Il mio batuffolo di cioccolata

gamba ederledi Arnaldo Ederle

(Respiro) a Nella/Tommasina

La gamba è fasciata con una stoffa bianca
poi comincia la protesi, non so
ancora com’è, ma la vedo è coperta da
da una forma simile alla sua realtà
il polpaccio il piede, è solo un po’ più
tenera della carne, ma è identica
al mezzo arto che non c’è più, ma in fondo
è quasi uguale all’altra di carne. Quando
sono nude le due gambe sono uguali,
la gamba destra è vera fino al ginocchio
si può palpare e goderne
e abbracciarla.

Ecco com’è l’arto affascinante
l’arto che si desidera quello che
appare che c’è ma non è lui è solo
un’apparenza una voglia un vorrei.
Non so esattamente che tipo di sensazione
produca nella sua bella donna
so che in me stimola curiosità e desiderio
di vedere la carne rimasta come prova
della sua originaria natura della sua
originaria bellezza e la tocco con gli occhi
stringo tra le mani ciò che resta
della sua vita uccisa.

Cammina quella gamba si sposta con regola
davanti all’altra ancora intera,
priva dell’inerzia della cosa della sua
deprecabile morte. La bellezza non è
distrutta.

Il resto è amabile il viso sovrasta
tutta la persona la illustra
come una pergamena di grande valore
il suo sorriso il suo squillo di riso
una festa del piacere della felicità
il gaudio della beltà.

Quando fiocca la neve le sue guance
si arrossano un po’ la sua pelle si alliscia
le sue labbra si gonfiano e sorridono
di più tirano gli angoli e la bocca si espande
come un grappolo vermiglio e sembra ti voglia
baciare quel sorriso, e tu l’aspetti e la vuoi
quella docile generosità quell’offerta,
e la succhi prima di averla sulle tue
di labbra e la odori prima di tenerla lì
sotto il naso come una dolce rosa
un batuffolo di cioccolata.

26 pensieri su “Il mio batuffolo di cioccolata

  1. COMMENTO RECUPERATO
    Fischer
    sabato 28/02/2015 14:50

    il corpo!, la sua sostituta beltà “l’arto che si desidera quello che/ appare che c’è ma non è lui è solo/un’apparenza una voglia un vorrei” “quella docile generosità quell’offerta,/ e la succhi prima di averla”
    il corpo è il sostituto della vita che resta/della vita uccisa gentile Arnaldo Ederle, magnifica, anche questa!

  2. COMMENTO RECUPERATO
    Emilia Banfi
    sabato 28/02/2015 15:01

    In quella gamba in quel corpo in quell’amore , tutto il sentire . L’umano accorgersi della bellezza che ancora vive nei sentimenti , che non lascia spazi al passato forse crudele…

    Un regalo di Ederle davvero splendido direi sorprendente. Grazie

  3. COMMENTO RECUPERATO
    Simonitto
    sabato 28/02/2015 15:46

    Molto ben fatta, bella e geniale (metto tra parentesi – che non significa mancanza di partecipazione – la quota di sofferenza e di vissuto che può aver dato motivo a questa intensa poesia).
    Non si tratta qui solo di un arto (una gamba) bensì dell’esperienza di una vita ‘sottratta’ alla sua integrità, e che poi vita si ‘ri-fà’ in una apparenza che dà l’illusione di essere più di quanto la vita stessa può dare, l’illusione di immortalità. Mentre invece la vita è anche ‘mancanza’, ‘taglio’, ‘sofferenza’. A fronte delle perdite e delle frustrazioni si sopperisce con *la docile generosità di quella offerta* (sottolineatura che fa anche Cristiana).
    A me aveva fatto venire in mente l’atleta Oscar Pistorius e il suo dramma.
    Che sia stato possibile rendere una problematicità di questo genere in poesia, ci conferma come la stessa – e naturalmente il poeta – possa ancora dire e sollecitare tanto, a condizione che non si faccia ‘protesi’ dell’esistente ma ne denunci le carenze.

    R.S.

  4. COMMENTO RECUPERATO
    Abate
    28 feb 18,38

    Una donna frutto o cibo!
    Grandioso sogno maschile.
    Ma chi l’ha così cudelmente mozzicata?

  5. COMMENTO RECUPERATO
    Corsi
    28 feb 20,15

    ecco come la poesia può estendersi con tutta la sua forza e delicatezza a
    parti del reale che generalmente non ardisce di toccare.
    un tocco magnifico
    grazie

  6. COMMENTO RECUPERATO
    Banfi
    28 feb 20,26

    Non ci pensa più
    resta ad ascoltare
    il calore che sale
    A chi il maltolto
    forse un uomo
    o una donna chissà
    resta il fatto
    che un pezzo di vita
    mai più scorderà
    ciò che resta
    ha così gran valore
    che tra le cose più amare
    è rimasta la voglia
    di farsi cullare.
    E’ qui che alla fine
    dovrà cercare
    una pace qualunque
    quello che c’era nei sogni
    un semplice amore
    un fuoco improvviso
    un bacio un sorriso
    una cosa bella
    tra le cose la più bella
    Quel cioccolato prezioso
    ha forse un nome
    un istante impetuoso
    un sonno una stanza
    che apra la porta
    in un giorno di sole
    alla storia che avanza.

