Sulla poesia di Eugenio Grandinetti

marino marini

di Luciano Aguzzi

Pubblico, come anticipato, questo articolato intervento di Luciano Aguzzi sulla poesia di Eugenio Grandinetti. Era stato inviato in un primo momento come semplice commento al post La storia/le storie (qui) ma i temi affrontati (pessimismo, nichilismo, rapporto  tra poesia e prosa,  memoria) meritano tutto il rilievo che un blog di ricerca critica può offrire. [E.A.]

L’amico e collega Eugenio Grandinetti (Belsito, Cosenza, 20 marzo 1931) è sulla breccia letteraria da parecchi decenni e autore di circa quaranta raccolte, solo in minima parte edite. E anche delle edite, solo due sono in commercio, mentre le altre sono edizioni fuori commercio e introvabili. Per darne un giudizio complessivo sarebbe necessaria una lunga riflessione sulla qualità e sulle forme letterarie, sulle tematiche affrontate, sulle ragioni (se esistono, come io credo) della sua prolificità che, con l’età e i molti problemi di salute, non si è attenuata, quasi ad esprimere un desiderio, forse una vera ansia, di dire tutto finché ha tempo, in una condizione in cui il tempo – per lui – sembra ormai identificarsi proprio con lo scrivere e l’esprimersi in versi. Nella sua poesia si avverte la sua concezione naturalistica – materialista – atea e il non credere a qualche tipo di sopravvivenza oltre la morte. Da questa concezione filosofica deriva un tormentato pessimismo che, a differenza del naturalismo ateo e materialistico classico al quale pure Grandinetti si rifà, non trova quiete nella contemplazione della natura e nella considerazione della necessità delle cose e del destino, ma anzi tende a interpretare il ciclo della natura come metafora di un eterno ripetersi senza scopo del mondo e della vita umana. Ripetersi aggravato, non arricchito, dalla consapevolezza (dai desideri, dalle passioni, dalle illusioni) da cui deriva la sofferenza che la natura inconsapevole, almeno, evita. C’è però, implicita e per me evidente, una sensibilità che presuppone il cristianesimo, o almeno la sensibilità religiosa post-classica. Infatti spesso il pessimismo di Grandinetti sembra un rimprovero rivolto a qualcuno o a qualcosa che è colpevole della riduzione dell’uomo al nulla che la morte gli promette. La sua tematica allora diventa polemica, tormento e disperazione. C’è l’affermazione del nulla, ma anche, in qualche modo, la ribellione al nulla. È in questa chiave che si può leggere gran parte della produzione di Grandinetti e i suoi grandi cicli poetici: sulla natura (il fiume, il bosco ecc.), sui viaggi, sui ricordi e sul mondo della sua Calabria natìa, sulla storia, sulla religione dei Flamines, sui temi e personaggi classici, e altri ancora. Dal pessimismo Grandinetti passa anche al nichilismo – come anche su questo blog qualcuno ha sostenuto -, o lo evita? Certo, ogni forma di pessimismo cosmico (che non è mai solo una costruzione filosofica, ma anche e sempre una costruzione soggettiva, un vivere il mondo in una determinata forma esistenziale) comporta una certa dose di nichilismo, che però Grandinetti evita almeno in tre momenti e filoni della sua poesia.
Il primo è quello delle sue molte liriche brevi in cui la natura non è semplice metafora dell’inutile ripetersi della vita, ma anche bellezza, pura contemplazione e sintonia lirica. Qui Grandinetti, fra l’altro, valorizza la sua particolare e sapiente erudizione naturalistica, di esperto cultore di studi e osservazioni botaniche, che emerge anche nell’uso di rari vocaboli che rendono le sue descrizioni di un’accuratezza inarrivabile, riuscendo però quasi sempre ad evitare il tecnicismo. La cultura classica (Grandinetti è stato docente di latino e italiano nei licei) si rivela poi in molteplici forme e innanzitutto nel linguaggio e in certe forme metriche. Il classicismo e il naturalismo fanno di molte sue liriche (liriche in senso proprio, direi quasi nel senso leopardiano dei piccoli Idilli) dei veri gioielli. Questa parte della sua produzione, a mio parere, è la migliore e la più poetica in ogni senso.
Il secondo filone è quello delle composizioni politiche. Grandinetti è un mite uomo, anarchico, che aspira all’uguaglianza, alla fratellanza, alla pace e alla solidarietà fra gli uomini. Ha coltivato i suoi ideali in vario modo (nell’insegnamento, nella specializzazione e nello studio dei problemi di apprendimento dei sordomuti, nella militanza pedagogica che per lui è stata una forma di militanza di significato anche politico) e continua a coltivarli anche con la poesia. E questo non è certo nichilismo! Anche se poi le sue conclusioni sono sempre pessimistiche, perché i suoi ideali non sembrano realizzarsi affatto, vi è pur tuttavia un’energia nella proclamazione dei valori che contrasta sicuramente con il pessimismo di fondo. Anzi, il pessimismo sembra, in parte, nascere o almeno accentuarsi proprio dalla delusione politica ed esistenziale, il che dimostra che ha delle componenti di reazione che non sono assimilabili ad un più tranquillo pessimismo solo filosofico. L’insieme delle sue poesie politiche (a volte anche canzonette e filastrocche satiriche, sarcastiche) è, a mio parere, un aspetto minore della sua produzione, perché più legato a un’urgenza del momento e più frettolosa e approssimata anche nel dettato. La tematica politica, però, si estende anche in una parte della produzione di Grandinetti non direttamente politica, ma in senso più lato sociale e storica, dove ha una valenza che s’incrocia con le tematiche esistenziali fornendole di una robustezza di riflessione diversa da quella più filosofica propria del pessimismo.
Il terzo filone è quello del ricordo, che spesso si fa nostalgia. Per quanto Grandinetti cerchi più volte di deprimere ed esorcizzare questo suo ritornare sul proprio passato, e piegarlo piuttosto al tema delle illusioni perdute e sconfitte, perché, come è proprio della sua concezione pessimistica, le illusioni sono sempre espressione vitali destinate ad esaurirsi nel ciclo della natura e non lasciare nulla fuorché il dolore e il disinganno; per quanto faccia ciò, nel ricordo e nella nostalgia troviamo pur sempre, con insistenti ritorni in molte sue composizioni, l’immagine di quella specie di paradiso terrestre che è stata l’infanzia e la Calabria contadina e umana e ricca di contenuti sociali delle sue prime esperienze di vita. È esistito, in qualche modo, un paradiso terrestre da cui siamo stati cacciati. Di cui però Grandinetti conserva non solo il ricordo e la nostalgia, ma, nonostante tutto, anche l’aspirazione a ritrovarlo, che si traduce poi nei suoi ideali politici di anarchico che aspira ad una società di fratelli in cui i rapporti non siano più regolati dal potere e dalla ricchezza.
Dal punto di vista delle forme di scrittura queste tematiche si traducono in componimenti di vario tipo: da quelli brevi, puramente lirici, ad altri più lunghi di tipo narrativo, descrittivo, riflessivo e persino argomentativo, in cui il respiro lirico si attenua e a volte quasi si spegne, perché il messaggio prende il sopravvento e la forma tende allora alla maggiore semplicità e velocità della prosa. Tuttavia, spesso il senso innato e la forza della struttura poetica riprendono il sopravvento anche nelle lunghe narrazioni, se pure all’interno di una versificazione più discorsiva e prosaica: ciò accade, soprattutto, quando la narrazione stessa, anziché incentrata su qualche particolare messaggio che psicologicamente ed esistenzialmente si fa pressante e vuole traboccare nella scrittura, si ha l’incontro di ricordi e nostalgie, o di fantasie ed evocazioni (sovente del mondo classico e di eventi storici) che formano un groppo di emozioni che prende il sopravvento e si rivela in primo piano, velando o cacciando in secondo piano il “contenuto” specifico del messaggio.
In conclusione mi sembra che la poesia di Grandinetti presenti notevoli variazioni, tra liricità pura e forma prosaica o quasi prosa. Variazioni giustificate e prodotte dalla vasta gamma di temi trattati, ma anche dal momento psicologico (e dal taglio psicologico) in cui e con cui si produce.
A proposito della disputa fra prosa e poesia, non va dimenticato che fino al tardo medioevo sia la prosa sia la poesia osservavano precise forme metriche e la scrittura era solo un promemoria per la lettura personale a voce alta e per la declamazione pubblica. Poi col tempo la metrica è scomparsa dalla prosa e via via tende a scomparire anche dalla poesia. Oggi vi è ormai un’abbondante produzione di poesie e poemetti in “prosa”. Quindi, più che di prosa e di poesia in senso metrico tradizionale, si potrebbe parlare di forme specifiche di scrittura che hanno per oggetto precipuo la “poeticità” (di cui provvisoriamente evito ogni tentativo di definizione). Forme di scrittura che vanno dalla poesia intesa in senso più tradizionale alla prosa vera e propria, ma che in realtà sono ormai un’altra cosa e che si distinguono dalla prosa in senso corrente proprio per la sua intenzionalità poetica, irriducibile a qualsiasi forma precostituita se non a quelle scelte dall’autore. È dunque l’autore che dice: questa è poesia, questa è prosa. Ed è il lettore che ne verifica a suo modo la verità, che non sta tanto nel cogliere una qualche specificità formale, ma nel coglierne la verità o meno in termini di “poeticità”.
Stando così le cose – a mio modo di vedere – un componimento può essere contemporaneamente poesia per uno e prosa per un altro, perché la diversa sensibilità è spesso sufficiente a determinare (per quell’autore, per quel lettore) la differenza.
La poesia di Grandinetti, anche quando sembra prosa, è da lui vissuta come poesia, perché vi è l’intenzionalità psicologica e letteraria di costruire e trasmettere un particolare messaggio in una particolare forma, che è forma poetica. Come lui stesso dice, i suoi versi hanno una metrica incorporata, che pur non seguendo le regole classiche tende però, spesso, a ricalcarne degli elementi (ad esempio l’endecasillabo narrativo ricorre spessissimo). Il lettore può giudicare più o meno riuscito il suo dettato poetico, ma il giudizio va però sempre basato sull’analisi letteraria ed estetica e non banalizzato nel dire «questa è prosa». Perché si potrebbe altrimenti rispondere: «E allora?». Anche la prosa può essere poetica, bella e di alto valore letterario.
Io, come lettore, trovo che la pretesa separazione fra poesia e prosa non abbia molto significato esplicativo. Non indica, propriamente, né i pregi né i difetti della scrittura. E nemmeno, se non in modo solo formale, i generi letterari.
Sicuramente però si può osservare che la poesia di Grandinetti si differenzia da altre forme poetiche per la mancanza – non sempre però – di musicalità. Che è certamente un requisito della lirica e di gran parte della poesia tradizionale. Il suo verso tende sempre alla discorsività, al parlato colto ma semplice e piano. Che però si eleva sia con la declamazione (molte poesie di Grandinetti, infatti, sembrano più adatte alla lettura a voce alta che a quella interiore e silenziosa) sia con l’uso della metrica e delle figure retoriche (mantenendo però sempre una sintassi perfettamente comprensibile senza bisogno di parafrasi e costruzioni).
La mancanza di musicalità è poi dovuta anche a due elementi concorrenti fra loro. Il primo è la preferenza data a un ritmo duro, rotto, che volutamente evita i suoni melodici e ripetitivi preferendo quelli più aspri. Si tratta di una caratteristica (ma ripeto, non sempre è così: nelle poesie più brevi e di più intenso movimento lirico si ha una musicalità più accesa) voluta e in sintonia con il contenuto poetico, per cui non è, di per sé, un difetto. Il secondo, che è invece un difetto, è dato dalle cadute di tono di certi versi, frequenti anche se non determinanti nel complesso. Si tratta di versi ipo o ipermetrici (rispetto al ritmo scelto da Grandinetti, non rispetto alla metrica classica), dissonanti, che abbassano la qualità del dettato come se si trattasse di errori. E infatti, io credo, si tratta proprio di errori, dovuti all’intensa e vasta produzione e, probabilmente, all’uso non abbastanza intenso del lavoro di lima. Sono indotto a credere che sia così anche dal fatto che il confronto fra la prima versione di molte sue poesie con la versione definitiva edita a stampa mostra che alcuni di quei versi sono stati effettivamente corretti. Grandinetti, forse anche a causa dell’età e della relativa poca dimestichezza con il computer, pubblica (autopubblica, presso tipografi e editori che riproducono i suoi file digitali senza sottoporli a nessuna forma di editing) dei testi che presentano molti refusi di battitura, errori che non sempre si sa se sono sviste o errori veri e propri e forme non sottoposte ad una adeguata revisione.
Ma tutto questo, oltre a cause contingenti, trova una causa più determinante in quello che dicevo all’inizio di questo intervento. Spesso – leggendo le poesie di Grandinetti – mi sembra di cogliere una certa trascuratezza nella forma, non perché sia voluta, ma perché l’urgenza di esprimersi e scrivere non gli concede tempo di rivedere con sufficiente calma ciò che scrive. Questo, a mio parere, sottintende sia la volontà di comunicare e lasciare il suo messaggio, sia la sfiducia che ha nella sua utilità effettiva. Egli cerca di comunicare da vivo per i vivi, non preoccupandosi di ciò che sarà la sua poesia fra cinquanta o cento anni. Il messaggio, pertanto, non la correttezza e la bella forma, prende il sopravvento, nella pessimistica convinzione (dichiarata in tante sue poesie) che comunque la comunicazione è un parlare fra sordi isolati e solitari che non si capiscono né vogliono capirsi.
La cifra esistenziale che forse meglio esprime il tormento e la disperazione che si coglie in tante poesie di Grandinetti, che l’inducono anche a questa certa trascuratezza formale, è la mancanza, nella sua intera produzione poetica, del tema dell’amore, a cui solo raramente si accenna appena e più in forme di filantropia che di amore in senso stretto. Come se credesse necessario l’amore universale, sebbene non possibile, relegando fra le illusioni inutili e dolorose l’amore personale. Nella castissima scrittura di Grandinetti la mancanza dell’amore non sembra solo una scelta di discrezione, ma un punto nodale del suo sentire esistenziale. Almeno fino a prova contraria, sempre possibile, perché Grandinetti ha ancora nei cassetti molti inediti, sconosciuti non solo ai lettori dei suoi pochi libri a stampa, ma anche agli amici che hanno potuto leggere le circa 40 raccolte da lui diffuse in poche copie dattiloscritte o, negli ultimi anni, in formato digitale.

