Queimada

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di Rita Simonitto

La chiave di lettura di questo racconto sta nel suo titolo “Queimada” (= la bruciata più volte). Accompagnandosi all’esergo, esso introduce ad un discorso che intende essere più socio-politico che sentimentale e nel quale vanno in primo piano gli effetti nefasti della hýbris. La scrittura passa da un andamento lento e analitico ad uno sincopato e violento; precipitando nel finale, viene sottolineato il passaggio ad un quotidiano in cui prevale l’azione e non il pensiero. Il testo fa parte di una raccolta in via di edizione, “Vortici”, in cui l’autrice descrive, in vari racconti/capitoli autonomi, lo svolgersi di processi ‘destinali’, da intendersi però non nei termini dell’ Ananke, cioè della fatalità. Simonitto vuole suggerire che l’essere umano è il più delle volte trascinato da un evento che fa da catalizzatore tra un passato non elaborato ed un presente non comprensibile e in un certo senso ostile. [E.A.]

L’uomo bianco cammina lentamente sul molo verso l’imbarco cercando di schivare l’assembramento di persone.
Porta due sacche da viaggio; la macchina da presa lo riprende di spalle, dal suo passo stanco traspare un senso di sconfitta.
“Valijas, señor?”, una voce dietro lui lo fa girare e il sorriso che passa fugacemente dai suoi occhi si trasforma in uno sguardo d’allarme che il coltello che l’uomo negro gli ha conficcato in pancia gli sta confermando.

Il resto del finale lo conosce già, sa che l’uomo bianco cade a terra a braccia aperte come un cristo, sa che il negro si dileguerà tra la folla indifferente, quindi si tira su anzitempo dalla poltrona continuando a masticare un chewingum che gira e rigira in bocca dall’inizio del film. A lui non piace la gomma americana, l’ha accettata dalla ‘maschera’ pensando fosse una caramella e poi non ha saputo come disfarsene.
Così mi indurisco le mascelle, pensa con la mente al film che indurisce l’anima.
Anche questa volta come le precedenti non si è identificato con nessuno e questo non è bene, oltretutto è come fare un torto al regista ma non è certo quella la sua intenzione. O forse perché identificarsi porta con sé dei lati scomodi così che poi bisogna farci i conti. Ed è stanco di fare i conti con i perdenti.
Ascensore o scale? Ancora non è uscito nessuno dalla sala, ricorda che ci sono altri fotogrammi da proiettare, si ode la musica che non è quella dei titoli di coda. Allora scende a piedi nella solitudine rilassante di chi non è costretto a scambiare opinioni con nessuno.

L’incontro con la untuosità della notte è stato più rapido del suo chiudersi nella giacca, così che adesso sembra portarsela dentro con quell’odore di nafte e salnitro e l’aria stessa che viene dalla banchina quasi deserta, – alcuni marinai stanno discutendo là in fondo accanto ad una nave da carico ormeggiata da qualche giorno – non sa più di salmastro ma di bitume. Catrame sabbioso che salda e livella buchi e nello stesso tempo forma rilievi e croste sul selciato.
Croste pustolose come le sue, asfaltato dal mondo, perché su di lui il mondo ci è rullato e male e senza chiedere permessi né autorizzazioni.
Vorrebbe avvicinarsi a quel gruppo, ascoltare i loro discorsi. Ma intuisce che quel movimento verrebbe respinto come una intrusione, perché significherebbe andarci lì apposta – “e te, chi ti conosce?” – visto che oltrepassati loro, non c’era, poco più avanti, che la fine del pontile e il tumultuare del mare, sotto. Poteva anche essere quello uno scopo, perché no, volersi confrontare con quel mugghìo, sentire gli spruzzi d’onda lambire la pista corrosa esaltandovi tutto l’odore di pesce morto, di storie morte, di passi ormai passati e pestati senza lasciare orma.
Dagli echi che gli arrivano, si capisce che stanno parlando concitati di problemi sindacali, intercetta qualche nome che l’aria gli porta alle orecchie assieme al tintinnio degli anelli che sbatacchiano sugli alberi delle barche, lì alla fonda, ma cosa vuoi sapere, si chiede, nulla è ormai di importanza, solo questi tuoi passi su questo molo e quel cocai che ti tiene d’occhio da quando sei uscito dal cinema e forse si illude che tu gli dia qualche cosa da mangiare.
Eccoli ‘pittati’ questi due che aspettano delusi, l’uno dalla vita e l’altro dalla circostanza avara. Con la differenza che il grande uccello può spiccare il volo e andare a cercare altrove e lui invece è dannato a rimanere in quel posto.
Così rinuncia alla camminata verso la fine dell’imbarcadero e prende la direzione di casa.
Rinuncia. Come sta rinunciando a molte cose ormai, forse troppe e ciò fino a quando non ci sarà null’altro se non la vita a cui dire ‘no’, e quando sarà arrivato quel momento lo capirà dal fatto di non avere più domande.
Eppure vorrebbe sapere che cosa chi casa

edevano, o si chiedevano, quegli uomini sulla banchina, un tempo anche lui aveva discusso perché voleva qualcosa, ma non solo un mondo migliore, quella frase la dicono i vincitori o le vincitrici di qualche premio, o alla cultura o alla bellezza, di volere un mondo migliore, fatto sta che il mondo, nonostante questi desideri espressi da più dove, non sta migliorando per niente e anche il linguaggio per dirlo sta diventando sempre più irriconoscibile. Una beffa.
E’ che deve tornare a casa: c’è da caricare la lavatrice, sistemare i piatti che stazionano nel secchiaio già da due giorni, preparare la ‘ventiquattro ore’ perché il giorno dopo deve partire per un breve viaggio.
Così, domani sarebbe andato al lavoro come al solito, avrebbe parcheggiato l’auto dove capitava, “ingegnere, dia a me” gli avrebbe detto Alfio prendendogli al volo le chiavi, ingegnere del piffero, pensava lui, sono solo un passacarte perché nulla di ‘ingegnoso’ gli veniva richiesto ma solo l’estenuante giornaliero ‘controllo qualità’.
Alla pausa caffè si sarebbe incontrato con le ‘donnine del piano’ (così venivano chiamate le impiegate del direzionale che ogni tanto si mescolavano, in quel punto di ritrovo, a qualche operaio della cartiera che, per ragioni di lavoro, si trovava a passare su agli uffici), e in quel contesto avrebbe fatto la sua figura di persona colta, avrebbe fatto cadere le sue battute spiritose con una certa nonchalance, pronto però ad afferrarle in tempo affinché non cadessero del tutto nel luogo comune, il cestino dentro il quale il più delle volte vanno a concludere i loro giorni anche le osservazioni più pertinenti.
All’ora di pranzo sarebbe partito per raggiungere, nel pomeriggio, una affiliata a cui era stato commissionato un lavoro.
L’idea di mangiare fuori non lo allettava, non tanto perché si sarebbe trovato solo, quella era la sua condizione stabile dacché si era separato dalla moglie, ma per il fatto che mangiare in un luogo pubblico lo avrebbe costretto a reiterare una recita presentando un sé da cui aveva preso le distanze e che non riconosceva più.
La cosa ‘buffa’ è che quella ‘scollatura’ di sé da sé non l’aveva sperimentata all’epoca del divorzio, quando ci sarebbero stati più e più motivi a giustificarla.
Sì, perché la separazione non era stata cosa facile, lei si era innamorata di un’altra, un’altra sì, un’amica di famiglia che li frequentava da quando si erano trasferiti in quella città di mare per ragioni di lavoro di lui, era una bella single che faceva del suo essere sola un punto di merito. E invece le cose erano andate diversamente, si era letteralmente portata via sua moglie garantendole quelle tenerezze e quella dolcezza tipiche da bambina piccola che ella invano chiedeva a lui.
La sensazione di smarrimento e di sfaldamento lo aveva colto di sorpresa qualche tempo dopo, quando ebbe una discussione violenta con un suo carissimo amico d’infanzia con il quale aveva condiviso molte delle scelte politiche di quegli anni.
E adesso, dopo quell’alterco – con un rimorso aggiunto perché l’amico era venuto apposta a fargli visita per parlarci assieme e lui lo aveva trattato in malo modo sicché quello bestemmiando di brutto si era congedato definitivamente – adesso lui si sentiva spezzato, tagliato in due e una parte di sé non la trovava più, era lontana e senza voce.
Lo vedeva anche lui che le cose del mondo erano cambiate e non certo secondo i loro desideri. Quello che non accettava era il fatto che le idee potessero mutare ad ogni muoversi di vento senza una disamina profonda del come e del perché, e gli aveva detto che non era una puttana che disinvoltamente passa da un’alcova ad un’altra.
Così erano partiti gli insulti “Tu ‘puttana’ a me non lo dici”, e poi le negazioni degli intenti “non volevo dire questo”, e di seguito si era passati al personale “Sei un abbietto conservatore; per cosa credi che tua moglie ti abbia lasciato?!” e così via.
Si poteva capire da quella veemenza quanto di non detto era venuto ad ammonticchiarsi nel loro rapporto, il tutto ben nascosto da una apparente identità di vedute, data così scontata al punto che nulla veniva messo in discussione. Per quieto vivere.
Ma quando l’amico si candidò per essere eletto sindaco nelle liste di un partito che ambedue avevano criticato (ma quella critica era veritiera o solo apparenza?), lui scosse la testa: “Non si può fare la lotta dall’interno, come tu pensi. Quelli ti macineranno” gli disse.
L’amico lo accusò di essere invidioso e di non accettare che qualcuno potesse ambire a qualche cosa di più, ma l’amicizia non si ruppe. Fu solo quando quel partito lo ‘scaricò’ boicottandolo di fatto alle elezioni (il suo nome era servito soltanto come ‘richiamo’), che la relazione tra di loro divenne incandescente. L’anima ferita andava alla ricerca di lenimento ma, soprattutto, di annullare lo smacco patito. E, per annullare lo smacco, si annullò anche ogni contatto.
E lui non poteva farci niente, poteva solo chiarire la sua posizione, se di quello si voleva parlare e, quanto all’affetto, sentiva che avrebbe voluto continuare a darglielo, memore del passato condiviso, anche se erano venuti a cadere molti presupposti per giustificarlo ancora.

