La doppia crisi. Su riconoscimento dei poeti e critica militante

flagellazione

di Ennio Abate

@ Giorgio, Rita e Tito

La discussione cresciuta un po’ in sordina tra i commentatori del post «Sulla poesia di Eugenio Grandinetti» (qui) e di quello di Ederle (qui) mette in luce una doppia crisi che ci riguarda sia come poeti sia come ex militanti. Perché – diciamocelo – eravamo tutti più militanti che poeti (almeno fino agli anni Settanta), poi siamo diventati diffidenti verso ogni tipo di militanza (e figuriamoci in poesia!) e ora sembriamo aver puntato tutte le nostre residue energie sulla poesia.È  per questa doppia crisi (di cui più avanti) che i temi toccati (poesia, mancato riconoscimento della nostra poesia, rapporto tra poesia e critica, critica militante) si sono, credo, annodati complicando la discussione e rischiando di personalizzarla. Provo, se ci riesco, a scioglierne alcuni:

1. Cosa significa critica seria?
Sì, oggi c’è proprio da pretendere che torni ad essere tale, perché in giro se ne trova molta approssimativa, imbonitoria, seduttiva. Quando leggo scritti di Fortini, Luperini, Ceserani, Zinato, Giovannetti, Beradinelli, Cortellessa, Casadei , Donnarumma (per nominare quelli che ho più seguito in questi ultimi anni), ci trovo appunto serietà. Posso non essere d’accordo con le loro opinioni, faticare su saggi spesso lunghi e complicati, sospettare persino legami più o meno ambigui con centri di potere di cui diffido, ma il grado di documentazione delle affermazioni e il tono argomentativo ci sono e impediscono al discorso (o agli eventuali commentatori) di scivolare in chiacchiera, in rissa o nell’esibizione del proprio io. Per me critica seria è, dunque, quella che richiama la poesia di fronte al mondo sconvolto e alla storia e spinge a ragionare sulla poesia sempre in relazione all’extra-poetico.

2. La questione del mancato o insufficiente riconoscimento di poeti validi e dell’area socio-culturale in cui operano (che io chiamo dei “moltinpoesia”, della “nebulosa poetante”, dei “poeti massa”).
Seguo vari blog di poesia sul Web e do sempre un’occhiata ai numerosi testi che, ora timidamente ora sfacciatamente, vengono “condivisi” come poesia su FB. Ogni volta resto deluso. Poco o nulla mi dicono emotivamente e intellettualmente e di alcuni al massimo  m’incuriosisce una certa destrezza nell’uso ora elegante ora giocoso della lingua. Lo strascico dei commenti poi, standardizzati e di solito plaudenti, m’infastidisce. Né questa é la poesia né queste sono le reazioni dei lettori di cui sento di avere bisogno. Essendomi del resto impegnato (dal 2003!) in un tentativo di capire – speranzosamente ma anche criticamente – il fenomeno che ho chiamato dei “moltinpoesia” o della “poesia di massa”, di fronte all’evidenza di una produzione scadente o mediocre, sono assalito da dubbi e quasi dal rimorso per aver speso tanto tempo in questo atteggiamento “di ascolto”.  Non è stato un abbaglio cercare la poesia dove c’è soprattutto confusione e chiacchiera? Non avevano ragione quanti mi ripetevano che tra i molti la poesia proprio non poteva esserci e che la grandezza di certi poeti viene fuori da  sé? Ho dato posto perfino al dubbio più atroce: non sono anche i versi che ho scritto da una vita (parlo dei miei, non pretendo di parlare di quelli altrui), che non mi paiono scadenti o banali, destinati alla dimenticanza o al limbo degli epigoni o dei minori? E mi hanno colpito i due memento drastici di Raffaele Donnarumma che ho già riportato in un commento: – «Per un Masaccio, ci sono dozzine di pittori che fanno ancora il fondo oro; per un’opera 111 di Beethoven, vagonate di Czerny e Hummel»; – «guardate che di questa roba, fra trent’anni, avrete dimenticato anche il titolo; e anche ora potete risparmiarvi di leggerla. Svuoto periodicamente gli scaffali della mia libreria da questa produzione, che mi sono pure sciroppato».
Sono propenso, dunque, più che negli anni passati, a prendere atto che il  fenomeno dei moltinpoesia è rimasto più il sintomo della crisi della poesia che, come speravo, un segno di un suo possibile rinnovamento. Troppo grande è diventato lo scollamento tra poesia e critica (tanto che in certi casi vengono addirittura contrapposte). Ed evidente è l’impossibilità della critica (seria) di occuparsi della massa elefantiaca delle pubblicazioni di poesia o che passano per poesia. Da qui uno stato penoso di confusione sia nel campo della poesia e sia in quello della critica; e il cristallizzarsi di gerarchie sempre meno verificate e spesso fasulle (molto più di quelle già non certo sane o del tutto affidabili del passato).

In questa situazione la questione del riconoscimento dei poeti validi può essere trattata – come ho già detto qui  in due modi:

– col buon senso, cioè all’interno delle regole esistenti. Le accettiamo e vediamo se riesce a qualcuno di noi di essere riconosciuti dalla casa editrice X o ottenere il premio Y. Perché si tratta in pratica di farsi accettare o cooptare da chi ha ancora il potere di farlo secondo i criteri vigenti; e – per Tito Truglia – non si scappa: questo grado di riconoscimento è più alto o più basso a seconda dell’uscita della tua raccolta da Mondadori o da Manni o se ne parlano a Rai3, su Nazione Indiana, Le parole e le cose, ecc. o soltanto su Poliscritture o La presenza di Erato;

– in modo militante (come singolo o come gruppo, rivista, etc.); e cioè, come ancora ho già detto, senza appiattirsi «sul presente o sullo status quo o sull’accettazione delle gerarchie che si sono imposte nella storia di questo Paese».

Perché, quando ci si accorge – da soli o insieme – che ad essere esclusi, non ascoltati, tenuti ai margini dai luoghi istituzionali meglio attrezzati per fare critica e divulgazione della poesia, ci sono poeti che a nostro avviso (e qui interviene per forza un minimo di giudizio critico; non ci si può basare solo sull’impressione o il rapporto di amicizia con gli esclusi) avrebbero più diritto al riconoscimento pubblico, concesso invece ad altri che meno (sempre secondo noi) lo meritano, due sono le scelte che si possono fare, come ha notato Giorgio Mannacio: « o si marcia verso “ la politica “ o si marcia “ verso sé stessi “».