40 pensieri su “Sulla poesia di Eugenio Grandinetti

  1. inviato il 14/02/2015 alle 7:29

    Ringrazio di mente e di cuore Luciano Aguzzi per il suo intervento, ricco e articolato, per la comprensione “bio- logica” (in un insieme di visione bio-grafica e bio-poetica) ad una semplice lettrice come. Mi ha aiutato , cioè, a mettere meglio a fuoco, anzi no, a frutto, ciò che riversa il poeta , da dove arriva, dove si è trovato o ritrovato, conosciuto e disconosciuto, in ognuna delle storie della sua storia, intersecata, distante e vicina, da La/ le, a La /le.. nostra/e. Molto interessante , almeno per me, un dettaglio a volte di natura altre di “dis – grazia” umana, che sempre almeno per me, è indice di “santità” , o meglio dire “sacralità” , quale poi il suo strumento alla sua condizione: mi riferisco all’insieme sordo ( ai rumori esterni dell’uomo) e ultraudente ( ai suoni interni) e muto ( come i pesci o le coccinelle, diversamente da una delle tre scimmie) . In ciò la sopraddetta “condizione” del poeta Grandinetti , che apprendo ora, non conoscendolo, addirittura svolta come professione:il linguaggio meraviglioso dei segni, che stanno almeno sempre a me, agli alfabeti di vero con-tatto fra i corpi terrestri (compresi quelli del regno animale, escluso l’essere spensante trannne in determinati condizioni) e quelli celesti diversi ….entrambi dotati, addirittura literras e ante litteram, di ciò che homo sapiens è arrivato a costruirsi pure come (psuedo segni, icone, alfabeti, acronimi, slang e in una parola) connessioni fino ai social network…
    Grazie al poeta e al suo amico “Luciano”

    Inviato il 14/02/2015 alle 7:36

    nota bene
    il mio intervento esclude che il Poeta sia egli stesso nella condizione “tecnica” di sordità e/o mutismo, tuttavia, anche se invece la comprendesse, il senso non cambierebbe, poiché è lo “strumento” che lo fa “uguale” alla condizione “sacra” dei regni e i loro gesti, tocchi, etc etc nella parola , nel prima e dopo la stessa, in un oceano di suoni (al rallentatore scandito dal battito e il respiro del microcosmo all’innumerabile cosmo, tanto in tempesta che in quiete )

    * Nota
    Questi due commenti erano apparsi di seguito al commento ( ora post autonomo) di Luciano Aguzzi e vengono recuperati [E.A]

  2. …La poesia di Eugenio Grandinetti, secondo me, riflette così tanto della condizione umana da rimanerne smarriti alla lettura e perciò ringrazio Luciano Aguzzi per la sua presentazione chiarificatrice ed anche Ro, che ha colto quel nodo autentico e drammatico…quella solitudine-sordità universale ( derivata da un’esperienza soggettiva esistenziale e/o è l’intero genere umano ad aver ricevuto, in tempi remoti, un colpo in testa da “qualcosa qualcuno”?), che crea distanze siderali tra gli altri e noi stessi e viceversa e tra ciascuno di noi, e da lì parte il viaggio dell’uomo alla ricerca di segni e di luoghi che lo riconducano in quel paradiso terrestre fatto di bellezza e di fratellanza, da cui è stato allontanato…un viaggio per mare e per terra destinato sempre a fallire. Resta la possibilità di testimoniarlo come esperienza angosciante, da qui le poesie liriche…Ma se il rapporto persona persona centuplica le ragione di respingimento e di incomunicabilità (mi fa pensare alle conseguenze di una paura risucchiante) quello con l’universalità permette di uscire dall’io che blocca per identificarsi con l’uomo, quello perseguitato, sconfitto, per assumerne le difese…da qui le poesie politiche e di impegno sociale, che, esprimendo la coralità, andrebbero recitate ad alta voce. Ma queste istanze, penso, in Eugenio Grandinetti, quale Ulisse dal multiforme ingegno, si fondono e la sua poesia ha sempre più di una dimensione, che vuole comunicare ai vivi da vivo…

  3. Molti punti della analisi di Luciano Aguzzi intendo sottolineare. Risalendo dal fondo: la mancanza del tema potrebbe anche sanarsi se si leggessero gli inediti, propone Aguzzi, ma a me sembra in accordo, questa mancanza, con il naturalismo pessimistico e nichilistico di cui Aguzzi stesso scrive. (L’amore infatti implica sempre una trascendenza, in sé e verso l’altro, se non viene tematizzato propriamente come naturale illusione, così in Leopardi.)
    Mi ha colpito la precisione di Aguzzi nel tagliare la polemica tra poesia e prosa: “La poesia di Grandinetti, anche quando sembra prosa, è da lui vissuta come poesia, perché vi è l’intenzionalità psicologica e letteraria di costruire e trasmettere un particolare messaggio in una particolare forma, che è forma poetica.” Sono d’accordo sull’intenzione poetica comunicativa, e anche Grandinetti lo aveva precisato, in un commento precedente.
    Mi piacerebbe a questo punto che Ennio Abate ci presentasse una scelta più ampia e guidata della ampia e ancora inedita produzione.

  4. @ Fischer

    Per leggere altri testi di Eugenio Grandinetti basta scrivere il suo cognome in ‘Cerca’ (in alto a destra).
    Segnalo anche questi altri link per i precedenti siti di POLISCRITTURE:

    https://www.poliscritture.it/vecchio_sito/index.php?option=com_content&view=article&id=41:eugenio-grandinetti-flamines&catid=7:arte&Itemid=24

    http://www.backupoli.altervista.org/IMG/Grandinetti_Flamines.pdf

    https://www.poliscritture.it/vecchio_sito/index.php?option=com_content&view=article&id=25:eugenio-grandinetti-il-brindisi-di-brunetta&catid=7:arte&Itemid=24

    Non trovo il tempo per realizzare una scelta più ampia e guidata della produzione inedita o difficilmente reperibile di Eugenio. Spero che possa farlo Luciano Aguzzi.
    Ho fatto il possibile per far uscire dall’oscurità sia la sua poesia sia quella di altri amici (ad esempio lo scrittore/bidello Armando Tagliavento), ma con risultati quasi nulli. C’è troppa distrazione e concorrenza negli ambienti poetici e troppa sordità tra i critici che hanno maggior ascolto presso le case editrici di rilievo (e comunque anch’esse corrotte dalla crisi…).
    Mi spiace, ma credo proprio che il riconoscimento da parte degli amici non basterà a far emergere le voci valide che si muovono nella folla dei “moltinpoesia”.
    E temo che ci saranno altre figure che faranno la fine di Lorenzo Calogero, tanto per citare un esempio di emarginazione “prevista” dal sistema culturale italiano.
    Di quest’ultimo appena adesso ho letto su FB un riepilogo della sua triste vicenda, che qui riporto:

    “Nasce il 28 maggio del 1910 e sarà medico e poeta, medico per necessità, poeta designato. La medicina sarà annullata dalla poesia, sopravanzata, sorpassata, la poesia distrutta dagli altri che ciechi e sordi non hanno mai sentito le sue urla disperate. La sua scrittura non ha eguali, troppo bella per essere capita, manda i suoi manoscritti a Pietro Bargellini e Carlo Betocchi, quest’ultimo lo apprezza ma per vari motivi non riesce a concludere niente. Agita le mani Calogero, tenta di farsi notare, spedisce manoscritti a tutte le redazioni, ma i testi gli vengono restituiti. Nel 1936, a sue spese, pubblica la sua prima raccolta “Poco suono” con Centauro Edizioni. Dopo l’ennesimo rifiuto, non pubblicherà ne “Il Frontespizio”, inizia a pensare che il suo mondo non potrà essere la poesia. Si allontana dalla scrittura e consegue l’abilitazione per esercitare la professione medica, in questo periodo si trasferisce a Siena dove inizierà a fare il medico. La lontananza dalla scrittura inizia a minare il suo stato di salute, sta male ed inizia a soffrire di disturbi mentali. Torna spesso a Melicuccà dalla madre con cui intratterrà una cospicua corrispondenza. Il suo stato versa sempre più in condizione precarie, nel 1942 tenta il suicidio per la prima volta sparandosi con un pistola dalla parte del cuore. Rimane vivo per miracolo. Nessuno a modo di aiutarlo, i suoi fratelli sono in guerra e lui è sempre più instabile; è scontento, il suo impiego non lo soddisfa, fa il medico controvoglia: “sono vissuto nella mia professione come se scrivessi versi”. Nel 1944 si fidanza con una sua compagna di scuola: Graziella. La rottura del fidanzamento, avvenuta dopo intensi scambi epistolari, sconvolge il poeta; la sua vita diventa sempre più caotica e disordinata, lascia il lavoro e si rifugia nuovamente dalla mamma, rimane chiuso in casa e leggerà in modo onnivoro. Ricomincia a scrivere. Nel contempo spedirà i manoscritti a tutti gli editori senza ricevere mai risposta, anche Einaudi fornirà risposta negativa. Sfiduciato e malinconico pubblica nuovamente a proprie spese con la casa editrice Maia di Siena le sue raccolte “Ma questo …” (1955) e “Parole del tempo” (1956). Per problemi di salute viene sollevato da suo incarico di medico, completamente a pezzi, rinuncia alla professione e si rifugia nella sua Calabria da dove non si sposterà più. Prima di tornare a casa si ferma a Roma per conoscere il poeta Leonardo Sinisgalli con cui riuscirà ad avere un rapporto di fiducia, sarà l’unica persona che crederà nella sua poesia. Il rientro a Melicuccà è traumatico, le sue ali sono bagnate e rapprese, annodate, è cosciente di non avere opportunità, si sente frustrato, offeso nella sua dignità di uomo, cammina tentoni. Viene ricoverato nella clinica per malattie nervose “Villa Nuccia” di Gagliano e tenta per la seconda volta il suicidio tagliandosi le vene dei polsi. Anche questa volta riesce a salvarsi. Si innamora di Concettina, una infermiera della clinica, e a lei dedicherà la sua ultima raccolta di poesie: i “Quaderni di Villa Nuccia”. Continua la ricerca disperata di un editore, tutti guardano oltre, nessun riscontro; questa volta non fallisce, il 25 marzo 1961 viene trovato morto nella sua casa. Vicino, in un foglietto, i suoi ultimi versi: “Vi prego di non seppellirmi vivo”. Personalmente, sempre in un foglietto, con grafia incerta e penna con inchiostro rosso, un rosso di vergogna, vi lascio scritto: “Non perdetevi questo poeta, nato in un luogo pieno di torrenti e morto per l’aridità della letterateria paludata consci della loro pochezza davanti a questa poesia incatturabile”.

  5. un avvertimento a chi legge :luciano aguzzi ed ennio abate mi sono amici,non amici d’infanzia perchè tutti e tre siamo emigrati dal paese natale,nè amico di studi per lo stesso motivo.la nostra è un’amicitria da adulti,nata sul posto di lavoro,dove tutti e tre ci trovavamo a lottare (a volte anche da soli,per una scuola migliore.Quindi è un’amicizia basata oltre che su motivi affettivi,anche e prevalentemente sulla stima reciproca.quindi io devo intendere le lusinghiere parole che essi hanno nei miei riguardi influenzate da sentimenti amichevoli e di ciò vorrei avvisare eventuali lettori perchè ne tengano conto. comunque c’è qualcosa che non ci trova d’accordo: infatti sia ennio che luciano considerano pessimistico il tono delle mie poesie,ed io non sono d’accordo. lo sarei se in una bella giornata io mi lamentassi perchè il tempo potrebbe peggiorare.io vedo che la vita su questo nostro mondo è basata sulla predazione da quando dal brodo primordiale alcuni organismi hanno cominciato a differenziarsi procurandosi l’energia loro necessaria appropriandosi dell’energia prodotta da altri organismi.
    inoltre se dico che la vita dell’uomo è destinata ad estinguersi dopo un periodo di decadenza non faccio altro che descrivere una situazione reale:o mi sbaglio? se mai in cvomponimenti come La pietra filosofale” o “gli zampettii dei passeri” mi sembra di esprimere sentimenti ottimistici. accetto i rilievi di luciano sul mio modo di lavorare e sulla scarsa pazienza rispetto al labor limae improbus.
    una precisazione per ro (il cui nome mi ricorda quello familiare che davamo all’indimenticata amica rosa birolli):io non ho insegnato la lingua dei segni,ma ho insegnato agli insegnanti dei sordomuti (quando ancora era in attività la scuola tarra e anche dopo con vari interventi presso organismi pubblici un modello linguistico grammaticale,perchè pensavo e penso che la lingua verbale sia quella che può ampliare il mondo conoscitivo ed espressivo dei non udenti.questo pensiero l’ho espresso tra l’altro nellintroduzione a un libro di irene menegoi buzzi donato (mi pare “l’educazione linguistica dei non udenti”)
    a cristiana fischer:non è che io voglia tenere per me la mia produzione (vasta e varia anche se un pò caotica)ma vedo che la poesia non ha molti amatori e per me è piuttosto gravoso pubblicare tutto a mie spese,nè posso approfittare troppo di ennio:se qualcuno mi vuo contattare può farlo tranquillamente.
    ad ennio:ho apprezzato molto che tu abbia voluto ricordare u medicu zinu (lorenzo calogeroche quasi nessuno ha apprezzato in vita e che è stato dimenticato dopo morto.

  6. Non conosco bene i testi di Grandinetti per poterne approfondire la poetica, ma l’accostamento che fa Ennio, mi sembra azzeccato. Si solleva ancora una volta il vulnus della marginalità della poesia e di molte opere poetiche. La marginalità ha colpito appunto un autore come Lorenzo Calogero che ha dedicato tutta la sua vita alla poesia. Un autore che non riuscendo a trovare un ambito letterario in cui coltivare al meglio la propria arte ha purtroppo dato libero sfogo alla sua genialità in un contesto di frustrante solitudine e incomprensione, senza quindi poterne arginare i rischi sia sul piano poetico che su quello biografico. Oggi per molti aspetti la situazione intorno alla poesia è anche peggio degli anni in cui Lorenzo Calogero ha agito poeticamente. Come sappiamo alla proliferazione delle occasioni sociali odierne non coincide una reale affermazione né degli autori, né delle opere, né delle poetiche. Le sottolineature di Ennio valgono tutte, e secondo me si possono racchiudere in una essenziale “mancanza di coraggio e di organizzazione” che concerne gli autori e gli agenti culturali, costretti a muoversi in maniera resistenziale e senza strutture ben equipaggiate. La logica del tentativo individuale dovrebbe rimodularsi in una logica profondamente progettuale.

  7. Uno sguardo staccato e ironico era ciò che più mi aveva colpito delle poesie di Eugenio Grandinetti, un elemento confermato da quanto dice il poeta stesso poco sopra, cosa che pure evidenzia Luciano Aguzzi.

    Ennio fa bene a parlarci di Lorenzo Calogero, ricordandone il vissuto da ‘escluso’.
    Del poeta di Melicuccà avevo letto la prima volta su un numero della rivista Poesia. Poi, in occasione delle “Celebrazioni dell’anno Calogeriano” 2010/2011 acquistai un volumetto con le sue poesie, dal titolo “Poco suono” – Nuove Ed. Barbaro (una rist. anastatica del vol. pubbl. da Centauro Edizioni, Milano, 1936).
    È vero quanto dice Tito Truglia: oggi stiamo messi anche peggio di allora. Ma condivido il pensiero di Ennio: “Non perdetevi questo poeta, nato in un luogo pieno di torrenti e morto per l’aridità della letteratura paludata consci della loro pochezza davanti a questa poesia incatturabile”.
    Su Lorenzo Calogero avevo scritto questi versi che riporto volentieri, nonostante sarebbero da rivedere:

    *
    Leggevo sul poeta di Melucuccà, Lorenzo Calogero
    morto suicida nel 1961. Morto per mancanza di ascolto.
    Quanto appaiono volgari le pubblicazioni postume e
    l’ipocrisia delle commemorazioni
    sono la riprova in quanto poco conto teniamo
    le voci altrui e di un sapere evitiamo con cura
    lo sforzo di accostarci che sempre necessita
    verso chi non approviamo del tutto.
    Ma si va al solito discorso: tormentarsi per il silenzio
    è come morire due volte. E Calogero ha pagato
    il silenzio con la vita, trovandolo nella sua tomba.
    Lui, frutto inascoltato, sepolto dove il mare lo depose.
    I poeti non si dovrebbero scordare mai.
    3 nov. 011

  8. @ Di Leo

    È vero quanto dice Tito Truglia: oggi stiamo messi anche peggio di allora. Ma condivido il pensiero di Ennio: “Non perdetevi questo poeta, nato in un luogo pieno di torrenti e morto per l’aridità della letteratura paludata consci della loro pochezza davanti a questa poesia incatturabile”. ( Di Leo)

    Preciso che ho riportato un brano preso da FB (Libri libretti) senza indicazione dell’autore. Queste parole non sono dunque le mie.