Decise dunque che per mangiare si sarebbe fermato in Autogrill: una cosa sbrigativa e veloce, confondendosi senza remore con il via vai anonimo che caratterizzava il posto mentre, fosse andato al ristorante, avrebbe dovuto sottostare, volente o nolente, alla affabilità dei camerieri più o meno convinti che stanare la disponibilità relazionale del cliente era loro preciso compito. Ed era proprio ciò che non voleva.
Se non aveva estro di sorridere, di fare i salamelecchi, di rispondere alle battute mirate a stabilire conversazione, tutto ciò non sarebbe stato ben accolto in un ristorante, anzi, sarebbe stato letto come un insulto. Mentre in Autogrill nessuno vi avrebbe fatto caso.

Così fu molto stupito quando al suo tavolino venne a sedersi una fanciulla dall’aria dimessa, non aveva il vassoio ma guardava avida quello che ancora c’era in quello di lui. Sembrava spaesata e nel contempo decisa e ciò lo mise in una strana condizione di inquietudine. Che cosa avrebbe dovuto fare?
La fanciulla parlò, l’accento segnalava che era straniera ma la proprietà delle espressioni indicava che si era sufficientemente integrata: “Puoi dare a me quello che tu non finisci?”, chiese. “Mi hanno rubato la borsetta e sono senza soldi” aggiunse.
Lui si propose di andare a prenderle un pasto completo ma lei si oppose: “mi basta quello che c’è… e poi tu non devi mangiare troppo sennò metti su pancetta” e sorrise.
Il suo sorriso era grazioso, anzi, vezzoso con le due fossette sulle guance e gli sarebbe venuto spontaneo, come d’altronde ci capita davanti a qualcuno che ci sorride, rispondere empaticamente a quella grazia, ma lo aveva disturbato l’accenno alla sua pancia, prevalse il malumore e così spinse senza dire nulla il vassoio verso di lei.
Con una spigliatezza che lo stupì, lei si alzò, andò a prendersi le posate al distributore e poi tornò. Non c’era molto da finire ma mangiò con calma. Forse faceva le trentadue masticate salutari prima di mandare giù il cibo oppure, cosa più probabile, voleva farlo durare più a lungo.
Lui non sapeva se intavolare o meno un dialogo, ma sarebbe stato come distoglierla da quell’impegno e non gli sembrava il caso. Così tacque limitandosi a sorseggiare la sua birra, “ne vuoi?” chiese, ma lei fece cenno di no con la testa.
Era una ben strana situazione di cui gli mancavano le coordinate interpretative. Chi era costei che mangiava al suo tavolo, lui consenziente?
Per quanto modesta fosse, a guardarla bene non era sciupata e quindi, arguì, non era solo per fame che si era seduta al suo tavolo. Borsetta, certo, non la aveva, ma forse teneva il necessario nelle ampie tasche di una giacca lunga, di taglio maschile, che copriva un corpetto accollato luccicante di brillantini e dei pantaloni neri, attillati.
Forse era una gipsy che aveva litigato con la sua band e si era trovata da sola a sbarcare il lunario.
“Che cosa fai? – le chiese – “Lavori da qualche parte?”
“Sì, qua e là”, rispose, evasiva.
“E tu che lavoro fai?”, rilanciò.
“Oh, sono un povero impiegato” rispose, avendo deciso di restare anche lui sul vago.
“Allora trattano bene gli impiegati, qui!” e lei gli sorrise di nuovo, ma stavolta gli sembrò meno aggraziata di prima. “Hai una bella macchina!”
“E’ dell’azienda”
“Mh, mh” fece lei scuotendo la testa. Ormai aveva finito di mangiare ma non accennava ad alzarsi.
Lui guardò l’orologio, erano abbondantemente passate le due, “Devo andare. Ciao” disse a lei che continuava a rimanere seduta. Stentò un sorriso e aggiunse: “Il lavoro mi chiama”, quasi fosse una giustificazione.
In realtà non vedeva l’ora di togliersi da quel contesto i cui contorni gli erano sempre più indecifrabili.

Nonostante cercasse di concentrarsi su quanto doveva trattare con i responsabili della cartiera dove era diretto, il suo pensiero scivolava di continuo a quanto si era verificato a pranzo, una specie di polo di attrazione a cui lo portavano la sua inquietudine e la sua curiosità. Inoltre cercava di sondare se altri sentimenti tipo compassione, trasporto fisico o disgusto, oppure rabbia per essersi sentito intrappolato fossero presenti e condizionassero il suo riprecipitare con il pensiero nella circostanza testé passata, non appena lui cercava di sganciarsene.