Se non si sceglie la rinuncia ascetica ed eremitica (se non si marcia esclusivamente, eroicamente, “ verso sé stessi “) e si vuole stare nella sfera pubblica della poesia, si dovrà prendere per forza atto dei rapporti fortemente conflittuali al di là della superficie cordiale (tra poeti, tra poeti e critici, tra poeti ed editori ed università, ecc.). E diventa necessario stabilire chi sono i nostri nemici e chi i nostri amici (Eh, Emilia?…) e assumere un atteggiamento, sì, militante. Perché? Perché sono altri che istituzionalmente (e a torto, secondo noi, ma dobbiamo dimostrarlo e convincere altri…) ci negano il riconoscimento e lo attribuiscono a chi, sempre secondo noi, non lo merita o lo merita meno di noi. Quindi si pone necessariamente il problema di contrastare il rifiuto, le dilazioni, le promesse vaghe che ci vengono da costoro; e di  svolgere una critica attiva a quel potere letterario che impedisce il nostro riconoscimento come poeti. Se questa non è militanza – ripeto – trovateci un altro nome. Ma si pone, di conseguenza, anche un altro problema: quello della qualità della nostra militanza e delle nostre critiche. Perché di militanza cieca, viscerale, emotiva, inviperita verso un Nemico astrattamente concepito (l’Accademia ad es.) o singoli suoi rappresentanti-simbolo (gli “arrivati”, i “mondadoriani”) e poco capace di argomentare le ragioni delle sue rivendicazioni, ce n’é tanta. Di seria, condotta da isolati o in gruppo (Mannacio indica tutti e due i modi: «Dico questo non per “ distinguermi “ da altri ma per condividere con “ gli altri miei simili “ una condizione che mi ha fatto maturare»), ben poca. E così, non allontanandosi dalla sfera pubblica della poesia, accettando di stare nei conflitti, anche il poeta più puro si fa un po’ critico o si allea con altri che esercitano la critica in maniera più sistematica di lui. (E quindi non finge che esista una separazione netta tra critica e poesia…).

3. Scopi di una militanza in poesia.
Ma  perché c’è anche in poesia conflitto? Perché si dovrebbe lottare anche in poesia? Per affermare una verità che si ritiene stia nella propria poesia o nel proprio lavoro critico. Perché si pensa  che essi siano un bene che altri possano e debbano condividere. Perché si ha la convinzione di interpretare meglio di altri i problemi dell’epoca in cui si vive. E qui dobbiamo avere il coraggio della chiarezza e chiederci: qual è il valore della poesia che scriviamo o della critica che facciamo? Di fronte a questa crisi, la nostra poesia è una risposta valida (più valida di quella data da altri?) ai problemi che abbiamo di fronte? Solo se arriviamo a volere che la nostra poesia sia fatto privato/pubblico e strumento conoscitivoche mira a un valore, se non universale, ben più ampio, possiamo accettare senza reticenze di avere un atteggiamento militante, combattivo. Altrimenti è più facile ritirarsi e far diventare la nostra ricerca poetica una questione privata o amicale.

Perciò quando Tito (Truglia) pone il problema: «Oggi il destino di un poeta di valore può essere modificato dall’attenzione di uno o più critici (magari militanti)?», starei per risponderei di sì. Se appunto i valori presenti in quel poeta sono affini a quelli del critico e condivisibili almeno in teoria se non da tutti, da…Ma qui  il mio discorso s’inceppa. E mi ritrovo di fronte alla doppia crisi, alla frattura dei due livelli del poetico e del politico, che spiega, secondo me, difficoltà e reticenze ad assumere oggi un atteggiamento militante. S’è offuscato, infatti, l’orizzonte politico che fino agli anni Settanta del Novecento all’incirca aveva reso possibile tentare una “poesia critica” (Majorino), e cioè mirare con convinzione a uno stretto legame e quasi a uno scambio continuo almeno tra una certa poesia e una certa critica (diciamo di sinistra). O alla collaborazione tra critici e poeti. E anche al delinearsi della figura del poeta-critico (militante!) in contrapposizione a quella tradizionale del poeta puro o del vate della Parola. Noi siamo gli epigoni di un processo storico secolare ormai fallito e siamo nella confusione. Perciò siamo amici ma anche un po’ nemici tra noi, siamo poeti ma anche un po’ critici (per necessità), siamo soprattutto ex compagni e non sappiamo neppure più se contrastare e in che modo il Nemico che prima era chiaro e chiamavamo, da marxisti, il Capitale. Perciò ad ogni tentativo di proposta costruttiva so che scatta inevitabile il dubbio o l’obiezione (spesso non ingiustificata). Io stesso, che pur rimprovero i poeti  fissati sui temi dell’amore, non sono riuscito a dar ragione al tentativo di  Gianmario Lucini di aprire la poesia (in crisi) ai  temi sociali,  a quello delle guerre. Perché sento che i rapporti di forza sono oggi completamente a sfavore della poesia. Il mondo e la storia sono diventati così pesanti  e la poesia è già così piegata che, a caricarla del mondo d’oggi  e della storia, rischia di  soccombere. E non riesco a dar ragione neppure a Tito (Truglia) – e non perché giovane lui e vecchio io – che punta su un’anarchica creazione di strutture autorganizzate. Esse restano, secondo me, tutte nell’alveo del Mecenate capitalista.

4. Critico o poeta?
Riconosco, pur tentando di praticare ancora assieme le due funzioni, che  oggi non c’è più continuità tra scrivere poesia e fare lavoro critico (in poesia o sulla poesia). Solo «lo stato di emergenza generale» (Rita Simonitto) può giustificare l’arduo e ibrido esercizio di muoversi contemporaneamente sui due campi. Ma l’emergenza fa prevalere i meccanismi di difesa. In assenza di un ‘noi’ (politico e culturale) si tende a contare su di sé, sull’individuo, anche quando non si è individualisti per scelta filosofica. E vedo in giro tanti individui isolati e molti di essi puntano tutto sulla poesia in modo spesso maniacale o mistico. Pur disapprovando quest’orientamento,  non so dare torto né fornire indicazioni a quanti si indirizzano ad una estremizzazione mistica, vivono la poesia come una sorta di religione chiusa in sé, sbeffeggiano la critica fino ad abolirla dal loro pensiero e puntano tutto sul daimon interiore o sul duende (Sagredo). Si tratta di un altro segno (estremo) della crisi della poesia. Non è la Poesia che risorge, ma un suo mito disperato e orgoglioso (che fa capo ad es. a figure come Marina Cvetaeva e al suo assolutismo  che le faceva dire: Io sono una creatura scorticata a nudo/ e tutti voi portate una corazza). Ricorrendo ad esso si  cerca  di difendere la poesia in tempi ostili. Ma contro tutti, anche contro i critici, gli altri poeti o i lettori, che potrebbero essere ( ma non sono purtroppo in queste circostanze) alleati.