  9. A me pare che l’unico modo possibile per definire la poesia è dire che è un genere letterario. Mi sa che anche Fortini la pensava così se disse che è un comporre versi con l’a-capo. Quindi, se si vuol dire che la poesia non viene sempre bene accolta, si dovrebbe dire che quel tal genere di poesia non va per i tempi in cui è stata scritta. Dal che uno avrebbe il diritto di pensare che il compito dei critici e degli editori sia quello notarile di registrare quel che va e non va.
    Calogero, come Campana e come tantissimi altri, sono stati esclusi dai loro contemporanei, salvo poi essere riscoperti in tempi diversi. Probabilmente questo non vale per gli autori, per i poeti, e per coloro che sanno scorgere da sé quel che c’è di buono in ciò che leggono. Mi vanto di aver scoperto Calogero all’età di 16 anni quando trovai nel chiosco dei libri usati in piazza Cairoli il suo libro edito da Lerici; evidentemente qualcuno se ne era sbarazzato, io ero uno sbarbato, eternamente senza soldi, lo aprii e capii subito che era un buon affare. Se fu destino allora non potevo certo saperlo.
    Chi scrive oggi non deve fare i conti con un genere letterario (poesia) imperante; il clima culturale è quello che è ma il livello di scolarizzazione è più ampio che ai tempi di Vincenzo Calogero. Secondo me la poesia di Grandinetti, scritta in orgogliosa forma tradizionale, almeno per quel che ho letto in più occasioni su questo blog, si distingue per l’esigua presenza di metafore e per la propensione al tono discorsivo, non necessariamente narrativo, che semplifica la lettura e la comprensione, in modo tale che il lettore capisca che non ha da vincere alcuna sfida apparente ( si sa che la mente si nutre di sfide, e apprezza là dove non capisce: da qui parecchi imbrogli dell’arte moderna). Quindi non è lettura per la mente ma per la meditazione. Per questo ho apprezzato alcune sue liriche, piuttosto lunghe, quando s’intratteneva con descrizioni della natura, lente e senza sorprese. In quel caso la forma scorreva nel letto del suo fiume, comodamente a proprio agio. La forma, a cui nessun poeta sembra disposto a rinunciare, svolge sempre un qualche potere ipnotico. Pascoli ne approfittava per rifilare principi cristiani, e dico Pascoli perché nei luoghi non mi sembra lontano dal mondo di Grandinetti.
    Forse per la commistione particolare tra poesia e prosa che si sta annunciando da tempo, anche in Italia, anche la poesia di Grandinetti potrebbe ricavarne giovamento e maggiore accoglienza. Personalmente avverto il bisogno di chiarezza, e allo stesso tempo che si scrivano cose utili; di meno virtuosismi e compiacimenti verbali. Ma forse mi sbaglio.

    1. già, la poesia va a capo, è un verso, “versus”, torna indietro, e ricorda, ri-cor-data, nel cuore (par coeur, a memoria), poesia detta una volta e appresa al cuore per sempre
      (niente di mio, una conferenza di Cacciari)
      ” La forma, a cui nessun poeta sembra disposto a rinunciare” (Mayoor) e anche nessun lettore, a 16 anni o quando

  10. Calogero e Grandinetti
    Ho conosciuto E.G avendolo incontrato un paio di volte in occasione delle riunioni che tenevamo come appartenenti al gruppo defunto di Moltinpoesia: Sono della sua stessa terra e lui, aggiungo, è anche parente di un mio carissimo ex collega. Radici comuni, dunque e per chi ancora ci crede, con quelle di Calogero .
    Cosa posso dire ad E.G oltre a manifestargli una sincera ma anche generica simpatia fondata su quegli elementi cui ho accennato e che a mio giudizio ( influenzato forse sia dall’età che da una educazione “ tradizionale “ ) mi coinvolgono ancora?
    Quello che ho letto di lui non mi basta per intessergli intorno una trama di ragionamenti sulla sua esperienza poetica. Approfondire i temi e assimilare i suoi messaggi ai fini di una seria com-prensione del testo è quasi impossibile. Su di lui ho svolto tempo fa qualche generica e a quella mi fermo.
    Per chi non è “ critico militante “- ed io non lo sono – la conoscenza non superficiale di un poeta implica per una serie di motivi abbastanza evidenti un sacrificio a carico di altra attività parimenti importanti per lui stesso non ultime quelle – se egli scrive – di prendersi cura seria e profonda del proprio fare poesia.
    En passant dico che sarebbe ora di dire che “ critico militante “ non è quello che è mosso nella propria attività da una qualche ideologia politica ( di solito si intende: di sinistra ) ma colui che esercita tale attività professionalmente ( e dunque anche a scopo di lucro ). Su costui incomberebbe il “ dovere “ ( che si autoattribuisce autodefinendosi “ critico militante “ ovvero essendo investito da “ altri “ di tale qualifica ) di conoscere tutta o quasi la materia di cui si occupa. Che i critici militanti nel senso sopra precisato siano sotto l’aspetto della conoscenza della materia che li rende critici alquanto carenti è per me un’opinione sostenibilissima ma non è questo il momento di insistere sul punto.Non ne farei loro una colpa se chiarissero che i limiti delle loro conoscenze non debbono intendersi come “ fattori di esclusione “.
    Se prescindo – come onestamente debbo prescindere dall’esame dei testi e mi autoaccuso di ignoranza e prendo in esame il “ caso Grandinetti “ – ne traggo una lezione che – bando al nostro orgoglio – vale per tutti i poeti. Non è solo “ l’amico “ Grandinetti ad essere (semi)sconosciuto ; non è solo lui a non “ potersi permettere la continua pubblicazione a proprie spese “. E sia chiaro: non è colpa sua né degli altri che si trovano nelle medesime condizioni.
    Da Grandinetti a Calogero. Posseggo un volume delle poesie di C., volume edito da Rubettino di Cosenza. Caso o intenzione si trova accanto alle poesie del “ pazzo di Marradi “ cui si deve la fulminante invettiva che ho già ricordato – mi pare – da qualche parte in Poliscritture.
    “ Letteratura italiana – Industria del cadavere – Si salvi chi può “
    Medito sempre su queste parole e mi torna in mente l’osservazione di un famoso psichiatra secondo cui “ i pazzi “ sono talmente attratti dal profondo di conoscere meglio di certi savi la verità nascosta.
    L’” industria del cadavere “ si articola poi in modi differenti. A volte in riesumazioni
    ( riabilitazioni postume ) ,altre volte – ma è operazione meno dolorosa perché i morti non ascoltano – in affossamenti definitivi.
    Vorrei in chiusura avvertire che su Calogero – di cui conosco versi splendidi – grava sempre il pericolo “ romantico “ della confusione tra esistenza e esperienza poetica.
    Così va il mondo. Un cordialissimo saluto a tutti. Giorgio Mannacio.

    1. si scrive in vita per vivere e si ascolta
      quello che arriva e riguarda
      l’ultimo giorno di attenzione
      la selezione dell’ultima parte
      di una distesa consapevole
      materia a disposizione tanto tocca
      a chi frequenta lettere e dispersa
      riflessione

    2. @ Mannacio

      « sarebbe ora di dire che “ critico militante “ non è quello che è mosso nella propria attività da una qualche ideologia politica ( di solito si intende: di sinistra ) ma colui che esercita tale attività professionalmente ( e dunque anche a scopo di lucro )».

      « Non è solo “ l’amico “ Grandinetti ad essere (semi)sconosciuto ; non è solo lui a non “ potersi permettere la continua pubblicazione a proprie spese “. E sia chiaro: non è colpa sua né degli altri che si trovano nelle medesime condizioni.».

      Mi va di accostare queste parole di Giorgio Mannacio a due opinioni di critici “professionali” che ho stralciato in questi giorni dal sito di LE PAROLE E LE COSE:

      – la prima è di Andrea Cortellessa, che parlando di Gianfranco Contini, scrive: « preferirei chiamare critica contemporanea,[quella] di Contini (onde evitare il già di per sé antipatico sintagma critica militante» che nel caso specifico mi pare – a dirla tutta – clamorosamente limitativo).» (http://www.leparoleelecose.it/?p=17884);

      – la seconda è di Raffaele Donnarumma, che scrive in un primo commento: « Se posso essere brutale: un critico letterario […], sa subito cosa deve e cosa può non leggere, precisamente perché sta dentro un campo e un dialogo che lo orienta e lo guida. Semmai, il problema è non dare ragione a quello che si sa o si dice, e limitarsi a parlare dei soliti libri di Einaudi, o Mondadori, o Ponte alle Grazie (per citare case editrici con linee e pesi diversi), e mettere pià spesso possibile il naso fuori dei salotti. Ma questa è una misura di onestà intellettuale e di autocorrezione»
      (http://www.leparoleelecose.it/?p=17718#comment-306827).
      E in un secondo, riferendosi alla produzione narrativa contemporanea (argomento del post), abbondante e poco o nulla indagata, quanto quella in poesia (aggiungo io):
      «guardate che di questa roba, fra trent’anni, avrete dimenticato anche il titolo; e anche ora potete risparmiarvi di leggerla. Svuoto periodicamente gli scaffali della mia libreria da questa produzione, che mi sono pure sciroppato». (http://www.leparoleelecose.it/?p=17718#comment-306939)
      E più avanti:
      «Del resto, perché nascondersi l’ovvietà? Per un Masaccio, ci sono dozzine di pittori che fanno ancora il fondo oro; per un’opera 111 di Beethoven, vagonate di Czerny e Hummel; per dieci copie vendute di Madame Bovary, cento di Fanny di Feydeau (ricorda l’esempio di Jauss)? Ma chi dirà per questo che sopravvalutiamo la cappella Brancacci, l’Arietta o Flaubert? Naturalmente, uno può decidere che contano i numeri più del peso simbolico; ma mi sembra, alla fine, una falsificazione
      […]
      È veramente possibile tracciare “le linee della narrativa italiana di oggi” ignorandone la maggior parte?». È quello che fa qualunque storia della letteratura, che dà quaranta pagine allo stil novo, e quattro pagine alle schiere innumeri di rimatori che, per Dante stesso, erano «sectatores ignorantiae». La «maggior parte» è l’oggetto della sociologia (e a me la sociologia interessa moltissimo) o della ricostruzione filologica: quando in un museo vedo le solite centinaia di madonne con bambino medioevali, me le guardo tutte, sebbene sia tirato per la manica dai miei amici, e sospiri aspettando una predelletta di Giotto o Simone Martini. È però per questi due che ho pagato il biglietto».

      Questo per dire velocemente che:

      1. il termine “critica militante” è divenuto sconveniente ( e andrebbe capito perché);

      2. se dovessimo aspettare che un critico “di professione” si occupi della poesia di un Calogero, di un Grandinetti o dei tanti (semi)sconosciuti, campa cavallo;

      3. in modo spietato soprattutto l’opinione di Donnarumma (comunque degna di riflessione, perché qualche verità su come va la storia della letteratura contiene) ribadisce una visione elitaria della critica (e della letteratura) che induce a ben amare considerazione sulla sorte di tanti poeti (semi)sconosciuti.

      Per concludere: in fin dei conti che non ci sia una critica veramente militante è per loro (per noi…) un bel guaio.