  7. COMMENTO RECUPERATO
    Locatelli
    28 feb 22,17

    ..secondo me la sofferenza della perdita è presente, ma il poeta A. Ederle
    vuole vedere l’interezza della bellezza nella donna amata…La
    bellezza perduta non va dimenticata, se c’è stato un torto lui non
    vuole aggiungere il suo perciò sente la sua donna come un desiderabile
    frutto maturo. E lei è altrettanto generosa…
    Mi suggerisce una riflessione: oggi, visti i tempi durissimi, siamo più
    portati ad immaginare nella realtà il brutto che non si vede (paure,
    sospetti) che non la bellezza nascosta o smarrita…

  8. COMMENTO RECUPERATO
    Abate
    1 marzo 15, 01

    @ Corsi

    Marcella, prendo spunto dalle tue parole per ricordare (fastidiosamente lo so!) che di ben altro ardire avremmo bisogno oggi. Almeno per sfiorare, in poesia, le tragedie in corso: guerre, immigrazioni coatte, distruzione dell’intelligenza umana che potrebbe essere applicata al lavoro, fame e follia pianificata. Che filtrano, sì, nelle nostre menti e nei nostri cuori, ma solo dopo essere passate attraverso giornali, TV e FB, che ce le restituiscono come inerte e effimera chiacchiera. E, infatti, quando poi scriviamo poesie… parliamo d’altro.

    D’amore, ad esempio.
    Sul blog LA PRESENZA DI ERATO, che – non so se in vista di S. Valentino – aveva dedicato “una settimana dell’amore” raccogliendo testi di vari poeti e poetesse (alcuni amici) ho avuto un battibecco con alcuni di loro (http://lapresenzadierato.com/2015/02/12/la-settimana-dellamore-quinto-giorno-poesie-di-vittorio-alfieri-marco-g-maggi-davide-cortese-giovanni-asmundo-renato-fiorito/comment-page-1/#comments).
    Poi la cosa è morta lì. E a me sono venuti anche dei dubbi. Sarò stato un moralista ad imputare ai poeti d’oggi una certa insensibilità o un’inconscia voglia di distrarsi da queste tragedie? Sarò stato demagogico?
    Che si sono rafforzati quando, leggendo proprio in questi giorni «La testimonianza della poesia» di Czeslaw Milosz, un libro interessante e problematico scritto da un poeta che le tragedie del Novecento le ha vissute, sono incappato in un passo che sembrava dar ragione ai miei amici poeti e torto a me che li avevo rimproverati.
    Scrive infatti Milosz:
    «Chi si appella alla miseria, alla fame, alle sofferenze fisiche dei nostri simili per criticare una poesia o un quadro fa solo demagogia. È dubbio il vantaggio che l’umanità trarrebbe se i poeti smettessero di comporre versi idilliaci o i pittori di dipingere quadri a tinte chiare solo perché sulla terra c’è troppo dolore, e dunque non c’è posto per occupazioni così astratte dalla realtà». ( pag. 96-97 edizione Adelphi 2013).

    Eppure è lo stesso Milosz che, qualche paragrafo dopo, deve riconoscere che la questione che io sentirei in modi moralistici o demagogici non è affatto trascurabile.
    I conflitti nella storia ci sono e si ripresentano anche in poesia. Milosz lo dice, forse in modi più sfumati o moderati, ricorrendo ai concetti letterari del classicismo e del realismo. Aggiunge infatti:
    « Si tratta di uno scontro tra due tendenze che è indipendente dalla moda letteraria di un determinato periodo e dai mutevoli significati di volta in volta assunti dai termini classicismo e realismo. Sono tendenze contrapposte che coesistono persino all’interno di un unico individuo. Bisogna dire che tale conflitto non avrà mai fine, e che la prima tendenza, pur in varianti diverse, è sempre dominante, mentre la seconda incarna la voce della protesta. Quando pensiamo a tutta la bellezza racchiusa nella letteratura e nella pittura del passato, fonte di ammirazione e di gioia per il solo fatto di esistere, non possiamo che sbalordire di fronte alla potenza del non-realismo. Sembra quasi che l’umanità sia assorta in un fantastico sogno autoreferenziale nel quale le più
    semplici relazioni interumane, come anche quelle tra gli uomini e la natura, assumono contorni ogni volta diversi, ma sempre stravaganti. Accade così per effetto della forma, che ha esigenze proprie, solo in parte – pare – dipendenti dalle intenzioni degli uomini. La forma favorisce le tendenze ieratiche e classicizzanti, e resiste invece ai tentativi di introdurre dettagli realistici, come – in pittura – il cilindro nero e la redingote che facevano indignare i detrattori di Coubert o – in poesia – termini come treno e telefono».
    (pagg. 97-98, edizione Adelphi 2013).

    Ho l’impressione che le cose siano in realtà più drammatiche da come le pone Milosz. E devo aggiungere – e qui i miei dubbi si sono placati – che queste cose le diceva Fortini, senza aver ricevuto nessun Nobel per la poesia e forse, proprio per questo, con più decisione e chiarezza (e andando più al sodo, al punto amaro che riguarda la natura stessa della poesia e quella benedetta/maledetta questione della forma). Infatti rompeva l’anima ai poeti ricordandogli di non illudersi sulle virtù liberatrici della poesia:
    «Eppure mi è sempre stato chiaro che la poesia, proprio in quanto forma che si oppone al mutamento, ha anche una sua dimensione conservatrice e conciliatrice. Come gli stessi Horkheimer e Adorno hanno scritto, il canto della poesia e dell’arte è a servizio del dominio non solo perché è frutto dell’agio e del consumo come spreco e piacere ma perché la promessa di felicità e l’immagine di pienezza, che arte e poesia portano con sé, non possono essere altro che promesse e immagini, fiori sulle catene».
    («Sui confini della poesia» in «Nuovi saggi italiani 2», Garzanti 1987 pagg.313-333)

    E noi? Per conto mio torno ad insistere: «I poeti in tempo di guerra non tremano abbastanza», perché… sono troppo aggrappati alla (tradizionale, delicata, consolante) poesia d’amore.