Alla sera si fermò in albergo poiché la trattativa sarebbe continuata anche la mattina dopo. Non sapeva che fare, al cinema non davano niente di interessante e non aveva alcuna voglia di andare per locali; così, cosa insolita per lui, si intrattenne al bar dell’Hotel.
Altrettanto insolito fu l’ordinarsi un whisky a cui seguì un secondo e poi un terzo.
L’alcool gli aveva sciolto la parlantina e aperta la disposizione a raccontarsi che da molto tempo aveva perduto.
Parlare di sé, di quanto gli accadeva, di quello che leggeva, di ciò con cui si confrontava si era progressivamente sopito non solo a partire dalla separazione coniugale ma soprattutto dalla scoperta che il confrontarsi con gli altri stava diventando sempre più un motivo di scontro.
Parlava volentieri solo quando si trovava in situazioni anodine, dove gli interlocutori non appartenevano al giro delle persone conosciute e, talvolta, anche nelle occasioni festaiole quando eccedeva con qualche bicchiere in più.
Così fu quella sera.
Intrespolato sullo sgabello della mescita si mise a parlare di quanto occorsogli quel giorno all’Autogrill. Il barman, udendo la storia, se ne uscì con una risata di testa “hi, hi, hi”, di fronte alla sollecita perplessità di lui sui destini di quella fanciulla e gli raccontò che quella ragazza era un po’ svitata perché anche altri clienti avevano segnalato la medesima scena: anzi, una volta, era capitata fin lì al ristorante dell’Albergo ma il padrone l’aveva fatta filare, e anche di malagrazia.
Quell’esposizione di fatti anziché quietarlo lo turbò ancora di più. L’idea che ella potesse essere esposta a ‘malagrazia’ come era occorso proprio lì, all’Hotel, gli produceva un certo raccapriccio. Perché se la stava prendendo così a cuore?
Eppure era passato il tempo degli afflati umanitari, del pueblo unido, dell’internazionalismo proletario, della autodeterminazione dei popoli.
Di tutto ciò, di tutto quell’entusiasmo partecipativo che aveva trascinato lui e altri con lui alle discussioni e alle lotte, non era rimasto che qualche ricordo, rese incerte le situazioni, smarriti i nomi molti dei quali trasferiti con armi e bagagli ad altre rive e alcuni altri passati a quella riva da cui non si ritorna.
Questa fiammella che gli si stava riaccendendo, questo interesse per la condizione della ‘povera’ ragazza aveva forse a che fare con vissuti di un tempo ormai trascorso che di proposito aveva tenuto lontano e che voleva recuperare?
Il whiskey non lo aiutava certo in questo porsi le domande, anzi, gliele confondeva ancora di più travasando situazioni del passato nel presente senza l’ausilio di quelle paratie che lo avevano tenuto preservato dai facili transfert.
Si intrufolava nei suoi pensieri anche un desiderio, mai sopito anche se mai ripreso in considerazione (e ciò a partire da una certa data): quello di poter trasmettere qualcosa a qualcuno di modo che l’esperienza della storia passata non fosse stata vana.
Lui aveva ‘perso’ il figlio di 24 anni nella triste primavera di un ancor più triste fine millennio. ‘Perso’ perché strappatogli via, quasi una nemesi storica, da una “avventura drammatica, ma anche esaltante”, così il Presidente del Consiglio aveva definito allora il conflitto nel Kosovo, sottolineandone, nel tono, il lato inebriante. E, una volta che il figlio fu partito per quella guerra che non aveva nulla di umanitario, non aveva più voluto avere notizie di lui, né tantomeno vederlo. Sapeva che se ne occupava la moglie, a quei tempi già ‘ex’. Quanto li aveva maledetti tutti quanti! Ma non serviva a nulla, come non era servito a nulla il prima, i discorsi fatti a suo figlio, il richiamo alla storia, al passato, le minacce, nulla di nulla.
Era strano a dirsi, ma era come se l’incontro con quella ragazza avesse attizzato una miccia vicino ad una polveriera.
La spinta a volerla rivedere incominciava a farsi strada nel suo animo oppresso da molte ambasce e confuso dal tasso alcolico che gli dava però una spinta alla rivalsa: su tutto e su tutti.

In ogni caso non fu una decisione consapevole ma un passivo lasciarsi andare agli impulsi ciò che lo portò, il giorno seguente, a ripassare in quell’Autogrill nonostante questo comportasse un considerevole allungamento del tragitto per il ritorno.
Non che fremesse dal desiderio di tornare a casa, perché arrivare là significava incontrare l’asfitticità nelle scale da salire, nella porta cigolante da aprire e che non si decideva mai ad oliare. L’asfitticità dei mobili che, non arieggiando quasi mai le stanze poiché partiva presto alla mattina, sapevano di stantio.
Ma c’era una asfissia ben più profonda e letale e che riguardava la vita affettiva. Nulla di vitale era rimasto in quell’appartamento, e non solo perché sua moglie se ne era andata e suo figlio pure, ma perché se ne era andata la linfa, quella che dà vita, quella che aveva sorretto il suo mondo fino a non poco tempo prima, un ideale, certo, ma che non coinvolgeva lui soltanto ma anche altri; e non solo altri ma anche un destino…
Fatto sta che, quel giorno, fermandosi all’Autogrill, non la trovò.

Riprese la sua quotidianità e, stranamente, quell’episodio che gli era sembrato così significativo e coinvolgente quando lo aveva vissuto, ora sembrava giacere nel campo dell’oblio.
Eppure, nonostante quell’oblio, e pur con le giustificazioni lavorative a sostegno dei suoi movimenti, ogni tanto lui bazzicava presso quell’Autogrill. Sembrava una ricerca senza movente e senza un fine e dove si sentiva imbrigliato alla stessa stregua di William Walker, agente di Sua Maestà Britannica, preso dal dilemma: «Meglio sapere dove andare senza sapere come, che sapere come andare senza sapere dove»?
Ma, intanto, il semplice pensiero di avere un qualche cosa da fare di diverso dalla solita routine, sembrava dargli una certa spinta.
Una sera, mentre si apprestava a salire in macchina alla fine della giornata, si sorprese a fischiettare. Una idea gli era passata per la mente: se, come gli era stato detto, la ragazza bazzicava da quelle parti non era detto che frequentasse soltanto l’Autogrill ma probabilmente anche altri luoghi di quel genere.
E, se la montagna non viene a Maometto, Maometto va alla montagna, si disse.
Però non era così semplice perché non sapeva nulla di nulla di lei né, tantomeno, ciò che la spingeva a muoversi da un luogo all’altro. L’unica cosa che gli sembrava ragionevole escludere era la fame, ovvero che si muovesse per cercare da mangiare.
Si mise a consultare le manifestazioni, le fiere, le sagre che nei vari paesi del circondario potevano essere occasione per una band – rimaneva ancora dell’idea che appartenesse a qualche gruppo di suonatori – ad esibirsi.
Una volta individuato il posto si recava là, confondendosi tra la folla dei festaioli incurante degli spintoni che gli venivano dati perché accelerasse la sua andatura e indifferente a qualsiasi stimolo gli proveniva da quegli ambienti: cercava soltanto di individuare la figura di lei anche se poi, non avrebbe saputo che altro seguito darvi. Forse l’avrebbe seguita o forse voleva soltanto vedere dove andava, con chi andava, chissà…
Lo stato depressivo e la disillusione che lo avevano accompagnato fino a quel fatidico incontro parevano essere sostituite da un pensiero di possibilità, di riscatto e di rivincita anche se, di primo acchito, non c’era una qualche ‘idealità’ a spingerlo bensì una specie di ‘dover fare’, da cui però veniva immediatamente espulsa ogni tendenza *all’immaginazione in quanto passibile di portare con sé illusioni e turbative.
Per questo motivo lo stesso fantasticare di che cosa avrebbe potuto fare una volta trovata la ragazza non poteva essere accolto e contemplato nelle sue sfaccettature sia piacevoli che problematiche, perché gli avrebbe fatto correre il rischio di perdersi in congetture e non distinguere più il sogno dalla realtà.
Prima doveva trovarla e poi si sarebbe visto.
Non si conosceva in questa veste così pragmatica, ma sentiva che gli era utile per arginare ben altri bisogni a fronte dei quali parole come ‘riscatto’ e ‘rivincita’ non erano che la benzina propulsiva.
E pure quel tipo di folla che un tempo era stata oggetto del suo interesse politico e alla quale aveva rivolto aspettative scommettendo sulle sue potenzialità rivoluzionarie e poi, fallita la speranza, era diventata parte di un disprezzo profondo verso il mondo, al punto tale da fargli evitare qualsiasi tipo di manifestazione, ora in quel frangente non gli poneva nessun problema. Trovarvisi in mezzo non lo portava ad esprimere giudizi su quella massificazione, quella discesa verso il basso che una volta avrebbe suscitato la sua collera. E, pur sentendo che comunque qualche cosa lo stava ancora macerando, cercava di evitarne i possibili contatti così come cercava di evitare gli urtoni che in modo villano lo spingevano ora di qua e ora di là.

