “noi” dobbiamo avere il senso di colpa per il presente e per il passato?») come scrive Ennio.
    Ma di assumerci le nostre responsabilità, sì.

    R.S.

    1. Non ho nulla da eccepire alla breve e puntuale ricostruzione del pensiero di Wilfred Bion fatta da Rita Simonitto; forse si poteva dare qualche indicazione in più sul pensiero dello psicologo britannico, ma non è questo il punto.
      Il fatto è che l’intervento di Riolo era eminentemente politico e qui invece, a me pare, si sta facendo un poco di accademia su “religione” e altre “quisquilie”.
      Vorrei dunque chiedere a tutti di tornare al tema principale dell’intervento di Giorgio, ovvero a individuare le nostre priorità politiche, i possibili alleati, e a disegnare ipotesi di lavoro.
      Crediamo che il nemico principale oggi siano gli Stati Uniti e dunque appoggiamo chiunque faccia loro guerra? Oppure siamo convinti che le libertà individuali siano il primo punto irrinunciabile e quindi auspichiamo lo sviluppo di una borghesia solida e tenace anche fuori dalle mura dell’Occidente? Qual è per noi la questione principale: quella di genere? O il nodo di tutto sta nel potere finanziario e allora è verso quello che bisogna rivolgersi? Siamo convinti che la contraddizione principale sia quella capitale-lavoro e allora cerchiamo informazioni e rapporti con organizzazioni sindacali nel mondo islamico, per sapere e aiutare? O ancora come diceva Giorgio, il tema è quello delle risorse e del loro sfruttamento?
      Insomma, credo si debba mettere in ordine quelle che riteniamo contraddizioni principali, e poi le secondarie, ipotizzare strategie e polemiche, individuare alleati momentanei e di lungo termine, fare insomma come se fossimo un po’ meno impotenti di come siamo.
      Il resto – con tutto il rispetto – sono discussioni che dovrebbero essere tenute nel giusto conto ma anche separate dalla riflessione politica attuale. E non facciamo polemica: so benissimo che anche la metrica classica usata da Brecht è una scelta politica, ma si tratta solo di non sviare tutte le domande andando sempre a parare su teorie generalissime e che per lo più si occupano di altro.
      Un saluto a tutti,
      Ezio Partesana

      1. Quest’ultimo intervento di Ezio mi aiuta. Rimando a quello che ho scritto sopra come commento alle considerazioni di Luca Chiarei.
        Il mio articolo voleva essere un appello, a me stesso in primo luogo, a non semplificare, a uscire dalle polarizzazioni, dagli assoluti, come spesso siamo indotti a fare. Essendo l’arte, sì, lunga, ma la vita terribilmente breve. Anche se ci consideriamo avvertiti, critici, non turlupinabili e via incensandoci.
        Queste ultime considerazioni a seguito degli interventi di Ennio, Cristina, Emilia, Rita.
        Non sono io a concedere troppo alla religione. È la realtà a concedere troppo alla religione. Ovviamente, alla dimensione religiosa, insopprimibile perché dmensione antropologica profonda. Poi declinata come religione positiva, storico-sociale, e religiosità, o come mi piace dire “religione della vita”. Fino a che ci sarà dolore, morte, precarietà, fragilità, oppressione, ingiustizia sociale, ricerca della felicità, ricerca di senso, ricerca di dignità ecc. Così Rousseau replica, con sue parole e in un contesto affatto particolare, dopo il tragico terremoto di Lisbona del 1755, a Voltaire. Il piagnone, ma “egualitario”, Rousseau al sicuro, molto ricco, intelligente Voltaire.
        Ennio giustamente cita Marx. Marx è molto più profondo dei suoi semplificatori seguaci. Concedete la lunga citazione dalla “Introduzione del ’43”. Meglio di così non si poteva dire:
        “Ma l’uomo non è un essere astratto, posto fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, Stato, società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne compimento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale.
        La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.
        Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola.
        La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi”.
        Poiché “la critica”, e il movimento reale storico (operaio, socialista, comunista, antisistemico), non hanno adempiuto a quel compito, se non in minima parte, ci troviamo nella condizione che si gettano via i fiori vivi e ci rimane la catena, triste e spoglia. Una esigua minoranza può credersi avvertita, “critica”, non manipolabile. La stragrande maggioranza degli esseri umani sono poco “autonomi”, rimangono animali gregari. Sono alle prese con i problemi della vita, sono alla mercé della “prima natura”, i bisogni materiali, e della “seconda natura”, della storia e della società.
        Se mettiamo che si siano succedute 900 generazioni di esemplari della specie homo, almeno tre quarti di queste generazioni hanno trascorso la vita nelle caverne, nella precarietà assoluta del “combatti o fuggi”, alla mercé di forze esterne, incomprese, ostili. Noi costituiamo un piccolissimo punto alla fine di questa linea tracciata.
        Quindi nessun accodarsi al comunismo di papa Francesco, che arriva dopo. Semplicemente un tentativo di sobria considerazione di cosa realmente muova testa e cuori degli esseri umani. A prescindere dal grado di consapevolezza che essi hanno della loro condizione. Non trascurando qui ovviamente determinismi economici, sociali, classi, ceti, morfologia sociale, forme politiche, cultura ecc.
        Concedetemi un’ultimo consiglio di lettura, per tornare al tema principale. Il religiosissimo Tolstoj, nel senso della religione della vita, anche se attinge molto a un cristianesimo plebeo evangelico, scomunicato dalla Chiesa ortodossa russa, scrisse negli ultimi anni della sua vita un racconto lungo-romanzo breve che gli veniva dalla sua esperienza di servizio militare nel Caucaso. Si chiama “Hadži Murat”. La libertà del montanaro ceceno tra i due oppressori, l’imperialismo russo e il dispotismo di Šamil, l’imam capo della resistenza islamica contro i russi. Lukacs direbbe “tertium datur”.

  10. Quindi religione e “questioni di genere” (sic) sono accademia e quisquilie?
    Quindi le mobilitazioni religiose, nel mondo, e il coinvolgimento delle donne sulla scena pubblica, in tutto il mondo, degli ultimi decenni non sono politica?
    L’unica scelta politica, ma politicista, nominata da Partesana è questa *Crediamo che il nemico principale oggi siano gli Stati Uniti e dunque appoggiamo chiunque faccia loro guerra? Oppure siamo convinti che le libertà individuali siano il primo punto irrinunciabile e quindi auspichiamo lo sviluppo di una borghesia solida e tenace anche fuori dalle mura dell’Occidente?*
    L’opzione è già stata risolta dalla fine della guerra sempre in senso favorevole agli Stati Uniti, e oggi chi la cambia?
    Gli altri tre temi: il potere finanziario, la contraddizione capitale-lavoro, lo sfruttamento delle risorse sono a ben vedere un unico tema. Ma chi opera sulle contraddizioni in questo intreccio di potere se non gli stati, che sono però insieme alleati e rivali, vedi la guerra in Libia di qualche anno fa.
    Esiste invece un Soggetto anticapitalista unitario? Non solo “in sé”, che ce n’è tanti, ma anche “per sé”, quindi collegato, consapevole, agguerrito cui sarebbe sì necessario separare le contraddizioni principali ipotizzare strategie e polemiche e individuare alleati momentanei e di lungo termine. Esiste almeno un’ipotesi attendibile per costruire questo soggetto?
    Altrimenti a me resta solo da combattere all’interno dello stato e dell’europa su quei temi-quisquilia, come i sessi e la religione (e la lingua, la comunicazione e l’istruzione) che orientano e premono sugli stati stessi per condizionarli il più possibile su democrazia e razionalità.

    1. “Quisquilie” era tra virgolette, ed è una ironica citazione di un poeta russo assai famoso nel secolo scorso.

      1. Io la conoscevo come una battuta di Totò:
        “quisquilie, bazzeccole, pinzillacchere, sciocchezzuole!”
        Non conosco il poeta russo.

        R.S.

  11. @ Partesana: se quisquilie era citazione, accademia, separate e generalissime cos’erano? senza polemica, ma la discussione era politica

    1. Gentile Cristiana Fischer,
      lei fa confusione; nel mio breve intervento la “questione di genere” era dalla parte delle domande politiche che si tratta, secondo me, di mettere in ordine di priorità quando si cerca di capire in direzione di che cosa ci si dovrebbe muovere, e non tra le “quisquilie”.
      Allo stesso modo auspicavo che alcune discussioni, per esempio sulle scelte metriche di Brecht, venissero tenute separate dalle più immediate analisi politiche.
      “Generalissime” era infine riferito – e questo sì, con una certa portata di critica – a alcune discussioni che prendono a volte una piega come se volessero loro, qui e adesso, risolvere domande di secoli e intere librerie, con un libro, una citazione o una formula.
      Un saluto,
      Ezio Partesana

  12. Accolgo volentieri l’invito di Ezio Partesana a *individuare le nostre priorità politiche, i possibili alleati, e a disegnare ipotesi di lavoro* e che * si debba mettere in ordine quelle che riteniamo contraddizioni principali, e poi le secondarie, ipotizzare strategie e polemiche, individuare alleati momentanei e di lungo termine* ma non tanto e non solo per *fare [insomma] come se fossimo un po’ meno impotenti di come siamo* nel progetto di favorire, se possibile, lo *sviluppo di una borghesia solida e tenace anche fuori dalle mura dell’Occidente*

    Ben detto. Ma vediamo un po’ meglio. E lo facciamo non soltanto per non sentirci impotenti ma per un senso etico ed estetico (per quanto valgano ancora queste espressioni).

