Madre e figlia

madre e figlia 3

di Franco Nova

Madre e figlia dormivano in letti vicini, legate com’erano da un affetto ossessivo, quasi morboso. Erano sempre assieme, salvo quando la ragazzina era a scuola. Il loro rapporto così stretto rendeva invidiose tutte le vicine, le cui figlie si mostravano fin troppo incuranti d’ogni disciplina e rispetto. Anche quella sera avevano cenato in un continuo intreccio di occhiate amorose, di carezze, di complimenti reciproci. L’ora era divenuta tarda e bisognava decidersi ad andare a coricarsi. Fu quasi una sofferenza benché dormissero nella stessa stanza. Si spogliarono, si abbracciarono ancora e ancora, e si sdraiarono nei letti, messi l’uno accostato all’altro, addormentandosi di colpo senza riuscire a scambiarsi, come al solito, l’ultimo tenero saluto della buona notte.

Erano vicinissime. Tuttavia, il loro sonno era profondo ed erano irrimediabilmente distanti. La madre sognò d’essere bambina e a letto con sua madre. Si sentiva irritata da questa vicinanza e trovava la donna noiosa e petulante. Le sue attenzioni erano troppo pressanti, l’affetto certo sincero ma appiccicaticcio, mieloso. Non aveva un minuto per sé con quella genitrice sempre alla sua ricerca, che cominciava a smaniare se solo tardava un attimo nel rispondere al suo richiamo. La sopportava con rassegnata obbedienza, ma già sapeva che, diventando grande, avrebbe rotto non appena possibile i rapporti e si sarebbe allontanata per non tornare più.

La figlioletta, nel letto accanto, sognava di essere già grande e madre di una bambina che riteneva decisamente puntuta, bisbetica, piena di sé malgrado l’imberbe età. Sapeva sempre tutto lei, pretendeva di dare lezioni alla madre, era scostante con chiunque le si avvicinasse, bambino o adulto che fosse. Si augurava che crescesse velocemente e se ne andasse presto di casa; per carità, le augurava di fare un buon matrimonio, l’importante era però che si togliesse dai piedi. In ogni caso, matrimonio o meno, dopo i vent’anni, magari approfittando del periodo universitario, l’avrebbe di fatto allontanata definitivamente da sé.

La mattina si svegliarono quasi contemporaneamente, si guardarono senza nemmeno scambiarsi un cenno di saluto. La madre si alzò di malavoglia e, sempre di malavoglia, si accinse a preparare la colazione del mattino, che era fino ad allora stata un rito atteso da tutte e due con intimo piacere; dopo di che la madre andava a prendere l’auto in garage, caricava la figlia e l’accompagnava a scuola, sentendo una fitta al cuore quando la vedeva allontanarsi per entrare nell’androne. Rientrava poi a casa a sbrigare le varie faccende domestiche nella spasmodica attesa di tornare a prendersela all’ora di pranzo per stare poi tutto il resto della giornata con lei.

Quella mattina apprestò invece in tutta fretta una pessima colazione e quasi la buttò, di mala grazia, davanti alla ragazzina che, senza aver ancora proferito una parola, senza aver dato il buon giorno, si era seduta al tavolo e attendeva stizzita di bere il suo caffè e latte con i crostini di pane imburrato. Voleva sbrigarsi, finire presto quel rituale che le appariva ora insensato e andare a scuola, dove peraltro l’attendevano compagne tutt’altro che piacevoli. Decise anzi in cuor suo che quel giorno avrebbe litigato ferocemente.

Non una parola corse tra madre e figlia, sembravano e anzi erano due perfette estranee, si guardavano di sottecchi studiandosi reciprocamente; ognuna pensava per quale motivo, fino a quel giorno, erano state quasi innamorate l’una dell’altra. Sentivano di essere diverse e lontane. La figlia trovava la madre fisicamente sciupata, esteticamente non più piacente, sciatta e con l’aria moscia da donnicciola che non esce mai dal suo banale quadro quotidiano. La madre quasi intuì questi pensieri, vide in sua figlia una mocciosa che si pensava già adulta, già matura, mentre non era capace di disbrigarsi nella più piccola incombenza. Doveva soccorrerla in tutto, mentre lei aveva sempre da ridire su come la madre svolgeva le sue mansioni casalinghe.

Il tormento finì, la madre si alzò in fretta, quasi gettò nel lavello le tazze e il resto, si tolse il grembiule, corse in garage. Nel giro di dieci minuti la figlia era già scaricata davanti alla scuola. La madre accennò un bacio ma poi si ritrasse, la ragazzina nemmeno questo. Non si dissero come tutti i giorni: “all’una”. La giovane si avviò al suo “martirio” senza voltarsi nemmeno una volta, contrariamente alle sue abitudini; l’altra non se ne accorse perché aveva subito ingranato la marcia allontanandosi il più velocemente possibile. Entrambe però emisero un gran sospirone di sollievo dopo dieci secondi che si erano lasciate. Erano finalmente nemiche e l’antipatia reciproca, per tanti anni covata e mai riconosciuta, era sbocciata in tutto il suo splendore di fondamentale sentimento umano.

Arrivarono le tredici e la madre era immersa nella lettura di un libro, non aveva alcuna intenzione di andare a prendere sua figlia a scuola. D’altronde, diversamente da tutti gli altri giorni, aveva già messo in garage l’auto e aveva perfino abbassato il basculante. L’aveva fatto senza pensarci, come fosse un’abitudine, ma così non era giacché, di solito, la lasciava davanti a casa pronta per l’uso. Arrivò l’una, le due, le tre. La ragazzina non tornava e la madre, tranquilla, era concentrata sulla scialba e monotona storia di un ganimede di provincia che seduce una ragazza, la lascia incinta e poi ne seguono mille sciocchezze melodrammatiche per il suo rifiuto di “riparare”.

La figlia non tornò, dal giorno dopo la madre ricominciò un’altra vita, non certo migliore della precedente, ripetitiva come d’abitudine. Dormiva però finalmente da sola, tolse fin dalla prima notte il letto accanto al suo. La mattina era libera di alzarsi quando e come voleva, faceva o non faceva colazione, sbocconcellava ciò che capitava, canticchiava e non ricordava nemmeno più com’erano stati gli innumerevoli giorni precedenti. Passò una settimana e si fecero vivi dalla scuola per sapere il perché la figlia non si vedesse più. Rispose che all’improvviso era tornato il padre, da cui lei era separata da anni, e aveva chiesto di poter tenere con sé la figlia per qualche tempo.

Nessuno approfondì la questione. Tuttavia, avvertì un certo qual fastidio, immaginò che, prima o poi, sarebbero ricominciate le domande. Così preparò le valigie, disdisse l’affitto di casa, fece indirettamente sapere che pure lei avrebbe raggiunto marito e figlia in una destinazione che rimase ignota a tutti. Così andò a vivere assai lontano, in una più grande città, affittò un minuscolo appartamento, condusse la solita vita di sempre, grigia e monotona, e invecchiò senza nemmeno accorgersene. L’unica differenza è che non avvertiva più alcun sentimento, era nella più tranquilla e serena delle solitudini; ciò non la rendeva né felice né infelice, solo torpida e avulsa da tutto.

Diventò una vecchina bianca bianca, tutto sommato dolce dolce. Aveva preso l’abitudine di andare in un parco pubblico, non grandissimo ma molto bello e verde, con alberi alti e aiuole fiorite. Quando il tempo era buono, sedeva sempre un paio d’ore sulla prima panchina che trovava libera. Un giorno, una donna di mezza età, stanca, con le gambe gonfie, si sedette accanto a lei e, lamentandosi per il dolore, cominciò a strofinarsi le caviglie con una crema estratta dal suo borsone, che sembrava procurarle effetti lenitivi. Non la riconobbe, ma era sua figlia. Non poteva più riconoscerla dopo tanto tempo e con così grandi cambiamenti fisici; e lo stesso dicasi per la figlia nei riguardi della madre. Si conobbero come due estranee. Sentirono subito, entrambe, un’attrazione strana e piena di calore affettivo. Parlarono a lungo e si raccontarono la loro vita, tralasciando solo l’episodio decisivo che avrebbe dovuto segnarle, forse le aveva pure segnate, chissà!

La vecchina disse che non si era mai sposata e aveva vissuto da sola. La donna di mezza età raccontò – e ciò rispondeva a verità – che neppur’essa si era maritata; mentì invece quando affermò di non aver mai conosciuto i suoi genitori, di essere una trovatella. Decisero di rivedersi, perché la simpatia, e anche la reciproca pietà per quella loro vita intessuta di solitudine, le spingeva inesorabilmente l’una verso l’altra. Per la prima volta, da quel tempo lontanissimo che nessuna delle due ricordava più, sentirono di essere attraversate da sentimenti. Non erano più indifferenti alla vita perché erano attaccate l’una all’altra. Probabilmente non era più il vecchio sentimento d’amore che le aveva unite in tempi lontani, e che del resto non rammentavano; era un calore strano, uno struggimento e il rimpianto di non essersi conosciute prima. Se lo rivelarono un giorno, si commossero fino alle lacrime, cominciarono a vagheggiare su che cosa avrebbero fatto insieme, se un destino più benigno di quello che era stato loro riservato le avesse fatte incontrare tanti anni prima, quando la donna era ancora ragazza e la vecchina un’adulta di mezza età.

La figlia non riconosciuta, sfiorita ma ancora robusta e in buona salute, disse che aveva un ottimo posto di lavoro, guadagnava bene, aveva in proprietà un appartamento piuttosto grande. Lo abitava in fondo poco, durante la giornata, sia per il gravoso orario d’ufficio sia perché ci si sentiva spersa così sola. Inoltre, aveva sempre lavorato, si era mantenuta agli studi e si era pure laureata, ma non aveva appreso le faccende domestiche; c’era qualcosa in queste e soprattutto nel prepararsi la colazione della mattina che inspiegabilmente (ed era sincera nel dirlo) la irritava profondamente. Si alzava e si lavava alla bell’e meglio, beveva un caffè e afferrava un pezzo di pane secco; si sentiva più tranquilla solo quando era uscita di casa. L’inquietudine cresceva ancora per qualche minuto, a dire il vero, quando tirava fuori l’auto dal garage; non appena partita, però, tutto si acquietava e tornava ad intorbidarsi solo quando la sera, dopo aver girato di qua e di là uscita dal lavoro, doveva per forza rientrare a casa. Non parliamo della sofferenza provata nel momento in cui decideva di andare a coricarsi; sola in quella stanza, che pure aveva due letti (non sapeva nemmeno lei perché ne avesse voluti due), si sentiva spersa come fosse nel bel mezzo dell’Amazzonia.

Timidamente, propose alla vecchina, che abitava un vero buchetto in un quartiere decisamente brutto e squallido, di andare a vivere con lei. Non voleva sfruttarla, le avrebbe dato uno stipendio per avere più che altro compagnia, chi le avesse preparato la colazione; e in pratica nulla più che questo. La vecchina rifiutò la prospettiva d’essere pagata; sarebbe andata a vivere con la sua nuova compagna più che volentieri, ma per affetto, quasi fossero madre e figlia. Quest’ultima accettò, rivelando che, in effetti, il sentimento provato verso la vecchia doveva proprio essere della stessa stoffa di quello filiale; non poteva saperlo essendo una trovatella, ma era sicura che si trattasse dello stesso sentimento.

La donna vetusta abbandonò il suo misero alloggio e traslocò dalla figlia ritrovata ma sconosciuta. La prima sera vi fu da parte di quest’ultima un ulteriore imbarazzo. Vi era un’altra camera da letto piuttosto piccola, quella per gli ospiti, ma non le sembrava adatta per la nuova amica che sentiva ormai come fosse sua madre. Inoltre, aveva trasformato la stanza più ampia, che secondo il progetto originario avrebbe dovuto essere il soggiorno, in camera da letto, e l’aveva attrezzata come doppia perché, senza averne la minima coscienza, si aspettava prima o poi una situazione del genere; e non certo perché pensasse ad un marito, cui aveva rinunciato in pratica fin da giovane, non avendo grande propensione per gli uomini. Chiese quindi alla nuova venuta, con una punta d’imbarazzo, se accettava di dormire nella sua camera. La vecchia non aspettava altro che questo invito; non poteva certo chiedere lei per prima un simile favore, ma era felicissima di dormire con una persona verso cui, per la prima volta in vita sua, avvertiva un flusso così forte d’affetto. E fu sincera in questa dichiarazione, perché del tutto immemore del passato.