    P.s.
    Lascio che i maliziosi si sbizzarriscano. Io so, con quanto appena scritto, di non voler sminuire la poesia d’amore di Ederle o dissociarmi dal plauso che gli hanno tributato le amiche che commentano su questo blog. Semmai voglio mostrare il lato in ombra della poesia ( e non solo d’amore). Che torna oggi a dilatarsi in modi preoccupanti…

  9. COMMENTO RECUPERATO
    Paraboschi
    domenica 01/03/2015 16:03

    @ per Ennio

    Sotto un lenzuolata

    Pensa come sarebbe bello
    restare coperti da una lenzuolata
    ma non di quelle che sappiamo,
    solo un velo di cotone
    sopra la bellezza dei tuoi seni grandi
    e non avari, e sotto, tu ed io
    con le mie miserie ringalluzzite
    e così scordare le bugie
    che ci raccontano giorno per giorno

    le storie vecchie dei No-Tav e le P38
    e la tristezza delle intercettazioni
    che non si possono fare, e quella sera
    del 12 dicembre quando ero appena uomo
    e siamo corsi in piazza a gridare
    che era di Stato quella strage,
    ma di quale stato (liquido ? no, forse gassoso)
    stai parlando, se ancora cercano e non vogliono.

    Tu scopriti la nudità del femorale
    ( un tempo avrei scritto inguine,
    ora mi accontento del muscolo )
    e lascia che vi affondi il volto
    perché sono stanco di bugie
    c’è solo questo lungo inverno di neve
    a fare compagnia a noi due che vorremmo
    essere soli ma c’è troppa gente
    dentro le nostre memorie, e vi girano fantasmi.

    Da Salazar a Stalin ne abbiamo visti tanti,
    la lunga marcia, Francisco e la garrota
    la Grecia e i colonnelli, i generali Pinochet e Videla,
    il popolo con Mao, e poi Deng
    che invece ha detto vi farò ricchi e consumatori
    la storia dei poteri forti e la massoneria
    e la nipote dell’Egiziano, e così
    ci siamo convinti tutti anche che la Clerici
    fosse una cuoca invece che una banale presentatrice.

    Adesso ci raccontano che senza
    l’austerità non ce la faremo
    che abbiamo avuto troppo
    che no pasaran e sempre avanti col liscio
    e il pugno alzato, e vai tesoro infilati le Tods,
    sali su Italo non inquinare più, ci basta l’Ilva
    (ed io che quando lo vedo scritto p
    enso a quella dell’Amaretto di Saronno )
    invece dovrei gridare Ingroia non ti voglio candidato,
    mi sono bastate le mani pulite
    le voglio anche candeggiate ma non sciolte dentro l’acido.

    Lascia che ti chiami amore
    anche se sei amore un po’ di frodo,
    facciamo finta che tu ci sia,
    illudiamoci tutti e due che
    mentre ti osservo gli occhi
    e vi guardo dentro tu stia godendo
    per le mie bugie, ma che vuoi che sia
    ancora questa, in mezzo a tante
    che hai ascoltato, una bugia che
    ti regala un’emozione tienila per buona,
    non gettarla nel cassonetto di questa storia
    che pesca in ciò che siamo stati
    e invece trova ciò che non siamo più.

    [Nota E.A.
    Word Press ha deformato qualche a capo. Se sbagliati, prego Luigi di ripubblicare il suo commento e successivamente cancello questo.]

  10. La forma è necessariamente “conciliatrice e conservatrice”?
    Non so se sia appropriato discutere sulla forma, che non è solo la “bella forma”, o la “ricerca della forma” o della “forma per la forma”.
    Se la forma è risultato dell’idea, dell’intenzione del poeta, e non è prodotta dalla cosa stessa, sarà anche forma dei conflitti, forma dell’orrore, della rivolta, ad esempio in Amelia Rosselli. Però è anche vero che nella forma si raggiunge una “pace”, quella della contemplazione e dell’identità per la forma raggiunta.
    Forse è allora quella pace che Abate mette in questione, come se invece l’opera (d’arte) dovesse aprirsi ad accogliere contraddittorietà e inquietudini e rifiuto, anche a costo di non raggiungere una (bella) forma.
    E se invece la forma contenesse sempre in sè una discrasia di temporalità? E’ vero che “la promessa di felicità e l’immagine di pienezza, che arte e poesia portano con sé, non possono essere altro che promesse e immagini” (Fortini), ma queste promesse e immagini sono anche il tempo antropologico indispensabile alla vita, tempo dell’accordo, dell’interezza, dell’aspirazione, dell’unità.
    Poi viviamo nel tempo circostanziale, quello del contrasto, della confusione, opposizione, sforzo, scacco.
    Ma se questa doppia temporalità fosse sempre presente anche come assenza, quindi implicitamente? E sempre all’orizzonte di chi scrive e di chi legge? Che dire delle poesie sul susino e sulla nuvola di Brecht, dolcissimamente tradotte da Fortini, se non che i due tempi, quello di ciò che è giusto, che dovrebbe e potrebbe essere, e invece non è più o ancora, sono insieme presenti e assenti nel testo?
    Nel caso della poesia di Ederle, è esplicito il tema di ciò che non c’è eppure è! E, con più evidenza, la poesia d’amore di Paraboschi mentre si ritira in un estremo angolo di difesa parando possibili invasioni, pure le nomina nel “vade retro”.
    (Poi ci sono le poesie d’amore concilianti e pacifiche di completezza, o le poesie formalmente sforzate e soddisfatte di sè… ma che c’entrano?)