  11. QUANDO LA CRITICA E’ SORDA CHE SI FA?

    Ho scritto nel precedente commento – e mi attendevo qualche riscontro – “che non ci sia una critica veramente militante è per loro (per noi…) un bel guaio”.
    Vorrei insistere su questo punto, perché a me pare che vari blog di poesia, che pur vorrebbero essere innovatori, antiaccademici, attenti ai poeti “semi(sconosciuti)”, stiano diventando una specie di carrettini che caricano poeti e poetesse a tutto spiano, pescandoli nel mare magnum degli esclusi dalle grandi case editrici (o dei “moltinpoesia” dico io), e gli danno la piccola soddisfazione della pubblicazione e un riconoscimento che resta, anche quando i testi sono davvero validi, non solo passeggero e amicale, ma troppo fragilmente motivato proprio sul piano della critica. Che non può ridursi ai commenti di poche righe e occasionali, ma deve assumere almeno la forma del saggio breve e accurato.
    Riservandomi, se la questione verà ripresa di dire la mia opinione, pongo provocatoriamente il problema: se i critici professionali e dotati degli strumenti del mestiere, di cui parla Mannacio, non si occupano a fondo almeno di alcuni degli autori più validi che i vari siti di poesia pubblicano, che si fa?

    1. Condivido abbastanza le parole di Mannacio e di Ennio. Ma mi rimane in testa una insoddisfazione. C’è qualcosa che non quadra… In breve… La situazione patologica che vive l’ambiente poetico è il frutto di deficit socio-culturali generali, ma è anche il frutto di deficit che riguardano i tradizionali soggetti che ne costituiscono le fondamenta: autori e critici (per soprassedere sul problema editoriale in senso stretto). Autori e critici vivono la stessa profonda problematicità. Permane una situazione generale di pochezza: di personalità, di risultati, di obiettivi, di progettazione, di ricerca, di dialogo… Un ambiente amicale, quasi familistico, da minimo e misero circolino de noantri, non può produrre opere, autori e progetti che possano sfondare la coltre spessissima del vuoto mercificante e mercificato che ci avvolge. Purtroppo questa situazione all’estremo ribasso ha delle ragioni di microconvenienza e di micropotere che lo perpetua. Ci vorrebbe uno scatto di energia collettiva, organizzata, eroicamente costruttiva (e intimamente distruttiva). Purtroppo il destino del citato Calogero è diventato oggi emblematico di una condizione generale (esclusi i pochi ragionieri degli inserti culturali). Insomma, secondo me bisognerebbe muoversi verso una grande unione forte decisa intima, di personalità diverse che abbiano un piano comune di attività, indirizzato alla realizzazione di un progetto culturale e artistico di alto livello.

      1. @ Truglia

        Caro Tito,
        il mio progetto culturale (non so se di alto livello, ma serio) l’avevo reso pubblico nel 2012 con un articolato e preciso documento intitolato “Per una poesia esodante” e un’intervista curata da Ezio Partesana. Si leggono ancora su POESIA 2.0 a questi link:

        http://www.poesia2punto0.com/2012/09/25/appunti-per-una-poesia-esodante-sulla-ex-piccola-borghesia-o-ceto-medio-in-poesia-di-ennio-abate/

        http://www.poesia2punto0.com/2013/08/03/sulla-poesia-esodante-intervista-di-ezio-partesana-a-ennio-abate/

        Le idee lì espresse sono pronto a discuterle con chiunque.

        1. Ciao Ennio, l’osservazione era fatta pensando alla questione generale. Lo so che sei attivo (come altri) da tempo sul piano della spinta al “miglioramento”.
          Anche il termine “alto livello” che ho usato, non l’ho utilizzato per indicare con supponenza una critica ai modi esistenti. Anzi, siamo comunque sulle stesse barche…

  12. \Ancora sulla condizione attuale dei poeti
    Caro Ennio, ora che la mia manifesta idiosincrasia per il termine “ poeta militante” è stata sostanzialmente condivisa da un “ critico professionista “ mi sento soddisfatto. Dunque anche un quivis de populo può dire cose sensate. Ma la mia soddisfazione non investe l’intero problema della “ condizione del poeta nell’attuale momento”, se – con i tempi che corrono – essa possa definirsi un problema. Ho maturato – su di esso – alcune convinzioni che ho anche avuto modo di manifestare in Poliscritture. Convinzioni certamente opinabili e argomentate in modo sommario e necessariamente integrabile, ma che hanno il pregio – almeno così mi illudo – di essere fondate su un esame spregiudicato della realtà.
    Cosa mi lascia insoddisfatto ? Una certa indifferenza su dati antropologici e sulle modificazioni della struttura della società. Prendendo a simbolo del primo poeta esistito la figura ( mitica ) di Omero cosa ne deduciamo ? Per me la conclusione è questa: all’origine e per un certo tempo i detentori di una certa quale autorità ( che andrebbe definita specificamente nei suoi contenuti ) furono “ i poeti “ ( si può pensare ad un inizio puramente magico e, via via , ad una preminenza per via del “ sapere fare qualcosa di più e di diverso “ ).
    Penso che da sempre , anche se con modalità diverse connesse con la diversità della struttura sociale , i poeti sia stati una “ casta separata “ . La “ mania ( follia ) poetica non segnala forse da sempre la loro diversità?
    Questi dati – che ritengo difficilmente contestabili – sembrano dare ragione all’affermazione di H. Boom secondo cui sono stati i poeti e non i critici a “ creare il canone “. Basta riflettere anche un momento solo sul fatto che “ prima è venuto Omero “ e poi i suoi studiosi. La sua autorità si fondava sulla sua opera e questa ha svolto per secoli la funzione di determinare un canone di valutazione rimasto per secoli immutato. Quando addirittura non ha determinato la “ sapienza collettiva “ di un popolo. Chi voleva essere poeta doveva necessariamente seguire i dettami DEL POETA. In questo senso e con una certa dose di provocatorietà si può dire che per molto tempo la questione circa la qualità di un poeta non è stata “ una questione
    estetica ” ma di conformazione all’autorità dei precedenti.
    Tale situazione è durata molto a lungo. Penso che si possa individuare con una significativa esattezza la sua durata. Penso che se ne possano anche individuare le cause.
    Una cosa è certa. Oggi ( uso il termine per indicare un periodo storico significativamente determinabile ) il poeta non è più mago, non è più sapiente e dunque la sua specificità non dipende da qualità intrinseche ( relativamente ) ma dal giudizio emesso da un altro potere ( o casta ) che è quello dei critici. E’ avvenuta – in parole povere – una vera rivoluzione profondamente connessa – credo – al mutamento della struttura della società. La figura del poeta – con una curiosa commistione di piani – da una lato è stata assorbita in tutto e per tutto dall’estetica e dall’altro è stata attratta dalla “ politica “.
    La tua espressione “ poeta esodante “ descrive solo la fase successiva alla causa che è l’espulsione del poeta dal suo castello. Quindi – per proseguire nella metafora – prima
    “ esodato” cioè cacciato dalla sua fortezza e poi “ esodante “ verso altri luoghi. Quali ?
    Da tempo penso che o si marcia verso “ la politica “ o si marcia “ verso sé stessi “ .
    I due termini individuano le posizioni che ritengo le uniche possibili – tertium non datur –ma non specificano i contenuti concreti di esse. In fondo cosa lamentano i poeti ( e non mi sottraggo a tale debolezza ) se non di non essere riconosciuti ? Il dilemma non è poi tanto drammatico. Ad esempio si può – per caso o calcolo – entrare in sé stessi e incontrare la politica. Rimanere in sé stessi comporta il rischio di isolamento. Ma nella mia ricostruzione fantapoestica anche “ il sé stessi “ ha una dimensione collettiva possibile. Siamo o non siamo in democrazia e non parliamo sempre di pluralismo ? Non esistono varie politiche ? Un caro saluto. Giorgio.

  13. Trovo che le conclusioni di questo commento di Mannacio si colleghino alla parallela conversazione che sta avvenendo su Ederle. O almeno, incontro alcune sue conclusioni (“Ad esempio si può – per caso o calcolo – entrare in sé stessi e incontrare la politica. Rimanere in sé stessi comporta il rischio di isolamento. Ma nella mia ricostruzione fantapoestica anche “ il sé stessi “ ha una dimensione collettiva possibile”) con assenso da parte mia (facendo uno sconto sull’ironia un po’ paradossale che Mannacio non risparmia).

  14. a C.Fischer.
    Cara Cristiana, grazie per il riscontro. Le mie conclusioni – provvisorie,apodittiche e a volte paradossali – si ripeteranno ogni qualvolta si tornerà a parlare delll ” condizione del poeta nel momento attuale “. Per questa ragione sono stato molto restio a scriverle e forse non ci tornerò più sopra. Quel dilemma che ho buttato giù ( politica – sè stessi ) è solo un modo estremamente semplificato di chiarire un mio pensiero – non esserci altra alternativa- che aspetta ( lo dico senza ironia ) attendibili obbiezioni. Chi non vuole vedere la modificazioni della struttura culturale contemporanea ( sia origineria che derivata ) è costretto a fingere un Paradiso terrestre ( religioso o laico che sia ) dimenticando che tale Paradiso – ammessa la sua esistenza – è durato un attimo e si è scontrato sempre o con l’invidia degli dei o con la durezza della storia. Accetto con gratitudine il tuo rilievo sui modi paradossali di alcune mie argomentazioni e accetto volentieri gli sconti-quale che sia la misura – che su di esse farai,ma a volte mi chiedo se l’estremizzazione paradossale non sia l’unico modo di snidare le reticenze e le false coscienze. Sarò minimalista ma il dibattito che si fa su Grandinetti e Ederle non è forse un modo di uscire da sè ? Con viva cordialità G.M

  15. un’emergenza (la critica, la poesia)
    eppure io non rinuncio
    alla conversazione
    chiarire affatturato un solo tempo
    di spiegazioni

  16. Quello tentato in questi commenti a proposito del silenzio sulla poesia di Grandinetti ( o di un Calogero o di altri) mi pare il classico dialogo tra sordi. Mi spiace rilevarlo, ma devo.
    Ho posto un problema preciso, quando ho scritto che non possiamo aspettarci che qualcuno dei critici “professionisti” volga uno sguardo benevolo in basso o da queste nostre parti; e ho chiesto persino bruscamente (in maiuscolo!): «QUANDO LA CRITICA E’ SORDA CHE SI FA?».
    L’amico Tito (Truglia) ha battuto un colpo ma poi si è eclissato. Giorgio (Mannacio) ha scritto un meditato intervento. Che però – mi scuserà – a me pare elusivo e contraddittorio.
    Perché?
    1. S’accontenta della liquidazione del termine «critico militante» fatta da Cortellessa e Donnarumma da me citati.
    2. Sposta il discorso dal piano diretto e presente, e cioè del “che potremmo fare noi” (ricordo per chi l’avesse dimenticato cha ai tempi del Laboratorio Moltinpoesia eravamo riusciti persino a far sorgere un “Gruppo critici”) ad un piano generale, quello dei «dati antropologici» e delle «modificazioni della struttura della società».
    Ora accettare la fine della critica militante nelle nostre condizioni è come darsi la zappa sui piedi. Perché è proprio di critici militanti che avremmo bisogno; e uno che dovesse scrivere sulla poesia di Grandinetti per strapparla all’attuale silenzio non so con quale altro termine chiamarlo.
    Quanto a risalire ab ovo o ad Omero si può sempre fare, ma poi, tornati all’oggi, esodanti o meno, di certi poeti trascurati chi si occupa e come? E – ripeto – se non se ne occupa la critica che ha ancora un certo potere d’influenza, che si fa? ( O siamo tutti poeti “puri” in attesa del critico che ci scopra e non possiamo “improvvisarci” critici?)
    Quando anche concordassimo che oggi «o si marcia verso “ la politica “ o si marcia “ verso sé stessi “», possiamo dire che le due cose siano equivalenti per chi fa poesia?
    Ed è poi così vero che si può «entrare in sé stessi e incontrare la politica» o che anche «“ il sé stessi “ ha una dimensione collettiva possibile»?
    A me pare che queste affermazioni siano assai vaghe e chiederei come minimo un approfondimento.