Nonostante le ricerche infruttuose, non si perdeva d’animo, anzi.
In un certo senso, quel cercare lo galvanizzava invece di esaurirlo, perfino il suo lavoro ne beneficiava e non solo perché si sentiva più dinamico, ma anche perché non era riottoso, come in precedenza, a uscire e contattare i fornitori, aggrappato come stava al suo ufficio e alla sua routine.
Andando in trasferta, e quindi fermandosi ora da una parte ora dall’altra, aumentavano le possibilità di trovarla anche se, passato così tanto tempo da quel primo incontro, si chiedeva se sarebbe stato in grado di riconoscerla.

E, infatti, non la riconobbe quando, seduto al solito Autogrill, venne avvicinato da una giovane abbigliata in modo curato, anche se un po’ eccentrico: “Vedo che la pancetta non accenna a calare…” gli disse sedendosi.
Sentì che stava avvampando, eppure non aveva né l’età dei rossori e nemmeno era privo di quel carico di esperienze che, bene o male, gli avevano conferito una certa durezza utile a confinare lontano lontano ogni manifestazione di fragilità.
Ma lì si era sentito come un ragazzino scoperto con le dita nella marmellata.
“Buon giorno” le rispose, di rimando.
“Ho sentito in giro che chiedevi di me”.
E chi poteva essere se non quel barman a cui, in un momento di debolezza, aveva confidato la sua ricerca? Ma adesso non poteva permettersi di essere ‘debole’, così cercò di sfoderare la sua ironia.
“Allora era lei, la donna che mi cercava?!” bluffò disinvolto.
“Se non fosse perché hai già pagato, oggi ti offrirei il pranzo io”.
“Apprezzo comunque l’intenzione. Sarà per un’altra volta”.
“Non accetti nemmeno un caffè? Fuori di qui, si intende”.
Non poteva certo rifiutare. Oltretutto non si trovava da quelle parti per lavoro ma per uscire da un sabato che si stava presentando tedioso.
“Avevo visto qui parcheggiata la tua macchina e quindi ho deciso di entrare. La mia macchina è laggiù” e con la mano ingioiellata – lui se ne accorse in quel momento – indicò una Freelander rossa.
“Anche dove lavora lei pagano bene gli impiegati!”, e voleva mordersi la lingua non appena pronunciata quella frase, carica com’era di equivoci.
Lei glissò la battuta e chiese dove potevano andare a prendersi il caffè.
“Beh, presentiamoci – aggiunse. “Casomai non ci dovessimo più vedere sapremmo con quale nome ricordarci. Io mi chiamo Nathalie” e tese la mano.
La mano era ghiacciata ed anche quel preambolo che aveva fatto per le presentazioni non era di buon auspicio, trasmetteva freddo.
“Giovanni”, rispose e tagliò lì.

Così iniziò una storia, se tale si poteva chiamare.
Fra sé e sé, sondando i suoi stati d’animo, era arrivato alla conclusione che stava molto meglio durante il tempo della ricerca di lei, quando le possibilità potevano aprirsi oppure no. Allora c’era una tensione che lo manteneva attento e curioso mentre adesso questa si era trasformata in una situazione tormentosa che non sapeva come gestire.
Sia prima di sua moglie che dopo la separazione non è che gli fossero mancate esperienze amorose ma, nonostante le incomprensioni e le difficoltà relazionali che si erano verificate, tutto rientrava in una specie di codice riconosciuto e i cui codicilli non ne invalidavano i principi.
Sentiva di essere attratto da Nathalie, di godere del piacere della sua presenza ma, affiancato a tutto ciò, percepiva dei segni di respingimento i quali, cosa del tutto particolare, parevano provenire sia da parte sua, di lui, che di lei.
Fatto si è che il finale di ogni appuntamento lasciava dell’amaro e non riusciva a capacitarsene.
Sulle prime aveva imputato tali difficoltà come se fossero legate alla differenza d’anni che c’era tra loro, una trentina, poco meno; e poi, non sembrandogli soddisfacente quella ipotesi, optò per un’altra, la cui presa in considerazione gli creava una certa resistenza interna: forse si trattava di una differenza di cultura ben radicata e non facilmente superabile utilizzando i falsi miti propagandati dalla società occidentale: libertà, democrazia, uguaglianza, integrazione, ecc. ecc.
Si incontravano con una frequenza bislacca, a volte per due/tre giorni di seguito e poi ne seguivano anche dieci senza che ci fosse alcun contatto né concreto, né virtuale. Nathalie non gli aveva dato il proprio numero di telefono, “preferisco chiamarti io”, così si era giustificata, e non aveva più voluto entrare in argomento.
Di contro, Giovanni, quando lei lo chiamava, non sempre era disponibile impegnato com’era o con la direzione o con la produzione.
E, cosa anche questa poco sintonizzabile con le dinamiche usuali che si mettono in moto di fronte alle frustrazioni, Nathalie non replicava mai con malumori o scenate ma, in buon ordine, ne accettava le condizioni anche se fonti di delusione.
Più volte Giovanni aveva cercato di sapere che lavoro svolgesse lei ‘realmente’, però, al di là di un “faccio l’interprete” oppure “faccio l’accompagnatrice turistica”, ben poco ne aveva ricavato. Era anche molto reticente rispetto alla sua storia passata prima di arrivare qui (come profuga ?) dalla Vojvodina.
Solo una volta, in un particolare momento di intimità, gli parlò di Pančevo alla cui periferia abitava lei con la sua famiglia e gli parlò dei suoi fratelli e…. poi di colpo lasciò cadere il discorso e lui ne ebbe la sgradevole sensazione che non era perché avesse toccato qualche nota di particolare dolore, ma come quando si allargano le mani e si lascia andare in frantumi un prezioso vaso che si stava tenendo e poi si guardano i cocci e si esclama “hops!”, senza emozione alcuna.
Sgradevole sentire, davvero. Lui ne ricavava l’ipotesi che Nathalie facesse così anche con se stessa, che lasciasse andare ‘a perdere’ le cose sue di valore, come a ripetere un danno subito e che mai sarebbe stato riparato.
Giovanni avrebbe voluto dirle queste cose ma non trovava né le parole né i tempi adeguati per farlo tenendo conto che le cadenze degli incontri erano sempre così imprevedibili da rendere difficile ogni progetto di discorso.
E poi, in fondo, non era tanto sicuro che parlarle sarebbe servito a qualche cosa: Nathalie si portava dentro parti disastrate che trascinava qua e là, né più né meno, fatti i dovuti distinguo, di come lui si portava dietro, e dentro, le sue frantumate speranze.
L’immagine drammatica di quell’”hops!”, che nella sua pregnanza visiva rendeva bene la mancanza di una cura o di una preoccupazione, come se abbandonarsi alla distruzione appartenesse all’ordine delle cose e non fosse immaginabile ipotizzare una apertura positiva – e cioè che fosse almeno pensabile, qualora non possibile, mettere dei freni, degli ‘stop’ alla continuazione del disastro -, lo tormentava oltre ogni misura ponendolo di fronte con maggiore crudezza ad un suo pessimismo di fondo: l’impossibilità di risarcimento dei danni che vengono subiti. Bisognerebbe evitarli, ecco tutto.
Gli riaccendeva a squarci quel furore impotente che aveva caratterizzato, in tempi lontani, il suo impegno politico quando, sia pure a denti stretti, aveva dovuto rinunciare alla sua tensione riparativa e interventista: perché era vero quello che diceva José Dolores, il protagonista negro del film Queimada, “Se esiste chi ti dà la libertà, quella non è libertà. Perché sia libertà, nessuno te la può dare: devi prenderla tu, tu solo!”.