    Posso dire che è stato Giorgio ad introdurre il discorso religioso attraverso un * … Dove abbiamo chiaro come la religione, re-ligio, è un aspetto fondamentale della dimensione comunitaria presso le varie, diversissime, culture umane. Come essa rappresenti e alimenti il legame comunitario, condivisibile o meno, degli esseri umani tra loro e tra l’umanità e la natura, il creato ecc.*.
    E a questa particolare visione della religione – che rischia (come può temere anche Ennio) di farci cadere nel ‘comunismo’ di Papa Francesco -, volevo dare risposta, perché essa intralcia la ricerca sull’ordine delle contraddizioni, proprio in quanto inserisce un elemento disturbatore, un ‘a-priori’ che, in quanto tale è indiscutibile così come, altro a-priori, è il partire, nella analisi, *con gli occhi e con la sensibilità delle vittime delle periferie del mondo, delle vittime del colonialismo, dell’imperialismo, degli orrori occidentali*.
    Dalla poesia citata di Brecht “Alla fine dell’ ultima/c’erano vincitori e vinti./Fra i vinti la povera gente/faceva la fame. Fra i vincitori/faceva la fame la povera gente egualmente.” si evince che non possiamo prendere quel punto di vista (quello delle vittime) per istituire una teoria che ci permetta di capire come sta andando avanti questo mondo che sembra piombato nel caos più totale.
    Ci sono tante costruzioni ‘categoriche’ che dobbiamo smontare, prima fra queste è quella dello ‘sfruttamento’ che Marx non intendeva affatto in termini morali ma economici: perché non reggono più all’evidenza della ‘situazione concreta’.

    Del resto, proprio su Poliscritture, è stato inserito un post in cui c’era la presentazione di P. R. Spadoni al libro in uscita di G. La Grassa “Navigazione a vista”, in cui si pongono dei problemi legati ad una lettura politica del qui ed ora, in cui si cerca di capire come *Non si è realizzata la previsione marxiana della formazione del rivoluzionario “operaio collettivo”[…] La classe borghese è scomparsa sostituita da una più anonima classe di “funzionari del capitale”[…] Dobbiamo abbandonare anche l’idea della classe operaia come “soggetto rivoluzionario”. Ecc. ecc.
    Ma si è visto come – ovviamente ciò è comprensibile data la natura principalmente letteraria del sito e i condizionamenti del ‘mezzo’– non ci sia stato un grande entusiasmo all’idea che è necessario cambiare paradigmi di tale fatta e che, al momento, navighiamo a vista.
    Per cui vince il detto “lasciar la strada vecchia per la nuova, si sa quel che si lascia, ma non si sa quel che si trova”. E temi come * il potere finanziario, la contraddizione capitale-lavoro, lo sfruttamento delle risorse* (come giustamente richiama Cristiana Fischer) continuano a circolare mentre sono ormai obsoleti e non servono a spiegare nulla di ciò che sta accadendo, sono delle forme ‘vuote’.
    Capisco e condivido il pensiero di Giorgio quando fa appello ad * un tentativo di sobria considerazione di cosa realmente muova testa e cuori degli esseri umani. A prescindere dal grado di consapevolezza che essi hanno della loro condizione* e, se ho ben capito, prende ad esempio l’eroe caucasico “Hadži Murat”.*
    Il fatto è che Giorgio mette questo ‘in primis’, ed è ‘in secundis’ che aggiunge *Non trascurando qui ovviamente determinismi economici, sociali, classi, ceti, morfologia sociale, forme politiche, cultura ecc.*. E’ l’inverso, invece.
    Hadži Murat, la sua mentalità, è ‘dentro’ un particolare sistema di valori anche se la sua ‘interpretazione’ di essi gli conferisce una particolare forza e fierezza. Che sono aspetti da salvare, indubbiamente.
    Mi è venuto da pensare, mutatis mutandis, al nostro Carlo Pisacane.
    Eroismi che ci gonfiano il cuore di rabbia, tristezza e amarezza ma non ci aiutano, questi sentimenti, nell’analisi della situazione.
    Parafrasando Freud, la letteratura (come funzione di memoria) ci deve servire a riflettere e a elaborare, e non a ripetere.

    R.S.

  13. Il problema di chi siamo e di cosa vogliamo proporre come cultura occidentale, e nello specifico italiana, è il problema fondamentale, gli altri sono tutti corollari. È ciò che tiene assieme politica, vita sociale, economia, vita di tutti i giorni: l’identità stringe assieme la collettività nel suo porsi come soggetto. Persino il premier Matteo Renzi, nel suo discorso a chiusura del semestre europeo a guida italiana, ha accennato a questo tema; certo, le soluzioni che vanno auspicate devono essere ben diverse dall’anonimato pratico di cui il Governo è un esempio perfetto. Non è certo con una politica di totale prostrazione alle logiche economico-militari statunitensi che l’Europa potrà ritrovare la propria identità (posto che ne abbia una). La cultura occidentale è quella tanto difesa da chiunque di fronte ai fatti di Parigi, ma di cosa si tratta, in ultima istanza? Il diritto di fare satira su tutto, come giustamente ha scritto Luciano Fuschini, è sintomo di una civiltà che ha perso la propria identità e che non crede a niente. Questa sfrenata “libertà di” nella quale viviamo è una maschera del vuoto culturale e valoriale più assoluto ed è una condizione prettamente europea, per non dire specificamente italiana.

    Qualcuno sostiene che proprio questo nichilismo e questa incertezza dilaganti siano fonte di successo per il fondamentalismo, che invece offre delle certezze e il perimetro per la costruzione della propria identità. Che sia vero o meno, c’è chi abbandona i nostri costumi per fare il guerrigliero in nome di Allah. Altri si ostinano a difendere il nostro stile di vita (Salvini, Santanché, Gasparri ecc.) anche di fronte ad una triste evidenza: faremo parte dei Paesi sviluppati straripanti di diritti, ma il vero collante sociale sembra il consumismo con i suoi eccessi, più che una cultura di comunità. A chi volesse mettere in secondo piano la domanda sul “chi siamo?” basterebbe chiarire alcuni aspetti: senza la conoscenza della nostra identità non possiamo fare scelte politiche verso una direzione, ma si potrà solo continuare ad inabissarsi nella palude a cui ci siamo abituati nell’ultimo ventennio; questo problema non è un intellettualismo che vuole vedere costruzioni ideali anche dove non ce sono, anzi. Se il mondo occidentale intero non ha una sovrastruttura definita, questo si ripercuote inevitabilmente anche nella vita pratica di tutti i giorni, soprattutto nei piccoli segni che vediamo quotidianamente. Quanto sono diversi i ragazzini straripanti di vita amati da Pasolini da quelli che possiamo vedere nelle nostre città? La retorica del “si stava meglio quando si stava peggio” non c’entra assolutamente. Il degrado si vede soprattutto in chi lo ha ricevuto come educazione, le statistiche sulle patologie d’ansia, la fuga dei cervelli, il bullismo, sono tutti metri per capire come il problema sia di fondo e si manifesti In molti modi.

    Il vuoto politico, culturale e valoriale è un fenomeno unico. La liquidità del problema e la sua tendenza a non ridursi a una formuletta ne rende ancora più difficile la comprensione e la soluzione. Ma se si volesse tentare di restituire un senso e un’identità al nostro mondo, nello specifico nel caso italiano, da dove si potrebbe ripartire? Purtroppo nel deserto culturale in cui ci troviamo ogni pensiero è “debole” e sterilizzato in partenza, quindi la sovversione del presente deve partire dalla prassi e non può avere un principio ideale (che sarebbe pressoché inutile e incapace di collegare tutte le anime in gioco). Va cambiata la vita pratica e politica nel senso di recupero del proprio potere: no alla prostrazione totale ai diktat economici e politici europei, per ridiscutere quella che è un’unione monetaria che privilegia solo alcuni; no all’adesione ai conflitti mondiali statunitensi; no all’importazione di modelli culturali artefatti per promuovere la riproduzione eterna del consumo; no all’eterna procrastinazione del problema ambientale, che viene solo rimandato ai posteri. Questi sono solo alcuni tasselli con cui ricostruire un mosaico identitario ormai polverizzato. Il filosofo Costanzo Preve sosteneva che il compromesso politico era giustificato dalle congiunture più problematiche, mentre quello teorico era sempre inaccettabile: considerata l’impossibilità di un compromesso teorico in questa polifonia-silenzio (qui sta il paradosso) culturale, è quanto mai auspicabile una coesione di tutte le forze in gioco verso questi obiettivi. La posta in gioco è altissima: o vengono prese decisioni, oppure, rimanendo nell’anonimato, ci inabisseremo.
    Dylan Emanuele De Michiel
    19 gennaio 2015
    http://www.lintellettualedissidente.it/italia-2/identita-un-mosaico-da-ricostruire/

    ho segnalato quest’ultimo articolo dell’intellettuale dissidente, poiché contiene l’implicita “necessità” che “gli intellettuali” – quelli veramente dissidenti a questo stato di vuoto e di monopolio culturale usa in ogni e dove- non tanto per fare qualcosa di controalleanze al’elites atlantiste, incomincino a pensare sul da fare. In questa pagina come in tante altre, c’è un gran fermento, grandi teste in movimento, ma anche se Emy si sente di nuovo tirata in ballo, devo ripetermi: non siamo qui per fare quattro chiacchiere al bar, o vincere o perdere o buttarla in battute. Cose che capitano solo laddove non si abbia ancora una visione, pur sfocata, della gravità assoluta in cui siamo.