    P.s.
    Insomma, per dirla tutta, mi aspettavo qualche proposta. Ad esempio, che qualcuno s’impegnasse a scrivere un saggio breve e accurato su una raccolta di Grandinetti o gli facesse un’intervista approfondita su tutto il suo decennale lavoro di poeta “semi(clandestino)”.

    1. Ok Ennio. Proviamo a sezionare la questione. L’esigenza di “critica militante” che poni può essere condivisibile. Ma nel precedente post osservavo che la crisi è complessiva. Mi spiego con una domanda. Oggi il destino di un poeta di valore può essere modificato dall’attenzione di uno o più critici (magari militanti)? Io credo di no. C’è qualcosa di più nella causalità dei destini poco gratificanti dei poeti. L’appello che tu fai sarebbe perfetto se rivolto ad un ambiente vivo, partecipe, attivo, in movimento, culturalmente curioso… Quale poteva essere probabilmente quello dei decenni centrali del ‘900. Io sento il bisogno, più che di una critica militante, di una “militanza creativa e culturale” ad ampio raggio. Una militanza coraggiosa, determinata, agente su più livelli, ma che abbia il timone ben puntato sulla produzione artistica. I poeti devono riscoprire il senso della partecipazione, dello scambio, del lavoro di equipe, dei gruppi. I singoli restano (restiamo…) preda del vuoto e di una produzione qualitativamente saltuaria e poco efficace. Certo bisogna riscoprire la dimensione dei laboratori intensivi, coraggiosi, insistiti, dei salotti letterari ben fatti e ben orientati, dei caffè letterari densi e fumosi di idee e di progetti, dei centri sociali attivi su proposte nuove e di ricerca… Insomma, io sono sulla linea della necessità di creare un contesto culturale, un movimento di creatività poetica. La logica del movimento e del “fronte comune” mi sembra comunque essenziale, anche se può avere un sapore poco alla moda…

  17. @ Truglia

    Fai bene a ricordare che nel sistema culturale attuale dei mass media (stampa, cinema, TV soprattutto) dominato dagli *intrattenitori* (Luperini) anche i critici letterari hanno meno peso. Ma un po’ ce l’hanno ancora. Ad esempio, negli ambiti del vecchio potere (università, editoria e blog letterari).
    Quindi se di Grandinetti domani scrivesse – mettiamo – Cortellessa su Le parole e le cose o su Alfabeta o su Nazione Indiana, la sua poesia potrebbe circolare quantomeno in un ambito meno amicale. E sarebbe un bel salto. Non decisivo forse, ma significativo secondo i criteri del buon senso comune.
    Perché diciamocelo senza peli sulla lingua: le gerarchie del sistema cultural-politico permangono e anzi si sono rafforzate. E il grado di attenzione che un poeta riceve da parte degli addetti culturali e dal pubblico (più ristretto o più ampio, più esigente o di bocca buona) se esce nella Mondadori o l’Einaudi o se esce autoedito o presso i piccoli editori o sui blog, è diverso.
    E questo lo sanno tutti, anche se non amano dirlo e dirselo. Tant’è vero che spesso gli esclusi, anche quando sbraitano dai blog anti-accademici, alternativi, militanti, rivoluzionari, manovrano in segreto per essere accolti nella “seria A”. ( E spesso – credo per la qualità subordinata dello sbraitamento, ogni tanto qualcuno ottiene anche la prevedibile promozione).
    Poi possiamo discettare se uscire con Mondadori o Einaudi o essere recensiti da Repubblica o dal Corriere della sera deformerebbe il messaggio della poesia di X o Y, se quei critici o quei loro pubblici sono davvero determinanti per accertare il valore della poesia di X o di Y e non dei palloni gonfiati, anch’essi capricciosi e approssimativi nelle scelte o se l’essere accolti nelle roccaforti culturali della sinistra ( o di quel che resta della sinistra) valga più che essere riconosciuti dai rappresentanti della cultura della destra ( o di quel che di essa resta).

    Al di là dei criteri del buon senso, però, esiste ancora un criterio sicuramente ( almeno per me) più nobile e lungimirante, non appiattito sul presente o sullo status quo o sull’accettazione delle gerarchie che si sono imposte nella storia di questo Paese. Ed è quello – uso una parte delle tue parole – di «una militanza coraggiosa, determinata, agente su più livelli» fatta da minoranze. Ciascuno ha in quest’area i suoi modelli-miti di riferimento. (Per me possono essere Il Politecnico, Ragionamenti, Fortini, i Quaderni rossi. Per te Pasolini, Beuys, la beat generation). Che oggi però stentano a produrre idee innovative e profonde e faticano ad organizzarsi per affermarle.
    Tu lo sai bene, se riconosci che «i singoli restano (restiamo…) preda del vuoto e di una produzione qualitativamente saltuaria e poco efficace».
    Non credo, però, ci siano scorciatoie.
    A prima vista (basta un’occhiata sul Web alla voce poesia) di «laboratori intensivi, coraggiosi, insistiti», di « salotti letterari ben fatti e ben orientati», di « caffè letterari densi e fumosi di idee e di progetti», di « centri sociali attivi su proposte nuove e di ricerca» ce ne sono in abbondanza. E si danno un gran da fare. Non escono però dall’epigonismo e dalla rimasticatura di avanguardismi e neoavanguardismi o di aristocraticismi ingessati. E ciascuno sta per conto suo, ciascuno gira il suo brodo. Pertanto il tuo appello alla «logica del movimento» e allo stesso tempo del «“fronte comune» mi pare generoso ma contraddittorio.
    Quella in atto attorno a noi su FB, blog, circoli culturali, centri sociali, ecc. è proprio la «logica del movimento», ma, di per sé, non conduce ad alcun fronte comune, come tu auspichi.
    Non perché sia «poco alla moda», ma purtroppo perché lo è fin troppo. E allora credo che più che esaltarla o coccolarla o parteciparvi, bisognerebbe criticarla in modi intelligenti e non saccenti, fare pulizia nelle menti nostre e altrui, isolare alcuni temi che riteniamo fondamentali, ragionarci a fondo.

  18. Caro Ennio, non devi scusarti per le osservazioni che mi fai. Sono ben contento di replicare ad esse NEL MERITO. Mi dici che sono elusivo e contraddittorio, termini molto precisi e quasi tecnici.Rispondo ponendo le due correlate domande.
    Cosa eludo e su che cosa mi contraddico ? Attendo due risposte non elusive.
    Aspettandole debbo ancora una volta chiarire il mio pensiero che – credo – più chiaro di quello che è stato non riesco a formulare. Sono addirittura perplesso sull’opportunità di ripeterlo.
    Si continua a trascurare il problema delle origini e tale omissione investe naturalmente anche l’analisi dello sviluppo di esse nel tempo. Perché per molto tempo non si è posto il problema della necessità “ della posizione di criteri di valutazione estetica “ ? Semplice,a mio giudizio.
    Olim e per lungo tempo il poeta – per ragioni strettamente collegate alla struttura sociale della cultura – era visto come un soggetto dotato di per sé di “ poteri culturali superiori “ e dunque i pochi poeti esistenti “ facevano il canone “ . Ecco la ragione, travisata, del mio richiamo ad Omero: non debbo io ricordarti che Omero fu per i Greci una sorta di Bibbia pagana; non ti dice nulla tutto ciò ? . Puoi affermare che nulla è mutato rispetto a quei tempi ed anche a tempi ben più recenti ? Direi proprio di no e aspetto che tu mi contraddica. Io penso – non sarò nel giusto ma ELUSIVO proprio no – che la struttura socio- culturale di oggi sia caratterizzata da un incredibile frazionamento delle culture e delle esperienze poetiche: ergo dal frazionamento delle correlate attività critiche. E’ pressocchè impossibile l’elaborazione di “ un canone universalmente accettato “ mentre è possibile – NATURALE direi – l’elaborazione di canoni diversificati e – dal punto di vista degli elaboratori – di centri critici diversificati.
    E qui entra in gioco il – per me mai deprecato abbastanza – critico militante. Meglio
    “ partigiano “ ( mi scusino i veri partigiani ) il quale non fa altro che militare pro qualcuno
    ( vogliano banalizzare ? I suoi amici ) contro qualcuno ( vogliamo banalizzare ? I suoi nemici )
    Debbo ricordarti proprio io quanto sia feroce il mondo degli intellettuali? Tanto più feroce quanto meno valutabile con criteri oggettivi la sua intrinseca serietà. La concorrenza nell’inseguire i fantasmi non può essere se non feroce.
    Debbo ricordarti proprio io che ogni potere tende all’autoconservazione ? Dunque se non siamo capaci di costruirci un nostro – piccolo o grande – centro di potere è semplicemente colpa nostra.
    Sbaglio ? Molto probabile ma l ‘ ” accusa “ di elusività e contraddittorietà non credo proprio di meritarla. Un carissimo saluto. Giorgio.