26 pensieri su “La doppia crisi. Su riconoscimento dei poeti e critica militante

  1. Un testo quasi desolato. Nemmeno lo “stato di emergenza generale” (Rita Simonitto) riesce a fare uscire la poesia dalla crisi: al massimo la poesia si difende, ma non sorregge l’ipotesi di una critica militante. Il capitale, le sue agenzie culturali stravincono, con buon senso si può cercare di farsi cooptare (ma c’è chi sostiene che solo i migliori saranno effettivamente cooptati!).
    Sull’ipotesi (dal 2003): che parte del mondo, nemici del capitale e che leggono e scrivono conoscendo la contraddizione principale e quelle secondarie (per dirla in breve) contendano il campo della poesia e della critica, oggi lo stesso Ennio è “assalito da dubbi e quasi dal rimorso” per avere ascoltato e essersi fatto ascoltare.
    Io posso solo dire che la poesia di Einaudi e di Mondadori è a volte anche sciocca, ridondante e non selezionata. (Però Franca Grisoni non è stata ripubblicata da Einaudi dopo L’oter, ma non ne so la ragione, forse è lei che non voleva.) Quindi il ragionamento che il nemico è chi non riconosce altri poeti e altra critica perchè asservito a criteri di vendita e dominio del mercato mi sembra corretto. (Ma occorrerebbe comunque la prova del fatti.)
    Mi sembra anche fondato che sia corretto da parte di poeti e critici collegarsi per combattere una certa cappa che soffoca e ottunde.

    L’ipotesi devastante è però quella che il Capitale sappia raccogliere la qualità, o la qualità sufficiente. Di fronte a questo ci si chiede se hanno diritto di cittadinanza e di presenza anche gli altri: fanno l’ambiente o anche la poesia è diventata elitaria e non si collega in nessun modo alla poesia dei molti? Nel dibattito ho riscontrato questi accenni.
    Il criterio per scegliere coincide con l’impersonare la critica vivente al capitale? o meglio, è la categoria del Capitale (categoria storica, economica e politica) e la guerra necessaria la più ampia per puntare ai migliori tra chi si contrappone allo stato di cose esistenti?
    Ma era Omero anticapitalista? Lo era il cantico dei cantici?
    Se io cerco di collegare in poesia i tempi lunghi e antropologici, con le categorie simboliche e immaginarie che la storia dell’umanità oggi ci mostra, come potrò ottenere una “seria critica” solo “anticapitalista”? In realtà è possibile, nella cosa stessa, dato che il mondo oggi è tutto sussunto dal capitale, questa sarebbe la risposta; invece ci sono linee di lungo periodo, di cui la religione è un segno, che indicano una dualità potenziale tra vita umana e forme di produzione.
    Infatti la contraddizione alla base del femminismo: l’umanità è due e non uno (l’Henologia alla radice dell’Ontologia) non è solo interna al capitale, non è solo una sua parte.
    Eppure io la vorrei una critica militante su quello che scrivo!, o sarà affidabile per me, e fino a che punto, quella di un editor di Einaudi?

    1. @ Fischer

      Sì, credo che i poeti in Italia, in questi ultimi decenni, non sentono più l’esigenza di fare – in poesia, sulla poesia, fuori dalla poesia – critica (anche se non si volesse usare il termine ‘militante’, che evoca brutti fantasmi da cui stare alla larga).
      I singoli o i pochi che la fanno (o si pongono ancora il problema) restano inascoltati. Tuttavia a me questa dimensione critica della poesia pare irrinunciabile e Il problema che mi pongo è questo: come alimentarla e renderla più efficace, come darle forza …
      E su quest’intenzione sembriamo concordare.

      Ma quando ti chiedi: «Ma era Omero anticapitalista? Lo era il cantico dei cantici?», ho l’impressione che tu pure sfugga a un discorso che io vorrei stringente (questo significa per me ‘militante’) sul presente. E lasci intravvedere uno scetticismo verso la prospettiva a cui accenno. Come se dicessi: ma oggi una “seria critica” può essere *solo* “anticapitalista” (cioè non prescindere dalle cose fondamentali dette da Marx)?
      Come se muoversi in un orizzonte storico che faccia capo a questo presente (‘storia adesso’ è il titolo che abbiamo scelto per una rubrica di POLISCRITTURE) fosse una visione angusta, un mettersi dei paraocchi. E, infatti, sembri preferire i « tempi lunghi e antropologici» e guardi – mi pare – più alla «religione» che alla storia. Come se
      per te solo la religione contemplasse quei «tempi lunghi e antropologici» , mentre la storia e una critica anticapitalista (ripeto: che non si sbarazzi di Marx) non ne tenesse conto a sufficienza. (Cosa innegabile – ammetto – se avessimo ancora i paraocchi di un certo marxismo, che in passato abbiamo conosciuto e praticato). Di conseguenza anche il «femminismo», a cui ti richiami, lo vedo iscritto in questa dimensione non storica ma filosofica e tendenzialmente platonica. (Se colgo bene quell’accenno all’Henologia, che un po’ mi stordisce, specie dopo quello che sono corso a leggere, ad esempio qui: http://mondodomani.org/dialegesthai/vc01.htm).