L’equilibrio fu pressoché perfetto fin dall’inizio della convivenza. La lavoratrice si alzava per tempo, si lavava e vestiva con cura, mentre la vecchia preparava gustose colazioni. Alla fine dell’orario d’ufficio correva subito a casa, dove tutto era ordinato e pulito, ben riassettato. La vera madre, oltre a pulire, lavava e stirava, cucinava. Insomma, la vita era proprio cambiata per una donna trasandata qual era la figlia, che non aveva messo alcuna cura in nessun momento e ambito del suo vivere. Fino ad allora, anzi, le era sembrato di sopravvivere, i suoi nervi erano una molla sempre pronta a scattare, in ufficio e fuori; adesso tutto era cambiato, anche le persone che la conoscevano, pur poco, erano meravigliate di così repentino e radicale mutamento.

La vecchina sentiva che l’intera sua esistenza era stata senza significato e solo adesso ne acquistava uno ben preciso. Straripava di contentezza, aveva smesso di leggere i suoi banali e stolti romanzetti, lavorava tutto il giorno e non avvertiva stanchezza, salvo quando andava a dormire; spesso assieme, talvolta un qualche po’ prima di quella che si comportava come una figlia. Solo in quel momento della giornata, la fatica accumulata si spalmava lungo sette-otto ore di sonno profondo e meritato.

Una sera che erano andate a dormire assieme, quasi subito dopo cena, parlarono più del solito prima di spegnere la luce. Di colpo, e nel medesimo momento, si addormentarono e sognarono; insieme, ma separate da un sonno plumbeo, greve, di quelli da cui sembra impossibile potersi ancora risvegliare.

La vecchina sognò di essere una donna matura ma ancora relativamente giovanile, che doveva mantenere una madre curva e canuta, quasi sempre seduta su una sedia facendo udire assai raramente la sua voce per chiedere qualcosa, intenta ad osservare il sorgere e il calare del Sole, e apparentemente assorta in pensieri di cui non si intuiva il senso né, a dire il vero, l’effettiva esistenza. Sentì il peso di quella vita in comune, le parve che la madre la rendesse responsabile del proprio stato; essa taceva, mai la fissava, eppure non dubitava che la sua attenzione fosse rivolta a lei, e lo fosse in forma di sordo rimprovero. Rompendo il rigido tabù, guizzò nel suo animo il desiderio che quella vecchia incombente trapassasse; così, seduta sulla sedia, senza soffrire, come addormentandosi. Avvertì immediatamente un cocente senso di colpa e subito un empito di tenerezza la colmò fino a schiacciarla. Pian piano, nel sogno, un nuovo sentimento d’affetto, che sostituiva la semplice pietà per quell’essere ormai alla fine, montava gradualmente; lo vide, in senso letteralmente materiale, crescere di livello fino a colmare l’intero intorno. Allora, il suo animo di sognante fu pervaso da una serenità soffice e avvolgente.

La donna matura sognò d’essere vecchia, di pensare alla morte minuto dopo minuto. Aveva una figlia ormai attempata, ma energica, che sembrava dotata di un’anima di marmo; mai un vero slancio di tenerezza che non fosse avvolto in un involucro di moine e smorfie calcolate. Mentre fingeva di dormire la vide avvicinarsi e, pur non vedendola, si convinse che voleva accertarsi se per caso, un caso fortunato, non fosse già spirata senza i soliti strascichi angoscianti di una lunga agonia. Si pentì subito della malevola e immotivata supposizione, pensò a quanto fosse di peso a quella figlia che lavorava tutto il giorno, spesso persino il sabato, e per di più doveva accudirla di tutto punto perché lei era quasi invalida, così oppressa dal peso degli anni accumulatisi come per incanto. Si rese conto che le doveva molta riconoscenza, non essere scostante e irritata per certi suoi modi bruschi e poco affettuosi. Dalla riconoscenza, in un sogno dal ritmo incalzante, passò al ricordo di tutti gli anni passati assieme, ai bei giorni che avevano goduto all’unisono, e provò allora l’antico affetto di quando lei era una giovane madre e la figlia una piccoletta smilza e ridente, sempre a far chiasso e a riempirle la vita. Sorrise e l’amò veramente.

Si svegliarono più o meno nello stesso istante, una buona mezzora prima che gracchiasse la sveglia. Si alzarono leggere, con un sentimento di pace e la disposizione a ciarlare. Non si raccontarono i rispettivi sogni, anzi si dissero d’aver dormito di peso e di sentirsi un po’ strane nel trovarsi trasportate in un attimo dall’immediato dopocena a quella mattina fresca e inondata di Sole. Fecero una colazione di quelle che restano per sempre nella memoria; peccato non averla fatta tanti anni prima. Ah, se si fossero conosciute molto, ma molto tempo fa, quando potevano ancora attendersi una lunga vita in comune, una vita che avrebbe loro teso le braccia candide della concordia.

Consumarono avidamente la buona colazione preparata amorevolmente dalla rinnovata madre. Parlarono ancora un po’, si dettero appuntamento per quando la figlia sarebbe tornata dall’ufficio. Questa uscì poi per la sua giornata di lavoro, soddisfatta del clima ancora più affettuoso che si era creato tra loro. La vecchia rimase a sparecchiare il tavolo da cucina dei resti della colazione e, pur essa lieta dell’unione evidentemente ancora più stretta che si era stabilita, andò in salotto e si sedette sulla comoda poltrona che ormai le era riservata. Guardò in giro, pensò, e un impercettibile sorriso vagamente malizioso increspò le sue labbra. Si alzò, si diresse alla stanza da letto e, nell’armadio situato appena prima della porta d’entrata dove in genere si affastellava paccottiglia alla rinfusa, cercò e trovò un vecchio libro con le pagine ingiallite ma ancora ben conservato.

Tornò alla sua poltrona, si mise comoda e riprese a leggere di un ganimede di provincia che seduce una ragazza, la lascia incinta e poi ne seguono mille sciocchezze melodrammatiche per il suo rifiuto di “riparare”. Si risovvenne d’un colpo, e con rara precisione, di quando l’aveva avuto in mano l’ultima volta, tanti e tanti anni prima. Si ricordò tutto, del sogno di quella notte lontana, della figlia giovanissima che credeva di amare e che da quel giorno cominciò a dimenticare. Rammentò pure il momento in cui l’aveva vista scendere dalla vettura e avviarsi all’entrata della scuola nel mentre lei ripartiva immediatamente di scatto. Chissà se sua figlia si era voltata come d’abitudine a guardarla un’ultima volta; se l’aveva fatto, era sicuramente rimasta male, forse in quel momento aveva deciso di non tornare più a casa.

Non sentì rimorso né malinconia per quello che appariva quasi un altro sogno. Non era comunque la figlia che voleva, non aveva provato dolore o anche solo nostalgia per l’abbandono. Si era sbagliata nel valutarla e nel pensare di provare affetto per lei; e aveva insistito nell’errore fino a quando il sogno rivelatore era calato in lei quella notte. La figlia che aveva sempre desiderato era questa, conosciuta per caso nel parco pochi mesi prima. L’unico suo rammarico fu il mancato incontro per così tanto tempo. Sarebbe stato bello se, subito dopo essersi allontanata dalla cittadina in cui potevano iniziare maldicenze e sussurri sgraditi, avesse incontrato quella donna, che a quel tempo doveva essere una ragazzina più o meno dell’età di sua figlia. Avrebbero vissuto insieme tutta la vita, l’avrebbe accompagnata nei suoi studi universitari, nella ricerca del lavoro, nei primi passi della carriera che indubbiamente aveva percorso.

Peccato veramente; sarebbe stato bello, una vera gratificazione per i tanti anni passati ad allevare una “gatta morta”, insulsa e appiccicosa, che nemmeno provava gratitudine quando la madre le preparava quotidianamente piacevoli sorprese. Pazienza, anche così non le era andata male; non aveva più molti anni davanti, ma quei pochi sarebbero stati lieti. Senza troppe illusioni, causa poi di amarezze. Un affetto tranquillo, vigile, consapevole di qualche possibile screzio, ma sicuramente saldo come mai avrebbe potuto essere quello della sua giovinezza. Nemmeno si era accorta che la sua non era stata una vita felice. Adesso veniva ripagata. Bando però a quei pensieri; voleva godersi le sciocchezze del libro che non aveva più letto da allora. Era come riannodare un filo.

40 pensieri su “Madre e figlia

  1. Ci vorrebbe un aiutino, perlomeno per capire perché la figlia tenesse quello stesso libro che la madre aveva cominciato a leggere nel momento in cui decide di mandare tutto alle ortiche, figlia inclusa. Forse perché il tempo può diventare qualcosa di molto relativo, se non addirittura di personale?
    Un dato che accomuna i racconti di Nova mi sembra essere questo, oltre a un fondo ‘scuro’, dal sapore gotico che contraddistingue questi racconti.

  2. I (due!) racconti di Franco Nova hanno due personaggi principali che interagiscono e poi contraddicono la reciproca posizione. Personaggi che si dividono nella contraddizione e si raddoppiano nel loro contrario.
    Sa Dio se il due non è principio del male e del peccato, da Lucifero in giù! Ma i/le personagge di Nova sono normali creature doppie e divise di questo mondo.
    L’uno e l’intero non è del nostro tempo (anche questa frase ha una doppia lettura).

  3. Ho trovato questo racconto molto bello e scritto con la chiarezza che richiedono queste situazioni. L’intreccio delle vite e dei sogni , rivela le illusioni dell’amore e la forza dell’amore basato sulla libertà reciproca che serve per arrivare alla completa conoscenza dell’altro e alla serenità di entrambe , in questo caso madre e figlia. Certo i sogni sono quelli di due donne e di conseguenza la maternità e l’essere figlie restano per loro sempre il miglior modo per realizzare una vita insieme , sempre insieme ma ogni volta diverse , proprio per il fatto che ognuna ha avuto il coraggio di vivere la propria vita senza mai sottovalutare il bisogno di quei sentimenti che uniscono genitore e figlio e che alla fine sono quelli che restano dentro ognuno di noi e sui quali basiamo gran parte della nostra vita , anche i nostri sogni. Grazie a Ennio e a Franco Nova che ha saputo darmi una curiosità all’inizio e commozione alla fine di un racconto così al femminile nel quale mi sono persa e poi ritrovata. Complimenti ne aspetto altri!