    Occorre creare un ultimo baluardo di resistenza e, se a partire dalle grandi teste intellettuali non omologate a certi giochi, come anche in questo spazio ve nesono presenti, non c’è questo senso di gravità e di necessità nel creare definitivamente un’orchestra che sappia fare musica d’insieme, senza manie da solisti, possiamo pensare che l’abbia il mitico ” popolo “? Occorre come anche richiamato da Simonitto, un senso di responsabilità che si voglia o meno prendere atto della fantascienza in cui gia viviamo da un pezzo. Poliscritture sarà pure uno spazio multiletterario, multipolitico, multitutto, ma se i partecipanti a questo gruppo, in qualità di redattori o di semplici lettori, non si danno da fare a trovare dei minimalissimi denominatori comuni , è meglio li trovi solo nel settore degli strumenti di critica poetica.Scusate la modalità e la sostanza decisamente assertiva, ma su tante cose si possono e devono avere dubbi, non però sul da farsi quando le fiamme hanno ormai raso al suolo le case.Vogliamo continuare a vivere fra le macerie? questo vogliamo a lasciare ai figli nostri futuri padri?

    1. …quanto sostiene tu, Ro, e il giornalista da te citato sui danni provocati da questo sistema sulle nuove generazioni è assolutamente vero e a volte penso, nei miei più neri presagi, danni irreparabili, nonostante continui testardamente a sperare…A volte penso addirittura che sia in atto un progetto di genocidio dell’infanzia e della giovinezza, quando vedo bambini e ragazzi consumare per ore e tutti i giorni “giochi” e strumenti elettronici, che sarebbero in grado di distruggere anche il cervello di Einstein…Un tempo si diceva : educare il cuore, la mente e la mano…questi “regali di natale” mirano esattamente al contrario, farne dei robot pronti ad eseguire ordini, a consumare il più possibile e a lanciarsi nella guerra, uno dei tanti “affascinanti giochi”…Per questo ed altro credo davvero che sarebbe ora di cambiare qualcosa, concretamente adesso…

      1. ..grazie Annamaria, grazie del canone ricorrente sulla nostra sintonia. Il fatto di non pretendere dall’altro ( in questo caso me, per casi diversi, altri da me) ciò che non può dare, mantenendo ciò che può dare così come è, senza manipolazioni, sofisticazioni , scherzi vari, leggeri e frivoli o pesanti macigni etc etc, è già un passo da minimalissimo denominatore comune, che pare gigantesco rispetto ad altri che non sentono il nostro desiderio—desiderio di cosa? di semplice speranza? di fare tanto per fare? di “guide”che sappiano cambiare vettura, prima che questa , già in caduta “libera”, si sfracelli spiattelandosi al suolo? ..divago un attimo come mio solito, disperdendomi e facendomi del male da sola. C’era una volta il film “l’odio”, attualissimo peraltro non solo per via della mitica “location” di altri scontri. Tale film si concludeva con una frase passata alla Storia: il problema non è la caduta, questa c’è sempre, il problema vero è decidere (su) o dimenticarsi (di) dell’atterraggio. RItornando dunque alla nostra sintonia, fra semplici donne e uomini della strada più che della piazza per gonzi, io e te e forse altri con noi, rispetto ad altri ancora, hanno chiaro il buio pece sia dell’orizzonte da un lato che dall’altro, ciò genera uno spirito combattivo in cui ha importanza antropologica e storica il fatto che siamo perdenti, che non siamo liberi, che non siamo stati liberati, che lo sviluppo( e che caz di sviluppo) è stato tanto concesso quanto ritirato etc etc, ma questa importanza, questa coscienza individuale, più che di mitica classe, di ormai pochi e rari spiriti sopra ogni falsa sinistra, più destra della destra, sanno anche come te e me, che non conta. Noi non vogliamo perdere o vincere, noi abbiamo “fiducia” nelle cose che ci hanno rubato e portandocele via, hanno pure detto che ci facevano un regalo, un grande incredibile regalo di “libertà”. Noi abbiamo fiducia della nostra memoria, non è perduta o vinta , né tantomeno deve vincere. Noi sapevamo chi eravamo, altro che italia unita o, adesso, europa unita. Siamo in due pesci o due gatti? fanc…..! noi siamo guerrieri! altri si aggiungeranno. Non lo capiscono quelle teste di ….di èlite che potrebbero ridarci alla Storia? non si sintonizzano fra loro, per necessaria “paura” di essere infiltrati da qualcuno del mossad o della cia, dei servizi o di altre occulte entità? non si sintonizzano per piu banale narcisismo? …non si sintonizzano perché il problema per loro non è l’atterraggio? …cadranno come noi e diversamente da noi nell’atterraggio.
        ciao 🙂

  14. a ro e a chi mi ha letta

    Non era mia intenzione fare chiacchiere da bar, anche se qualche volta al bar ci vado mi bevo un caffè e mi siedo se trovo un quotidiano da qualche parte. Non sono un’intellettuale e mi sembra d’aver espresso chiaramente le mie idee, non sono state gradite? Ma sono le mie.
    Nella società dell’ignoranza, ai tempi dell’egoismo,generosità , pietà, altruismo sono parole fuori catalogo…. Un abbraccio. Emy

  15. mi spiace devo un’altra cosa…riguarda il ritornello continuo, che forse placa la coscienza di chi vuole sentirsi informato o sensibile a chissa quale “crisi” se impostata sul piano che vado a ripetere, piano o meglio strmento, che interpretato come fine e non come mezzo, non può che far godere in valanghe di miliardi di risate, coloro che detengono gli strumenti (anche finanziari e non solo), ma soprattutto li manovrano per dirigere il pianeta e i suoi pezzi, di volta in volta , creando pseudo sviluppi e pseudo crisi, pseudo default, deficit etc etc. La moneta e la finanza è né più né meno che i media, o la tecnologia etc etc..semplicmente mezzi di POTERE!!!, attraverso i quali rappresento il valore che dico io, io i guardiani dei recinti, delle chiuse, delle dighe, dei boccaporti, fate voi ogni vostra parola che ha il senso di leva per azionare un livello o un altro, un’apertura o una chiusura. Abbiamo spesso ricordato questo aspetto, dico abbiamo perché sicuramente in più d’uno abbiamo cercato di ricordare , sebbene il labirinto sia fitto sia fitto, che i mezzi non possono confondersi con gli obiettivi o detta in altra maniera con i piani industriali di miseria per molti (ex stati, colonie, pseudo terre liberate, sviluppate e affossate )e di accumulo per pochi (impero centrale e suoi migliori fiduciari o subdominanti, e controimpero, magari sotto entrambi uniti in un unico ordine multinazionale super-orwelliano). COme mai dopo anni di crisi, dopo anni di post di Abate, di scrap-book, di interventi di alcuni di noi fino alla noia, siamo ancora a parlare della finanza assassina? perché dobbiamo fare il gioco dei vari Soros, Gene Sharp o Obama o Buffet etc etc e giornalisti e intellettuali venduti , comprati nel loro esercito, che ci hanno rimbambito artatamente facendo credere al mondo che tutto dipende dai killers della finanza? è una bufala come le primavere arabe o i ribelli libici o siriani. Perchè dobbiamo credere a queste bufale? perché dobbiamo farli ridere di noi? almeno i carnefici di una volta ti toglievano di mezzo con stile, perché credere e ripetere certe panzane?

  16. “Il tentativo della fede, nel protestantesimo, di trovare il principio trascendente della verità, senza il quale non c’è fede, come nella preistoria, direttamente nella parola, e di restituire a questa il suo potere simbolico, è stato pagato con l’obbedienza alla lettera, e non certo alla lettera sacra. Restando sempre legata al sapere, in un rapporto ostile o amichevole, la fede perpetua la separazione nella lotta per superarla: il suo fanatismo è il segno della sua falsità, l’ammissione che credere solo significa già non credere più. La cattiva coscienza è la sua seconda natura. Nella segreta coscienza del difetto da cui è fatalmente viziata, della contraddizione che le è immanente, di voler fare un mestiere della conciliazione, è il motivo per cui ogni onestà soggettiva dei credenti è sempre stata irascibile e pericolosa. Gli orrori del ferro e del fuoco, controriforma e riforma, non furono gli eccessi, ma la realizzazione del principio della fede. La fede si mostra continuamente dello stesso stampo della storia universale a cui vorrebbe comandare; diventa anzi, nell’epoca moderna, il suo strumento favorito, la sua astuzia particolare”.
    Horheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1982, pp. 27-28.