      1. @ Ennio Abate. Marx ha interpretato la storia in termini di dominio → sfruttamento→ lotta. Già Hegel lo aveva fatto.
        E’ una versione conflittuale del “progresso”, un’idea introdotta dal cristianesimo: Gesù il nuovo Adamo che mostra in sè la salvezza, e la chiesa lì ci conduce.
        Voglio dire che anche il marxismo è una filosofia della storia nel senso di pensare che la storia umana intera abbia un senso unitario e riconoscibile.
        Però si può usare Marx anche fuori da queste idee generalissime — non si può prescinderne del tutto, ma in parte sì. Personalmente credo che il nesso dominio→ sfruttamento→ lotta sia quasi sempre all’opera alla grande, altro discorso è se e come la lotta possa o rompere il nesso o modificare la parte dominio→ sfruttamento.
        Quello che io cerco di pensare è il rapporto tra la generalità di schemi come quelli: salvezza, progresso, conflitto, e la lettura della storia presente, la ‘storia adesso’ di cui scrivi. Insisto: il *rapporto* tra lo schema generale e l’analisi concreta.
        Naturalmente esistono altre idee generalissime: un tempo ciclico, un tempo senza direzione, uno schema emanatistico…
        Uno potrebbe dirmi: ma che ti importa del rapporto, cioè: che bisogno c’è di uno schema generale?
        E’ qui che risalta per me l’importanza del femminismo. Allo schema progressivo che è proprio della civiltà occidentale corrisponde un soggetto unitario, anzi, unico, che non arriva a pensare fino in fondo il fatto che l’umanità è due, che la sessuazione rende irriducibili i due sessi, fra l’altro questa irriducibilità è così costitutiva che l’umanità (e la vita ai livelli superiori) esiste solo per la generazione sessuata.
        Conosco bene l’obiezione a questo discorso: i sessi sono due ma è ir-ri-le-van-te, la natura umana è una sola, comune ecc. Invece il femminismo nel 900 (ma sempre nella storia, e le storiche femministe lo mettono in chiaro) ha avuto il senso di affermare che le donne si definiscono da sé, la famosa libertà femminile significa questo, che una donna è quello che lei dice di sé, è il senso che dà a sé in rapporto con altre che fanno lo stesso. E la differenza dall’uomo si vede.
        In questo senso il cristianesimo riconosce in Maria il prototipo di questa libertà, che è anche origine della storia, per questo le religioni sono importanti, perché contengono tracce del senso della differenza sessuale, sia pure coperte, e anche soffocate, dove si è imposto un modello unitario umano, il maschile-neutro.
        Se ho presente questa fondamentale amputazione, che mi riguarda, e che regge sia i grandi schemi storici, sia la realtà presente, ecco che la necessità di collegare il generale e la ‘storia adesso’ mi appare chiarissima, e il *rapporto* mi appare necessario.
        Forse ho chiarito meglio cosa intendo per tenere insieme tempi lunghi e storia, e desidererei tanto essere capace di intrecciare i due piani per rendere più feconde le analisi e le prospettive poetiche e critiche. (Ma le mie forze e capacità sono quelle che sono, e impari alla bisogna.)

  2. 1) Io ho una formazione prevalentemente storica e filosofica e confesso di far fatica a seguire certi dibattiti letterari, soprattutto quando sono infarciti di richiami ideologici. La critica militante non può che essere quella che milita per la serietà, con un’operazione di verità e di riconoscimento dei valori. La militanza per altre cose rientra nelle forme ideologiche, da quelle più alte organizzate in dottrine politiche (e magari in utopie) a quelle più basse organizzate in propaganda e in menzogna di comodo, a quelle più personali che seguono particolari inclinazioni e interessi e che vorrebbero però proporsi come canone generale.
    Certo, non si riuscirà mai a dire l’ultima parola sulla verità e sui valori, ma, come nella ricerca storiografica, ci sarà però sempre una notevole differenza fra chi si sforza di eliminare le influenze delle proprie particolarità individuali per avvicinarsi il più possibile alla verità storica, e chi invece usa il racconto storico come supporto alla propria ideologia, falsificandolo consapevolmente (o per ignoranza e conformismo).
    Il difetto della “critica militante”, così come una volta era intesa, sta nel fatto che, nonostante la buona volontà di molti, era un esercizio di voluta menzogna. A favore della propria parte. Era un esercizio di partigianeria. Ha prodotto, nei casi migliori, studi e libri validi ancora oggi, ma tutti da rivedere e da liberare dalle incrostazioni ideologiche del loro tempo. Ciò che resta di valido è ciò che, nonostante la “militanza”, il critico ha saputo comprendere e restituire in quanto critico serio, e non militante. Ciò che invece si deve proprio alla militanza, è ciò che è oggi più debole e morto, ormai solo documento delle tendenze culturali di un periodo storico. Sarei pertanto contento se la “critica militante” fosse morta o moribonda, ma, purtroppo, credo che esista ancora, sebbene militi più spesso per ideologie meno forti e dichiarate di quelle di un tempo e sia pertanto meno riconoscibile. Basti però vedere come vengono distorti, manipolati e controllati i concorsi universitari per capire che le chiusure della militanza sono ancora forti. E lo stesso vale per le catene amicali-preferenziali-tendenziali e ideologiche che portano un libro a essere recensito sulla grande stampa quotidiana oppure ignorato, indipendentemente dal merito intrinseco, il solo che dovrebbe essere analizzato e valutato.

    2) La critica militante di sinistra è analoga a quella di destra: sono due forme dello stesso uso della menzogna a scopo di propaganda politica. Alla sinistra ha sempre nuociuto – come regolarmente arriva poi a riconoscere a diversi decenni di distanza – questo tipo di critica militante che, nella pretesa di rafforzare la lotta del momento, ne ha di fatto travisato e nascosto quei difetti che le hanno impedito di svilupparsi e affermarsi. Lo stesso avviene anche in poesia. Il critico militante politicizzato (politicizzato in quanto critico, non in quanto cittadino) non parla o parla male di chi considera un avversario, anche se scrive belle poesie, viceversa parla bene di chi considera dalla propria parte, anche se ne scrive di brutte. E ignora completamente i poeti “equivoci” che non riesce a classificare né come nemici né come amici. In questo contesto un poeta, per avere qualche visibilità, è costretto a fare gruppo, a schierarsi, a pronunciarsi, a diventare “impegnato” suo malgrado, mentre il suo unico vero impegno che dovrebbe interessare al critico è l’impegno a mettercela tutta e a scrivere belle poesie.

    3) Il mondo dei militanti e degli impegnati è un mondo politico, che non fa danno se resta all’interno della sfera politica, ma ne fa molto quando vi esce e pretende di controllare tutto. Allora si passa al mondo del totalitarismo. Hitler e Stalin non erano forse dei super militanti e dei super impegnati? Anche nel decidere della letteratura e della poesia, purtroppo. E, nel suo piccolo, il “critico militante” (nel senso sopra esposto di partigiano di un punto di vista particolare), è sempre un allievo di Hitler o di Stalin (come dimostra la storia di tanti critici che hanno osannato l’uno o l’altro totalitarismo).

    4) Proprio dalla troppa militanza di parte – e poca militanza a favore della verità – della critica deriva, in buona misura, il problema dei poeti che, pur validi, restano sconosciuti, mentre altri, meno validi, hanno successo. Ad esempio ci sono editori, pur benemeriti nel diffondere la poesia, che confessano candidamente di non avere l’organizzazione e i mezzi necessari per leggere e valutare tutto ciò che gli arriva in redazione, per cui cestinano i testi senza leggerli, prendendo in considerazione solo quelli che vengono presentati da critici amici e autorevoli. Ma come fa l’autore sconosciuto a farsi presentare dal critico amico e autorevole? Inoltre, per chiudere il cerchio, questi critici amici e autorevoli poi recensiscono solo i libri da loro raccomandati, non aprendo nemmeno i pacchi dei libri inviati da autori a loro sconosciuti.