  11. SEGNALAZIONE:
    I DILEMMI DELLA POESIA SONO SIMILI A QUELLI DEL CINEMA?

    [Uno stralcio che capita a fagiolo: da un articolo di Pietro Bianchi su “Il cinema classico in frammenti” da LPLC, che propone con termini suoi la problematica classicismo/realismo di Milosz a cui ho accennato nel precedente commento, ma che ha anche qualche aggancio con l’ultimo commento di Fischer.]

    “Se è vero, come pensa Fredric Jameson, che la postmodernità si caratterizzi soprattutto per un processo di naturalizzazione del capitalismo – proprio perché il capitalismo ha nella sua natura quella di dissimulare se stesso e apparire in una forma invertita – risulta allora evidente come il cinema della più grande industria dell’intrattenimento mondiale abbia da sempre adempiuto in modo efficace a questo compito. Tuttavia, come sa chiunque abbia imparato ad amare il cinema di Hollywood, le ciambelle raramente escono col buco, e molto spesso la messa in forma di un’ideologia dice sempre qualcosa di più o qualcosa di meno di quello che il suo ruolo sociale o economico gli prescriverebbe. I registi sopra citati (l’elenco sarebbe evidentemente molto più lungo e discorso a parte andrebbe fatto per il cinema francese, dell’Estremo Oriente o di altre zone del mondo) sono allora tra i pochi che ad Hollywood riescono ancora ad abitare in modo problematico questo spazio di libertà formale sempre più angusto.
    Tuttavia qui sarebbe interessante prendere nota delle differenze. I Coen ad esempio, hanno da sempre deciso di abbracciare la molteplicità in frammenti del mondo che ci circonda. Con uno sguardo ironico e cinico allo stesso tempo, compiaciuto nel mettersi a distanza dalla realtà, hanno fatto del loro cinema un cantico del mondo come pura combinatoria casuale, dove qualunque tipo di evento è solo il frutto dell’incontro insensato di mille frammenti marginali. Apologeti dell’assenza di un centro, il loro è un cinema che ha perso non solo ogni possibilità di enunciazione di una verità (sempre casuale, contingente e di fatto mai da prendere sul serio), ma anche ogni possibilità di tragedia e di conflitto di forze oppositive (significativa la totale assenza del peso simbolico della morte nei loro film). Gus Van Sant invece ha cercato di cogliere nei margini esclusi di un mondo in frammenti delle possibilità, seppur fugaci e limitate, di ri-sublimazione della realtà (Paranoid Park e Will Hunting, commercialmente così diversi, condividono questo stesso spirito). Mentre Scorsese ha sostituito alla pretesa di totalizzazione formale del cinema classico, il rapporto singolare che alcuni protagonisti del suo cinema hanno intrattenuto con la paradossalità perversa e carnale della Legge: come se a fronte di un mondo ridotto in frammenti egoisti, esistesse comunque la possibilità unificatrice del peccato (e della sua redenzione).
    Quello che però manca a tutti è l’idea propriamente modernista di pensare alla forma cinematografica come annuncio di una possibile totalizzazione del mondo in frammenti del capitalismo (come nella comunità di My Darling Clementine di John Ford). È questa una delle contraddizioni fondamentali che ha attraversato la storia del cinema del ventesimo secolo: è la forma cinematografica la prefigurazione di un superamento della frammentazione del mondo moderno, o è invece la sua dissimulazione ideologica? Il cinema mette in forma d’immagine i contrasti e i conflitti del nostro mondo, o è invece ciò che ci impedisce di vederli? È una visione delle contraddizioni o è invece ciò che il sabato sera per un paio d’ore ci permette finalmente di non vederle?
    Se è vero che il progetto modernista in questa fase storica pare essere stato messo definitivamente in scacco, non è detto che lo sia anche la domanda sulla sua possibilità. Nessuno oggi potrebbe fare un film come lo faceva John Ford nel suo periodo rooseveltiano, eppure non è detto che la memoria di quello sguardo debba essere completamente perduta.
    […]
    Quando la totalità come principio di organizzazione del molteplice del mondo non riesce più a darsi nel contemporaneo, è tuttavia possibile almeno questo: vedere i frammenti del nostro mondo senza alcun compiacimento, come se li guardassimo con gli occhi di una totalità oltre la sua stessa sparizione. Vuol dire che oltre la crisi della forma cinematografica classica, non esiste solo l’apologia della molteplice disordinato. È come se Paul Thomas Anderson riuscisse a conservare lo sguardo del cinema classico oltre la sua stessa morte. E in questo riesce a essere uno dei pochi oggi (forse l’unico) a saperlo davvero reinventare.”

    (da http://www.leparoleelecose.it/?p=17997#more-17997)

    P.s.
    Come succede spesso si sta avviando una discussione su una questione più vasta in coda ad un post dedicato ad una singola poesia. Ma Ederle ci scuserà.