  17. Gentile Ezio Partesana, giuro che non voglio essere polemica. Mi sono però convinta che, nel ragionare umano, la giustamente nominata “categoria” di totalità (per prenderne le distanze e screditarla gnoseologicamente e psicologicamente) comunque opera.
    E chi non sa che il fanatismo della fede è il segno della sua falsità?
    Ha mai impedito ai fedeli di credere?
    Ma le categorie unitarie (umanità, bene, giusto) sono rispettate anche dalla logica.
    Come si può fare politica senza tenere conto, oggi (come avvenuto in altri tempi), di questa umana forza?
    Allora, quale guerra alla/alle religioni?

    1. Horkheimer e Adorno mai si sono sognati di affermare che la categoria di totalità non operi nella realtà. Si sono solo permessi di pensare che il fatto che una cosa “operi” non significa automaticamente che sia giusta e buona. Tutto qui.

  18. ripeto: ma le categorie unitarie e totalizzanti sono rispettate (per conoscerle) anche dalla logica!
    vero, bello, non giusto, e bene devono stare insieme, inutile opporle

    1. Le categorie “unitarie e totalizzanti” (sigh…) sono rispettate dalla logica di Aristotele e Frege, semmai. Ma da dove viene l’identificazione di logica e razionalità?
      E quel “devono” che lei mette tra “stare insieme” e “vero, bello e bene”, da dove viene esattamente?

    1. … mument:
      2 stanno insieme perché sono concetti regolativi e non contenuti
      1 logica e razionalità convergono (non coincidono, o si identificano) per ragioni storiche: è il modo di procedere razionalmente della nostra cultura occidentale (e non solo)
      per ciò non credo per niente che stiamo andando fuori tema

      1. Abbia pazienza eh? ma che logica e razionalità “convergano per ragioni storiche” lo dice lei… Hegel o Nietzsche, Ricoeur o Paolo di Tarso non sarebbero per nulla d’accordo.
        E anche i “concetti regolativi”… per una corrente di pensiero esistono eccome, per altri (posso citare Marx per esempio) sono una distorsione.
        Comunque: l’augurio di buon studio non è certo una offesa, anzi! Di questi tempi – come diceva Edoarda Masi – è una ottima cosa.
        Un abbraccio,
        Ezio Partesana

        1. senta, facciamo così, continuiamo la discussione privatamente per non tediare il prossimo, ma che intende lei per logica? e per razionalità? hegel in disaccordo, poi!
          chieda pure a Ennio il mio indirizzo mail, lo autorizzo

          1. Sì, Hegel in disaccordo. Perché? Cosa c’è di strano? Presente la differenza tra Fenomenologia dello Spirito e Scienza della logica?
            La ringrazio per l’invito. Ma purtroppo mi manca il tempo per seguire una discussione di tal fatta, anche privatamente. Un conto è puntualizzare qualche cosa, ben altro discutere seriamente di filosofia.

  19. sì sì, presente, dove differisce il metodo logico-dialettico all’opera nello sviluppo (storico e razionale insieme) tra le due opere?
    è l’ultima “precisazione”, in sostanza davvero si sarebbe dovuto definire prima cosa si intendeva per logica e per razionalità

  20. SAPESSIMO DOVE ANDARE…!

    Rileggendo i numerosi interventi di questo post, a me è venuto in mente il movimento che si crea quando acque provenienti da vari affluenti si mescolano, si respingono, s’ingorgano. E devo dire che i «minimalissimi denominatori comuni» per intendersi – quelli auspicati da ro – ancora non ci sono. Sì, malgrado le case in fiamme, dobbiamo continuare a vivere «fra le macerie». Però anche tra le macerie si può tentare di ragionare. E perciò provo a pronunciarmi su alcuni dei temi trattati:

    1. Religiosità/religione

    Sta bene distinguere tra religiosità e religione. L’ho fatto io pure nel dialoghetto sul rapporto tra poesia e scienza. E Giorgio (Riolo) ha buoni motivi per dire: «non sono io a concedere troppo alla religione. È la realtà a concedere troppo alla religione». O per ricordarci che essa è «insopprimibile perché dimensione antropologica profonda». Eppure io vedo due rischi:
    – quello di “coccolare” una “buona” religiosità (o magari una «religione della vita» pasoliniana/tolstojana) contro la “cattiva” religione strutturatasi in istituzioni (chiese o altro). Qui risento l’eco dissonante di certi scritti di Fortini, polemico sia nei confronti di Pasolini sia contro la sottovalutazione della religione delle Chiese. Ma per ora non li riprendo, perché andrebbero approfonditi e adattati ai problemi d’oggi e non ho tempo per questa rielaborazione.
    Mi limito a dire che, anche se non bastasse più «la critica ottocentesca alle religioni per comprendere la politica oggi» (Fischer), non è giusto rinunciare alla critica della religione o delle religioni. Né farsi ipnotizzare dallo spettacolo (massmediale) delle religioni. Né dalle contraddizioni interne ad esse o tra esse, enfatizzandone più del dovuto gli eventuali effetti di “liberazione”;
    – quello di eludere certi aut aut politici (quelli posti in modo diretto da Ezio Partesana e su cui tornerò più avanti) per rifugiarsi su un piano storico-antropologico-culturale, come mi pare faccia Giorgio citando Rousseau, Voltaire, il terremoto di Lisbona del 1755. Va bene amplificare la mia breve citazione di Marx (che ho evocato proprio perché «più profondo dei suoi semplificatori seguaci»), ma, se «“la critica”, e il movimento reale storico (operaio, socialista, comunista, antisistemico), non hanno adempiuto a quel compito [gettar via le catene e cogliere i fiori]» e «la stragrande maggioranza degli esseri umani sono poco “autonomi”, rimangono animali gregari», che fare?
    Paventare il pericolo che «una esigua minoranza può credersi avvertita, “critica”, non manipolabile» mentre invece non lo è? Oppure darsi una mossa, come dice ro? Una mossa qualsiasi?
    Anche a voler fare «un tentativo di sobria considerazione di cosa realmente muova testa e cuori degli esseri umani» (ancora Riolo) ci troviamo di fronte al paradosso del corteo di Parigi (o delle masse aizzate dai fondamentalisti contro le chiese cristiane per le vignette di Charlie Ebdo “nuova serie”..). Dove il «tertium datur» lucacciano non si vede al momento.
    E allora credo che proprio non dobbiamo separare la *questione religiosa* (o antropologica) dalla *questione politica*. E semmai trovare più energia per decifrare proprio la cosa oggi più oscura: la politica “sporca”, la *politique politicienne*, dei professionisti, dei funzionari, delle eminenze grige. E non cedere alla sirena del “ritorno delle religioni”, attestarsi sul pensiero critico. Ad es. del Leopardi in versione “ginestra” («secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora/ dal risorto pensier segnato innanti/ abbandonasti, e, vòlti addietro i passi,/ del ritornar ti vanti, e procedere il chiami»). E non più sul pensiero di Ernest Bloch. (Per le ragioni che ho già detto replicando a Giorgio: in assenza di movimenti progettanti, come furono quelli socialisti e comunisti, e non semplicemente “antisistemici”, le contraddizioni che pur agitano la religione o le religioni non mi paiono che produrranno di per sé il progetto *politico* – sì politico – di cui c’è bisogno.
    È vero che sul nodo religiosità/religione oggi la politica (quella che vorremmo o vorremmo ricostruire) non è in grado di intervenire in modo più efficace o diverso da quello dei sacerdoti e dei manager. Ma condivido le istanze di Rita (Simonitto): non «possiamo prendere quel punto di vista (quello delle vittime», che la religione dei sacerdoti e quella dei manager sanno ben sfruttare. Dobbiamo invece «istituire una teoria che ci permetta di capire come sta andando avanti questo mondo che sembra piombato nel caos più totale».