    5) È per rompere, in qualche misura almeno, questo circolo chiuso che dovrebbe intervenire la “critica militante per la verità”, lasciando perdere le velleità della critica militante ideologizzata.

    6) Ho detto sopra che dalla “critica militante” nel vecchio senso “deriva in buona misura il problema dei poeti che, pur validi, restano sconosciuti, mentre altri, meno validi, hanno successo. Per colmare la misura, il resto è dovuto ad altri fattori, fra i quali:
    a) La bravura del poeta come curatore delle proprie relazioni, come organizzatore di eventi, come persona di successo in altri campi, e così via. Perché nessuno è solo poeta, tutti sono anche qualche altra cosa, e avere successo è un’arte che, a chi la possiede, permette di valorizzare al meglio anche il suo essere poeta, magari mediocre poeta. Può piacere o non piacere, ma si tratta di un dato di fatto oggettivo ineliminabile. Poi magari, cento anni dopo, il falso poeta di successo scompare e l’ottimo poeta di insuccesso viene rivalutato. Ma si tratta di cose postume e che non sempre avvengono.
    b) Avere dei buoni protettori. Insomma, come per i giovani che cercano lavoro, avere alle spalle una buona forza (famiglia amici e altro), aiuta molto. Anche in questo caso la poesia cammina sulle stesse gambe della realtà su cui cammina il resto del mondo. Avere le spalle coperte e dei buoni aiuti significa maggiori contatti con la critica degli amici autorevoli, con gli editori, con i giornali, con le opportunità e possibilità di presentare il proprio libro nelle sedi più svariate e così via.
    c) Infine, per chiudere un elenco che non può essere esaustivo perché i fattori di successo o insuccesso sono moltissimi, conta molto anche il mercato. Se, per uno dei motivi detti sopra o per altri ancora, un poeta riesce a vendere, gli si apriranno tutte le porte. Lo dimostra, fra l’altro, il fatto che i pochi poeti che arrivano ad avere un successo di vendita vengono, prima o poi, assorbiti da un grande editore o comunque da un editore in grado di pubblicarli a proprie spese (e non dell’autore) e di distribuirli davvero in libreria (e non di metterli in vendita solo online), di organizzare presentazioni, promuoverli e sostenerli nei premi letterari.
    d) Perché un autore abbia successo deve intervenire quel fenomeno in gran parte misterioso che è il gradimento del pubblico, quel particolare tipo di gradimento che fuoriesce dalla cerchia degli amici e conoscenti e che ha qualcosa di magico, che crea una corrente (il tamtam) di trasmissione di favore di simpatia e di acquisti. È un fenomeno che l’industria editoriale può in parte suscitare, ma che non può controllare del tutto. È un fenomeno strano, se si vuole, quando è applicato alla poesia, però è comunque un fenomeno di mercato. Se il prodotto piace, si acquista.
    Qui casca l’asino, si direbbe. Perché, purtroppo, non sempre ai più piace la poesia migliore, o quella considerata migliore dai critici. Il giudizio fra ciò che è migliore dal punto di vista dei critici e ciò che lo è dal punto di vista di una fascia più larga di lettori presenta, spesso, discrepanze enormi.
    A questo punto si dovrebbe passare a un altro discorso, quello dell’educazione dei lettori alla buona lettura. Discorso infido, illuminista e paternalista, che avrebbe più senso se avessimo critici educati alla buona critica. Mentre, data la situazione esistente, converrebbe parlare di educazione dei critici piuttosto che dei lettori, i quali spesso valorizzano “prodotti” ignorati anticipando i critici. Almeno ogni volta che si riesce a mettere in contatto direttamente i poeti e il pubblico. Infatti, il successo dei poeti nelle letture pubbliche non corrisponde quasi mai né al giudizio dei critici né all’attenzione degli editori, salvo per quei pochi baciati dalla vera grazia.
    Il pubblico, a volte, sa dire quel che disse Fantozzi in uno dei suoi primi film sulla “Corazzata Potëmkin”, film, questo sovietico, di propaganda per eccellenza, militante e impegnato, ma non certo popolare.

    7) Tirare fuori a proposito della poesia il capitale e il capitalismo mi fa venire l’orticaria. Cristiana Fischer scrive che «L’ipotesi devastante è però quella che il Capitale sappia raccogliere la qualità, o la qualità sufficiente. Di fronte a questo ci si chiede se hanno diritto di cittadinanza e di presenza anche gli altri: fanno l’ambiente o anche la poesia è diventata elitaria e non si collega in nessun modo alla poesia dei molti?».
    Non so che cosa sia per Cristiana il capitale (che scrive Capitale con la maiuscola). Per me non è altro che ricchezza accumulata, che può essere consumata o reinvestita. È ciò che, in ogni tempo, antico e moderno, ha permesso di distinguere società sviluppate da società meno sviluppate. Più capitale significa più ricchezza, più benessere e, in fin dei conti, anche più poesia (ad esempio, i tanti poeti che pubblicano i loro libri a pagamento – in pratica il 99% degli autori editi -, in una società con meno capitale non potrebbero esistere in nessun modo). La stessa poesia orale, per diffondersi e avere un qualche ruolo, ha bisogno che la società abbia accumulato un certo capitale. Non può esistere dove il problema della sopravvivenza quotidiana assorbe il 100% delle energie.
    Se dal capitale si passa al capitalismo, cioè all’organizzazione economica che gestisce il capitale, il discorso cambia un po’, ma non poi tanto, visto che il capitalismo è la sola organizzazione economica che ha sempre garantito un progressivo sviluppo della ricchezza. Dove c’è meno capitalismo, c’è meno ricchezza e dove il capitalismo è meno libero (dove c’è minore mercato libero), c’è minore produzione di ricchezza e più spreco parassitario. Guarda caso, anche la poesia ha avuto i suoi momenti più alti nei periodi di più intenso sviluppo del capitale, sia in Grecia o a Roma, sia in Italia o in Inghilterra, sia negli Stati Uniti o dovunque. Fra capitale, capitalismo, libertà e creazione artistica vi è un legame storico molto evidente.
    Altra cosa ancora è il rapporto fra politica e capitalismo e, diciamo in via approssimata, l’uso sociale del capitalismo. Chi crede che il comunismo sia contro il capitale e il capitalismo, sicuramente si sbaglia o pensa a un comunismo primitivo e poverissimo. Perciò non capisco le affermazioni tipo quella citata della Fischer, e dico che non le capisco in senso letterale, perché mi sembrano prive di significato coerente e logico, come il primo articolo della Costituzione italiana, che contiene belle frasi, ma che nessun giurista o filosofo è riuscito a ricavarne un senso compiuto.
    Sicuramente la poesia (intesa in senso stretto, come genere letterario) è sempre stata un’attività elitaria. Diventa meno elitaria quando la società è più ricca e si può permettere più svaghi e più giochi e comunque più attività svincolate dalla necessità di procurarsi il cibo. Oggi è molto meno elitaria che ai tempi di Omero o di Virgilio o di Dante. Elitaria la poesia (come, del resto, è elitaria la programmazione informatica: oppure siamo diventati tutti programmatori?) e ancora più elitaria la buona poesia (anche i buoni programmatori informatici, i buoni falegnami, i buoni pittori, i buoni medici ecc. sono abbastanza pochi). E con questo? Mi sembra un fatto normale e lapalissiano. E in questa normalità elitaria mi sembra anche logico che il “capitale”, che mira ad accrescere la ricchezza, punti sui migliori e non sui peggiori o sulla massa media. Sui migliori, naturalmente, con tutte quelle distorsioni di cui ho parlato sopra. Se la critica letteraria fosse migliore, anche il “capitale” (chi è? l’editore commerciale? ma un buon editore non dev’essere per forza competitivo sul mercato se non vuol morire?) sarebbe in grado di fare scelte migliori.