  4. …molto spesso i racconti di Franco Nova si presentano come dei rompicapo dell’anima, dei labirinti di specchi, ma suonano anche come delle sfide, a cui risulta impossibile sottrarsi. Sempre rimanendo in una interpretazione soggettiva, d’accordo…anche questa volta ci provo.
    Nel campo degli affetti quello che non è risolto, nel bene come nel male, ritorna…I fraintendimenti sono assoluti, realtà e sogno si confondono e si chiariscono a vicenda.
    Le due protagoniste, nella prima parte della storia, si amano perdutamente, il loro vincolo sembra indissolubile, ma un sogno rivelatore svela, ciascuna prendendo in prestito gli occhi dell’altra, quanto in realtà non si ami nel suo rigido ruolo di madre quanto di figlia…Diventa allora inevitabile separarsi: non si ama davvero gli altri se prima non si ama se stessi.
    Un lungo arco di vita vissuto l’una lontano dall’altra, una vita non certo felice, segnata da un vuoto incolmabile…Quando entrambe le donne incominciano a sviluppare un sentimento di pietà verso se stesse -bello è rivederle sedute una vicino all’altra in un parco cittadino, la ormai vecchia osservando il corso del Sole, l’altra, non più giovane, massaggiando con una crema lenitiva le caviglie affaticate: un principio di accettazione, per quanto rassegnata allo scorrere di una vita che ti passa sulla testa- solo allora possono affrontare una nuova esistenza comune. Ma dovranno passare attraverso un’ ultima prova: un sogno tentatore, in cui si presenta un rigurgito di non amore verso se stesse che potrebbe condurre al suicidio, ma superato nella forma di una vera e inamovibile simpatia…Ora le due donne si amano fuori da ogni schema …Solo ora sarebbero pronte per inserire un terzo elemento (quello maschile di un ganimede di provincia?)…Io, tu…noi. Il racconto di F. Nova, che sempre mi arricchisce di un qualche chiarimento sulla mia storia personale, mi convince di come sarebbe bello avere a disposizione più vite, potersi reincarnare per sviluppare un cammino di riconciliazione…ma anche sulle possibilità che una sola vita offre di trovare padri adottivi, quanto madri e figlie, senza peraltro rinnegare nulla

  5. Interessante questo racconto-favola (anche lo stile è favolistico) che ruota attorno ai sentimenti d’amore (*l’amore e le sue illusioni* come scrive Emilia), stavolta riguardanti il binomio madre e figlia, importante relazione primaria prototipo per le future relazioni: ed è ricchissimo di spunti, come peraltro è emerso anche dalla coralità dei commenti che ne sono seguiti.
    Il primo di questi, come ben coglie Giuseppina, riguarda il libro, un *vecchio libro con le pagine ingiallite ma ancora ben conservato*. E, come appunto fa intendere Giuseppina, ha a che vedere con il tempo: in questo racconto il tempo sembra che sia trascorso ed invece tutto rimane come prima.
    Per quale motivo? Perché non c’è un ‘terzo’ (e questo è ciò che sottolinea Annamaria), una figura maschile che imprima un movimento di separazione tra queste due donne, in modo che – e qui aggiungiamo lo spunto che ci dà Cristiana – l’uno (l’unità simbiotica madre-bambino) si divida in due, con tutto ciò che ne consegue a partire dalla storia biblica *Sa Dio se il due non è principio del male e del peccato, da Lucifero in giù* . Quella unità perduta che poi si cercherà di ‘ricreare’ illusoriamente nel rapporto di coppia quando si aspira ai ‘due corpi e un’anima sola’.
    Mentre l’intendimento profondo è continuare a negare non solo l’esistenza della differenza ma anche la conflittualità tra Bene e Male, optando esclusivamente per il Bene.
    L’unica figura maschile, per modo di dire, contemplata nel racconto è il cosiddetto Ganimede – che nel costume sociale greco era sinonimo di pederastia che istituzionalmente accettava il rapporto, anche erotico, tra un uomo adulto e un ragazzo. Ben comprensibile che, nella storia dentro la storia, il Ganimede non voglia riconoscere alcuna paternità in quanto inadeguato a sostenerla: è ancora un ‘fanciullino’, può solo giocare sessualmente.

    Il secondo punto riguarda la scoperta, dopo il primo sogno, di un altro sentire: *Erano finalmente nemiche e l’antipatia reciproca, per tanti anni covata e mai riconosciuta, era sbocciata in tutto il suo splendore di fondamentale sentimento umano*.
    Solo che, a seguito di questa conoscenza, anziché dare inizio a un processo di riassestamento degli equilibri, abbiamo invece un agito, un mettere in atto il sentimento di repulsione che prende il posto prima occupato dall’amore estremo, in modo da permettere una specie di separazione (o, meglio, di negazione: il bene viene ‘scotomizzato’).

    Altro punto riguarda le polarizzazioni presenti nella storia di queste due donne (ma sono veramente due o non invece espressione di una difficoltà interiore a farsi carico dei sentimenti di amore e odio che contraddistinguono sempre i nostri rapporti?).
    Il fatto che la vecchina si immagini giovane e la giovane si immagini vecchia onde sollecitare sentimenti di identificazione che da soli non sono sufficienti a fondare sinceri rapporti, non porta ad un cambiamento: non a caso le due donne si ritrovano nella stessa condizione iniziale, solo con il supporto ideologico che “se ci fossimo incontrate prima…”.
    Come a dire che il ‘prima’ non è stato metabolizzato, ma è stato solo ‘scartato’: *Non era comunque la figlia che voleva * oppure *La figlia che aveva sempre desiderato era questa*. E’ tremendo sentirlo dire, anche nel ‘reciproco, ovvero nei confronti del genitori: come se si trattasse di relazioni che si acquistano al mercato e non di relazioni che si costruiscono con quello che c’è, poco o tanto che sia!
    L’ideologica fantasia di ‘poter scegliere’ senza partire prima dal riconoscimento di ciò che si ha, porta poi ad una ricerca incessante del figlio o del genitore ideale, inibendo ogni capacità di confronto con il reale.
    Ricerca che non manca poi di trasferirsi dal ‘privato’ al ‘pubblico’ secondo due modalità: o in modo ‘continuista’ (perpetuando il desiderio che un mondo ‘buono’, quello che abbiamo sempre desiderato, si trasferisca nella realtà socioeconomica bypassando i cosiddetti ‘rapporti di produzione’), oppure in modo ‘scisso’, mantenendo una infantilizzazione buonista interna e portando l’aggressività all’esterno.
    Qualche post fa si parlava del ‘tradimento dei padri’.
    Qui si parla del ‘tradimento delle madri’ quando, non introducendo i padri (il ‘terzo’) non danno avvio alla storicizzazione, ma producono un reiterarsi continuo di dipendenze immature. Solo che, per introdurre il ‘terzo’, è necessario prima introdurre l’altro, con le sue necessità, i suoi bisogni, mentre la vecchina non si rassegna e continua a sognare l’altro come lei lo vorrebbe, in un futuro in cui *Avrebbero vissuto insieme tutta la vita, l’avrebbe accompagnata nei suoi studi universitari, nella ricerca del lavoro, nei primi passi della carriera che indubbiamente aveva percorso*. Come ‘prigione’ non è male!

    Anch’io ringrazio Ennio e Franco Nova per la possibilità che hanno dato di poter fare queste riflessioni.

    R.S.

  6. D’accordo con Rita sulla necessità del “terzo” perché il rapporto non sia solo identità o contrario. Per continuare nel discorso che ho fatto sopra, il terzo nella società patriarcale è la donna (la donna-madre nel cristianesimo – perfino un Feuerbach luterano la rivendica). In questo racconto il maschio si è auto-eliminato (un Ganimede) manca. Infatti le due signore continuano a scambiarsi le parti, grazie al cielo trovando alla fine un po’ di pace, ma in una grossolana alienazione, da sé e dall’altra.
    Il “terzo” è il simbolico, che si fatica nella nostra civiltà a figurare. La religione non soddisfa. Siamo umanità NELLA contraddizione, senza superamento.

    1. La penso diversamente, Cristiana. A mio avviso la figura maschile, Ganimede quanto sia, è posta nei due momenti topici del racconto. Non mi sembra che non abbia qualche attinenza con la storia.

  7. …”ma sono veramente due o non invece espressione di una difficoltà interiore a farsi carico dei sentimenti d’amore e di odio che contraddistinguono sempre i nostri rapporti?” Mi sembra questa ipotesi di Rita quella che, alla rilettura, mi convince maggiormente…una storia vissuta fuori da un tempo concreto che parla di un processo, per quanto lento e incompleto, di maturazione di una persona. Non si racconta nulla in effetti dei suoi precedenti e successivi rapporti con gli altri, familiari e società con cui è vissuta, ma si immagina quanto più di odio che di amore lei ne abbia ricevuto così da tradursi in incapacità ad accettarsi, nel bene come nel male. Su quella panchina nel parco, dove è più semplice adeguarsi al ritmo della natura e riceverne gli influssi benefici (il Sole con la lettera maiuscola può essere il primo terzo elemento che entra nella realtà divisa di quella persona) le due “nemiche” si incontrano e può incominciare un processo di riappacificazione dell’io diviso…un fatto che rimette in moto un circolo virtuoso e lascia alle spalle quello vizioso. La donna può ora aprirsi ad altri terzi…
    E’ un’ipotesi che mi convince. Cosa ne pensi Rita? Sto inventando tutto?

  8. Mi piace il tuo contrappunto, Rita, sulle responsabilità mancate delle due protagoniste, madre e figlia, poi scisse in altrettante figure simbolicamente ‘affini’, o così sembrerebbe. Avevo parlato di “fondo ‘scuro'” all’interno di queste storie, ed grazie alla lettura che ne dai che mi spiego perché abbia usato un’espressione simile.
    Ed il punto è, per l’appunto, il tempo. Tu dici: “in questo racconto il tempo sembra che sia trascorso ed invece tutto rimane come prima”. In effetti è così, ma direi anche che tutto ‘deve rimanere’ come prima. Come nell’altro racconto, quello della bambina mai cresciuta, o cresciuta troppo, anche in queste due figure femminili non c’è crescita.
    E questo pende a sfavore di tante questioni che attengono anche alle nostre relazioni sociali, se proviamo ad allargare lo sguardo, come mi sembra stiamo facendo. Perché, come giustamente evidenzi, il problema di fondo è ‘far finta che tutto va ben’, quando invece il conflitto dichiarato resta sacrosanto, purché si resti nell’ottica di un confronto costruttivo.

  9. Innanzitutto una tranquillizzazione ad Annamaria rispetto al * Cosa ne pensi Rita? Sto inventando tutto?* : non stai “inventando”, stai solo “creando” altre possibili storie che possono essere utili nella nostra difficile rappresentazione del ‘reale’, il quale, per essere rappresentato, ha bisogno del “simbolico”, come giustamente richiama Cristiana, o “il terzo”, onde evitare sia le identificazioni incrociate e sia le negazioni attraverso la ‘scotomizzazione’ del tipo: *La vecchina disse che non si era mai sposata e aveva vissuto da sola. La donna di mezza età raccontò – e ciò rispondeva a verità – che neppur’essa si era maritata; mentì invece quando affermò di non aver mai conosciuto i suoi genitori, di essere una trovatella*.
    Le due figure femminili, paradossalmente, attraverso il mentire dicono la verità (ma è il lettore, il ‘terzo’, che lo sa): effettivamente la vecchina era come se non si fosse mai sposata (non ci fosse mai stato un partner nella sua vita) e l’altra donna era come se fosse davvero una trovatella. Ambedue erano prive di quegli specifici sentimenti.
    Infatti, non c’è un ‘sentire’ in questi due personaggi, ma legami di ordine ‘epidermico’, spaziale, come ben vengono rappresentati da F. Nova: esse *erano vicinissime* ed *irrimediabilmente distanti*. Sono personaggi, diciamo, al limite dell’autismo dove non ci sono legami né di amore né di odio ma movimenti di attrazione e/o repulsione.
    Sembra che nessuna delle due porti cicatrici di quanto è avvenuto: come dice Giuseppina,*il problema di fondo è ‘far finta che tutto va ben’*. All’”americana”, aggiungerei io.
    L’ipotesi che fa Annamaria e cioè *si immagina quanto più di odio che di amore lei ne abbia ricevuto così da tradursi in incapacità ad accettarsi, nel bene come nel male*, non è molto sostenibile: non appare un conflitto per avere quello che è stato negato o una sofferenza per ciò che si è perso. Nel racconto invece viene presentato uno stato di inedia: *era nella più tranquilla e serena delle solitudini; ciò non la rendeva né felice né infelice, solo torpida e avulsa da tutto*, e questo si può ipotizzare facesse parte del campo emotivo fin da prima, solo che coperto dal ‘finto amore’. Dove il Sole è soltanto un elemento che scalda e non può rappresentare un ‘terzo’ (come si chiede Annamaria) in quanto il ‘terzo’ sottolineerebbe una perdita, una mancanza, e qui non viene patita nessuna mancanza.
    In questo interessante racconto, vediamo l’assenza di ogni capacità di presa di coscienza (*Chissà se sua figlia si era voltata come d’abitudine a guardarla un’ultima volta; se l’aveva fatto, era sicuramente rimasta male*. Viene da esclamare: ma no?) che viene superata dal fatto che adesso *senza rimorso né malinconia*, ci sarebbe stato *un affetto tranquillo, vigile, consapevole di qualche possibile screzio, ma sicuramente saldo come mai avrebbe potuto essere quello della sua giovinezza*.
    E’ una inquietante fotografia dell’americanizzazione dei sentimenti.
    Come dire, gli USA stanno distruggendo in lungo e in largo senza guardare in faccia nessuno però, in fondo, con gli aiuti umanitari che portano non ci possiamo lamentare…..