    1. Bisognerebbe chiedersi qual’ è la realtà.Nella finzione che appaga c’è una realtà che si svela , diventa il vero senso dell’esistere. Bisognerebbe chiedersi cos’è il vero.
      Bisognerebbe chiedersi
      in cosa esistiamo
      cosa rifiutiamo?
      La ferita
      o la garza che la ricopre?
      la voglia di vivere
      o la paura di morire?
      Frammenti di ore
      a volte rispondiamo
      a quello o a quell’altro
      oggi si fa
      domani …
      Incredibilmente si vive
      così spot da sommare
      La vita.

  12. … la poesia di A. Ederle, secondo me, puo’ essere sia un inno di amore per una donna sia per la natura, mutilata dall’uomo, ma sempre affascinante, grazie alla generosità di soggetto e oggetto. La (bella) forma svela sia la presenza che l’assenza della bellezza…
    La (bella) forma puo’ essere anche una maschera, una bugia…a volte micidiale come quella che ci arriva dai potenti sotto forma di arte o di svago, a volte pietosa, come quando ci parliamo di amore (poesia di Luigi Paraboschi)…Quest’ultima puo’essere consolatoria ma anche tragica e aspirare alla sopravvivenza, l’amore facendo parte dell’essenza dell’uomo: presente nei campi di sterminio, penso anche sui barconi…G. Ungaretti scriveva lettere d’amore per sopravvivere alla vista di un compagno ucciso durante la guerra

  13. @ Fischer

    Bisogna dare un contesto storico preciso a questa discussione sulla forma in poesia.
    A me è ancora ben presente (e magari mi condiziona…) quello in cui si svolgeva il confronto fra Fortini e Adorno. Era, direi, tipico di una situazione di conflitto storico abbastanza evidente, letto con gli strumenti del marxismo (critico).
    Perciò il “compagno-poeta”, contro le semplificazioni dell’arte impegnata (alla Zdanov), si poneva il problema della poesia non in termini romantici o soggettivi (secondo i quali l’Amore o il Sentimento è l’unica fonte della poesia e ad esso solo si ha da essere fedeli). Coglieva invece della poesia la parzialità, l’ambivalenza (promessa, sì, di felicità, ma solo promessa). E si apriva a una prospettiva mirante a realizzare tale promessa di felicità. Come? Partecipando ad un progetto politico che avrebbe preparato una rivoluzione. L’ io del poeta si faceva io/noi.

    Da quest’ottica la ricerca della forma in poesia non era più fine a se stessa, atto che si concludeva in sé col compimento dell’opera, nella quale gli altri (il pubblico) si sarebbero riconosciuti (avrebbero contemplato in spirito la propria Umanità o Universalità senza porsi il fastidioso problema di realizzarla); e il poeta perfetto era quello capace di esprimere col massimo di fedeltà questa Umanità o Universalità, perché era l’unico a sentirla e a coglierla con la Parola.
    Tutta qua la funzione ( e il mito) della Poesia e dell’Arte.
    Nella prospettiva “a-romantica”, invece, la forma raggiunta in poesia ( o in arte) viene vista soltanto come un preludio, una premessa, un’anticipazione, della formalizzazione (positiva) della vita. Che – solo con il comunismo – avrebbe portato ad un’uscita dall’anarchismo capitalistico o dall’alienazione o avrebbe riconciliato natura e cultura.
    E perciò il “poeta-compagno” coscienzioso poteva seriamente chiedersi, nel mentre praticava poesia, se essa non fosse o non potesse essere un diversivo, un lusso, una felicità raggiungibile solo da chi la praticava o da quanti avevano raggiunto l’agio e le condizioni materiali e culturali per goderne da spettatori. E poteva persino criticare o censurare chi, come Adorno, giudicava il raggiungimento della forma in poesia già di per sé una sufficiente (o l’unica possibile) rottura con la vita inautentica che ci tocca sotto il regime del Capitale.
    Fortini, infatti, a differenza di Adorno, a me pare fosse più consapevole ( o semplicemente più speranzoso?) della necessità di non recludersi o accontentarsi della promessa di felicità che la poesia ( o l’arte) lascia intravvedere. Da qui anche un suo atteggiamento (giustamente per me) sospettoso verso la poesia stessa.
    Non aveva, a differenza dei più ingenui fautori della poesia pura o come valore in sé, dubbi che la forma fosse necessariamente «conciliatrice e conservatrice». Sia perché ai suoi tempi (e questo valeva anche per il suo interlocutore Adorno e almeno per l’area cultruale su cui il marxismo aveva influito) era fuori discussione che «il canto della poesia e dell’arte [fosse] al servizio del dominio» e «non solo perché è frutto dell’agio e del consumo», come tutta la storia mostrava ( si pensi alla storia sociale dell’arte di Hauser), ma anche perché «la promessa di felicità e l’immagine di pienezza, che arte e poesia portano con sé, non possono essere altro che promesse e immagini, fiori sulle catene».
    Sia chiaro. Una promessa non si disprezza, ma può, se non realizzata, ridursi a pura illusione. E dovrebbe essere dannoso o inaccettabile acontentarsene.