    8) Il “capitale” non nega agli altri il “diritto di cittadinanza e di presenza”, si limita a non pubblicarlo o a pubblicarlo a pagamento. Per chi non ha la forza di appartenere al “giro grosso”, per quanti meriti possa avere e per quanto bene possa scrivere, si aprono due tipi di soluzione, entrambi praticati da sempre in varia misura ed entrambi “fuori mercato” (lo dico sempre in via approssimativa, perché in realtà nulla è mai completamente fuori mercato, nemmeno chi vive di elemosina). La prima è pubblicarsi da sé. Cioè, detto in altro modo, aggiungere in proprio quel tanto di capitale che renda il “prodotto” adeguato allo standard economico richiesto. La seconda è riuscire a farsi pubblicare a titolo di “assistenza”, cioè grazie a contributi di amici o sponsor o enti pubblici o università o altri che, come nel primo caso, aggiungano il capitale necessario per rendere il prodotto economicamente adeguato.

    9) In conclusione, i molti problemi che ci sono andrebbero affrontati con analisi realistiche e non ideologiche, realistiche nel senso di analisi delle cose vere e concretamente esistenti e non delle ideologie, cioè delle idee prodotte da questo o quel desiderio di “dover essere” sovrapposto all’essere concreto. Quando questa operazione di verità viene fatta si scopre che i problemi sono meno complicati, anche se questo non sempre aiuta a risolverli perché le tante incrostazione devianti che non permettono al “mercato della poesia” di funzionare bene come selettore dei migliori sono molto resistenti e trovano la loro forza proprio nella mancanza di un mercato più libero e libertariamente organizzato.

    10) A riprova di ciò facciamo un esperimento: si prendano cento lettori non influenzati troppo dalla critica militante (e dalla scuola, altra forma di critica militante, anzi tendenzialmente totalitaria), desiderosi di acquistare un libro di poesia, e mettiamogli a disposizione qualche decina di libri fra cui scegliere, fra i quali, ad esempio, “Satura” di Montale e “Viaggi” di Grandinetti (offerti in edizioni equivalenti per formato, grafica, tipo di carta e prezzo). Scommetto che Grandinetti venderebbe più di Montale.
    O questa è solo una mia idea di incallito libertario individualista?

    1. Continuerò a scrivere a fare tentativi di poesia, dopo aver letto tutto quel che è stato detto in queste discussioni, non mi resta che lavorare, molto, come ho sempre fatto. Non cambia nulla, proprio nulla se non la chiara voglia di applicarmi ancora di più. Ogni scrittore ha le proprie idee ed è a queste che deve assolutamente dare peso. Rispondere a se stessi .Ben venga la critica, dopo.
      Per quanto riguarda gli amici/nemici e i nemici/amici, ripeto ancora poco me ne importa.
      Ho un’idea dell’amicizia che conoscono solo i miei amici , ma per fortuna o purtroppo non sono critici letterari.

      Se qualche volta vado bene anche per i “nemici” (di chi?)…che ci posso fare, l’importante ,ribadisco (fino alla noia), che abbia risposto a me stessa.

    2. @ Luciano Aguzzi.
      Ho scritto Capitale con la maiuscola per seguire una via abbreviata, quella che serve a intendersi per coloro che pensano e scrivono, come EA, che esiste un “potere letterario”, che questo potere sia collegato ai capitali (minuscoli) delle case editrici, che sono per lo più collegate a poteri politici importanti che puntano a restare o crescere di importanza padroneggiando anche la cultura e l’informazione. In un contesto in cui esiste il Nemico (il Capitale appunto) e una critica “militante” che gli si oppone.
      Una logica di contraddizione che lei evidentemente, a leggere il suo commento, non condivide, e che le fa venire l’orticaria. La logica però, non il Capitale.

    3. @ Aguzzi

      Mi spiace dover polemizzare apertamente con un collaboratore appena affacciatosi su questo sito. Ma credo di doverlo fare. Meglio leali avversari che si confrontano che diplomatici silenzi. E dunque…
      Non mi pare che le cose da me scritte siano infarcite di «richiami ideologici». Ho affrontato due temi che potrei riassumere in due domande: – a quale riconoscimento dovrebbero puntare i poeti; – quale critica militante serve oggi. E ho delineato due ipotesi: – i poeti possono mirare ad un riconoscimento personale all’interno delle regole date di questo sistema; – i poeti (o alcuni di loro) possono – e qui interviene la necessità di una critica militante a sostegno del loro tipo di poesia (critica) – volere il riconoscimento di un *io/noi* (nn individualistico, non anarchico) che non può essere soddisfatto all’interno delle regole date di questo sistema e ne prevede un altro. Magari impensabile al momento, visto che quello delineatosi in circa un secolo e mezzo di esperienze socialiste/comuniste sembra esaurito.
      Mi pare evidente da quanto ho scritto (anche in passato) e dal taglio di Poliscritture ( che non a caso ha come sottotitolo «ricerca e cultura critica») che non evocavo certi fantasmi della “critica militante” del passato di destra o di sinistra. (Tu hai scomodato persino Hitler e Stalin!). E che, dunque, il significato che do al termine ‘ critica’ o ‘militanza’ coincide all’ingrosso con la tua formula: «critica militante per la verità».