    R.S.

  10. ..caro “Supernova”, mi scuso innanzitutto per essere stata assente, anche se per pochi giorni, in questo circolo di lettura (e scrittura) …mai, come quando ho letto questo tuo nuovo racconto siderale, mi è esploso dentro un insieme di cose della terra e del cielo, che non saprò più dire,a te e agli altri, che per ora sono solo le altre mie compagne di lettura. Provo a raccontartele, tieni e tenete sempre presente, che non sono capace di rielaborarle quando sono troppo affollate come questa volta. Perché questo tua nuova novella mi ha preso così tanto? Perché hai sfatato, sfatato magicamente, vari strereotipi, tenendo ricca la tua decisa parte femminile e maschile in tuttuno come un classico androgino, come alla fine del film intelligenza artificiale, sei una statua parlante e sai proprio scrivere come in nostro amico Franz….Il mito falso dell’istinto materno lo hai fatto a pezzi come doveva essere per portare dal sogno alla realtà, l’altro mito , sempre falso, dell’ammmmore. Il mito falso che il maschilismo sia solo nel femminicidio, o nei conflitti fra sesso debole ( o presunto tale) e sesso forte ( o, altrettanto, presunto tale), lo hai fatto anch’esso a pezzettini e poi ricomposto, sogno nel sogno , catapultato nella trasformazione , vera, autentica, non delle panzane del cambiamento, sulla realtà. Amare non è amare se nasce sotto le panzane che sia la cosa piu bella del mondo. La parte che ti fa conquistare ciò che gli umani chiamano amore, viene generata dal suo opposto, non dal miele o il burro, le appicicosità varie , iperborghesi dopo un mulino che da nero , è passato sempre piu bianco. Sognando il nero, sognando il bianco, se ciò fosse ancora possibile(visto che i soliti noti hanno depredato e ucciso anche l’inconscio collettivo), s’invertirebbero i tempi , i modi e le parti come in questo tuo racconto..non a caso non è giocato fra padre e figlio, sarebbe stato meno complesso, pur labirinto, tutto il gioco degli specchi (Annamaria cit e credo anche altre e altri piu visibili come me, o del tutto invisibili) . Hai fatto perfetta questa “scelta”, perché come non si sceglie di essere scagliati nel pianeti, o di trovarsi nel miele o nell’acido, nei sentimentalismi o negli ipertrofismi emozionali, tutto il tema lo giochi sul caso e sul destino, attraversati dalla sfida e dalla scelta, come ogni vita, tanto più se donna insieme a un’altra donna, per giunta madre e figlia, su un piano e figlia e madre sull’altro, cosa che ricorda antichi discorsi pasoliani al suo Gennariello, sul fatto di essere stato figlio, di essere diventato padre (pur senza figli) per ritornare a essere di nuovo figlio…ciò neltuo racconto provoca una continua riletttura, ed è come la tua ultima nota, suono, oggetto, tutto e niente ma…ma il filo. Il filo è simbolo di tante cose, e tu o Rita o altre ne sanno meglio di me quanti soggetti e quanti altri oggetti contiene, inutile dirti che non c’è di mezzo solo un’altra figlia o un’altra dea o Arianna in persona, così pure Le Parche a tenerlo o tagliarlo o ricucirlo. Sei grande , grande grande non come la canzone di Mina, che comunque è stata una grandissima voce, ma per la tua capacità , in questo circolo di lettura, a esserne d’ infinita tessitura e non poteva esserci momento migliore, almeno per me, di leggerti sia come figlia che , per la complessità del filo, come madre. Non so se in un circolo di lettura sia possibile riprodurre qualcosa che è stato un incubo, facendolo diventare sogno, sogno grazie alla quale dimensione ( che parallelamente ad altre, cinema o poesia, autoriflessione e deliri compresi, solleva dalle strettoie troppo reali del quotidiano) potrei raccontarvi, in un mai nato comitato di lettura e di autocoscienza (incubo spacciato per sogno da certe donne” emancipate” degli anni 70) . Potrei raccontarvi di come un tempo di 28 anni fa, immaginavo sognando ad occhi aperti e commossa dalla tenerezza dei piedini di mia figlia, quando lei avrebbe avuto la mià eta e io…e io il doppio. Ho scoperto l’amore profondo, come per caso e destino , nella metà di tanti doppi sempre di questo racconto, ma anche della vita, credo non solo la mia. Non so come sia giocata sul piano maschile, ma su quello femminile mi sento solo ora di aver forse compreso qualcosa. Mia figlia, detto in modo molto sintetico, non voleva amarvi perché ero sua madre…la cosa anche se mi riguardava, l’avevo dimenticata (perché anch’io a mio volta, prima di adorare la mia, non potevo farmi bastare un fatto troppo spesso ridotto a biologico, anche se ricoperto di mille altre ragioni). Dopo tempeste e naufragi da togliere qualsiasi amore, istintivo o ragionato, è arrivato piano piano il momento di quella panchina nel parco di questo racconto della notte dei tempi. La mia Giorgina voleva proprio me, non come io l’avevo sempre voluta, no, diversamente , io il bastone della sua vecchiaia. Nel mio sogno di 28 anni fa, non c’era nulla dell’incontro viscerale e pure senti-mentale di questa realtà superata da ogni fantasia. Era nel mio filo, non per via del semplice cordone, un filo faticoso di ogni incontro importante della mia vita, e lei, sicuramente, ne è l’emblema che li sigilla tutti. Quali? di cosa sto parlando? Il mio filo non si fa cucire da mani amorose a prescindere, per biologia o scienza o convenienza o usanza…ogni mio incontro “Immortale” , decisivo per la mia e altrui vita (figuriamoci quella generata da me quanto e come di più), nasce da uno scontro titanico, come se ci si dovesse prendere per i capelli per….per poi scegliersi e prendersi cura , anche con quelle stesse cose quotidiane che fino al momento prima tenevano incollate malamente e poi venivano rifiutate; e così semplici come nel racconto di Nova, e cosi difficili da farsele non solo bastare, ma avanzarle per come , dopo gli scambi delle parti, dei sogni, degli anni, della vita, diventano essenziali senza nessun mulino bianco, senza madri o figlie biologicamente misericordiose….bastava e basterà solo un filo,Shahrazād …

  11. Aggiungo qualcosa, sul tempo, come richiamano Annamaria e Giuseppina. Il tempo unito, collegato, con una direzione e un senso è un tempo trinitario, e dialettico in versione laica, ma la crisi della religione cristiana così come del marxismo ci lascia in balia di un tempo insensato, senza senso unitario e senza direzione.
    La ragazza del primo racconto di Nova cambiava età in modo irragionevole, qui madre e figlia si sognano l’una nell’età dell’altra, si lasciano e si incontrano in un tempo disgregato, a pezzi, isole, che rende impossibile la memoria.
    Il racconto mi piace perché riduce l’esistenza delle due personagge alla staticità dei contrari: o/o, prima sono così, poi il contrario, poi il contrario di nuovo, ma senza evoluzione, senza collegamento, se non ricordi indefiniti di passate infelicità. Il “legame vitale” del tempo è saltato.
    Per fortuna alla fine trovano un modo di convivenza accettabile, ma non sanno realmente chi sono, cioè chi erano.
    Non so se sia una americanizzazione dei sentimenti, ma certo è una “capitalisticizzazione”: nello scorrere uguale del presente la memoria non è solo superflua, ma è anche un pericolo, meglio farne fare a meno.

  12. Sì, il distacco senza memoria, se non quella memoria che la natura ci dona per continuare a sopravvivere anche dopo esperienze negative. La forza di poter riconoscere nell’altro noi stessi.

    Ro sei forte! come la tua musica! Grazie

  13. Parlando di come “tutto deve rimanere come prima”, cara Cristiana, il riferimento è a ciò che ci leggo nelle storie ‘difficili’ di Franco Nova, al quale faccio i miei complimenti. Ma questo non è il mio parere in merito alla convivenza. Quella è solo un’americanata, come giustamente dice Rita Simonitto (it’s all right! – well, well!), mentre invece io avevo parlato di ‘responsabilità’. Che non significa fare la balia a vita per i propri figli, oppure essere adolescenti a vita perché magari mamma non vuole e papà nemmeno…
    La storia di Rò offre un esempio a mio parere pregevole di come si è sé stessi/e senza perdersi. E, proposito di questo, una mia affermazione in merito è che occorre perdersi per ritrovarsi. Convintamente però. Lungi da me il “tempo trinitario” (o tronitario, come erroneamente avevo digitato).

  14. …devo essere sincera: non riesco a convincermi che la modalità di convivenza che alla fine realizzano le due donne sia “solo un’americanata”…Certo non è la convivenza ideale, frutto di una scelta consapevole e responsabile di donne completamente evolute ed autonome( le due donne sono partite da troppo lontano e avrebbero bisogno di più vite…)è piuttosto il risultato di un dignitoso compromesso. I bisogni di entrambe sono autentici e la loro soddisfazione pure, ma senza quella rigidità di ruoli che contraddistingueva il loro primo rapporto…la vecchina, dopo i lavori domestici, si concede di riprendere la lettura del suo romanzetto, la donna matura lavora per entrambe e si gode la colazione del mattino. Ognuna di loro ha dall’altra quelle cure che si è a lungo negata…inoltre un nucleo familiare simile, composto da due vecchie signore, nella nostra società non corrisponde ai canoni alla moda, nè suscita invidia: non è la famiglia del mulino bianco, come dice Ro…Diciamo che hanno trovato un rimedio alle rispettive solitudini e forse se ne infischiano degli altri; se non si amano proprio, c’è complementarietà e solidarietà tra loro …Potevano essere risolte meglio? ma la vita offre spesso solo delle incomplete soluzioni…prendere o lasciare. Almeno un raggio di Sole…Ragiono male?

  15. per Emy e per Giuseppina
    Grazie a entrambe per i vostri richiami a qualche traccia di me in questo racconto di Nova…incazzuttamente se volete aderire a una richiesta che esporrò brevemente nel secondo paragrafetto, mi farà piacere solo se lo sarà anche per voi…un abbraccio musicalmente in contrappunto al vostro 🙂

    per altre e , nella speranza, per altre e altri
    purtroppo in questi giorni ho più di altri giorni, assenza totale di tempo, quindi accennerò solo a due riflessioni:
    1 la popolazione di sesso maschile, lettori che hanno sempre frequentato questo circolo di lettura, dove sono finiti? il racconto, sebbene coinvolga psiche e tormenti etc etc del teatro dell’animus e dell’anima specificatamente femminile, è stato scritto guarda da caso da un uomo, e costui chi sarebbe per voi? un marziano? come se per la popolazione femminile, dentro o fuori questo circolo di lettura, le donne che lo leggono, per seguire l’ipotetico(spero) e brutale (per rendere) vostro paradigma del marziano, gli dicessero: come ti permetti?
    morale tragicomica:
    quando arrivano i ragazzi?