    1. @ Ennio :

      un’amica che ci segue indirettamente mi trasmette queste poche righe, che, a mio parere, possono essere inserite nel discorso sulla poesia e sulla poesia civie.
      Le trascrivo nella speranza di non essere fastidioso :

      “I poeti vanno…vengono, qualche volta si fermano e quando si fermano creano la comunità spontanea, l’alleanza sommersa, la solidarietà plurigenerazionale, l’onda anomala, il sogno aldilà delle rovine, l’estasi del paese che non c’è.
      Eccoli, acrobati in bilico tra l’atemporalità esistenziale e il presente storico, tra l’individualismo estremo stirneriano e l’appello planetario e messianico di Michail Bakunin. Eccoli, angeli del vilipendio con occhi retroattivi e avveniristici che volteggiano sulle dottrine rampicanti e colesteroliche che ostruiscono l’arteria onirica della coscienza liberata. E sono fraterni i poeti, che di fraternità infine si tratta, perchè nel corso del tempo diventano a noi consanguinei per vie misteriose, per la potenza creativa del loro immaginario in cui si riflettono, amplificate e sintetizzate, le istanze bene dette di tutte le rappresaglie abortite sul nascere e dei millenari rancori che ribollono dentro come un buon vino futuro.
      E rimangono fratelli paralleli arroccati sulla spalla come sul trespolo delle idee sprviere in procinto di essere lanciate sulle multinazionali delle torture o nei laboratori di ricerca genetica dove si tenta di scoprire il Dna del nanismo mondiale per accescere un’umanità di bonsai d’allevamento.
      Ci è molto caro questo poeta sismografo che ha posato un ecoscandaglio, un sonar sul fondo del silenzio epocale per registrare ogni minimo movimento morale o la sua agonia, redigendo con la sua opera un immenso diagramma di fine secolo, affinchè il battito sempre più debole dei cuori in rivolta possa rianimarsi all’amore, alla pietà, al rifiuto e perchè il dovere della realtà diventi il diritto al sogno, a quella sana trasfusione di fiele non più praticata , anzi occultata dalla comunicazione diabetica televisiva del buonismo complice e affaristico che porta al coma irreversibile degli integrati robotici marchiati dal terziario e forse anche dal quaternario: incantesimi tecnoinformatici, oscurantismi per un cimitero prossimo venturo con inquilini produttivi, asettici e ordinati nei loro loculi urbani…..
      (Mauro Macario, poeta e scrittore, a proposito di Fabrizio De Andrè)

      1. Per essere un vero artista devi essere solo e non possedere nulla per non pensare mai a ciò che potresti perdere.

  19. @ Mannacio

    « Cosa eludo e su che cosa mi contraddico?».

    Credo di averlo detto senza giri di parole:
    1. Eludi la domanda da me posta a proposito della poesia di Grandinetti: «Quando [oggi e non ai tempi di Omero o cent’anni fa] la critica e’ sorda che si fa?»;
    2. Per me è contraddittorio approvare la liquidazione della critica militante (come fanno i Cortellessa e i Donnarumma da me citati come esempi negativi) e rammaricarsi di non essere «capaci di costruirci un nostro – piccolo o grande – centro di potere» che potrebbe imporre all’attenzione di un pubblico più vasto (con tutte le precisazioni e i rischi che ho indicato) i poeti “(semi)clandestini”.
    Tanto più contraddittorio trovo quest’atteggiamento, se penso che anni fa la chiusura del Laboratorio Moltinpoesia, da me fondato proprio per porre il problema dell’esclusione e dell’emarginazione di una bella porzione di poeti validi, fu causata proprio dal rifiuto di vari partecipanti ad occuparsi di critica e a svolgerla appunto in modo “militante”.
    Sì, a favore degli amici e contro dei nemici.
    Che ci sono sempre. ( Anche se, tra le persone che si occupano di poesia, non è facile stabilire quali vadano collocati nella prima e quali nella seconda categoria).

  20. @ Banfi

    E il nemico disse: sei un poeta che t’importa dei nemici…(che non esistono più).

    E il poeta disse: “L’idea che il poeta sia ispirato dalle muse o dall’inconscio o da qualche demone segreto o dalla divinità è qualcosa che effettivamente accompagna direi tutte le tradizioni perché vi è stata un’epoca nella quale la funzione della poesia era quella di comunicare con una zona oscura, esterna alla cerchia illuminata dal fuoco della tribù, nella quale e dalla quale lo sciamano, il sacerdote e il poeta, il cantore facevano pervenire, dicevano che pervenivano i loro messaggi. Spesso mi è occorso di ricordare, in queste circostanze, il passo assolutamente straordinario della Odissea quando Ulisse ha compiuto la sua vendetta sui Proci, ha compiuto la terribile strage a colpi di frecce e tra i morti e gli agonizzanti si fa avanti il cantore, colui che in sostanza cantava narrazioni epico-liriche alla mensa dei Proci; gli si fa incontro, gli abbraccia le ginocchia, lo scongiura di non ucciderlo e lo scongiura di non ucciderlo dicendo: “sì, è vero io ho cantato per questi usurpatori ma l’ho fatto perché vi ero costretto e d’altronde sappi che io sono prontissimo a cantare anche per te; ma astieniti dal sangue di colui che in qualche modo è consacrato ad Apollo e che è quindi un personaggio sacro”. Qui troviamo nello stesso tempo affermata l’elemento di diciamo di grandezza e di miseria della tradizione letteraria, per cui per un verso c’è una sorta di invisibile tonsura sacra sul poeta, e nello stesso tempo c’è l’abiezione di colui che vive mendicando alla tavola dei padroni e dei potenti. Naturalmente Ulisse non uccide il cantore e da quel momento il destino del poeta e del letterato nella cultura occidentale è segnato.” (RAI Educational, Interviste: Franco Fortini, Che cos’è la poesia? 8/5/1993)

    1. @ Ennio

      non siamo sempre d’accordo con gli amici, alcuni ci apprezzano per questo , altri restano a farci la corte e fedelissimi restano alla nostra sicura ombra.

  21. ILLOGICITA’
    Caro Ennio, ti rispondo con franchezza estrema che include una certa dose di durezza. Scusami ma sei illogico. Cosa si fa se la critica è sorda ? L’ho detto in mille modi e mi ripeto. Se la critica è sorda non le si può dire: scusi lei è sorda. Hai mai visto un potere che si acconci – per propria bontà – a farti entrare nella stanza dei bottoni e si ritiri davanti a te ? Io no. Cosa faccio ? AFFRONTO DI PETTO LA QUESTIOE E DICO: NON ASCOLTO LA CRITICA ( vulgariter : me ne infischio ) . E’ un modo elusivo ? Dimmi che è sbagliato e ci sto. Dimmi che è faticoso e ci sto. Dimmi che è una sfida infernale e ci sto ma non che sia un modo elusivo. Il lamento è elusivo.
    Contraddittorietà.
    Perché non si riesce a creare un movimento di “ nuova critica “ ? Ho risposto anche su questo: è colpa dell’inadeguatezza di chi non riesce . Non puoi pretendere che un poeta si faccia critico. Se uno non è attrezzato, “ colpa “ sua. Chi si sente capace di alimentare una nuova critica lo faccia. Ti ho sempre riconosciuto ottime doti in questa direzione, cosa ti impedisce di continuare a sfruttare queste doti assieme ad altri egualmente validi ? E’ un cammino arduo? Riconosco. E’ un cammino destinato a fallire ? E’ possibile. E’ un cammino inutile ? Direi di no. Se dici diversamente sei contraddittorio. In tutto e per tutto la vita non è un letto di rose
    ( Joyce ). Perché dovrebbe esserlo per la poesia,? Scusami ancora, la franchezza con un amico ( quale mi sei ) è un dovere. Un caro saluto. Giorgio.

  22. @ Mannacio

    Sperando di non prolungare all’infinito la contesa (come due caproni che si scontrano a cornate):

    1. “Non ascolto la critica ( vulgariter: me ne infischio)”? Ma la critica esiste e infischiarsene somiglia troppo al comportamento della volpe esopiana con l’uva. Se questo non è eludere un problema non so che dire.

    2. “Non puoi pretendere che un poeta si faccia critico”? Basta con il mito del poeta puro o che non è «attrezzato» o che fa mille cose nelle sue 24 ore ma non può permettersi di fare la critica. Qualsiasi poeta (anche solo scrivendo poesia) fa *anche* critica. Il problema sarebbe passare dalla critica/pettegolezzo o impressionistica o cattiva alla critica seria e ragionata (anche quando non “professionale” o pagata o commissionata).

    1. @Ennio
      Anche il caprone Mannacio non vuole continuare nella contesa a cornate. Ma la filologia va rispettata. La Volpe – se non sbaglio – se ne va dicendo, contro il vero, che l’uva è acerba e quindi non è mangiabile. il caprone Mannacio dice che non riesce a raggiungere l’uva matura. La differenza è essenziale.
      Il caprone Mannacio è indifferente alla questione se sia possibile la coesistenza tra poeti e poeta /critico. Dice soltanto che, comuque sia, una critica ” seria ” non si riesce a imbastirla perchè tale ruolo è rifiutato quale che sia l’autore del rifiuto e le ragioni di esso. Il caprone Abate gli fa dire che o si è poeti o si è critici. La differenza è ancora una volta essenziale.
      Per concludere l’unico discorso veremante serio è questo: cosa significa critica
      ” seria ” – una critica ” seria ” è possibile ?
      Ho già confessato che non ritengo di essere nel vero, ma semplicemente di condurre un discorso conseguente a certe premesse.
      Un caro saluto. Giorgio.

      1. La definizione di “critica seria” è quasi una tautologia. La serietà è dobbligo per il pensiero critico. Ma capisco che in epoca di “chiacchiera” sia necessario sottolineare la serietà di una riflessione in atto. Dai, c’è bisogno di tutto… Di dialogo, di progetti, di riflessione costante, approfondimenti ad ampio raggio, di creatività, di riviste, di libri fatti bene, di scambi costruttivi…

        Fortini nella citazione sottolineata da Ennio fa un grosso errore. Assolutizza una sua interpretazione personale che parte da una premessa sbagliata. Non è vero che la tradizione letteraria è fatta solo di muse, demoni segreti, inconscio (qui bisognerebbe precisare) e divinità. E’ sbagliato comunque fare riferimento solo ed esclusivamente alla tradizione letteraria per tracciare la linea del destino… Il buon letterato non fa solo riferimento (per fortuna) a quanto succede nella letteratura…
        A parte questo, a me sembra che non si consideri con la necessaria attenzione il fatto che il destino dei “moltinpoesia” non può essere modificato né rivendicando un intervento dell’attuale critica (militante o non militante), né facendo finta che non ci sia un problema di “potere” . A me pare che gli stessi nodi problematici coinvolgano sia i “moltinpoesia”, sia i pochi “raggruppati” intorno a qualche sparuto nucleo di potere.

        I poeti che fanno riferimento a Le parole e le cose (o ad altri centri più o meno strutturati) sono meglio equipaggiati? Hanno più riconoscimento? Dimostrano più qualità? Il loro gradino è quello che i moltinpoesia devono avere come obiettivo? No, credo che se ne possa fare a meno (come dice Mannacio). E’ vero alcuni di loro riescono a fare qualche presentazione più degli altri, riescono a vendere 30 copie della loro ultima plaquette, riescono ad avere una qualche visibilità sul web (tra gli amici e amici degli amici). Ma basta questo? Non mi sembra possa definirsi di eccellenza il “gradino” che alcuni centri di micropoterepoetico sono riusciti ad allestire.