      Proprio per questo, allora, mi chiedo cosa abbia a che fare con la verità l’apologia del capitalismo o del mercato, che caratterizza questo intervento ( ma anche quello che indirizzi a Grandinetti). Non mi pare, infatti, che «un dato di fatto oggettivo», che io pure posso riconoscere tale, possa – di per sé – essere la verità (e, per giunta, «ineliminabile»).
      Né che verità e successo coincidano. Tanto più che tu stesso ammetti che al successo può arrivare un mediocre o pessimo o falso poeta. Uno storico più di altri sa che la menzogna può avere successo; e che invece la verità può esser restare a lungo (a volte per sempre) seppellita. Sappiamo che esiste una applaudita e riverita poesia della menzogna. Ma ci saranno pur sempre poeti che mirano a una poesia della verità. Insomma, la poesia è campo di scontro. Non ne esiste una sola. E la scelta da fare ( o da prendere in considerazione) non è tra poesia di successo e poesia d’insuccesso . Ma ancora e sempre ( e malgrando i mutamenti intervenuti rispetto al passato) tra buona e cattiva poesia. Compito arduo ma irrinunciabile. E proprio per svolgere questa funzione essenziale di scelta, che va difesa (ed oggi recuperata, perché s’è persa…) quella funzione critica che tu vorresti scacciare e sostituire col giochetto dei cento lettori (di cui dirò più avanti).
      E rientra in gioco, sì, pure la militanza (nell’accezione di cui ho parlato rispondendo a Grandinetti): la lotta degli uni per imporre l’equazione poesia=verità e quella di altri per imporre invece l’equazione poesia= menzogna ( o menzogna travestita magari con la bellezza).
      A me pare che il tuo sociologismo ( che mi pare di stampo ultrapositivista) si adatta semplicemente e (religiosamente!) all’esistente così com’è. Si lascia, cioè, ipnotizzare dal «dato di fatto oggettivo», certo da non sottovalutare ma sempre storico e dunque mai «ineliminabile». E finisce in pratica per indicare ai poeti la via non maestra ma servile che io chiamerei del clientelismo («Avere dei buoni protettori»). Da seguire – e questo mi pare grave – indipendentemente dal valore che ha la loro poesia. Problema che salti completamente. E qui dovrei dire: all’anima della ricerca della verità! Di conseguenza si arriverebbe al paradosso che i poeti, che non avrebbero «le spalle coperte» e «contatti con la critica degli amici autorevoli» e che non sono prossimi ai potenti, sarebbero insignificanti. Il caso di un Dino Campana sarebbe impensabile in quest’ottica. E che
      la piatta propaganda di certi valori di moda (per i potenti o per qualti ne subiscono il fascino) o la pruriginosità di certi contenuti trovano protettori o sponsor e possono venire imposti come poesia non farebbe problema. Come non farebbe problema che, in questi casi, il valore non sta nella qualità del linguaggio o nell’originalità del contenuto o nello stile, gli viene attribuito dall’esterno, da chi ha il potere politico e commerciale per tramutare in oro poetico anche la merda. Quindi, secondo me, commetti l’errore di appiattire la poesia sulla realtà del mondo così com’è quando affermi il tuo dogma: «la poesia cammina sulle stesse gambe della realtà su cui cammina il resto del mondo».
      Ne discende che, se il mondo cammina con le gambe storte, anche la poesia cammina o dovrebbe camminare con le gambe storte. E che, se il mondo si commercializza, anche la poesia deve commercializzarsi. E, se in parti del mondo s’imponesse il fanatismo, allora anche la poesia dovrebbe diventare fanatica. Così cancelli un altro «dato di fatto oggettivo»: che la poesia ( ma direi anche la poltica…) ha avuto i suoi momenti più alti proprio quando non ha camminato « sulle stesse gambe della realtà su cui cammina il resto del mondo». La Commedia di Dante non ha camminato con le gambe del Papato. Mandel’štam non camminò con le gambe dello stalinismo. Per farla breve, io non condivido che la poesia sia appiattimento sull’esistente. Siamo su questo agli antipodi.
      Né capisco come uno storico e filosofo come te possa mettere ancora oggi in primo piano e considerarlo « misterioso» o addirittura «magico» quel « gradimento del pubblico, quel particolare tipo di gradimento che fuoriesce dalla cerchia degli amici e conoscenti ». Come se il concetto di industria culturale, di programmazione aziendale del successo di X o Y a tavolino non ti fosse mai passato per la mente. Forse l’industria culturale o editoriale
      «non può controllare del tutto», ma come si fa a trascurare che ha un potere di controllo e di cooptazione e che è capace di inglobare e riciclare nel suo sistema anche le spinte apparentemente più anarchiche e ribellistiche e antagoniste?
      E il fatto che « non sempre ai più piace la poesia migliore, o quella considerata migliore dai critici» a che cosa è dovuto? A un fatto di natura? A qualcosa di totalmente insondato o insondabile? O a una struttura sociale differenziata che produce anche differenti livelli culturali e li segmenta, li mescola, li gioca uno contro l’altro?
      Questa oggi complessa varietà di livelli, impostasi con la crisi dei tradizionali centri di orientamento educativo (chiesa, partiti, università, scuola) comporta il caos in cui ci agitiamo e da cui vorremmo uscire in qualche modo. Ma sembri prendertela proprio coi pochi critici che ad esso resistono. Fino a dire che dovrebbero essere educati loro («data la situazione esistente, converrebbe parlare di educazione dei critici piuttosto che dei lettori») perché i lettori « spesso valorizzano “prodotti” ignorati anticipando i critici».
      La nuova educazione, dunque, dovrebbe saltare i critici, spazzar via ogni pensiero critico e – direi: renzianamente – mettere «in contatto direttamente i poeti e il pubblico».
      E il vero pubblico sarebbe quello che « sa dire quel che disse Fantozzi in uno dei suoi primi film sulla “Corazzata Potëmkin”»? O dovrebbe essere composto – secondo l’esperimento che proponi – da cento lettori, che non dovrebbero essere « influenzati troppo dalla critica militante (e dalla scuola, altra forma di critica militante, anzi tendenzialmente totalitaria»? Non t’accorgi che non sarebbero cento libertari individualisti come te, ma soltanto cento lettori forgiati da un’altra “critica militante”, da un’altra “scuola”: quell del mercato, della Tv, di Fb, etc.
      Chiudendo. Posso capire che uno che accetta l’esistente come il migliore dei mondi possibili possa avere l’orticaria quando sente «tirare fuori a proposito della poesia il capitale e il capitalismo », ma l’orticaria si cura in un solo modo: vedendo appunto dove sta la verità. Cosa sia veramente il Capitale per me l’ha spiegato meglio di tutti Marx. E sicuramente non corrisponde alla tua visione del capitale come neutra « ricchezza accumulata, che può essere consumata o reinvestita» . Concorrenza, sfruttamento, guerre che caratterizzano questo “sistema” provano storicamente che esso non porta soltanto, come tu dici, « più ricchezza, più benessere e, in fin dei conti, anche più poesia». Sarà anche, visto il fallimento dell’ipotesi socialista/comunista, « la sola organizzazione economica che ha sempre garantito un progressivo sviluppo della ricchezza». Ma per quanti? E distruggendo quante altre ricchezze e risorse che non rientrano nella sua logica di dominio? Non sono domande trascurabili.