    2
    a Cristiana , Rita e ogni altra “colleganza” nel senso femminile
    Voi sapete , per altre letture, quanto io sia convintamente consapevole dei danni delle pseudoliberazioni all’ammericana e non solo, perchè grazie ai nostri servi, sia all’ammmericana che all’ammatriciana; premesso quindi ciò , se posso chiarire perché non leggerei questo racconto con una chiave condizionata da un’americanizzazione dei rapporti, visto per l’appunto l’inizio e la sua fine, esaminata infatti come un’ignoranza della propria condizione generata da un’egemonia antropologica culturale dell’impero , anche, di tutti “i mulini bianchi”…. le tre coscienze- da dove arrivo, dove sono, dove sto andando- nell’ “invenzione”/creazione della finzione letteraria del mio caro “Supernova”, sono ad esempio come i tre protagonisti del romanzo di Stephen King, anche lì c’è una madre, un figlio e un padre che devono mettere in scena la scelta e la coscienza, con l’aggiunta di una coscienza “superiore”, che è quella del bambino, superiore perché di molto “anticipata” (quasi un chiaroveggente come il classico cieco di tanta mitologia)….in questo di “Supernova” le stelle sono di un altro pezzo di cielo e di terra, ma sempre dello stesso mosaico bio-logico ma non solo biologico. Mosaico che se letto con una sola chiave -che crea un’ombra irrisolvibile e svalutativa delle due donne coinvolte, che si perdono per ritrovarsi avendo mandando in oblio la prima domanda” da dove arrivo” – non possono porsi le due successive: dove , chi, come, perchè… sono (financo a chi come perché non sono così o cosà).
    Tale chiave farebbe poi richiamo a qualcosa da demitizzare o sfatare, poiché “certe cure” non da crocerossina, bensì dell’arte dell’introspezione, de lcrescere nocnhè dell’ amare tipicamente femminile, sono state completamente sradicate da false emancipazioni esportate appunto dall’impero, che prima sotto certi aspetti del reclutamento alle logiche dei ricavi dei guardiani del mondo imperiali e subdominanti, faceva schiavi ( se non addirittura servi) solo “i maschi”, mentre via via dalle rivoluzioni industriali a quelle meccatroniche attuali, con la stessa fava si è asservito sia la popolazione precedente che quella femminile…il lavoro, a catena o a carriera, non rende liberi, né tantomeno libere, e se mai li avesse resi tantomeno così come è strutturato ora. Ric-amare o suonare, dipingere o creare anche per sostentamento minimale compresa l’arte della cucina, lo sanno anche certi “maschi”, libera molta più “emancipazione”, che essere in altri luoghi dove per uccidere una donna, ci vuole molto meno di un femminicidio, senza nemmeno sporcarsi le mani…Se detto questo, si può ancora pensare che “SuperNova” abbia reso assente dalla coscienza delle protagoniste, sia alla loro entrata della Storia che all’uscita, la domanda e le eventuali risposte alla stessa, ovvero : chi siamo,o chi vogliamo essere, o chi non vogliamo essere, dove stiamo andando…. dando una variazione sullo stesso di Annamaria a poco più di questa mezzanotte, sono dell’avviso che, visto il tema della “scelta” e del “destino”, della parte equidistante o intermedia o centrale di questo racconto, debbano rimanere nel “mistero” così come è e deve rimanere quello della vita; se devo mai accontentarmi dell’anello mancante, sempre presente ad ogni passo della vita, facendomene un alibi, ciò non significa che indagandolo divisa e ricomposta da mille e più domande e soluzioni, possa “possederlo”…per primo perché sarebbe un animus schiacciatamente militare o maschile, e rischierei di diventare con la parita di geniere di una qualcosa colleguccia alla Pinotti, per secondo perché scatenerei l’ira dei miei amati dei, che esistano o meno solo nella mia testa e in quella di “musica”…

    buona giornata a tutte e a tutti

  16. in verità non volevo guardare ai rapporti tra madri e figlie, ma solo ai meccanismi di costruzione del/dei racconti di Franco Nova, alla idea di tempo che esprimono, al suo uso del doppio e della contraddizione, riportando, questo sì, quelle “categorie” alla efficacia nell’identificare certi tratti dell’epoca in cui viviamo

    1. ….dunque, per mia mancanza, di tempo e non solo, ho mal compreso certe parti del dibattito e te ne chiedo scusa, Cristiana e così altre.Rimane invece un mistero inquietante, ma ricorrente nella storia delle donne ma anche degli uomini, ovvero, qui, in questo racconto è post racconto, in cui nel primo; madre e figlia, ma non solo, perché é la vita, e non solo chi insieme ad “altro” la genera o ne viene generata/o, ecco é possibile che il sesso maschile la possa narrare, poetare, farne arte, ma nel più semplice quotidiano viverla, dibatterla, viverla, sia tutta un’altra Storia? La sua/loro assenza é cosi assordante di una pausa millenaria senza s(u)ono, che più che altre contraddizioni, almeno per me, é questa la femminilità negata dagli uomini e dalle donne ridotte a copiarne la negazione.

  17. Dove c’è amore puoi stare sicuro che c’è anche odio; perché amare significa anche perdere libertà quindi, da qualche parte, segretamente e magari senza che se ne abbia coscienza, c’è anche scontento e ribellione. Secondo me Nova parla di questo. Sembra uno scritto antisociale, nel senso che va contro convenzioni famigliari che sembrano indissolubili, ma contiene verità. Inoltre a me sembra una metafora del percorso amoroso, tra madre figlia in questo caso, ma sta a significare che il cordone ombelicale andrebbe tagliato definitivamente, anche in età adulta. E questo non si può fare se non con qualche sofferenza. Una volta separate, le due parti possono amarsi apprezzando quegli aspetti che soggiacevano al legame famigliare. Per il bambino (Rita queste cose le sa spiegare meglio di me) ogni trauma è assoluto e ha una portata gigantesca, tanto che se lo porterà per tutta la vita: l’assenza del genitore che lavora, la mancanza di nutrimento, le eccessive attenzioni… determinano la personalità adulta e influiscono sulla vita affettiva. Quell'”odio” andrebbe rivisitato e andrebbe espresso, come si facesse giustizia. Il bambino non può nulla contro l’adulto, ma una volta cresciuto può rimediare. Ed è tutta salute: poi i rapporti miglioreranno, saranno più consapevoli, apprezzeremo aspetti del genitore che nemmeno ci sognavamo… perché i legami famigliari sono nodi da districare. L’amore adulto e libero da dipendenze, ha un’altra bellezza, decisamente migliore. Parlo per esperienza, non avete idea delle botte che ho dato a mia madre durante alcune terapie. Una volta massacrata gliene ho parlato ( beh, non le ho detto proprio tutto) e mia madre, che era un genio, ha capito tutto. Donna straordinaria (mi ha sempre fatto ridere) e ora l’amo anche per la sua saggezza.

  18. @ a ro: ci sono uomini che sanno parlare di donne, nella lontananza del rispetto e dell’intuizione. Coetzee ha un alter ego, che si chiama Elizabeth Costello, lei lo va a visitare e lo sgrida pure, e lui le affida, in scrittura, anche problemi seri che lo riguardano, come uomo e come creatura umana vivente.
    Anche Nova affida al legame (che gli appare) simbiotico -e alienato- tra due donne, madre e figlia, delle interrogazioni sul rapporto in generale.
    A Mayoor e alla sua saggia madre voglio citare qualcosa di Feuerbach: “Al padre è congenito il figlio, ma al figlio la madre. Per il padre il figlio compensa la mancanza della madre, ma non vi compensa il padre per il figlio. Per il figlio la madre è indispensabile; il cuore del figlio è il cuore della madre … Solo nove lune il Figlio di Dio, quale uomo, soggiorna nel grembo della donna, ma incancellabile è l’impronta che vi riceve; mai più la madre si cancellerà dai sensi e il cuore del figlio.” Essenza del cristianesimo, settimo capitolo. Niente di che, e Feuerbach intende ridurre la religione all’antropologia (io lo sto leggendo per caso) ma sa che l’umanità ( direi anche le altre specie animali) vive grazie all’allevamento. C’è madre e madre, ma nessuno nasce da un cavolo.

    1. Ciao Cristiana cara, la parte femminile chiamata” anima” sono convinta abita gli uomini, più di quanto questi l’abbiano esplorata… non per sessismo, maschilismo, il loro potere nella storia, che senza alcuna sfida, invidia, competizione, possiamo come donne prendere atto quanto e come questa (nel momento in cui sia , sia stata e sarà, così possente e talentuosa) abbia potuto regalarci grandi musicisti, poeti o cuochi…sicuramente noi donne siamo state confinate anche nell’arte di ogni espressione, ma almeno per me, è bello riconoscere che l’uomo può esprimere così potentemente più di noi donne stesse, i talenti che io chiamo anima, ma più semplicmente sono il creare..è l’essere come “altri”, invisibili (immaginari o meno, non ha importanza la parola austera e impossibile di nome Dio o Dei), avevano voluto per noi, nonostante alcune loro parti, abbiano avuto il sopravvento e nelle loro tempeste siamo stati generati più delle loro ire e malattie, che a immagine e somiglianza di uno stato di salute tale da desiderarla per sé e gioirne per ogni lato, di sangue e non, biologico o solo logico. Saltando un po’ di cose che mi vengono ancora da dirti, come sai sempre di getto, come un ruscelletto senza capo né coda, se noi , fra noi donne e uomini, fossimo stati capaci di ribellarci, fin dal primo giorno della nostra venuta, ma anche dopo, a questo volere degli dei , o almeno di una loro parte, avremmo superato ciò che ci aveva voluto così tragici e sofferenti fino a un entropia del già accaduto e mai accaduto. Sicché anche per la questione in esame, sarebbe bello per due motivi diversi e complementari alla pacifica convivenza (pratica possibilità di distruzione e creazione almeno almeno in pari dosi, visto che la prima ha via via soppresso la seconda) sia per le donne sia per gli uomini, desiderare riconoscere e ricomporre come è stato fatto a pezzi questo teatro dell’anima che potevamo essere , in dosi artistiche o piu semplicmente artigianali….alcuni di noi in questo spazio le hanno entrambe, non cito Lucio o te , perché il primo una mosca bianca come abbiamo visto che conferma per ora la regola dell’assenza. Faccio quindi esempi anche per Ennio stesso, fino al suo opposto, anche di sesso, di nome Emy. Entrambi creativi, entrambi con un femminile e un maschile, quasi inesplorato, tranne che come i tuoi esempi, diano voce alle ricostruzioni del padre per l’uno, o ai desideri di giustizia per l’altra. Il tutto in poesia e critica non solo poetica per l’uno e sempre tranne qualche eccezione in poesia per l’altra. Su un piano più emotivo e mentale, a nudo davanti l’altra o l’altro come fra petali al vento della vita, quasi mai si lasciano andare a tali soffi, come le conversazioni su temi generati da racconti o poesie come il tema in questione. Potremo dirci sicuramente che c’è del pudore sacro con cui è meglio custodire nella solitudine ogni riflessione ma anche ricordo, di un vissuto che s’incrocia, anche nel senso cristico ma non solo. Tuttavia, finché non ci daremo la possibilità di tendere all’essere androgino, a cui mai potremo giungere, visto vuoi il piacevole vuoi il faticoso ( come il doppio in ogni cosa della vita, a sua voltà nella metà contentenente altri doppi all’infinito , insieme chiamato anche labirinto), rimarrà sconosciuta quella parte di noi ( maschile o femminile) che è nell’altra o altro…sarà solo talento o fortuna, poterla esprimere, se per arte o artigianato, scienza politica o naturale o umanistica, sarà presente esprimendosi però solo in versi o racconti, in laboratori o banchi, libera e al contempo imprigionata….certo c’è da accontentarsi, non si può avere tutto da sé o dalle altre o gli altri, visto che per lo più i più si negano anche l’arte e l’artigianato, magari frequntando pure mostre o corsi, esposizioni o fiere, organizzate solo per un marketing dell’anima, incommerciabile e invendibile.
      Ti abbraccio e saluto tutte /i nel mio solito …che sia davvero un buon giorno per te e ognuno di noi

  19. ec
    Tuttavia, finché non ci daremo la possibilità di tendere all’essere androgino, a cui mai potremo giungere, visto vuoi il piacevole vuoi il faticoso coso o cosa chiamata “sesso”

  20. UN RACCONTO NIENTE AFFATTO “AL FEMMINILE”

    Il racconto di Franco Nova è ben scritto, intrigante e complesso. E provoca. Offre molti spunti per la «riemersione del represso», un funzione essenziale della letteratura secondo il compianto ( e dimenticato) Francesco Orlando, studioso non scolastico della psicanalisi freudiana.