        Nello stesso tempo penso che abbia buone ragioni Ennio a dire che non si può fare a meno di un elemento critico quanto più cosciente e ben attrezzato.

        Ma come fare, cosa fare (Ennio)?
        Non si scappa. I tentativi vanno ripetuti. Sicuramente in un fallimento c’è qualcosa che è andato storto o nel micro o nel macro. E’ chiaro (Cortellessa o non Cortellessa ) che siamo davanti a un problema di dispersione, di immobilismo, di qualità artistica altalenante, frammentaria, che comprende “alcuni valori” ma molta mediocrità e tanta bassa qualità. E’ chiaro che siamo davanti a un problema di “organizzazione”, di cattive relazioni (nonostante alcune realtà… non a caso sviluppate solo sul web), di una difficoltà, un deficit, sostanziale e strutturale.

        Come se ne esce?
        O arriva un Mecenate marziano che abbia voglia di investire una vagonata di denaro per sollecitare nuovi progetti poetici, o i “moltinpoesia” decidono, autonomamente e col metodo dell’autorganizzazione, di creare strutture creative capaci di mettere a fuoco il proprio entusiasmo in un movimento di cui la componente di pensiero critico deve essere uno degli elementi concomitanti. Alla linea verticale io preferisco la seconda orizzontale. In molti abbiamo tentato, si tratta di insistere…
        E comunque è lecito tentare di fondarsi sulle proprie personali forze, delle quali possiamo essere abbastanza certi e fidati…

  23. @ Ennio Abate e @ Giorgio Mannacio. (E anche agli altri).

    Ho sulle spalle sufficienti primavere per permettermi di dirvi di smetterla di prendervi a cornate (*Come due caproni che si scontrano*, scrive Ennio), anche se nel contempo mi scuso per l’improntitudine!
    Fosse per una bella donna ciò avrebbe del grandioso, dell’eroico… ma per la ‘critica sorda’!
    Forse pensate che il clangore delle corna che si incrociano la renda meno sorda?
    Rischiate di perdervi nei ‘distinguo’ dimenticando il succo del discorso all’interno del quale ci sono più linee di concordanza di quante ne vedete.
    Ma seguiamo alcuni passi di questo dibattito.

    *Per me è contraddittorio approvare la liquidazione della critica militante (come fanno i Cortellessa e i Donnarumma da me citati come esempi negativi) e rammaricarsi di non essere «capaci di costruirci un nostro – piccolo o grande – centro di potere» che potrebbe imporre all’attenzione di un pubblico più vasto (con tutte le precisazioni e i rischi che ho indicato) i poeti “(semi)clandestini”* scrive Ennio @ Mannacio.

    Dal canto suo, Tito Truglia scrive: *Oggi il destino di un poeta di valore può essere modificato dall’attenzione di uno o più critici (magari militanti)? Io credo di no. C’è qualcosa di più nella causalità dei destini poco gratificanti dei poeti. L’appello che tu fai sarebbe perfetto se rivolto ad un ambiente vivo, partecipe, attivo, in movimento, culturalmente curioso… Quale poteva essere probabilmente quello dei decenni centrali del ‘900.*; e a questa considerazione Ennio risponde: *Quindi se di Grandinetti domani scrivesse – mettiamo – Cortellessa su Le parole e le cose o su Alfabeta o su Nazione Indiana, la sua poesia potrebbe circolare quantomeno in un ambito meno amicale. E sarebbe un bel salto. Non decisivo forse, ma significativo secondo i criteri del buon senso comune.*

    Personalmente io sarei felicissima se ciò accadesse, felicissima per Eugenio Grandinetti che stimo e del quale apprezzo il lavoro non per partigianeria, non sono nemmeno nata al Sud. Ma lo sarei ancora di più se a questo facesse seguito una valorizzazione del suo pensiero implicito nel suo poetare. E la mancanza di questa valorizzazione ha poco o nulla a che vedere con la critica ‘sorda’ o con quella militante, quanto con la presenza di un deficit socio-culturale a dir poco devastante.
    Rischia di fare la fine dell’opera su Fortini alla cui presentazione, stante a quanto riferito, non ci fu proprio quella esplosione di ravvisamento delle qualità e capacità del poeta. Tutto ciò non significa che allora dobbiamo sederci e non fare nulla ma che dobbiamo anche imparare a leggere la realtà: a volte funziona benissimo il “promuoveatur ut amoveatur”.
    Il ruolo dell’intellettuale (di cui, volente o nolente, fa parte anche lo scrittore, il poeta) ha una parte non di poco conto in tutto questo.
    Omero cantava per se stesso – sempre con il beneplacito della Diva (“cantami o Diva”) – , così come Ulisse alla corte dei Feaci cantava (e piangeva) per se stesso. Non si poetava ancora su ‘commissione’. Al poeta veniva riconosciuto il potere di essere espressione del divino (*Olim e per lungo tempo il poeta – per ragioni strettamente collegate alla struttura sociale della cultura – era visto come un soggetto dotato di per sé di “ poteri culturali superiori “ e dunque i pochi poeti esistenti “ facevano il canone “ . Ecco la ragione, travisata, del mio richiamo ad Omero: non debbo io ricordarti che Omero fu per i Greci una sorta di Bibbia pagana*, scrive Mannacio).
    E’ quando il potere temporale si sottrae al potere divino, si costituisce le sue leggi atte al mantenimento del potere stesso. Costruisce i suoi ‘canoni’.
    Anche per queste ragioni la concorrenza tra intellettuali è spietata.
    (*Debbo ricordarti proprio io quanto sia feroce il mondo degli intellettuali? Tanto più feroce quanto meno valutabile con criteri oggettivi la sua intrinseca serietà. La concorrenza nell’inseguire i fantasmi non può essere se non feroce* (Mannacio)

    E, sempre Mannacio: * E’ pressocchè impossibile l’elaborazione di “ un canone universalmente accettato “ mentre è possibile – NATURALE direi – l’elaborazione di canoni diversificati e – dal punto di vista degli elaboratori – di centri critici diversificati*.
    Ma è lì che si deve puntare l’attenzione?

    Che fare?
    Ennio non molla (e giustamente) e si chiede se *esiste ancora un criterio sicuramente ( almeno per me) più nobile e lungimirante, non appiattito sul presente o sullo status quo o sull’accettazione delle gerarchie che si sono imposte nella storia di questo Paese. Ed è quello – uso una parte delle tue parole – di «una militanza coraggiosa, determinata, agente su più livelli» fatta da minoranze*.
    Ma già questo confronto su Poliscritture testimonia che c’è qualcosa che si muove in quella direzione. Anche se non definibile con termini così roboanti come ‘militanza coraggiosa’, che poi rischiano di venire equivocati. E anche ‘rifuggiti’ proprio per quei richiami all’inquadramento legati al concetto di ‘militanza’.
    Ci sono delle risposte, dei tentativi che ancora non possono darsi una struttura ‘stabile’ – e rimarrà così per molto tempo fintantoché non ci sarà una condizione di sovvertimento esterno a buttare in aria le carte.

    R.S.

  24. @ Ennio, Simonitto, Truglia.

    Carissimi, sento – fuori da ogni retorica – un grande desiderio di pace, cioè di meditazione seria senza cornate. Certamente sono il più vecchio della triade di destinatari e mi ripeto continuamente due memorabili espressioni del mio amato Shakespeare : “ maturare è tutto” e “ matrimonio e forca dipendono dal destino “. A quest’ultimo detto aggiungo “ poesia “.
    A Ennio . Lo approvo toto corde quando scrive che c’è bisogno “ di una militanza coraggiosa,determinata, agente su più livelli,fatta da minoranze “ . Forse non dico tutto questo in quanto lui conosce dalla mia corrispondenza su Poliscritture? Con i miei paradossi e le mie affermazioni estremizzanti ho forse allontanato il lettore dall’essenziale ma se avrà la pazienza di rileggere le mie incursioni sul problema si accorgerà che appartengo alla minoranza, che lavoro su un mio livello specifico con determinazione. Non aggiungo il termine “ coraggio “ per una sorta di pudore che mi consiglia di utilizzare tale termine rispetto a situazioni ben più gravi di quelle costituite da un mancato riconoscimento della propria autenticità poetica.
    A Rita dico grazie per le sue note di saggezza che condivido nella loro essenza.
    A Truglia – che conosco solo attraverso i suoi interventi – dico che ha ragione di rilevare che “ critica seria “ è una tautologia, ma non gli sarà sfuggito – data la sua acutezza – che ho messo costantemente tra virgolette l’espressione: critica seria. Con questo ho voluto rifermare che la critica deve essere seria e nello stesso tempo segnalare una sorta di difficoltà della nostra cultura di approdare a questa desiderata e desiderabile sponda.
    Prego tutti e tre di non considerare quanto sto per dire come una autoincensazione ma semplicemente come una testimonianza esistenziale della quale possono fare l’uso che vogliono.
    Ho una lunghissima “ militanza “ nella poesia; ho avuto la ventura di avere scritto alcune cose su Il Caffè, accanto a nomi come Pasolini, Raboni etc. Ho pubblicato una mia poesia su Alfabeta ( con osservazioni di Porta ); ho pubblicato poesie su L’Almanacco dello Specchio; ho conosciuto “ poeti ufficiali molto noti “ ai quali ho fatto conoscere le mie poesie senza averne riscontro alcuno; per caso, Testori ha molto apprezzato un mio volumetto di poesie; ho vinto un premio che dicono prestigioso, spinto a parteciparvi da un caro amico (e questa spinta l’annovero nello scespiriano destino o caso); sono uno dei poeti meno recensiti d’Italia; i miei 5 libri sono conosciuti da un numero di amici e qualche uomo di cultura il cui numero sta nella due mani;una delle case editrici è scomparsa nel nulla; chi si è occupato di me criticamente lo ha fatto misconoscendo la specificità della mia ricerca; ho continuato a scrivere nel modo che ho ritenuto proprio a me stesso e su ciò che ho creduto interno alle mie esperienze con determinazione con “ determinazione “ (lasciamo stare il “ coraggio “: vd supra) e continuo a farlo. Dico questo non per “ distinguermi “ da altri ma per condividere con “ gli altri miei simili “ una condizione che mi ha fatto maturare (vd sopra) : ho giocato forse con parsimonia eccessiva le mie carte. Ho vinto o perso? Dobbiamo esprimerci proprio così? Mi dico spesso: continua così o taci per sempre. Qualche volta mi sento travolto da una sorta di “ allegria “ .
    Quanto alla critica aggiungo che riconoscendo i miei limiti non mi azzardo a farla con la stessa determinazione con la quale proseguo nella mia esperienza poetica.
    Spero di non essere stato frainteso in nessuno dei miei passaggi. Ma insomma : quando ci vuole ci vuole. Buona domenica. Materia per riflettere ce n’è.
    Giorgio M.

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