Tutte quelle altalene emotive lo facevano sentire inibito nel rapporto con la fanciulla così che aveva iniziato qualche volta a farsi negare anche quando era in ufficio.
Ma, come sempre, Nathalie non diceva niente, era come se la cosa non la riguardasse.
Un giorno, al distributore di benzina e lui si era allontanato dall’auto per andare a pagare in Cassa, al ritorno vide che lei rovistava nel cassetto porta documenti. Sobbalzò quando lui aprì la porta, rimise tutto a posto e velocemente, prima che Giovanni potesse proferire parola, disse: “Ti chiami Ferraioli!”, come se fosse una asserzione rispetto a qualcosa che lei cercava da tanto tempo e che finalmente aveva trovato.
“Non mi sono mai chiamato in altro modo!”
“Pensavo di sì”
“Che cosa vuol dire ‘pensavo di sì’. Mica uno può inventarsi i cognomi a piacimento! E tu, come ti chiami tu. Non me lo hai mai detto” incalzò.
“Beh…. Dai, lasciamo perdere. Partiamo”
Ecco, tutto questo era defatigante, non poter mai agganciarla in un qualche cosa di definito, conoscere il pensiero di lei se non solo attraverso un cercare di decifrare enigmi, interpretare le sue ritrosie e i suoi improvvisi scatti di buonumore.
Una volta, tanto per mettere un paletto di riferimento, un perno attorno al quale si potesse dire “ecco un punto significativo di questa storia”, le chiese che cosa lei provasse per lui: “Sei simpatico”, rispose.
“E tu vai a letto con gli uomini solo perché sono simpatici?”
Nathalie si rabbuiò ma non dette seguito alla provocatorietà della domanda.
“E tu perché vieni a letto con me?”
“Perché ti voglio bene e sei importante per me”.
Come mai mentiva? Non era sua abitudine farlo. Non lo aveva mai fatto. Di netto ebbe la percezione che non potesse dire altro che questo, pur sapendo che non era la verità. O che, in ogni caso, era una parzialissima verità.
Sì, sentiva che la ragazza era importante per lui, perché gli dava delle briciole di vita, poche cose, ma anche quelle poche gli servivano per allontanarsi almeno un tantino da quella sensazione di bitumatura imminente che lo aspettava al varco.
E, nello stesso tempo, ne aveva paura, paura di lei non tanto per la sua imprevedibilità di gazzella che corre mutando continuamente la traiettoria per confondere il leone che la insegue, cercando di evitare di essere sbranata.
La paura di Giovanni sembrava toccare radici profonde che avevano fatto presa nella grande vulnerabilità che lui viveva nella relazione con gli altri e a cui aveva cercato di fare fronte con la capacità dialettica, con la preparazione intellettuale, con la ricerca di un ruolo di forza all’interno dei gruppi politici che, in alcune circostanze, lo avevano eletto come leader.
Ma, a guardare bene, al fondo era lui la gazzella spaventata e Nathalie glielo stava facendo sperimentare ai limiti dello stordimento.
Anche nel rapporto con sua moglie forse, chissà, era stato così: sicuro di sé, forte, il leone, il re della foresta. Anzi, aveva avuto la certa certezza che lei stessa lo avesse voluto in quel modo, salvo poi rimproverarlo di aver perso ogni sensibilità, ogni dolcezza e così defilarsi da quel rapporto verso un altro a lei più congeniale.
Per non parlare del figlio che lo adorava come se lui fosse il suo eroe… fintantoché non fu ‘sedotto’ da ‘eroismi’ di tutt’altro genere e si era imbarcato in quella trucida guerra anche se suo padre aveva fatto di tutto per dissuaderlo.
Nathalie non gli aveva chiesto mai nulla della sua famiglia e, pur essendo passata quasi una doppia stagione da quando avevano incominciato a frequentarsi, non solo non ne sembrava incuriosita ma, anzi, dava l’impressione di sapere più cose di quante lui le aveva raccontato.

Era settembre inoltrato.
Da più di una ventina di giorni non si era né visto né sentito con lei e, sinceramente, non sentiva così tanto il bisogno della sua presenza.
Oltretutto dopo l’incresciosa discussione che c’era stata tra di loro.
Infatti, l’ultima volta che l’aveva incontrata, erano andati a Pontremoli, luogo che lui conosceva bene avendo partecipato alcune volte al Premio Bancarella. A quel tempo, era andato a mangiare in un posto dove si era goduto una scorpacciata di funghi fritti che erano un delirio di bontà e voleva farlo conoscere anche a lei, oltre a farle compiere un giro per quella deliziosa cittadina a lei non nota.
In quella occasione, Nathalie si era mostrata molto sbarazzina, sembrava avere meno dei suoi ventisei anni dichiarati. Nello stesso tempo esibiva una pettinatura da femme fatale portando una banda di capelli lungo la guancia e a parziale nascondimento dell’occhio. Gli venne da sorridere di tenerezza, come poteva vederci conciata in quello strambo modo! Fortuna che aveva accettato che fosse lui a mettersi alla guida!
Dopo il gradevole pranzo, andarono a camminare sul lungo Magra e a un certo punto lei si mise a ridere in un modo convulso, quasi al limite dell’isteria, dicendo che quel fiumicello era ridicolo rispetto al fiume di casa sua, il Tamiš, poi ammutolì e scoppiò a piangere.
Nello stringerla a sé per consolarla, le scostò la banda di capelli scoprendo un livido esteso dalla tempia alla guancia che prima non aveva notato.
Si ritrasse inorridito e lei prese paura della paura di lui.
“Chi ti ha ridotta in questo modo?”, le chiese scuotendola per le braccia.
Lei si divincolò e, con tono gelido, disse che era caduta dalle scale e che lui non doveva permettersi più (?) di trattarla in quel modo come se lei fosse una cosa di sua proprietà. Voleva essere accompagnata subito alla sua macchina e che, da quel momento, non voleva vederlo più.
Era rimasto allibito di fronte ad una reazione così inconsulta, era come se non parlasse a lui bensì ad un altro, e lo sconcerto lo accompagnò mantenendolo in uno stato di annichilimento che perdurò fino a quando si misero in macchina per il ritorno.
Poi, durante il viaggio, alle sue caute richieste di spiegazioni, lei oppose un ostinato e freddo silenzio.
E che altro poteva fare se non assecondare quell’ assurdo comportamento?
Non era la prima volta che si imbatteva in quelle barriere, pareti che venivano calate repentinamente non appena Giovanni cercava di capire, venire in aiuto, se possibile.
Si sentiva in balia del massimo di impotenza: oltretutto, se non era lei a cercarlo, lui non aveva modo di reperirla.