    Rispetto alle interpretazioni finora proposte io provo però ad affacciarne un’altra.
    La mia ipotesi è questa: il narratore ha messo al centro del suo racconto una sorta di “circolo vizioso”. In due tempi, complementari e contrapposti, madre e figlia vengono esaminate con freddezza intellettuale. Egli tiene anche volutamente fuori qualsiasi figura maschile (tranne l’accenno non compromettente al ganimede di provincia), preservandole così da ogni giudizio (positivo o negativo che sia).

    Colpisce, dunque, l’impersonalità della descrizione, la stereotipia dei tratti e dei comportamenti delle “personagge”, che sembrano due “autome” un po’ caricaturate (« Anche quella sera avevano cenato in un continuo intreccio di occhiate amorose, di carezze, di complimenti reciproci»), l’assenza di dialogo tra loro (considerazioni, illazioni, interpretazioni dei fatti sono tutte esclusivamente del narratore).

    E che sogni sono quelli fatti sempre in contemporanea delle due donne? Sono sogni senza immagini, troppo ad occhi aperti, costruiti geometricamente, non hanno le ambivalenze tipiche dei sogni, parlano fin troppo chiaro e servono a smentire completamente i comportamenti diurni delle due. Filtrano poi, senza scavarli ma schematizzandoli, i sentimenti delle due donne, riducendoli a idee conclusive. Si adeguano cioè alla meccanica del racconto: il primo sogno delle due donne rivela il conflitto tra loro, mentre il secondo ha funzione catartica e prelude alla “soluzione di compromesso”.

    Il genere di racconto a me pare quello del «conte philosophique» d’epoca illuministica. Ha un intento maieutico, intellettuale e moraleggiante, che mi pare intuito da Annnamaria (Locatelli) quando scrive: «i racconti di Franco Nova si presentano come dei rompicapo dell’anima, dei labirinti di specchi, ma suonano anche come delle sfide». E la sua filosofia di fondo è racchiusa in questa frase: « Erano finalmente nemiche e l’antipatia reciproca, per tanti anni covata e mai riconosciuta, era sbocciata in tutto il suo splendore di fondamentale sentimento umano». L’inimicizia come fondamento, dunque, dei rapporti umani: un’antropologia pessimistica o realistica, a seconda dei punti di vista.

    Ma perché il racconto è centrato proprio sul rapporto madre/figlia (e non padre/ figlio o fratello/ sorella o altro rapporto)? Qual è il bersaglio che si vuol colpire? Per me il narratore vuole scovare il conflitto proprio dove meno il senso comune se l’aspetterebbe: tra donne, tra una madre e una figlia.

    Ciò detto, correggerei o obietterei a molte delle interpretazioni che sono state finora fatte:

    Non vedo nessun «sapore gotico» in questo racconto. L’ambiente in cui si svolge è moderno e metropolitano senza simbolismi o rimandi all’arcaico o al profondo:
    «La figlia non riconosciuta, sfiorita ma ancora robusta e in buona salute, disse che aveva un ottimo posto di lavoro, guadagnava bene, aveva in proprietà un appartamento piuttosto grande».
    E quand’anche qualcosa di un passato “premoderno” affiorasse, si presenta nel testo come generica inquietudine, subito accantonata, nient’affatto indagata e non scombina la cristallinità del racconto: «L’inquietudine cresceva ancora per qualche minuto, a dire il vero, quando tirava fuori l’auto dal garage; non appena partita, però, tutto si acquietava e tornava ad intorbidarsi solo quando la sera, dopo aver girato di qua e di là uscita dal lavoro, doveva per forza rientrare a casa».
    Né vedo cosa ci sia in esso di «femminile» o di sensibilità “al femminile” se non le “personagge”. A me il punto di vista non sembra neppure maschile, ma appunto impersonale e fin troppo esterno rispetto alle figure femminili. Né mi pare che il testo giustifichi le interpretazioni “politiche” che sono state affacciate: dove starebbe l’americanizzazione alla Grande Fratello onnipervasivo?

    Se si sfuggisse alla eccessiva identificazione con le “personagge” e non si usasse il racconto come fosse una macchia di Rorschach per far emergere i propri vissuti, si vedrebbe meglio che si tratta di un racconto-macchina, perfetto nella sua costruzione circolare, precisa e meccanica. A me fa pensare ad un orologio con le due lancette, la grande e la piccola (la madre e la figlia), che prima quasi coincidono («Erano vicinissime»), poi si divaricano («La mattina si svegliarono quasi contemporaneamente, si guardarono senza nemmeno scambiarsi un cenno di saluto»; « Non una parola corse tra madre e figlia, sembravano e anzi erano due perfette estranee») o se ne vanno in direzioni contrapposte; e poi, nella seconda fase (quella post-panchina), si ricongiungono («L’equilibrio fu pressoché perfetto fin dall’inizio della convivenza. La lavoratrice si alzava per tempo, si lavava e vestiva con cura, mentre la vecchia preparava gustose colazioni»).

    I tratti stereotipati di madre e figlia sono accentuati da uno stile narrativo secco e tutto mirato a fissare soprattutto i comportamenti esterni delle due.E in maniera volutamente e coerentemente irrealistica. Ad esempio, il passaggio dalla convivenza amorosa delle due alla rottura è appunto automatico, brusco e senza sfumature o preparazione:
    « Arrivò l’una, le due, le tre. La ragazzina non tornava e la madre, tranquilla, era concentrata sulla scialba e monotona storia di un ganimede di provincia che seduce una ragazza, la lascia incinta e poi ne seguono mille sciocchezze melodrammatiche per il suo rifiuto di “riparare”.»
    Anche il non riconoscimento dopo anni di separazione tra madre e figlia sulla panchina (« Non la riconobbe, ma era sua figlia. Non poteva più riconoscerla dopo tanto tempo e con così grandi cambiamenti fisici; e lo stesso dicasi per la figlia nei riguardi della madre ») è irrealistico. Secondo me, i tratti fondamentali di un corpo o di un volto non diventano per l’età completamente irriconoscibili. Però si tratta di un irrealismo accettabile, perché funzionale al tipo di racconto.
    Rita (Simonitto) parla di comportamenti autistici («Sono personaggi, diciamo, al limite dell’autismo dove non ci sono legami né di amore né di odio ma movimenti di attrazione e/o repulsione»), ma io riporterei questa osservazione dal piano psichico ancora a quello narrativo per dire che madre e figlia, proprio perché schematizzate, sono funzionali al «conte philosophique» o, se vogliamo, al«racconto-favola» per adulti o a tesi.
    I cambi di scena sono rapidi e inspiegati:
    «Una sera che erano andate a dormire assieme, quasi subito dopo cena, parlarono più del solito prima di spegnere la luce. Di colpo, e nel medesimo momento, si addormentarono e sognarono».
    Non c’è tempo per divagazioni o precisazioni. Il racconto punta ad altro, non si fa distrarre dalle mille pieghe della quotidianità.
    Le “personagge” servono perciò a presentare un’idea, non hanno una loro autonomia non si distaccano dallo schema che devono rappresentare. Nella prima fase abbiamo il polo massimo ed enfatico dell’amore, nell’altra fase il polo massimo ed enfatico dell’indifferenza. Bianco e nero. La sfumatura o il dubbio o la variante nel racconto filosofico a tesi non ha spazio. L’idea prevale sul personaggio.

    Anche il ruolo del libro a me sembra accentuare la finzione letteraria e serve ad esaltare ancor più la circolarità del racconto:
    «Tornò alla sua poltrona, si mise comoda e riprese a leggere di un ganimede di provincia che seduce una ragazza, la lascia incinta e poi ne seguono mille sciocchezze melodrammatiche per il suo rifiuto di “riparare”. Si risovvenne d’un colpo, e con rara precisione, di quando l’aveva avuto in mano l’ultima volta, tanti e tanti anni prima. Si ricordò tutto, del sogno di quella notte lontana, della figlia giovanissima che credeva di amare e che da quel giorno cominciò a dimenticare».
    E a sottolineare la “morale” :
    «Nemmeno si era accorta che la sua non era stata una vita felice. Adesso veniva ripagata. Bando però a quei pensieri; voleva godersi le sciocchezze del libro che non aveva più letto da allora. Era come riannodare un filo».

    P.s.

    1.
    Tutta la lettura di Rita andrebbe riesaminata con più attenzione. Ma qui mi soffermo su un punto. La sua interpretazione, per l’insistenza con cui si parla del ‘terzo’, « una figura maschile che imprima un movimento di separazione tra queste due donne», mi fa pensare ai dibattiti polemici tra Lacan e Luce Irigaray.
    Mi chiedo: ma questa sorta di invocazione del terzo, del maschio, del padre, non è voglia d’autorità (se vogliamo metterla sul piano politico)? E non è rifiuto (non dichiarato) per la politica del separatismo femminista degli anni Settanta?
    Questo elemento non viene preso in considerazione da Rita. Eppure a me sembra importante: le due donne del racconto finiscono per condurre proprio una vita separata dagli uomini, ad essa finiscono per adattarsi e in essa trovano un «riassestamento degli equilibri», una convivenza tra donne senza il “terzo” (maschile).
    Mi verrebbe da chiedere, dunque, maliziosamente: come leggerebbero questo racconto la Muraro (o la Melandri)? Chiederebbe – la prima in particolare, che aveva teorizzato l’affido tra sole donne, e l’autorevolezza della donna-madre – l’intervento del padre?

    2.
    E poi “il terzo” non potrebbe essere nel racconto proprio il tempo trascorso, separatamente l’una dall’altra – nella solitudine o in altre attività?

  21. …solo due parole, poi semmai altro. Ennio caro, a tuo specifica dote, di autentico “intellettuale”, hai arricchito la mia cassa a scatola, metatoracica e metacranica, in modo che la commozione e la riflessione, si unissero a tal punto da rimanere muta. Cio ha fatto, peraltro, che è come se fossero intervenuti decine e centinaia di uomini e di donne, mai viste nella storia di questi temi. Ti abbraccio insieme a queste e questi tutte e e tutti.
    tua scatoletta rò

  22. Spinta dall’intervento di Ennio riguardo alle domande sul ‘terzo’, e anche a seguito di altre sue osservazioni su cui risponderò via via, ho riletto ancora il racconto di F. Nova.
    A questa ulteriore rilettura mi è parso che il narratore si sia a sua volta collassato nella circolarità dei suoi personaggi, come se fosse egli stesso preso dentro quell’ingranaggio e non fosse in grado di uscirne.
    Si tratta solo di una esigenza stilistica che con *freddezza intellettuale* e accentuando *uno stile narrativo secco* per trattare *di un racconto-macchina, perfetto nella sua costruzione circolare, precisa e meccanica* e dove *l’idea prevale sul personaggio*? – come scrive Ennio – oppure, leggendolo come una forma di ‘psicodramma’, è invece l’autore che ha bisogno di riprodurre quella circolarità alla ricerca di un esito? Non lo sappiamo (e non ci riguarda, anche se la curiosità è tanta).
    Ma rimaniamo al testo. Ennio fa una associazione con i “racconti filosofici” di stampo illuministico, ma questa, pur suggestiva e, per certi versi, arricchente ipotesi, non mi sembra attenere a questo lavoro.
    Nei “contes” l’intento educatore illuministico era palese, pur nascosto dal personaggio e dalle sue vicissitudini (sto pensando al Candide di Voltaire): si intuiva dove l’autore andasse a parare. E proprio pensando al Candide, non viene qui messa in luce la parodia dei luoghi comuni, come rileverebbe rò, sui ‘buoni sentimenti materni’.
    La presenza dell’intendimento moraleggiante e/o pedagogico c’era ancora di più negli ‘exempla’ del XIV secolo, dove veniva esplicitato, attraverso l’apologo, lo sviluppo di ciò che si intendeva dimostrare.
    Qui non c’è niente di tutto questo. Anche la circolarità del discorso (o il *circolo vizioso* come lo chiama Ennio) viene solo ‘mostrata’ ma non ‘dimostrata’.
    Come se le relazioni fossero degli ‘oggetti’ che vengono osservati nei loro pseudo mutamenti e presentati al lettore ma senza alcuna analisi. Oggetti ‘automa’. Anche i sogni perdono la loro ricchezza onirica che li rende carichi di mistero: non si capisce, infatti, come da questi ‘sogni’ si passi a prendere decisioni così importanti.
    Stabilire poi che *Erano finalmente nemiche e l’antipatia reciproca, per tanti anni covata e mai riconosciuta, era sbocciata in tutto il suo splendore di fondamentale sentimento umano* è, a dir poco, riduttivo e semplicistico; quindi, non può assolvere a quella funzione maieutica che i “contes” invece si ripromettevano.