    Questa visione della poesia e dell’arte vale ancora oggi per noi? Non mi pare.
    Ed, infatti, nella poesia di Paraboschi – una poesia combattiva e a suo modo militante ( ma in senso antitetico alla visione fortiniana che ho ricordato – tutta la storia da cui verremmo (diciamo di sinistra e/o di sinistra comunista) si presenta come un ammasso di «bugie/ che ci raccontano giorno per giorno».
    Per cui, invece di proteggere, come invocava l’ultimo Fortini, almeno «le nostre verità» ( poche magari e che dovrebbero esserci state in quella storia), c’è solo da liberare la nostra memoria dai suoi «fantasmi» che ancora l’occuperebbero. E cosa cè (per dei maschi!) di più convincente che contrapporre ai fantasmi fastidiosi o cupi l’immediatezza corporea, «la bellezza dei tuoi seni grandi/ e non avari» o «la nudità del femorale»?
    Della poesia di Fortini si salverebbe, a questo punto, quasi solo “La buona voglia», ma forse neppure questa, perché Paraboschi passa anche lui (assieme a rò!) dallo scetticismo verso la storia al nichilismo, essendo con tutta probabilità anche «la bellezza dei tuoi seni grandi/ e non avari» una bugia, una finzione da tenere «per buona», solo perché è « in mezzo a tante/ che hai ascoltato, una bugia che/ti regala un’emozione».

    Come vedi, contestualizzandola, la questione della forma può essere vista sotto una luce diversa. Rivelatosi uno scenario fasullo e di cartapesta il comunismo, essendosi ridotta la storia a carnevale o a mare di bugie, non avrebbe alcun senso oggi tentare di affiancare al dibattito sulla poesia il dibattito sulla politica e sul senso della storia. E, infatti, i commenti al post sulla Grecia e Tsipras languono e a me pare che in certi commenti non si vede l’ora di chiudere la discussione su queste faccende complicate e “intellettualistiche” per tornare a scriversi in santa pace poesie d’amore.

    Non dico che questa sia la tua posizione. Tu cerchi di cavartela ricorrendo allo scarto indubbio tra i tempi antropologici («queste promesse e immagini sono anche il tempo antropologico indispensabile alla vita, tempo dell’accordo, dell’interezza, dell’aspirazione, dell’unità») e quello «circostanziale» («quello del contrasto, della confusione, opposizione, sforzo, scacco.»).
    Ma così verrebbe ancora una volta ad essere accolta ( e subita?) la scissione tra tempi soggettivi dell’individuo ( e del poeta) e i tempi oggettivi o ostili o conflittuali della storia.
    Credi davvero che questa «doppia temporalità» venga tenuta in conto e sia sempre presente «all’orizzonte di chi scrive e di chi legge»? Che, insomma, si possano scrivere (l’ho fatto anch’io) poesie d’amore o sul susino, ma allo stesso tempo rimanendo – e cosa lo garantisce? – sempre sensibili e attenti – ed è sufficiente? – alle tragedie del tempo «circostanziale»?
    Io non lo credo. Brecht e Fortini, sì, tenevano (faticosamente!) insieme i due tempi.
    Noi oggi tendiamo quasi sempre a disfarci di quello circostanziale, che è confuso, caotico, mette paura, ecc. E non sono sicuro che nelle poesie d’amore che si scrivono «è esplicito il tema di ciò che non c’è eppure è». O forse sono io che non lo vedo.

    1. E’ un bel dibattito non c’è che dire! Mi sento di sostenere la posizione di Ennio Abate, che fa riferimento a Fortini, quella di richiamare i poeti a “non recludersi o accontentarsi della promessa di felicità che la poesia lascia intravvedere.” Certo che l’amore o il sentimento non può essere l’unica fonte della poesia, e credo non si debbano scindere i tempi “soggettivi del poeta e i tempi oggettivi conflittuali della storia” che si sta vivendo. Facile a dirsi, ma come?
      In questi giorni mi chiedevo come avesse fatto Zbigniew Herbert ad essere amato, soprattutto dai giovani, senza esprimere posizioni muscolose di ostilità al regime. Come era riuscito a trasformare in canto l’urlo che aveva dentro, a piegare la sua poesia, a mantenere la misura, eppure si faceva sentire, eccome.
      Chissà quale posizione avrebbe assunto, un essere intelligente come il Fortini, dinanzi ad un atteggiamento del genere, voglio dire quello di Herbert che considero esemplare, da tenere anche nella nostra situazione(la non democrazia, la globalizzazione ecc.)
      Chiudo perché è una questione troppo complessa per me, e poi come scriveva Herbert sono:
      “troppo vecchio per portare armi e lottare come gli altri / hanno avuto la bontà di assegnarmi il ruolo minore di cronista /”

      “Almeno sfiorare le tragedie,” chiede Ennio, e mi sono ricordato di quanto scrissi poco prima dell’intervento in Iraq. Un cordiale saluto a tutti,
      Ubaldo de Robertis

      da Diomedee Edizioni Joker, 2008

      Sopra un adagio di J. Haydn

      Per quanto tempo ancora dovrò fiutare il vento…
      Ovunque scomposte grida, dissennate parole d‘ordine.
      La mancanza di voci sagge.
      E‘ il senso di tetraggine che mi sconcerta,
      nel mondo sovraccarico di esseri inquieti.

      Quando mi passarono accanto le straniate armature
      di uomini irriducibili, obbligati a convincermi
      sugli elementi morali della guerra,
      nel loro volto metallico, nei loro occhi iniettati
      colsi, in tutta la reale dimensione,
      la misura del mio terrore e della mia sconfitta.