    2. Politique politicienne o politica delle donne o delle religioni?

    Ezio, prima di avvitarsi nel duello-duetto filosofico con Cristiana (Fischer) su logica e razionalità – inviterei entrambi a riproporre la questione in altra occasione e in modi più accessibili ai non-filosofi – aveva, secondo me, riproposto correttamente la *questione politica*. E non condivido la reazione indignata di Cristiana («Quindi le mobilitazioni religiose, nel mondo, e il coinvolgimento delle donne sulla scena pubblica, in tutto il mondo, degli ultimi decenni non sono politica?»). Che mi pare si collochi su un piano “post-politico”. Cristiana sembra credere che davvero «le mobilitazioni religiose» o « il coinvolgimento delle donne sulla scena pubblica» abbiano segnato una trasformazione sostanziale della politica o magari una sostituzione della sua forma più odiosa (la politique politicienne). A me, invece, le “nuove forme della politica” paiono ampiamente subordinate a quella. Che continua a dominare alla grande e incontastata. Anzi si è ridotta a scontro tra élite iperselezionate e sempre più oligarchiche.
    L’obiezione,che farei a Ezio è un’altra: invece di porre in modo neutro e impersonale (che pur va bene per introdurre la discussione) le sue precise domande (*), perché non cominciare a dire lui come ad esse risponderebbe?
    Un po’ a queste domande risponde Rita. Ma c’è da chiedersi: quanti condividono la sua affermazione: Marx non intendeva affatto lo sfruttamento «in termini morali ma economici»? E la scarsa attenzione ricevuta dal post di Spadoni sul libro in uscita di La Grassa («Navigazione a vista») deriva davvero dalla «natura principalmente letteraria del sito» Poliscritture? Oppure il silenzio maschera un rifiuto delle tesi esposte? O la convinzione che « temi come * il potere finanziario, la contraddizione capitale-lavoro, lo sfruttamento delle risorse*» per molti commentatori non siano affatto «obsoleti» ( o addirittura neppure ancora messi a fuoco)?
    Per essere chiaro e incoraggiare una discussione più chiara: a me pare che già nei commenti di Cristiana (Fischer) emergano dubbi o posizioni diverse, che so ben diffusi.
    Alla domanda: «gli Usa sono il nemico principale?» Cristiana risponde con un disarmante: «L’opzione è già stata risolta dalla fine della guerra sempre in senso favorevole agli Stati Uniti, e oggi chi la cambia?». Detto in altre parole: chi crede più che ci si possa opporre alla politica statunitense?
    In un’altra osservazione Cristiana mostra tutta la sua diffidenza a tornare a muoversi su un piano strettamente politico, che giudica monopolio ormai assoluto degli stati o di oligarchie che sembrano ( o sono?) quasi inattaccabili: «Gli altri tre temi: il potere finanziario, la contraddizione capitale-lavoro, lo sfruttamento delle risorse sono a ben vedere un unico tema. Ma chi opera sulle contraddizioni in questo intreccio di potere se non gli stati, che sono però insieme alleati e rivali, vedi la guerra in Libia di qualche anno fa».
    E sembra attestarsi su una posizione di contestazione dall’interno del sistema: «Esiste invece un Soggetto anticapitalista unitario? Non solo “in sé”, che ce n’è tanti, ma anche “per sé” […]. Esiste almeno un’ipotesi attendibile per costruire questo soggetto? Altrimenti a me resta solo da combattere all’interno dello stato e dell’Europa su quei temi-quisquilia, come i sessi e la religione (e la lingua, la comunicazione e l’istruzione) che orientano e premono sugli stati stessi per condizionarli il più possibile su democrazia e razionalità».
    Aggiungerei che anche ro risponde: sì, il nemico principale sono gli Stati Uniti , ma a me pare che la sua combattività scivoli poi da un piano politico ad una denuncia mitica e apocalittica, che non riesco a condividere.

    3. Comunità/individuo

    In questa discussione vedo un’oscillazione tra esigenza “comunitaria” ed esigenza “individuale” (non individualistica o egoistica).
    È vero che «la gente ha bisogno di credere nel futuro»(Banfi)? Sì, ma questo futuro con quale *noi* e quale *io* andrà costruito?
    Rita (Simonitto) fa bene a distinguere tra un legame comunitario abbastanza gregario, che per me è quello costruito dalle religioni e dalle comunicazioni di massa, e un legame che mira a una «dimensione comunitaria, più evoluta di quella gregaria» ( per ora del tutto vaga). E sarebbe anche bene distinguere ancora tra un *io* individualista-egoista-sopraffattore e un *io* individuale-cooperativo-dialogante-affermante. Ma se non è più possibile il comunismo in senso marxiano, quello di un individuo libero e ricomposto (Ezio e Giorgio Riolo sono d’accordo?), e riteniamo tutti inaccettabile un comunismo “da caserma” (di tipo sovietico), perché dovremmo rassegnarci ad un comunitarismo “da sagrestia” (o, eliminando l’ironia, comunque interno ad una dimensione religiosa o tecnologico-virtuale)?
    E ancora: per tornare a riproporre un progetto in una «dimensione comunitaria più evoluta» (Simonitto), è la stessa Rita a ricordarlo, «bisogna introdurre l’individuo e il conflitto». E allora non si scappa: c’è conflitto tra la religione, che costruisce una comunità gregaria, e la politica, che dovrebbe creare o ha tentato di costruire una comunità più evoluta ma ha fallito. La scelta da pensare è però tra questi due tipi di comunità. Si può tornare a delegare a una élite “arcaica” di sacerdoti, pur capaci di placare le paure dei fedeli facendone però una comunità gregaria? O si può delegare all’élite moderna dei manager o dei «funzionari del capitale» (La Grassa), pur capaci anch’essi di placare e guidare le paure e le ansie dei milioni di nuovi “fedeli” d’oggi (i lavoratori, i consumatori, gli spettatori)?
    Ritorna irrisolto il rompicapo del “che fare” oggi, in mezzo alle “macerie” e del “noi”( o “io-noi”?) che dovrebbe sfuggire – credo – all’ipotesi consolante di una comunità gregaria, sia essa arcaico-religiosa che economico-politica (moderna o postmoderna). E tornano secondo me i rischi duplici: di un avanguardismo (nichilista) o di un conservatorismo (identitario).

    4. Satira

    Questi rischi li vedo, ad esempio, negli attuali, intensi dibattiti sul ruolo della satira. Che leggerei proprio alla luce del dilemma paralizzante: imporre come rimedio o il ritorno alla religione o il laicismo massificato e nichilista? Come si fa a scegliere tra questi due poli oggi ciecamente contrapposti? Tra la satira alla Charlie Ebdo (occidentalista e nichilista) o la furia iconoclasta dei fondamentalisti ( e non solo islamici) offesi?
    Per me o rinasce una “buona satira”, legata ad un progetto emancipativo (e non nichilista); e perciò persino pedagogica, capace di sottrarci e sottrarre la gente agli idoli (un esempio? la satira antiborghese quando si voleva costruire il comunismo: Brecht, Grosz, ecc) e allora se ne difende anche la funzione dissacratoria. Oppure rimaniamo nella palude dell’irrisione soltanto crudele che «si accanisce contro chi non ne può nulla, contro chi è inerme di fronte alle sue angosce» (Simonitto).
    Questa satira è azionata dal sadismo gratuito o perverso delle classi dominanti contro quelle dominate (mi viene in mente «Salò» di Pasolini). Quindi concordo con Rita : «La satira, ancor più dell’ironia, è uno strumento sopraffino e quindi va saputa utilizzare. Non si usa il laser a sproposito con il rischio di danneggiare anche ciò che c’è di sano». E questo atteggiamento “responsabile”, dovuto a comprensione della complessità del reale e non a autocensura per paura o coazione, mi pare possa trovare ancora un qualche fondamento nella visione marxiana della religione, molto più duttile del laicismo nichilista.

    * Nota

    «Crediamo che il nemico principale oggi siano gli Stati Uniti e dunque appoggiamo chiunque faccia loro guerra? Oppure siamo convinti che le libertà individuali siano il primo punto irrinunciabile e quindi auspichiamo lo sviluppo di una borghesia solida e tenace anche fuori dalle mura dell’Occidente? Qual è per noi la questione principale: quella di genere? O il nodo di tutto sta nel potere finanziario e allora è verso quello che bisogna rivolgersi? Siamo convinti che la contraddizione principale sia quella capitale-lavoro e allora cerchiamo informazioni e rapporti con organizzazioni sindacali nel mondo islamico, per sapere e aiutare? O ancora come diceva Giorgio, il tema è quello delle risorse e del loro sfruttamento?» (Partesana).

  21. Pubblico, con l’autorizzazione del suo autore, Gianfranco La Grassa, questo sintetico rendiconto/testimonianza della sua esperienza di militante e studioso di Marx. Mi pare che ben s’inserisca nella discussione di questo post e potrebbe stimolare il confronto con altre esperienze, concordanti o dissonanti dalla sua.[E.A.]