    Ha ragione invece quando dice che *non è per niente ‘femminile’*.
    Ma non è nemmeno ‘maschile’: forse è quel Ganimede – il quale, come ho accennato nel mio intervento precedente, rappresenta una funzione ‘perversa’ – che riappare nel ritorno circolare del libro.*Anche il ruolo del libro a me sembra accentuare la finzione letteraria e serve ad esaltare ancor più la circolarità del racconto* (Ennio).
    E qui ci sarebbe da fare un lungo discorso sulla funzione della perversione in quanto inibitrice dell’avviarsi dei processi, delle trasformazioni e, in ultima analisi dell’accettazione del tempo che passa. E che passa per rotture, non per circolarità.

    Ennio, a fronte del mio *invocare « una figura maschile che imprima un movimento di separazione tra queste due donne»*, si domanda *ma questa sorta di invocazione del terzo, del maschio, del padre, non è voglia d’autorità*?
    Partiamo dalla sua osservazione: *Anche il non riconoscimento dopo anni di separazione tra madre e figlia sulla panchina […] è irrealistico. […] Però si tratta di un irrealismo accettabile, perché funzionale al tipo di racconto*.
    Ennio si richiama alla ‘realtà’ per definire ciò che è irrealistico da ciò che non lo è, e , al contempo, può accettare l’irrealistico non per aderire alla ‘folie à deux’ delle protagoniste ma solo perché l’irrealismo è ‘funzionale’ alla narrazione.
    Ecco, anche questa possibilità di fare confronto appartiene alla funzione ‘terza’. Che poi ‘simbolicamente’ (e perché ci possa essere una separazione è importante attivare la parte simbolica) essa appaia come ‘figura maschile’ o come ‘figura paterna’ (che, a quanto pare queste due donne, sempre stando al racconto, sembrano non avere alba di che cosa si tratti), non necessariamente deve declinarsi con l’autorità (o ‘autoritarismo’ secondo una visione culturale d’antan). Se pensiamo a quanto ‘autoritarismo’ ci sta in questa ‘dolce’ vecchina!!!
    Quanto al *tempo trascorso*, come dice Ennio, che potrebbe fare da terzo, direi di sì, a condizione che esso sia servito a fare il lutto sulla ‘separazione’. Ma se queste due negano le loro separazioni (una mai sposata e l’altra orfana), il tempo non esiste. E’ come il meccanico girare di lancette: non passano le ore in quel modo!

    Ultima cosa e chiudo qui.
    Rispetto all’americanismo.
    *dove starebbe l’americanizzazione alla Grande Fratello onnipervasivo?* si chiede Ennio.
    L’americanizzazione non riguarda affatto il Grande Fratello, ma parte dallo spunto che ho preso da Giuseppina: *il problema di fondo è ‘far finta che tutto va ben’* Che poi corrisponde a quella ‘morale’ che Ennio vede alla fine del racconto e cita: * a sottolineare la “morale” [del racconto]:
    «Nemmeno si era accorta che la sua non era stata una vita felice. Adesso veniva ripagata. Bando però a quei pensieri…*
    Non traspare nei due *automi* nessuna presa di coscienza circa il danno fatto ma, anzi, si riannoda tranquillamente il filo come se nulla di tragico fosse accaduto.
    All’americana. Appunto!

    R.S.

  23. …certo questo racconto non cessa di farmi cambiare prospettiva, soprattutto dopo gli ultimi due interventi di Ennio e di Rita…come una storia stanata dall’ombra e poi catapultata di nuovo nell’ombra. L’effetto su di me. Certo anch’io ora lo vedo poco al femminile…quasi un racconto fantascientifico sulla prospettiva poco allettante dell’umanità. E sì, ci rientra anche il Grande Fratello: l’occhio dello scrittore (ma anche nostro) che guarda le personagge come se guardasse i pesci in un acquario o piccole cavie in una gabbia…Movimenti fisici e di pensiero intrappolati in una ripetitività assoluta di uno spazio circoscritto. Ma possiamo essere proprio noi i personaggi dell’acquario con un grande occhio che ci guarda…C’è in effetti, grazie al Sole, un recupero di vitalismo nelle due donne che permette una sorta di ripresa su livelli minimi di sopravvivenza. Ma manca un motore che generi un vero cambiamento e una progressione di vita. Il pianeta-acquario è destinato ad estinguersi…Forse la causa è proprio l’assenza del “terzo”, che è relegato a un ganimede screditato. Madre natura che genera una natura sempre più piccola, più insignificante e infeconda. Potrebbe essere la morale del racconto filosofico? Ma quanti racconti alla fine!

    1. ma il terzo non è “un” terzo, un maschio, padre o ganimede, il terzo è la relazione: quindi riconoscimento, quindi continuità del tempo, quindi prodotto (figlio, azione, storia), e qui si inserisce il tema dell’autorità, cioè dell’attribuzione di un senso, di una direzione
      invece tutto il racconto è bloccato in un due che si ripete, si specchia invertendo l’asse di simmetria… e si riposa, perché Nova sa che, comunque, tutti abbiamo bisogno di consistere in qualche modo, si riposa in questa assurda altalena alienata e bloccata … hanno visto la Medusa

  24. …scrivo qualcosa come stamane e come un po’ a spizzichi e bocconi, parallelo nutrizionale d’obbligo , visto il ciclo di certe colazioni nei suoi canoni e canoni inversi. La faccio fuori in due minuti ‘sta cosa…il rovesciamento nel rovesciamento quasi a tendere all’infinito, è così presente anche in questo racconto, che i due tempi ( che però raddoppiano, si sdoppiano, si ritriplicano etc) quasi si annullano dando luogo e spazio a un altro tempo, narrato e soprattutto non narrato. Mi spiego. Questo rovesciamento, tecnica sicuramente presente anche in altri racconti di “Supernova” (pur come segnala Ennio in ogni suo ricco strumento) che a mie parole definisco “scheletrico”, assume e deve assumere entrambi i lati (positivo e negativo, o femminile e maschile e altre sigizie simili) come una pila alla torcia/lanterna della vita (senza ulteriori qualificazioni di portamento ottimistico o pessimistico nel percepirla di sé o dell’umanità , relazioni e rapporti) …lo scheletro regge l’impianto ulteriore che, ogni vissuto delle parti del circolo o del quadrato o della spirale di lettura, vestirà di arterie, vene, organi, nervi, muscoli etc tessuti connettivi essenziali al matrimonio perfetto fra scrittore o lettore, voluto o non voluto dallo scrittore stesso. E immagino a questo punto, quante risate (amare e/o dolci, salate o aspre…) si sta facendo Supernova, quasi piacevolmente incazzato, in quanto distratto da questo dibattito che potrebbe continuare all’infinito, azzerando i tempi e rovesciando ogni volta il lettore e lo scrittore stesso, nei rompicapi del rompicapo della vita in cui ognuno è l’artefice del suo tempo , del suo presunto dritto o rovescio, presunti rovesciamenti di entrambi…..(ad libitum)

    1. Non si riesce a sconvolgere la vita delle donne, sono molto più pietre di quanto si pensi. Pietre a volte preziose a volte come ciotolato duro da calpestare per arrivare ad una bella chiesa con molti invitati dove madre e figlia prima o poi si ritrovano e non ricordano il loro dolore né quello che dietro di loro hanno lasciato.
      E’ così per ogni femmina , sopportare e poi pensare che era meglio prima…no, cioè, dopo…ma se ci penso il durante non è da trascurare…ma se ci penso era così che doveva andare…ho sopportato ma adesso…ce la faccio, ce la faccio grazie…non ho bisogno di qualcuno….beh ti amo…vedremo…ho una figlia…mi assomiglia… vedremo…ti aspetto…non so non ricordo e non me ne frega più niente…dov’è mia figlia? Andiamo.

  25. Sicuramente l’autore ha rimarcato la dose delle ‘ovvietà’ che ci sono in un rapporto, che può essere di natura filiale, o più genericamente intesa sotto l’aspetto affettivo. E su questo sono d’accordo anch’io come Ennio che si tratta di stereotipi portati all’eccesso.
    Tuttavia, la questione irrisolta (condivido in toto la lettura che ne fa Rita) resta tale se pensiamo che un sogno o due – non fa differenza il numero (e credo nemmeno il genere) – possa determinare un mutamento così radicale nella vita delle due donne in questione, al punto da dire: “Erano finalmente nemiche e l’antipatia reciproca, per tanti anni covata e mai riconosciuta, era sbocciata in tutto il suo splendore di fondamentale sentimento umano.”
    Si tratta di un passaggio cruciale (Nova parla di inimicizia laddove prima c’era unione totale), in cui senza colpo ferire d’improvviso la pace domestica viene mandata al creatore. E senza che ci sia un benché minimo accenno né sul come né sul perché.
    Ma forse, e dico forse, si potrebbe ancora capire che quella quotidianità nascondeva delle insidie (la routine delle colazioni e della buona notte); insidie che, sebbene non esplicitate nel racconto, a lungo andare hanno impoverito anziché arricchire il rapporto.
    Ma, come spiegare poi (di nuovo il terzo incomodo) la ritrovata serenità, a fronte di un periodo di allontanamento così traumatico, mentendo perfino nel presentarsi?
    Figure stereotipate anche secondo me, dicevo, e spesso si passa come dal giorno alla notte. Solo che qui passiamo dalla notte degli abbracci e del sogno-rivelatore al giorno della panchina e del sole… E si torna a rileggere l’antico manuale… Sarà che l’autoanalisi non è più di moda, ma a me la cosa non mi convince.
    Sono questi aspetti psicologici irrisolti che caratterizzano il racconto come ‘gotico’.

  26. …la medusa, lo scheletro, il convitato di pietra…sembra davvero che qualcosa manchi all’appello in questo racconto…un’esperienza traumatica vissuta con ripercussioni all’infinito? E l’indifferenza, le soluzioni robotiche del vivere e la cortina di ferro dei vuoti di memoria sono le forme di autodifesa delle due “sopravvissute”? Ma in realtà sono davvero le vittime ? Oppure vi è rappresentato giano bifronte? Come sembra suggerire Ro…grazie delle dritte per vedere di uscire dal labirinto..