Era dunque settembre inoltrato.
E anche il pomeriggio era inoltrato quando Giovanni uscì dal lavoro.
Si stavano succedendo l’una all’altra delle giornate di grande splendore, aumentato anche dai colori delle foglie che alternavano i verdi, i rossi, i gialli, i marroni come se partecipassero ad una furibonda esplosione pirotecnica prima di inoltrarsi verso la fine, l’addio a tutto. Lui si sentiva partecipe in pieno di quel momento di trapasso, l’illusione della vitalità che si scontra con l’ineluttabilità della fine. Il canto del cigno, appunto. Che lo volesse o no, lui si trovava lì, in quella circostanza.
Preso da questi pensieri, non notò un giovane, capelli rasati, che camminava a gambe larghe come un marine palestrato e che lo stava seguendo nel parcheggio privato dove lui aveva l’auto.
Fu quando aprì la portiera e fece per sedersi al posto di guida e sentì che c’era una certa resistenza a che la porta si chiudesse, e guardò verso su per farsi una ragione di quanto stava succedendo, che vide il volto di quel giovane.
Non lo riconobbe subito, fors’anche perché, dentro di lui, non avrebbe assolutamente voluto riconoscerlo.
Poi, con tono interrogativo “Luciano?” chiese, e avrebbe di gran lunga preferito che la risposta fosse negativa.
Rimasero a guardarsi in quella posizione insolita, Giovanni seduto una gamba dentro e una fuori e Luciano che continuava a tenere, in modo strafottente, lo sportello semiaperto. Forse doveva essere ristabilito un equilibrio: di colpo Giovanni spalancò del tutto la porta e utilizzando l’effetto di quel rapido scatto e l’attimo di disorientamento che ne era seguito (“ma che cosa gli insegnano a questi ‘bamba’ di militari” si chiese) scese dall’auto e si mise di fronte a suo figlio.
Nonostante Luciano fosse alto, Giovanni continuava a sovrastarlo di un palmo e lo costringeva a dover alzare lo sguardo se voleva confrontarsi con i suoi occhi. Quella dell’altezza era stata sempre una sfida-gioco che aveva caratterizzato le loro scaramucce: anche ai tempi di Luciano ventenne quest’ultimo lamentava il suo svantaggio quando a tennis, sotto rete, suo padre gli faceva le ‘schiacciate’.
Ma quello era suo figlio? Muscoloso, abbronzato, un tatuaggio sull’avambraccio, la testa rasata… gli pareva un replicante. Ma replicante di chi?
Anche il “Ciao” che gli disse sembrò stupirlo e metterlo fuori gioco: forse si aspettava una reazione forte da parte di suo padre in modo da giustificare una risposta ‘muscolare’?
Simulando un certo interesse “E’ da un po’ che non ti si vede”, disse, come se non sapesse come stavano veramente le cose. E, dopo un breve silenzio: “Che vuoi?”, aggiunse.
“Che tu lasci stare Nathalie!” disse Luciano alzando la voce.
“Come, come?”. Stavolta lo stupore aveva preso in pieno Giovanni come un uppercut che per poco non lo tramortì.
Gran Dio degli eserciti, ma che cosa stavano ascoltando le sue orecchie?
“Non capisco di che cosa tu stia parlando” replicò, ed era così vero quello che stava sentendo, e a ragione dicendo, che quella ‘verità’ arrivò fino al figlio al quale non rimase che, continuando a mantenere la voce sopra le righe, ribadire che doveva lasciare stare Nathalie.
Poi quegli fece dietro front e si allontanò che si stavano già addensando le brume della sera.

Sentì il bisogno di bere qualche cosa di forte, ma, ne era sicuro, a casa non aveva nessuna scorta. Da molto tempo non ne teneva più.
A quell’ora i negozi erano ormai chiusi. Però c’era un drugstore non molto lontano. Aveva sempre aborrito quel luogo ma adesso sentiva il bisogno di stordirsi, di stordire i suoi non-pensieri ancor prima che essi prendessero vita; quasi quasi avrebbe preferito fare a botte con suo figlio, ne sarebbe uscito malconcio, certamente, ma almeno non si sarebbe sentito così male come se lo avessero decerebrato.
Non prese carrello ma camminò e camminò corsia dopo corsia, a volte si fermava a fissare i prodotti e a volte tirava dritto, l’importante era stare in movimento come quando si asseconda il rollio della nave quando il mare è in tempesta.
Luciano e Nathalie. Suo figlio e lei.
E lei che, presumibilmente, anzi, senza ombra di dubbio, ci era andata a letto e poi, come niente fosse, era andata a rifugiarsi tra le sue lenzuola, le lenzuola di Giovanni, l’altro Ferraioli, il padre.
Non si capacitava, cercava di stabilire un ordine temporale agli eventi, chi avesse conosciuto per primo, se Luciano o lui. Ma in qualunque modo la girasse, sentiva di essere di fronte a qualche cosa di inconcepibile, in ogni caso, di folle.
Stava lì da un po’ davanti alla esposizione di liquori, ne leggeva le etichette prima partendo da sinistra e poi tornava indietro, partendo da destra, e intanto non ne veniva a capo sul fatto della priorità di quella conoscenza.
E a che serviva, poi, una volta stabilita la ‘vera’ sequenza dei fatti?!
Poteva essere che la ragazza avesse preso in giro tutti e due e, quindi, anche Luciano era la vittima di un raggiro tanto quanto lo era stato lui.
Si decise, almeno là dove una decisione poteva essere presa: anche se era tentato dal prendere una Belenkaya (strano trovare questa marca di vodka in un Drugstore, a un prezzo abbastanza alto ma comunque competitivo, forse era merce di contrabbando), prese due bottiglie di Black Label.
Acquistò anche qualche cosa da mangiare perché ubriacarsi, sì, ma stare male no.
Così quella sera e quella notte furono cancellate dalla sua mente.

Arrivò ottobre con venti di libeccio che sferzavano la costa in modo rabbioso, aggressivo come non mai.
Finita la storia con Nathalie, Giovanni si era chiuso nuovamente in casa, le giornate si erano fatte più corte e la mancanza di luminosità aveva su di lui un effetto oltremodo deprimente.
Per vincere quella inedia avrebbe dovuto uscire, così come faceva un tempo, andare a sfidare gli elementi là dove quelli si manifestavano in tutta la loro sconvolgente potenza. Incamminarsi verso il molo, ad esempio, e vedere quanto avrebbe resistito a quella furia e se si sarebbe fatto travolgere oppure no.
Dentro di sé sentiva che stava per arrivare un’ora difficile, ancora più difficile del periodo ultimo trascorso. Una smania che, soprattutto la notte, lo portava a mettersi sul terrazzino e cupamente muggire in consonanza con quel vento che si infilava tra le strade e i cortili e che portava con sé un odore di ‘altro’, che non era definibile attraverso i sensi, affondava con l’effetto di una lama tagliente dentro il cuore, e su quello lui versava sorsate e sorsate della sua agua ardiente, il Black Label, le cui bottiglie vuote si stavano ormai ammonticchiando, rinviando lui lo smaltimento dei rifiuti ad un ‘domani, domani’.
Poi il libeccio passò, come passano tutte le cose tranne quelle che hanno portato le ferite che non si sanano se non con la perdita di quel corpo su cui sono state inflitte.