      Presto dovrò coricarmi prima che faccia sera

    2. [Questo commento risponde a quello di Abate delle 11.42 del 3.3.2015]

      Se non sei sicuro che nelle poesie d’amore che si scrivono è esplicito il tema di ciò che non c’è eppure è, allora devo dimostrarlo su questa di Ederle.
      1 strofa
      la gamba artificiale è “vera nuda uguale” si può addirittura “palpare e goderne/e abbracciarla”, infatti è “tenera”: è una gamba che non c’è (è artificiale) ma è vera uguale, ecc
      2 strofa
      “l’arto affascinante/l’arto che si desidera quello che/appare che c’è ma non è lui”: è solo l’arto? o l’arte?
      “quello che appare che c’è ma non è lui”: io avevo scritto ciò che non è eppure c’è
      addirittura, nella seconda parte della seconda strofa, non so, a filo di grammatica, a chi si riferisca la doppia attribuzione di “sua” in: “la carne rimasta come prova/ della sua originaria natura della sua/ originaria bellezza”, se sua dell’arto(e) o sua della carne della signora
      vale anche per il chiasma di “tocco con gli occhi/stringo tra le mani”, e vale per la doppiezza intrinseca dell’espressione “ciò che resta/della sua vita uccisa” cioè resta l’arte, che uccisa non è, o che si può ucciderla molto meno
      3 strofa
      “si sposta con regola … priva dell’inerzia della cosa … la bellezza non è distrutta”, d’accordo starà parlando della gamba, ma se riferito alla poesia è più pertinente.
      Potrei andare avanti fino in fondo alla poesia per dimostrare che la “doppia temporalità”, il doppio registro che l’autore porta avanti, è presente almeno in questa poesia. Nelle successive strofe arriva il rapporto tra arte e piacere, arte e corporeità “le sue labbra si gonfiano e sorridono … la bocca si espande” “e la succhi prima di averla sulle tue/di labbra e la odori prima di tenerla lì” che è anche e evidentemente il piacere della scrittura.
      Qui non c’è “illusione” di bellezza o di completezza, non sono “promesse e immagini” ma la concretezza della persona del poeta con il piacere che prova nello scrivere.

      Quindi vengo al significato di forma, a cui Fortini attribuisce un intrinseca promessa di felicità e immagini di pienezza che sarebbero però o illusione inconscia o colpevole falsa coscienza.
      Mi chiedo invece, essendo io parte di quel ceto medio acculturato di cui tu tanto hai scritto, se radicata nel piacere del lavoro poetico e creativo in genere, potrei raggiungere una “forma” permanendo in false analisi, in mezze idee, in mezze ignoranze. Il lavoro creativo può svariare lungo un ventaglio tra massima e minima intenzionalità, la minima essendo copia e consolazione. Ma il lavoro creativo è in sè un’opera, un progetto, è animato da un’intenzione: quindi esce dall’autore, vuole dire il mondo. L’intenzione è prima e in quanto tale eccede il risultato, anche se poi l’opera può scadere nell’impotenza, fino al rischio del nichilismo o del virtuosismo soddisfatto.
      Mi sembra che il tuo riferirti a Fortini -di cui però purtroppo non so niente- sia legato soprattutto al tuo desiderio di una fondazione di intersoggettività poetica, che cioè la poesia dei moltinpoesia comunichi, scambi, si interroghi per arrivare a formulare e condividere una ipotesi-mondo. Costruire un territorio comune a chi desidera poter dire il mondo. Come non essere d’accordo, per i vantaggi che questo può portare a ciascuno?
      (Inutile dire che questa intenzione avrà anche identificato dei nemici, per esempio i sistemati, i solipsisti, gli sfiduciati.)

      1. @ Fischer

        1.
        Preciso: non sono sicuro che in *tutte* le poesie d’amore che si scrivono ci sia «ciò che non c’è eppure è».
        Andrebbe poi almeno detto in che direzione noi cerchiamo quello a cui tu alludi con questa perifrasi opaca. Che per me è quella della storia, politica, società (coi loro rapporti interni conflittuali) e per te o per altri forse l’ inconscio, l’Altro, Dio. E per altri ancora un qualcosa che dovrebbe tenere assieme ( ma le tiene davvero?) queste due dimensioni.
        La “dimostrazione” che fai sulla poesia di Ederle a me pare un po’ forzata. L’arto che diventa l’arte, la bellezza non distrutta della gamba che diventa bellezza della poesia, il piacere della bocca succhiata e odorata che si fa piacere della scrittura sono interpretazioni che possono anche incuriosire o reggere ad un’analisi attenta, ma non mi prendono. Anche perché il problema (della forma) che avevo posto non era riferito alla poesia di Ederle.

        2.
        Sulla questione della forma trovo parziale ( rispetto al discorso di Fortini da me riassunto) quanto dici . Certamente «il lavoro creativo è in sè un’opera, un progetto, è animato da un’intenzione: quindi esce dall’autore, vuole dire il mondo». Ma l’intenzione non garantisce che lo dica questo *mondo*. Spesso, malgrado l’intenzione di dirlo, non lo dice affatto. A volte, invece, lo dice proprio quel poeta o artista che pare disinteressato a dirlo. Il che rende più complicata la faccenda e più difficile, ad es., condannare la poesia “oscura”.
        Su che cosa poi intendiamo per *mondo* valgono un po’ le richieste di precisazioni del punto 1. Ma spero che avremo modo di intenderci meglio continuando questi confronti.