    LE CONFESSIONI DI UN…… GLG, 19 gennaio ‘15

    Io sono stato comunista e marxista e non me ne vergogno minimamente, pur se ora non posso più considerarmi tale. Sul comunismo mi sono espresso più volte e lo farò ancora. Per il momento dico solo che il comunismo, cui avevo aderito, nulla aveva a che vedere né con la “voglia di prendere il posto dei padroni” (quanti erano così, soprattutto nei ceti più popolari) né contro quel misto di populismo, spirito caritatevole (spesso ipocrita a più non posso), di fratellanza e pena per i diseredati, gli oppressi (magari solo presunti da menti limitate e ottuse), che caratterizza i comunisti – quasi tutti di ceto medio e benestante o quasi – dell’odierna misera e lacrimevole pattuglia, ormai molto scarsa per fortuna, ancora esistente nella nostra società “occidentale”. Per inciso, dico che sono sempre stato non credente, ma mai ateo (un’altra credenza da me sempre ritenuta assai limitata e povera di contenuto). L’ateismo “militante” mi sembra un po’ ridicolo; che la scienza avrebbe cacciato le “tenebre” religiose mi è sempre apparsa una specie di utopia (spesso contraddetta alla fine della propria vita, quando si fa alta la “strizza”).
    Non ho mai avuto simpatie sessantottarde, anche se appartengo ad una generazione che ha dovuto vivere la totale involuzione del Pci. L’ho compresa non subito e per intero; abbastanza presto, però, mi sono accorto della sua involuzione atlantica e di chi fosse Berlinguer (ho provato la giusta pietà quando fu colpito da ictus, ma non l’ho mai apprezzato in quanto mi è sembrato un sostanziale voltagabbana, pur se di una certa intelligenza). E’ quindi logico che fossi costretto a parlare solo a mezza bocca contro i sessantottini. Ero d’accordo con Pasolini nel considerarli dei semplici ambiziosi che volevano “ammazzare” e sostituire i “padri” (e ne sono divenuti la copia largamente peggiorata e priva di vera cultura! Appunto: dei semicolti!!); ma ero del tutto critico del pur notevole intellettuale per la sua mania di incensare i poliziotti in quanto figli di braccianti del sud, ecc. Anche i vandeani o le armate bianche nella Russia del ’17 erano contadini; e non è che, poveretti, non potessero avere qualche ragione per scegliere come scelsero. Il problema è tutto diverso, ma adesso non dirotto il mio discorso in altra direzione.
    Ho visto non immediatamente (negli anni ’70), ma comunque poco dopo, come si era trasformato il cosiddetto antifascismo, divenuto quello della semplice “Liberazione”: dagli americani (pensa che bella liberazione!); e svendendo il paese a man bassa, mostrando solo il laido volto di opportunisti e veri traditori. Ho capito – anche se non l’ho combattuto adeguatamente sempre per la presenza del Pci e l’illusione di poter far ruotare la storia all’indietro – che tale antifascismo era la cloaca da cui sarebbe uscito il peggio del peggio. Dopo pochi anni di qualche “ascolto” – soprattutto per la frequentazione di alcuni ambienti piciisti, dotati di un minimo di elasticità e legame con il passato, e di qualche ambiente “gruppistico”, non sempre fra i meno peggiori – sono stato ampiamente silenziato da quelli de “Il Manifesto”. Ho avuto amicizie, e anche importanti, in quell’ambiente, ma nel complesso comandavano i peggiori, gli opportunisti, i seguaci di Mao e di Dubcek (come a dire “il diavolo e l’acqua santa”), quelli che consideravano la “rivolta polacca” come il nuovo ’17 e Walesa il nuovo Lenin, quelli che hanno applaudito Gorbaciov quale rifondatore del socialismo sovietico. Non ne hanno indovinato una, ma dico almeno una soltanto! E ancora pontificano, hanno visto di buon occhio perfino la “primavera araba”.
    Ho sputato subito addosso a questi coglioni, presuntuosi, arroganti, pronti ad ogni giravolta. Assieme agli operaisti, quelli dei “Grundrisse” (anzi del “frammento sulle macchine”; non sapevano un cazzo di Marx e parlavano, parlavano, sproloquiavano, ascoltati da una massa ormai abbrutita di giovinastri senza la benché minima particella di materia cerebrale); quelli della “qualità totale” e del Giappone “toyotista” che avrebbe soppiantato gli Usa subito, fin dall’inizio del XXI secolo; quelli delle masse, delle moltitudini e tutte le invenzioni di gente malata di protagonismo, alimentata da classi dominanti serve degli Usa, ma sufficientemente accorte da sapere chi serviva loro.
    Detto tutto questo, ritengo Marx tutto sommato superiore a certo pensiero liberale (o, forse meglio, liberista) e a quello sociale di origine cattolica e cristiana in genere, ecc. Naturalmente, questa mia concezione non può non risentire del fatto che mi sono orientato, per scelta, verso quel pensiero e quindi mi sono formato in un certo modo. In ogni caso, mi sembra che da Marx si possa uscire con una qualche utilità; perché io penso che egli sia stato uno scienziato e concepisco la scienza come qualcosa di utile, non le attribuisco poteri a mio avviso sovrumani come hanno fatto fior di marxisti “deviati”. Ho proposto, ormai da quasi due decenni, alcune vie di uscita da Marx che si vanno faticosamente precisando un po’ alla volta. Ormai credo di aver indicato più volte per sommi capi tali vie di uscita; comunque le sintetizzo. Intanto, ho preso atto che la classe operaia non era per Marx quella poi considerata dal marxismo successivo: i salariati in fabbrica addetti alle mansioni più vicine al lavoro manuale. Egli dice: “dall’ingegnere all’ultimo manovale (o giornaliero, ecc.)”. Si tratta dell’“operaio combinato” o (come l’ho chiamato) “lavoratore collettivo cooperativo”, che doveva essere il vero “soggetto rivoluzionario” destinato – per processi intrinseci alla dinamica capitalistica e non certo per semplici scelte e decisioni di chicchessia – a sostituire la borghesia nel potere di disporre dei mezzi di produzione.
    In questa concezione, piuttosto diversa comunque da quella poi affermatasi come marxista, resta in ogni caso decisiva la sfera (“base”) economica, anzi quella produttiva in senso stretto, cioè trasformativa di materie prime in prodotti finiti (non necessariamente materiali nel senso stretto del termine). Cruciale diventa il potere di disporre e controllare i mezzi di produzione. In Marx invero si parla proprio di proprietà, e per di più privata. Si può però allargare il concetto. In ogni caso, chi controlla e dispone dei mezzi produttivi (macchine, strumentazione varia, ecc.)? Una classe separata e posta al vertice della società tutta (quella denominata borghesia)? Oppure l’insieme dei produttori (“ingegnere e manovale”) cooperanti a fini collettivi condivisi dal complesso della società? Cioè quei produttori che nella struttura dei rapporti capitalistici restano lavoratori salariati? Tutto questo non si è posto storicamente per il semplice fatto che è “abortito” (anzi non è mai partito, nessuno “spermatozoo” ha fecondato alcun “ovulo”; per assenza di entrambi!) ogni processo di formazione del lavoratore collettivo cooperativo.
    Ho quindi proposto il passaggio dalla centralità della proprietà dei mezzi produttivi – perché questo è l’asse portante della teoria sociale marxiana e non riguarda affatto la sola formazione sociale capitalistica, ma tutte le altre succedutesi nella storia secondo la sua particolare interpretazione – a quella del conflitto di strategie attuate da vari gruppi di potere (con seguito sociale) per conquistare la supremazia. Con un’attenzione non soltanto ai fenomeni considerati tipici di una data epoca storica della società, ma anche al rapporto esistente tra varie formazioni particolari in una data fase di quella trattata in generale come pertinente all’epoca storica in questione. Non è affatto una teoria ben costruita, lo so; ha ancora molte pecche. La prima delle quali è il rischio di fare del decorso storico il semplice portato dello scontro tra più “soggetti”, che sono appunto questi gruppi di potere e le varie formazioni particolari. D’altra parte, il marxismo (anche quello marxiano) non tiene più una volta rivelatosi illusorio (non utopico, per favore, comunque non verificatosi) il formarsi di quel lavoratore collettivo di cui detto.
    Altro è stato il decorso storico effettivo, e da qui bisogna partire. Ma sto già cadendo in un’altra semplificazione che produce nuove distorsioni della visione storica. Sono convinto che quella modalità di nascita (del presunto “soggetto rivoluzionario” in quanto classe operaia, ma nell’accezione marxiana) si sia dimostrata illusoria in generale, ma è indubbio che tale impossibilità si è manifestata pure perché il capitalismo studiato da Marx (con riferimento al “modello” inglese) non è quello poi affermatosi più stabilmente mediante la nascita di una diversa formazione sociale, venuta in essere negli Stati Uniti. La diciamo ancora capitalistica, ma l’uso dello stesso termine cela la differenza. Questo problema cruciale lo rinvio però ad un prossimo, più complesso, saggio.

    1. …mi ha colpito l’affermazione di G. La Grassa “…sono sempre stato non credente, ma mai ateo” perché mi sembra che non sottovaluti l’ importanza della religione, nelle sue componenti antropologiche, etiche, politiche, nella società, tuttavia…
      A tale proposito, secondo me, sarebbe interessante conoscere una tipologia variegata dell’uomo-donna religioso-a (e che comprendesse anche il non credente religioso-a) trasversale a tutte le religioni. Potrebbe forse aiutarci ad arrivare ad un denominatore comune, valido per una nuova società laico-religiosa…Anche l’evoluzione del pensiero marxista di G. La Grassa mi è parsa interessante. La domanda che si pone mi sembra questa: chi dovrebbe (La classe operaia, il lavoratore collettivo, strategie di gruppi per il sociale…) detenere il potere sui mezzi produttivi, al fine di una distribuzione più equa delle ricchezze? E mi pare molto giusta, tuttavia mi sembra scordare un problema (che forse neanche Marx poteva prevedere), cioè l’impatto distruttivo di questi mezzi sull’ambiente. Oltre al “chi” dovremmo pensare al “come” e al “se”…

    2. Trovo spiacevole il tono della prima apologetica e assai semplificata parte; non me ne voglia Gianfranco La Grassa ma questo è una pecca che ritrovo spesso nei suoi interventi, brevi e non brevi.
      Per quanto è del lavoro teorico, non posso certo esprimermi qui su di un corto riassunto per punti.

      E.P.