Si è un po’ incurvato, il bere gli infiacchisce le gambe, e anche se Alfio lo accoglie tutte le mattine con il solito buonumore e accenna, da lontano, delle finte di boxe e gli grida “su, su, ingegnere”, Giovanni avverte che un giro di boa è stato superato.
Il lampo di pensiero “adesso sì che Luciano sarebbe più alto di me” non lo fa sentire orgoglioso per lui, non ci si dovrebbe sentire vincitori solo perché l’altro è più debole. E lui si sente molto debole, una debolezza che una volta gli avrebbe fatto molta paura ma che adesso si rivela come una condizione che ha in sè del naturale, e quindi la può accettare meglio.

Memori del suo passato, alcuni compagni lo avevano cercato per far parte della giuria di un premio letterario e sulle prime aveva detto sì. Gli aveva fatto piacere che qualcuno si ricordasse ancora di lui e non soltanto per la sua appartenenza politica. Ma poi si era tirato indietro: che ci sarebbe andato a fare, non si sentiva di esprimere giudizi che avrebbero fatto pendere una scelta o da una parte o dall’altra. Pareva, invece, che i giurati si sentissero gratificati da quel compito, come se coprire quella posizione li facesse sentire degli “eletti”, perché è così che si sentono i giudici. Al di sopra. Appunto, che ci sarebbe andato a fare.
E invece tutto l’apparato pubblicitario si era già messo in moto e non era pensabile che all’ultimo momento si potessero apportare delle modifiche: gli inviti erano già stati distribuiti e il suo nome appariva, nei manifesti affissi nei punti nevralgici della città, addirittura come presidente della giuria stessa. Quando lo avevano coinvolto, non gliene avevano parlato in quei termini, proprio conoscendo la sua ritrosia ad apparire. Ma che serviva recriminare a questo punto? Tanto le cose non cambiavano lo stesso.

Aveva deciso, anche se l’incontro era nel tardo pomeriggio, di darsi del tempo, di fare le cose con calma. Per questo aveva declinato la proposta di un giovane volonteroso che si era reso disponibile a venirlo a prendere e poi l’avrebbe riportato indietro.
Era una giornata anodina, non si sarebbe saputo a che mese ascriverla. Come succede a certe persone che non si capisce se portano male la loro giovinezza o portano bene la loro età avanzata. Fatto sta che si era alla fine di ottobre e la mattinata stava scivolando via come la strada provinciale, senza traffico, che aveva scelto di percorrere in luogo dell’Autostrada.
Non particolari pensieri, non notazioni particolari gli occupavano la mente. Non aveva voluto nemmeno accendere l’autoradio, voleva godersi pienamente quella immersione ovattata prima di entrare nell’arena, nello show che lo stava attendendo e dove, come uno scimmione ammaestrato, avrebbe ‘forse’ recitato la sua parte.
L’idea di quel ‘forse’ lo allettava e gli diede un guizzo di adrenalina.
Fu così che si accorse che un’auto, una Land Rover Freelander rossa, lo stava seguendo da un po’.
E che incominciò a stringerlo ad una curva mandandolo a ridosso di una montagnola.
Tentò di accelerare ma il guidatore dell’altra vettura, che aveva previsto la mossa, fu più veloce e gli sbarrò la strada. Non rimaneva che aspettare il da farsi.
Scesero due uomini a viso scoperto, uno aveva una mitraglietta e le loro intenzioni non erano certo buone. Gli intimarono di scendere e, nel mentre Giovanni eseguiva l’ordine e con la coda dell’occhio scorgeva una figura femminile avanzare verso la scena un colpo allo stomaco sferratogli con il calcio dell’arma lo fece piegare su se stesso urlando dal dolore.
“Questo è l’acconto per ciò che tuo figlio ha fatto a mia sorella” disse il più alto, e forse il più anziano dei due.
Con un filo di voce disse “io non ne so nulla, non so che cosa mio figlio abbia fatto”.
“Ah, non ne sai nulla? Nathalie non ti ha detto nulla… che l’ha violentata, fatta abortire e poi mandata a battere?”.
“No”, fu il restante fiato che Giovanni usò per difendersi, mentre, ginocchia a terra, guardava lei che avanzava verso il gruppo. Cercava nel suo sguardo qualche cosa di buono ma vi trovava soltanto una assurda indifferenza, come se nulla di quello che era accaduto fra di loro avesse attutito, almeno di un poco, la tragedia che l’aveva colpita. E il fatto che lui avesse tentato, nei limiti delle sue possibilità, di darle una qualche protezione insegnandole anche a proteggersi, tutto questo non aveva avuto alcuna presa in quell’animo diventato come una lastra ghiacciata che inghiottiva ogni calore. Calore che produceva, sì, dei temporanei scioglimenti ma poi questi si riducevano a stalattiti acuminate, con il trionfo sordo del gelo.
Fu allora che l’altro intervenne, sembrava un officiante che deve svolgere la sua funzione: “Tuo figlio è scappato ma lo prenderemo. Però anche tu hai abusato di mia sorella e così tu paghi e per lui e per te”.
Fece un cenno a quello della mitraglietta perché eseguisse la sentenza.
Nathalie stava lì a guardare e non fece un movimento, nulla di nulla per fermare quell’inutile massacro.
Lui non sentì il crepitio dei colpi come non sentì la lacerazione della carne. Nessun dolore, più.
Ormai era già morto.

29.08.2014

8 pensieri su “Queimada

  1. Il racconto comincia con un film e via via diventa un film; un noir in piena regola, con tanto whisky all’americana versato su vicende partigiane, nostrane; con dialoghi a battuta che non dicono dei pensieri sicché bisogna leggerli sui volti degli attori, o tra le righe della narrazione. Mi ha toccato la descrizione della solitudine che ha momenti di originalità (… Così rinuncia alla camminata verso la fine dell’imbarcadero e prende la direzione di casa. Rinuncia. Come sta rinunciando a molte cose ormai, forse troppe e ciò fino a quando non ci sarà null’altro se non la vita a cui dire ‘no’), e in nessun modo lascia intravedere quel che poi sarebbe accaduto, anzi, l’incontro con Nathalie fa pensare a quell’alchimia che spesso la vita ci riserva per aiutarci a tirar fuori quel che non sappiamo di noi stessi, a farci sbandare verso sentieri nuovi: perché si sa che la mente ripete i suoi percorsi all’infinito se non ti cade una tegola in testa. Ma il racconto mi è piaciuto, mi attrae come quando leggevo Massimo Carlotto: mi lascia dentro quell’amaro, quell’attrazione verso il basso che ti danno i noir a cui è difficile resistere perché è vero che, sotto sotto, nessuno può dire di se stesso, con sicurezza, di essere una persona per bene. Santa politica, area della salvazione! C’è di buono che ognuno può scegliersi il paradiso che vuole: ai margini di quello finto, di quello statale, diciamo così, le possibilità sono infinite.
    Bravissima come sempre, Rita.