  27. Sono stereotipi anche i personaggi delle fiabe. Il racconto si snoda tra le domande che pone, per questo mi trovo sostanzialmente d’accordo con la lucidissima analisi di Ennio. Anche a me pare che Nova non sia interessato ad approfondire più di tanto; non per superficialità ma per mettere il dito nell’amore genitoriale, dove il segreto sta nel fatale incontro, quasi che una legge inspiegabile (d’amore, si potrebbe dire) porti ad unire quel che non può essere diviso. Qualcosa di simile al dogma religioso del matrimonio. Ma questi sono misteri per tutti, credenti o non credenti. Esiste una forma naturale d’amore libera da condizionamenti e patologie, un amore naturale? Sì, che io sappia esiste in tutti i mammiferi. Lo scrivevo in una poesia, in questi versi: (… ) non poveri come sanguisughe, attaccati al respiro degli Altri: per amore, Dicono, Come se per amare contasse solo Il Nutrimento materno, Che per this La Scelta non mancherebbe Tra Gli Animali. No, E’ Questione di architetture / di Tensioni in Equilibrio (…)”

  28. Ringrazio tutte (ed Ennio) per il nutrito fuoco di fila su questo racconto. Non sono in grado di rispondere a tono a tante osservazioni. Mi sembra certo evidente che nel racconto vi sia un che di meccanico e di freddo. In effetti, scrivo questi racconti come distrazione e scaricamento delle tensioni legate ad altro lavoro da me considerato principale: quello teorico con pretese scientifiche. Sia chiaro che è principale non perché lo consideri più importante e nemmeno perché sia quello più rispondente ai miei interessi o perché vi sia appassionato. Semplicemente è quello che riesco a far meglio mentre non mi sembra di riuscire come vorrei in questo specifico campo. Quindi le puntate che vi faccio sono per me distrazioni; con in più una punta di malinconia perché vorrei invece essere un vero scrittore e magari poeta, e dedicarmi a questo e non alla scienza (o a qualcosa di similare ad essa). Da qui nasce la profonda antipatia che provo nei confronti di quasi tutti i personaggi dei miei racconti. Antipatia e perfino, talvolta, una punta di disprezzo. Forse l’unico che tratto meglio è un certo Bombo di un racconto (“Bimba e Bombo”) che non presenterò mai, credo, ai lettori giacché è vagamente simile a me; o meglio prova dei sentimenti (delusione e amarezza e sofferenza) che magari potrei provare io.
    Ad Ennio dico che non considero l’inimicizia come fondamentale nei rapporti intersoggettivi. E’ uno strumento a volte utile nel conflitto. Tuttavia, quest’ultimo si scatena tra esseri umani, tra gruppi sociali, tra nazioni, ecc. a causa dello squilibrio sempre esistente nei processi che riguardano l’interazione tra queste diverse “soggettività”. Si cerca di sanare tale squilibrio tentando di acquisire una prevalenza che rappresenti un solido terreno su cui queste ultime possano poggiare, sperando di sostarvi a lungo; ma invece la permanenza è ancora rimessa in discussione dal suddetto squilibrio. E così via senza sosta. D’altronde, senza questo conflitto nulla di nuovo si produrrebbe, tutto rimarrebbe statico e come in una sorta di incantamento. Tuttavia, il conflitto fa nascere anche i sentimenti di amicizia, di amore, ecc.; o almeno l’alleanza. Nessuno può battersi da solo; chi lo fa è destinato a sicura sconfitta. E allora deve nascere solidarietà e unione, stretto legame tra varie “soggettività” per resistere a quella che ci appare sempre come aggressione altrui; e che si muta ovviamente in nostra aggressione ad altri, ma sempre con la sensazione che in fondo ci stiamo difendendo, che sono questi altri ad avere comportamenti importuni e nocivi per noi. Ma comunque, qui il discorso si potrebbe fare in effetti molto lungo. Quindi ringrazio ancora tutti(e) e mi fermo.

  29. Ringrazio io pure Franco [Nova] per queste precisazioni che ci ha fornito sulla genesi dei suoi racconti apparentemente “di risulta” o scritti “per distrarsi”. Io li trovo sintetici, ben pensati e centrati su temi sempre intriganti e fondamentali. Perciò il mio invito fraterno è ad insistere, a scriverne di più e a far confluire in questa forma narrativa del racconto breve sia il patrimonio di conoscenze scientifiche da lui accumulate esercitando l’attività principale sia l’esperienza diretta delle “genti” che ha conosciuto. L’antipatia verso i personaggi ( o gli uomini e donne rappresentati sul piano dell’immaginario) è solo la “molla” di partenza e non mi pare affatto un impedimento per una scrittura di pensiero come questa.

  30. E’ molto illuminante il chiarimento di Franco Nova che getta una luce sulla tragicità dei suoi personaggi condannati ad una circolarità ripetitiva, dove il tempo non passa mai.
    E’ il circuito perverso, fonte di grande amarezza, che si può creare fra il *fare le cose che si sanno fare*, come fa la madre ‘accudente’, ma senza amore (perché quello si sarebbe rivolto altrove); e il voler amare con la garanzia che esso amore venga ricambiato in eguale misura (*essere un vero scrittore e magari poeta*). Ma, non avendo questa garanzia, si scrive *per distrazione*.
    Mi sembra importante, a questo punto – come inserimento del ‘terzo’ di cui si è parlato in questa serie di interventi per uscire dalla circolarità – l’invito fraterno che Ennio fa a Franco Nova e cioè di *scriverne di più e a far confluire in questa forma narrativa del racconto breve sia il patrimonio di conoscenze scientifiche da lui accumulate esercitando l’attività principale sia l’esperienza diretta delle “genti” che ha conosciuto*.
    R.S.

  31. Ringrazio Ennio e Rita, e cercherò di seguire l’invito, anche se ho spesso bisogno di uno stimolo proveniente dalle “genti che ho conosciuto”. Non sono del tutto d’accordo che nei miei racconti il tempo non passa mai. Passa, passa, e procura solo dolore e, qualche volta, melanconica nostalgia. Anche se io preferisco sempre ridere e scherzare. Per il momento, ho chiesto di pubblicare “Lotta a morte”, in cui si esprime la decisione di resistere alla morte; e nel contempo si riconosce l’inutilità della lotta in tal senso. Anzi forse, chissà, non è nemmeno male adattarsi (e acquietarsi) agli “ordini superiori” (di Dio o della Natura a seconda delle preferenze) per finirla con tanti accanimenti senza esito né positivo né negativo. Dopo, magari non sarebbe male pubblicare la “Bambina nel bosco”. Lì certo si vede il desiderio di non far passare il tempo, ma anche la coscienza che invece scorre inesorabilmente e tutto diventa – e se va bene – pura fiaba e racconto di qualcosa che ha finito di esistere del tutto; e che nessuna memoria può ricondurre ad un benché minimo riapparire. Basta vedere come finiscono i “grandi” dell’arte, della scienza, della filosofia, ecc. Tutti i viventi di ogni data generazione si sbizzarriscono in centocinquantamila interpretazioni, ma quell’essere umano specifico è solo “polvere alla polvere”. Non esiste più, serve solo da scusa a chi ancora vive per esercitare la nostra prerogativa specifica che è il pensiero. Poi anche noi diverremo fiaba e racconto. I più solo per i figli e gli amici e qualche “nipote” che ne ha sentito parlare. Per i pochi di cui resta la memoria (o per gli scritti o le gesta, ecc.) si tratta solo di occupare un bel loculo nel mausoleo delle “celebrità”. A quell’essere umano “tanti saluti e buona notte al secchio!”

    1. @ Franco [Nova]

      Appena possibile pubblicherò sia «Lotta a morte» che «Bambina nel bosco». Ma per ora, non sapendo approfondire un tema tremendo e millenario come quello a cui tu accenni, vorrei accostare a questa tua affermazione dagli echi biblici:« Tutti i viventi di ogni data generazione si sbizzarriscono in centocinquantamila interpretazioni, ma quell’essere umano specifico è solo “polvere alla polvere”. Non esiste più, serve solo da scusa a chi ancora vive per esercitare la nostra prerogativa specifica che è il pensiero» un testo letto in passato, che un po’ gli fa da contraltare e potrebbe alimentare (con altro tipo di legname e spero producendo un qualche benefico calore!) il fuoco della tua ispirazione.
      Da esso stralcio le considerazioni sul genere “rifacimento” e sui modi di tradurre che, in questo nostro contesto, sono secondarie, scannerizzo solo i passi che alludono alla questione da te sollevata:

      UN RIFACIMENTO DELL'”ECCLESIASTE” *

      Il catastrofismo del secolo, diciamo: la sua ne-
      crofilia, inducendo a scorgere nel passato dei monu-
      menti più che dei documenti è sommamente disposto a
      considerare l’eredità appena una congerie di materiale
      spoglio, qualcosa di simile a macerie o relitti lasciati in
      riva all’oceano da inesplicabili bufere; e sostituisce, ove
      può, alla interpretazione il rifacimento, beffandosi della
      filologia.
      […]
      Naturalmente il
      terreno elettivo di simili operazioni è quello dei classici.
      Nel caso dell’Ecclesiaste, si ha a che fare con uno dei
      modelli fondatori dell’Occidente, nei cui confronti è dunque
      persino ridicolo parlare di rispetto o del suo
      contrario. La maggior parte di quel testo è passata in
      proverbio; e quei proverbi non sono frequentati che
      come nostalgia (non si sa bene di che), né senza brividi
      di spavento o disagio. E si passa nelle loro vicinanze
      come in quelle di certi venerabili musei dei quali sem-
      pre si sente parlare ma dove non si è entrati più di una
      o due volte. E, appunto, quei monumenti, non ci av-
      vediamo più di considerarli attraverso una lente di se-
      coli e di testi. Di qui la paradossale legittimità di «let-
      ture» come la presente che Lolini propone e che si vo-
      gliono, o fingono di essere, vergini.
      […]
      Per pensare a riscrivere
      un testo come questo, bisogna insomma avere, ad un
      medesimo tempo, molta fiducia nel linguaggio e molta
      disperazione nella continuità della esperienza storica.
      E allora dico subito qui quel che dovrei dire in conclu-
      sione e cioè questa contraddizione è il punto più debo-
      le e più forte del testo biblico. È sintomatico che Ce-
      ronetti, traduttore di questi venerabili lamenti, si esalti
      per la loro radicalità, fino al punto di dichiarare la
      propria diffidenza per le analoghe forme di disprezzo
      del mondo che lungo i secoli cristiani paiono derivare
      dall’Ecclesiaste; come quelle che, distinguendo fra la
      vanità del Qui e l’assoluta verità del Di là o del Di
      sopra, reintroducono la categoria della speranza che
      invece il testo biblico escluderebbe assolutamente. Ma

      conosciamo l’inganno verbale che si cela dietro ogni
      pretesa di negazione assoluta. Detto in fretta, la nega-
      zione assoluta stabilisce un’area, quella del locutore,
      che è silenziosamente esentata dalla negazione. E il ca-
      so di tutti i pessimismi aristocratici e di radice gnosti-
      ca. Mentre invece la negazione relativa, indicando un
      ordine o un piano o un tempo nel quale essa può esse-
      re o sospesa o volta in positività, decreta che quell’or-
      dine o piano o tempo potenzialmente sono o sarebbero
      abitabili a tutti. La ginestra ne sa qualcosa.
      […]

      ( Da F. Fortini, Un rifacimento dell'”Ecclesiaste”, in “Saggi Italiani 2”, Garzanti, Milano 1987, pp. 345-350)

      *L’autore del rifacimento dell’ «Ecclesiaste» è lo scrittore Attilio Lolini

  32. Apprezzo molto le ”confessioni’ di Franco Nova, ne ricavo l’impressione di una persona attenta ai cambiamenti e protesa verso la conoscenza degli altri. Tratti non da poco, soprattutto in uno scrittore, poco importa se di professione o occasionale, come in questo caso (ma a me non sembra).
    L’attenzione per i rapporti con l’altro, quella che Nova chiama “l’inimicizia”, e che egli considera come non fondamentale nei rapporti intersoggettivi, bensì “uno strumento a volte utile nel conflitto”, è antropologicamente perfetta, a mio modesto parere, e chiarisce al mio pensiero molti aspetti che avevo definito ‘oscuri’ nel suo linguaggio. Per cui lo ringrazio molto, e aspetto di leggere altri suoi racconti.

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