  22. Vorrei precisare alcuni punti in riferimento allo scritto di Ennio
    * macerie: escludendo che per macerie si intendano quelle dei partiti anticapitalisti di massa, perché non risorgeranno più, si intende per macerie la rovina della classe media (cui apparteniamo) nel mondo occidentale? oppure quella dell’unità culturale che l’occidente ha allargato al mondo, tecnico-scientifica e dei diritti? o macerie sono la attuale condizione del mondo, con guerre generalizzate, distruzioni di surplus, massa finanziaria sfuggente ai controlli politici nella ricerca di investimenti redditizi? in quest’ultimo caso non la definirei macerie, ma pervasiva e perversa conduzione con ogni mezzo dei propri interessi da parte di una élite, produttiva sì di macerie presenti e future, se è vero che la guerra è il modo più radicale per distruggere ricchezza superflua e riconcentrarla in poche mani sicure;
    * analizzare la politica oscura, la politica politicante: perfetto, è quello che bisogna fare, sono i funzionari, i politici eminenti, che rispondono e gestiscono gli interessi radicali del capitalismo e della finanza. Bisogna però considerare che questi signori (e alcune signore) agiscono all’interno degli stati “democratici” e di organizzazioni internazionali, che di democratico hanno però solo qualche rimando indiretto, come elezioni di secondo grado, o meglio nomine da parte degli stati.
    A questo punto collegherei la forza delle motivazioni religiose e/o femministe che si sono affermate negli ultimi decenni: non penso che “abbiano segnato una trasformazione sostanziale della politica”, e che quindi siamo oggi su un piano “post-politico”, ma penso invece che femm. e rel. hanno identificato altri soggetti della lotta politica, che ridislocano tutto il quadro dell’anticapitalismo. I vecchi partiti leninisti o socialdemocratici, di fronte all’emergere del femminismo e dei moti religiosi non hanno proprio più nessuna possibilità di essere soggetti efficaci.
    * sullo stato (e sugli usa). La politica politicante, negli stati nazionali e nella ue, è il luogo in cui si agiscono le contraddizioni, quindi perché dovrei rinunciare ad agire in quell’ambito? perchè sarebbe una “‘contestazione’ all’interno del sistema”? invece è contraddizione che arriva più lontano, e per questo credo anche che l’opzione di alleanza da sempre con gli usa non sia discutibile: e dove si fa leva sulle contraddizioni se non all’interno del sistema in cui siamo?
    * l’ultima questione che Ennio nomina però in modo generico è quella del Soggetto. Le contraddizioni storiche sono di due tipi: o le consideriamo interne al processo stesso, e qui possiamo interpretarle politicamente o attendere che si manifestino per loro stesse; o sono contraddizioni in relazione al soggetto che le identifica. Mi sembra che la presentazione di Spadoni del libro di La Grassa arrivasse a questo punto: contraddizioni reali, e identificate, mancando però il soggetto capace di agirle. Credo che sia proprio così, le contraddizioni sono in parte reali, in parte nominate da chi le sa identificare, come la moneta a due facce. Ma manca una teoria del soggetto che agisce.
    Il mio insistere sul femminismo e le motivazioni religiose vuole sottolineare che questo Soggetto non sarà più il partito-avanguardia.

  23. Gentilmente sollecitato dall’amico Ennio, provo a scrivere in estrema sintesi alcuni punti del mio pensiero, di dubbio interesse in questo dibattito temo…

    1) Sono tutt’ora persuaso che la contraddizione fondamentale sia quella tra capitale e lavoro, e lo sono perché da essa deriva oggi e principalmente la miseria materiale e spirituale degli esseri umani.
    2) La forma nella quale una cosa si manifesta dipende dalla storia e dalla struttura sociale del luogo dove si mostra, o nasconde.
    Per quanto è dei paesi arabi e mussulmani ritengo sia fuori discussione l’esito catastrofico dell’uscita dal colonialismo prima e dall’imperialismo (in un certo senso sorprendentemente breve) poi. Nella quasi totalità dei casi vediamo dittature o regimi con una divisione delle ricchezze assurdamente iniqua, libertà individuali azzerate e diritti sociali inesistenti. Per cui sì, ritengo che sarebbe auspicabile lo sviluppo di una matura borghesia locale e che al momento vadano appoggiate e sostenute in primo luogo le battaglie “democratiche” e per la libertà individuale. Fossi un cittadino di quei paesi aggiungerei che nel frattempo cercherei di organizzare una rete sindacal-politica il più possibile alla luce del sole e riformista nei suoi progetti.
    3) In occidente la contraddizione capitale-lavoro mi appare nascosta sotto montagne di opinioni e falsità. Giudico quindi che il lavoro degli intellettuali debba rivolgersi sopra tutto a criticare l’ideologia e combattere la propaganda da un lato, e dall’altro a studiare i meccanismi di produzione del valore e delle merci. Perché nonostante il gran parlare di finanza e globalizzazione, mi sembra che non si abbiano affatto le idee chiare in merito.
    4) Sono altresì convinto che alcuni valori proclamati dall’Illuminismo siano universali, e ogni sforzo vada fatto per difenderli, e tra questi sforzi non l’ultimo certo sarà criticare la distanza tra realtà e proclami. Ogni giustificazione dell’imbarbarimento in nome della “diversità culturale” mi appare come una fuga dalla responsabilità presente.

    Due appendici.
    a) È del tutto inutile divagare sulla religione senza chiarire a che cosa ci si stia riferendo. Se consideriamo le pratiche religiose concrete in atto nei paesi arabi dell’Islam (visto che questo è il contesto della discussione) dico che si tratta del più classico caso di impiego della religione al fine di controllare e manipolare i popoli. Tra lo schiavo importato dal Pakistan e l’Emiro saudita non c’è nulla in comune, se non la religione che il secondo adopera per far scordare il più possibile al primo la sua condizione.
    b) Per quanto siano sacrosante le critiche e le rivendicazione del femminismo, non vedo, allo stato attuale delle cose, che abbiano prodotto una politica, una pratica sociale o una cultura nuove e alternative. Può essere benissimo che io sia miope però, in questo caso, e ben volentieri accetterei indicazioni e consigli.

    Un saluto a tutti,
    Ezio Partesana

  24. ..purtroppo non ho tempo in questi giorni. Solo una precisazione. Ringrazio Ennio per il suo riepilogo, sempre importante leggersi e rileggersi, però purtroppo il mio invito a fare minimalissimi denominatori comuni, era con molte specifiche perché non fosse un “qualsiasi ” fare, o un fare tanto per far qualcosa. Anche da interventi precedenti, su una certa ansia, comprensibile e molto giustificata, della solita Emy 🙂 [preciso che le sto strizzando simpaticamentel’occhiolino), ho più volte fatto soffermare Emy, che bisogna stare lontani da chi muove le masse, illudendole su una base del fare; infatti ,spesso e volentieri, i soliti noti manovrano per il fai che tutto cambi perché nulla cambi. Per queste e precedenti considerazioni, tutto ciò che penso su un selezionatissimo “fare”, l’ho già detto troppe volte e ora devo rinunciare ad ammorbarvi. Questo spazio non può promuovere un senso minimalista d’insieme, che sia motivato nel desiderare il piacere di accordare certi strumenti, che possano sperimentare come saper fare pungolo, provocazione, attivazione di determinate elites ( culturali, politiche, editoriali etc e, come esempi, chi piu ne ha ne metta ), al fine di un semplicissimo , iniziale, punto di partenza per il loro fare…il nostro è assolutamente impensabile, se non limitato alle azioni individuali di nemmeno un centesimo di goccia in balia degli oceani.

    1. Cara Ro e tutti,

      sì sì, l’ansia sembra solo mia, l’ho lasciata trapelare. Trovare il bandolo di questa matassa è davvero difficile ma non impossibile. Come ho già detto l’occidente indebolito da scandali in ambito politico, economico e morale è ormai nell’occhio del mirino. La nostra supremazia tanto sbandierata sta per ammutolirsi davanti alla scusa della religione. Scriviamo ora fiumi di parole e intanto qualche occidentale cristiano si arricchisce vergognosamente vendendo armi al terrorismo.Mi chiedo che differenza c’è tra un terrorista che vuole armi per difendere la sua idea e un pazzo criminale che gliele vende? Facciamo finta che queste domande siano troppo semplici e continuiamo a pensare che dobbiamo difenderci in qualche modo , ma da chi?
      Ciao

      1. …e quando dico “da chi?” vorrei dei nomi che sono così tanti che anche il mio pensiero diventerà una piccola parte, una goccia come si suol dire in un oceano di parole?