  2. …questo racconto di Rita Simonitto ha una trama che avvince fino in fondo: il finale a sorpresa in realtà è una tragedia annunciata…Il protagonista, e molti di noi vi si potrebbero identificare, è segnato da ferite cosi’ profonde che il tentativo di curarle attraverso la frequentazione di persone a loro volta segnate dal “destino” di ferite subite e inferte , non puo’ che scavare dei solchi sempre piu’ profondi finchè c’è lo spazio giusto per il foro di un proiettile: si resta morti anche se si continua a camminare sulla terra. ..E poi ci sono quelle colpe dei padri che ricadono sui figli e viceversa ( la Storia del colonialismo e delle “guerre umanitarie”) e le relative vendette, solitamente giocate sui piu’ deboli di entrambe le parti. Si passa cosi’ dal piano sentimentale del racconto a quello socio-politico…Ci sarebbe un vaso prezioso che, se tenuto con cura, potrebbe forse spostare in meglio la situazione, ma viene fatto sfuggire di mano senza alcun vero rimpianto: una forma di anaffettività generalizzata, dove tutto è indifferente e si confonde nel grigio…Grazie Rita, un racconto scritto molto bene, con atmosfere a tratti persino fiabesche: quel mare sempre in tempesta e il vento che sembra crescere d’intensità nel dispiegarsi della vicenda verso la tragedia, mi ricordano la fiaba del pescatore e del pesciolino d’oro…Le forze della natura come divinità vendicative

  3. sembra una legge del contrappasso more geometrico demonstrata: a una vita (scarnita) che ha rifiutato (ogni possibile) compromesso corrisponde una vera selvaggeria cresciuta in famiglia e nel socialismo: sfruttamento e vendetta, carne e sangue
    primitivismo in agguato sotto una cultura in disfacimento

  4. Oltre al ‘grazie’ per la vostra lettura, vi sono grata per i commenti che mi permettono ulteriori precisazioni.

    @ Cristiana
    Apparentemente il testo può dare l’impressione di una ‘nemesi’: magari fosse così. Il ‘fondo’ non si è ancora toccato!
    Le Erinni andavano a ‘colpire giusto’ e stavano alle calcagna di chi violava la vita eseguendo la punizione secondo il principio dell’”occhio per occhio e dente per dente”. Fintantoché con il matricida Oreste non si tirò fuori la ‘giusta causa’ e le Erinni si trasformarono in Eumenidi.
    Bene da un lato, ma non si valutarono appieno gli effetti collaterali: né più né meno di ciò che accade con il pharmacon che cura ma anche intossica.
    Così oggi il *primitivismo in agguato* (favorito da una *cultura in disfacimento*) non è sottoposto a nessuna legge se non quella della bieca (?!) sopravvivenza individuale o del ‘clan’.
    In questo modo i deboli pagano due volte: la prima nel corpo e la seconda nello spirito.

    @ Annamaria
    La morte del soggetto politico avviene quando non ci sono più domande da porsi ma si è sovraesposti a risposte già preconfezionate come accade con i prodotti di un supermercato. E non ci sono più domande da porsi quando viene a perdersi la capacità di stabilire le differenze: ogni cosa trova una ‘sua’ giustificazione.

    @ Lucio
    Grazie per il sostegno sempre gradito. E’ vero che * sotto sotto, nessuno può dire di se stesso, con sicurezza, di essere una persona per bene*, però almeno uno ci tenta e lì sta il ‘bello della diretta’!
    Sempre ‘intriganti’ gli accostamenti che fai della mia scrittura con quella di altri scrittori: aspetto il giorno in cui, leggendomi, commenterai “Toh, mi sembra di leggere la Simonitto!”. Scherzo!

    Un abbraccio a tutti.

    R.S.

    @ Ennio
    c’è un re-fuso: il temine Whiskey (così come lo chiamo scherzosamente nel mio ‘slang’) va corretto in whisky. Grazie.

  5. @ Rita: no, nessuna nemesi, ma la legge del contrappasso mi è parsa nel meccanismo mentale di chi scrive, è l’intelletto narrante che ricostruisce simmetricamente e storicamente una cultura tramontata e una legge della sopravvivenza individuale in legami clanici e violenza organizzata (Luciano dopo la guerra): forse al di là della tua (di narratrice) volontà?
    Eppure quello svuotarsi progressivo di piacere e di interesse del protagonista, l’allontanamento voluto del figlio, l’incomprensione cieca nei confronti della ragazza (che pure conosceva la macchina, quindi studiava il protagonista da tempo) non dicono di una mancata presa di realtà, mentre l’altra realtà si fa spazio ciecamente?
    Certo, i deboli pagano, il protagonista e la ragazza, il figlio e i fratelli nell’essere nella violenza. Tutti prede del caso, quando il Cosmo crolla, il Caso, il Caos, la fa da padrone. Nel senso che la storia poteva anche finire in un niente di fatto, i fratelli potevano avere un incidente d’auto e morire, la ragazza vincere la lotteria e tutti fregarsene della vendetta…
    Il finale noir è quasi d’obbligo, per le regole del genere, ma in sé la storia ha il senso di tramonto di un ordine e di emersione di Altro Mostruoso: sarebbe potuto finire, il racconto, anche con un “dopo”: il protagonista racconta a un amico quello che ha rischiato (lo è venuto a sapere per vie traverse) e invece non è accaduto…
    Però la storia è intrigante, ci si entra e la si può proseguire, mutare… Bello!

  6. La storia ha inizio con una uccisione, scena di un film, e termina con un’altra scena di morte, quella del protagonista della storia. Da Ponzio a Pilato, ma è solo un modo di dire.
    E’ un racconto avvincente, che si fa leggere fino in fondo, ricco di suspense.

    La “solitudine rilassante” di una vita tutto sommato grigia e monotona dell’inizio, cede il passo a una vicenda a due altrettanto deprimente, capace però di ‘legare’ Giovanni in una trama che nemmeno lui avrebbe saputo predire a sé stesso.

    Una specie di destino ineluttabile sembra sovrastare su tutto, una ‘necessità’ di vita che conduce sempre più lontano dagli altri e innanzitutto da sé stessi. Mi fa pensare al tema dell’errore, quello della “responsabilità oggettiva”, in base alla quale – come riporta E. Cantarella in un suo libro (Sopporta, cuore. La scelta di Ulisse – I libri del Festival della Mente, 2013) – “gli individui subiscono le conseguenze delle loro azioni del tutto indipendentemente dal loro atteggiamento psichico, vale a dire dal fatto che abbiano agito volontariamente o involontariamente”. Eppure, in Queimada siamo lontani dal mondo omerico, né personalmente credo nella ineluttabilità dell’errore e, ancor meno, nella ‘necessità’ di un destino.
    Ciò su cui invece mi induce a riflettere la storia raccontata da Rita Simonitto in maniera così profonda, è semmai esattamente l’opposto: è sì la necessità, ma quella intesa come bisogno di saper padroneggiare (nei limiti del possibile, s’intende), la propria sfera, affettiva e sociale. Quando infatti Giovanni ammette che gli riesce più facile parlare di sé con gli sconosciuti, sembra evidente che il vero sconosciuto è sé stesso.

    Leggendo, mi sono balzati in mente anche i terribili episodi di violenza ai quali da tempo assistiamo come spettatori inermi.
    (Non ho volutamente ancora letto gli altri commenti, ma lo farò a breve).

  7. @ Rita: il tuo racconto continua a lavorami in testa, in effetti non avevo chiarito a me stessa il ruolo di Nathalie. E’ lei che mette in comunicazione il padre -sempre più svincolato dal suo mondo che gli si svuota di senso- e il figlio che è entrato in una nuova dimensione di guerra e violenza. Nathalie frequenta Giovanni senza trovare una ragione per non farlo uccidere, lo scioglimento di Giovanni dagli impegni in cui si era sentito coinvolto lo rendono, al giudizio di Nathalie, libero da legami o vincoli che gli diano un valore, anche di deterrenza, per cui lo si possa o si debba preservare.
    E’ lo svuotamento del mondo di Giovanni che lo consegna a Nathalie e ai suoi fratelli come solo il padre di Luciano, nient’altro che legame di sangue. In Nathalie viene a compimento la accertata riduzione di una società complessa al primitivismo clanico, lei ha verificato che niente è rimasto che avrebbe anche potuto salvare Giovanni, null’altro resta che il padre del suo aguzzino, ed è in fine anch’essa una paternità insignificante, rifiutata, fallita, come è fallito in mondo da cui Giovanni proviene e si stacca.

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