        1. @1: l’arto che può essere l’arte e l’arte che è piacere di farla sono quel di più di senso che fa dire che “è quel che non è” (o come altro ti piace), sono l’ambiguità e la sovradeterminazione della poesia; non ho inteso però dare la “lectio” corretta di quella di Ederle (anche se per me è riccamente e piacevolissimamente possibile);
          @2: rispetto al “discorso su Fortini da me riassunto” (alle 9.58 del 4 marzo) tu stesso scrivi, alle 14.42 del 3: “Questa visione della poesia e dell’arte vale ancora oggi per noi? Non mi pare”.
          Aggiungi però che si potrebbe “proteggere, come invocava l’ultimo Fortini, almeno «le nostre verità» ( poche magari e che dovrebbero esserci state in quella storia)” e poi chiedi: “Credi davvero che questa «doppia temporalità» venga tenuta in conto e sia sempre presente «all’orizzonte di chi scrive e di chi legge»? Che, insomma, si possano scrivere (l’ho fatto anch’io) poesie d’amore o sul susino, ma allo stesso tempo rimanendo – e cosa lo garantisce? – sempre sensibili e attenti – ed è sufficiente? – alle tragedie del tempo «circostanziale»?
          Ed ecco la mia risposta: almeno la ambiguità, la sovradeterminazione di senso, tipica della poesia (e dell’arte) ne offre la possibilità. Infatti la offre.
          “Su cosa poi intendiamo per mondo” rimando al “tuo” discorso sulla poesia esodante e sui moltinpoesia… 🙂

  14. rispondo a Ennio e butto là un provocazione leggera, amichevole :
    questa che segue , per me, è una poesia politica, ma sono certo di non trovarti d’accordo

    Vivere tra parentesi

    Certo, si può anche tentare di vivere
    dentro due parentesi tonde, lasciare
    il mondo fuori e leggere nella notte
    i racconti di Sherazade, con un poco
    di buona volontà si potrebbero anche
    aggiungere due parentesi quadre
    supplementari e allora la narrazione a due
    sarebbe più protetta dalle nostre piaghe
    e dagli influssi delle correnti
    del rimorso per le sofferenze
    nei nostri comportamenti,
    -regali a chi, forse, non lo meritava-.
    Volendo, con fantasia, potremmo
    anche aggiungere due ulteriori parentesi
    graffe così lo scudo protettivo ci sembrerebbe
    eterno, ma l’algebra insegna che
    prima o poi tutte le parentesi
    devono essere sciolte per ottenere
    la risposta all’equazione, e noi
    bene lo sappiamo che non ci basterà
    andare a cercare la soluzione
    all’ultima pagina del libro degli esercizi
    per sapere se quella  adottata
    era stata la soluzione esatta.

  15. @ Luigi (Paraboschi)

    PARENTESI

    Certo da ragazzo io pure accettai di vivere
    (quasi!) tra due parentesi tonde (cattoliche).
    Ma il mondo non c’era né nel catechismo
    né nei racconti edificanti o nei breviari.

    Quando giovane ardente le tonde le ruppi,
    procedetti tra due solide parentesi quadre.
    Parevano marxiste. Promettevano vita
    non più materna e rotonda, ma squadrata.

    Poi – ignota è ancora la legge delle parentesi? –
    tonde e quadre si son mutate in graffe. Cioè in artigli. *
    Strappano tutto: corpi, menti e cose. E la soluzione?
    Starà nella poesia? Con o senza le parentesi?

    *Dal termine tedesco ‘Krapfo’ o dal modernp ‘Krapfen’, entrambi significanti ‘artiglio’.

  16. …rileggendo la poesia di Ederle mi è parsa ancora più bella. Si riferisce ad una donna, ma chissà a quanto altro ancora: la poesia, la natura, la forma, l’arte…nello stesso corpo di donna convivono vita e morte, ma il poeta fa un’affermazione assoluta, tra due punti: “La bellezza /non è distrutta”. Ci guida nella sua descrizione attraverso l’uso di tutti i sensi, ma togliendo, credo, alla vista il suo primato, che spesso ci indirizza, ma può anche ingannare. Nella dedica della poesia, c’è la parola “Respiro” seguita da un nome, forse per significare che in quel corpo di donna l’essenza della vita era presente e il poeta la esplora nella sua completezza, anche spirituale…

  17. …entrando un po’ nel dibattito : se, perché le poesie d’amore oggi.
    Per il nostro essere adulti nella Storia, secondo me la lezione di Franco Fortini sulle “nostre verità” che ci sprona ad intraprendere un cammino, a tracciare un programma per cambiare una società ingiusta, quella capitalistica, per quanto sempre più difficile mi sembra che vada nella direzione giusta…perciò certamente anche la poesia e la letteratura devono tenerne conto e l’io- lirico-deve passare , nei contenuti, ad abbracciare il noi corale dei conflitti, dei problemi… D’altra parte non siamo nati adulti e la dimensione affettiva permane in noi…Dove, se no, attingere ( o non poter attingere) quella forza biologica, vitale per intraprendere un cammino? Qualsiasi cammino? E qui, secondo me, interviene l’altra verità, l’amore( o il suo contrario) in un rapporto affettivo io-tu (imprescindibile) sin dalla nascita, che si evolve nel tempo (la storia la Storia) ma è molto ancorata all’esperienza primitiva della madre: donna-madre, padre- madre, sorella- madre, scimmia madre, ochetta Martina-C. Lorenz, orfanotrofio-madre, strada- madre, nessuna madre…E qui, secondo me, si colloca l’urgenza di scrivere poesie d’amore…Ma in fondo non c’è uno spartiacque tra i due versanti, c’è anche la povertà d’amore

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