  25. @ Ennio
    sono d’accordo che il senso di colpa è una categoria che in politica non ha senso, come probabilmente anche quella di bene e male e buoni e cattivi. Su queste definizioni prevalgono i fatti, la realtà “fattuale”, che non fa molti sconti ai sentimenti. Il mio intervento non voleva proporle ma rifiutarne il loro uso, anche implicito, che rilevavo nell’enfatizzazione delle nostre responsabilità (nostre in quanto occidentali) sottintese nell’intervento di Riolo [non Driolo!] e altri a suo commento, ma anche altri a commento di Partesana sul declino dell’Islam. La ulteriore precisazione di Riolo che ricorda anche le contraddizioni delle politiche arabe dagli anni 50 ad oggi la ritengo molto utile a superare quel tipo di analisi “colpevolizzante” a senso unico.
    Sulla questione dissociazione/gregarismo non sono così ingenuo da ritenere che sia sufficiente uno slogan per risolvere il problema ma credo che non lo risolviamo neanche con le analisi approfondite e sottili. La compromissione con chi ci governa è nei fatti e solo fatti politici potrebbero perlomeno metterla in discussione. E proprio perchè sono d’accordo con quello che dici al punto 5 sulla religione come elemento di regressione della vita sociale che dire je suis charlie (affermazione superficiale secondo la Fischer? ho capito male? perchè mai poi…) per me vuole semplicemente dire che in democrazia non c’è vignetta, sarcasmo, satira, deriva laicista in qualsiasi forma e su qualsiasi argomento che possa giustificare prendersi una pallottola in testa. Forse l’attacco attraverso la satira, come qualcuno scrive, è così “davvero inopportuno” che questi “eredi della degenerazione laicista/individualista dell’illuminismo” la pallottola se la meritano…

    @ Locatelli
    ho fatto una ricerca testuale sul mio intervento e la parola separazione o separare non l’ho mai utilizzata per cui non capisco come hai colto questa intenzione nel mio ragionamento. Comunque sia io voglio solo dire che le culture possono dialogare tra loro solo se comprendono le proprie differenze/diversità reciproche. Non vedo questa grande differenza fra i due termini ma sarà senz’altro un limite mio.

    @ Riolo
    Non ho mai pensato che nel contesto di quell’articolo la mancata “condanna” della strage equivalesse a una sua giustificazione. Dico solo che non sarebbe guastato esplicitarla proprio per dare maggiore forza alle tesi che comunque, nel loro complesso, condivido. Per il resto apprezzo come ho scritto nella risposta ad Ennio, gli argomenti del punto due mentre sul terzo la sua tesi, in questo contesto, continua a non convincermi ma non credo sia molto importante…

    1. non ho scritto che dire je suis Charlie era superficiale, solo meno “pesante” (compromettente, discutibile, accusabile) che affermare je ne suis pas charlie

  26. APPUNTI

    @ Locatelli 22 gennaio 2015 alle 14:16

    «Anche l’evoluzione del pensiero marxista di G. La Grassa mi è parsa interessante».

    Vedi però che la riflessione di La Grassa su Marx prevede una fuoriuscita dal pensiero marxista. In una sua formula: «uscire da Marx dalla porta di Marx».
    Che significherebbe:
    1. dobbiamo abbandonare il “portolano” che Marx ci ha fornito (coin la messa in discussione della centralità del conflitto capitale/lavoro, su cui molti – ad es. Ezio (Partesana) – non sono d’accordo);
    2. e per fare cosa? «navigare a vista»: il che lascia chi vorrebbeuna proposta più precisa o che risponda a desideri più o meno “religiosi” di cambiamento in meglio della vita sociale e politica ( tu stessa, ad es. , pensi ad « una distribuzione più equa delle ricchezze») perplessi o insoddisfatti. Ma La Grassa a queste aspirazioni non vuole (più) cedere. E lo dice con chiarezza in questo commento pubblicato su «Conflitti e strategie»:
    « io cerco prevalentemente di produrre analisi della “realtà” (con una più attenta attenzione a che cosa intendiamo dire con questa parola) e, nel contempo, cerco di fare notare la vecchiezza delle teorie fin qui utilizzate per “leggere” tale “realtà”. Indubbiamente prendo (scelgo) poi una posizione che possibilmente faccia avanzare il multipolarismo o comunque arretrare la netta predominanza di una parte sul tutto. Non ritengo per nulla affatto questa scelta minimamente sufficiente a organizzare una forza politica con un programma ed un progetto dotati di qualche efficacia per trasformare il mondo (di m….) attuale. Solo non vedo altro al presente. Mettiamo che in questo momento io senta un insopprimibile bisogno di mangiare determinati dolci. Posso desiderarlo, ma finché non passa questa notte e non riaprono domani i negozi, i bar, le pasticcerie, ecc. non posso soddisfare un bel nulla. Mi tengo il desiderio di dolci fino a domattina.» (http://www.conflittiestrategie.it/le-confessioni-di-un-glg-19-gennaio-15-di-glg#comment-21693)

    @ Fischer 22 gennaio 2015 alle 11:20

    Lasciamo perdere la metafora delle ‘macerie’. Il problema politico è renderci conto della concentrazione dei poteri (economici, finanziari, politici, militari, ideologici, culturali) nelle mani di poche e sfuggenti oligarchie che, ben agguerrite, si stanno scontrando tra loro e sono avvantaggiate dal non trovare più opposizioni (“popolari” o “di movimento”) in grado di impensierirle o contrastarle efficacemente.
    Per ricorrere ad (approssimative) analogie storiche: cosa potevano gli schiavi nel mondo antico rispetto alle lotte tra aristocrazie contrapposte? Cosa poteva la plebe rispetto agli scontri fra Papato e Impero o tra feudatari nel Medio Evo?
    Qualcosa di simile avviene nelle nostre “democrazie”. Ed io non penso (qui in accordo con Ezio) che per contrastare queste élite o oligarchie possa bastare «la forza delle motivazioni religiose e/o femministe che si sono affermate negli ultimi decenni», sulle quali tu scommetti.
    Non penso che esse producano « altri soggetti della lotta politica» o ridislochino « tutto il quadro dell’anticapitalismo». Sono (e lo dico senza astio) dei “soggettini”. I vecchi partiti leninisti o socialdemocratici non sono più «soggetti efficaci»? Ma non per « l’emergere del femminismo e dei moti religiosi». Piuttosto per le trasformazioni (tuttora indecifrabili nella loro portata storica) interne al capitalismo. E qui la tenacia di La Grassa nel cercare di capire il ruolo decisivo dei «funzionari del capitale» o la “novità” degli sviluppi capitalistici negli USA rispetto al capitalismo studiato da Marx andrebbe, se non lodata, considerata con grande attenzione.
    Il problema se si debba “contestare all’interno del sistema” o meno mi pare vecchio e mal posto. Abbiamo ancora da capire di quale “sistema” parliamo e che potere di contestarlo abbia quel “noi” imprecisato che usiamo nei nostri discorso. (E che nel tuo caso sembri identificare con le istanze delle donne e delle religioni). Quello che manca è proprio il «Soggetto» che tu scrivi con la maiuscola. «Non sarà più il partito-avanguardia»? Concesso. Ma l’incertezza resta.

    @ Partesana 22 gennaio 2015 alle 14:26

    So che sei «persuaso che la contraddizione fondamentale sia quella tra capitale e lavoro» e che «in occidente la contraddizione capitale-lavoro mi appare nascosta sotto montagne di opinioni e falsità». Affinché il confronto con il lavoro teorico La Grassa, che giustamente non può essere improvvisato in un commento, abbia un senso, bisognerebbe però prendere in esame e contestare i capisaldi dei suoi ragionamenti (accennati anche in queste «confessioni»: ad es. «la classe operaia non era per Marx quella poi considerata dal marxismo successivo: i salariati in fabbrica addetti alle mansioni più vicine al lavoro manuale») che l’hanno indotto a proporre il «passaggio dalla centralità della proprietà dei mezzi produttivi […] a quella del conflitto di strategie attuate da vari gruppi di potere (con seguito sociale) per conquistare la supremazia». Personalmente io obietterei sul fatto che questa lotta per la «supremazia» abbia connotati che sembrano rinverdire certe brutte memorie del darwinismo sociale ottocentesco o che le ipotesi “sovraniste”, a cui accennano molti commentatori di Conflitti e strategie, possano rinfocolare spinte nazionalistiche pericolose e più catastrofiche di quelle “imperiali” o “imperialistiche” che vengono oggi denunciate. Vedo però con rammarico ( e non mi riferisco a te) che molti – detrattori incalliti o diffidenti – rifiutano proprio di entrare nel merito delle tesi di La Grassa. E la cosa è quantomeno sospetta.

  27. SEGNALAZIONE

    Il Rosso e il Tricolore
    La situazione mondiale è dunque connotata dall’assenza del momento in cui ogni identità sarà integrata in modo egualitario e pacifico nel destino dell’umanità generica.
    [di Alain Badiou]

    http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=115799&typeb=0

    Uno stralcio:

    La “libertà d’espressione”, ma parliamone! La manifestazione affermava al contrario, a forza di bandiere tricolori, che essere francesi comporta innanzitutto essere tutti, sotto la guida dello Stato, della stessa opinione. Era praticamente impossibile, durante quei giorni, esprimere sui fatti un’altra opinione rispetto a quelle che s’incantano davanti alle nostre libertà e alla nostra République o che maledicono la corruzione della nostra identità da parte dei giovani proletari musulmani e delle ragazze orribilmente velate, preparando così virilmente la “guerra contro il terrorismo”. Si è persino sentito il grido seguente, ammirevole nella sua libertà espressiva: “siamo tutti dei poliziotti”.

    Del resto, come si può al giorno d’oggi parlare di “libertà d’espressione” in un paese in cui, salvo qualche rara eccezione, la totalità degli organi di stampa e televisivi sono nelle mani di grandi gruppi privati, industriali e finanziari? È necessario che il nostro “patto repubblicano” sia accomodante e riguardevole per immaginarsi che questi grandi gruppi – Bouygues, Lagardère, Niel, etc. – siano pronti a sacrificare i loro interessi privati sull’altare della democrazia e della libertà d’espressione”?

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