  3. SEGNALAZIONE

    IL PUBBLICO DELLA POESIA
    di Nanni Balestrini

    eccomi qua ancora una volta
    seduto di fronte al pubblico della poesia
    che seduto di fronte a me benevolmente
    mi guarda e aspetta la poesia

    come sempre io non ho niente da dirgli
    come sempre il pubblico della poesia lo sa benissimo
    certamente non si aspetta da me un poema epico
    visto che non ha fatto niente per ispirarmelo

    l’antico poeta epico infatti come tutti sappiamo
    non era il responsabile della sua poesia
    il suo pubblico ne era il vero responsabile
    perché aveva un rapporto diretto

    con il suo poeta
    che dipendeva dal suo pubblico
    per la sua ispirazione
    e per la sua remunerazione

    la sua poesia si sviluppava dunque
    secondo le intenzioni del suo pubblico
    il poeta non era che l’interprete individuale
    di una voce collettiva che narrava e giudicava

    questo non è certamente il nostro caso
    non è per questo che siete qui oggi in questa sala
    purtroppo quello che state ascoltando non è
    il vostro poeta epico

    e questo perché da tanti secoli
    come tutti sappiamo
    la scrittura prima
    e successivamente la stampa

    hanno separato con un muro di carta e di piombo
    il produttore e
    il consumatore della poesia scritta
    che si trovano così irrimediabilmente separati

    e perciò oggi il poeta moderno
    non ha più un suo pubblico da cui dipendere
    da cui essere ispirato e remunerato
    solo pubblici anonimi e occasionali

    come voi qui e ora di fronte a me
    non più una voce collettiva
    che attraverso la voce individuale
    racconta e giudica

    il suo rapporto con il pubblico ha perso ogni valore dicono
    non gli rimane che concentrare il suo interesse
    sui problemi dell’individuo singolo
    sui suoi comportamenti particolari

    il poeta moderno è autosufficiente
    praticamente mai remunerato
    non pronuncia alcun giudizio
    ciò che conta per lui ci dicono

    è soltanto il suo
    immaginario
    le sue ossessioni consce
    e inconsce

    perché per lui non esiste ci dicono
    che l’individuo come singolo
    irriducibilmente diverso
    e separato dagli altri

    e così il poeta moderno
    solo
    o anche davanti al pubblico della poesia
    dialoga individualmente con la sua poesia

    ma la cui esistenza però dipende essenzialmente
    dalla percezione di voi pubblico della poesia
    di voi diversi e uguali
    cioè dipende alla vostra interpretazione

    beninteso sempre nei limiti dell’interpretazione
    perché la poesia non è un prodotto finito
    perché il pubblico della poesia partecipa
    insieme a me

    al suo processo di produzione
    in questo modo voi avete appena partecipato
    al processo di produzione
    detta poesia che adesso è dentro di voi

    abbattendo così per un momento
    il muro di carta e piombo
    che separa il produttore
    e il consumatore della poesia

    –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
    Dal numero #8 della rivista DeriveApprodi,1995.

    TRATTO DA http://www.macaomilano.org/rivista/spip.php?article62

    1. Davanti a casa mia
      c’è un muro di un convento
      non è stato abbattuto
      perché
      esiste da duecento anni
      ad ogni sasso vedo
      quelle mani
      che hanno dato vita
      pazienza e volontà
      senza sapere
      che oggi qualcuno
      l’ha sfregiato
      con scritte così tristi
      che al vederle
      fanno male
      ma le mani quelle mani
      sapevano come fare
      per dargli vita
      in sicura dignità.
      Han risposto
      al loro sapere
      quelle mani erano vere
      così vere
      da portare dentro ad ogni pietra
      la forza di una convinzione
      che mai nessuno negherà.

  4. caro ennio,forse non avresti dovuto rivolgere lo stesso impegno della militanza politica a quello della militanza poetica (se pure la poesia si presti ad una qualsivoglia militanza)
    perchè se in politica si possono avere delle soddisfazioni quando si ottiene un qualche pur interlocutorio successo,in poesia non possiamo aspettarci neppure quello perchè quella che noi chiamiamo attività artistica è entrato nell’orbita di questo capitalismo mercantile che ha ridotto tutto a merci che non hanno valore per la creatività in esse inglobata, ma se mai per la materia che le compone o per il fatto di poter essere possedute in esclusiva ed in tal modo dar prestigio ai suoi possessori, o per il successo delle campagne pubblicitarie che le presentano. so di far inorridire luciano aguzzi che attribuirà queste mie farneticazioni alla mia ideologia di sinistra che tutto deforma, ma vorrei esser contraddetto dai fatti e mi pare che i fatti dicono che per aver successo in ogni campo si deve avere buoni appoggi ed una buona campagna pubblicitaria..
    D’altra parte al giorno d’oggi la poesia non è certo un prodotto che possa aver successo perchè la materia di cui si compone non ha valore alcuno e non si presta ad esser posseduta in esclusiva (come ad es. una pittura) e che perciò non viene neanche pubblicizzata perchè comunque priva di commerciabilità.
    che fare allora? rinunziare alla politica perchè si è totalmente commercializzata?
    rinunziare alla poesia perchè è un prodotto fuori commercio?
    Io continuo a fare in qualche modo l’una e l’altra : la politica come utopia nella speranza che forse un giorno possa trovare qualche interlocutore, e la poesia per soddisfare il mio desiderio di comunicare, anche se gli interlocutori si contano sulle dita di una mano sola.
    d’altra parte in nessuna epoca la poesia ha avuto grande seguito, ma pure ha trovato isolati individui che l’apprezzavano. mi ha commosso in questi giorni un messaggio apparso su facebook di uno che cercava un mecenate per le sue poesie: ma chi potrebbe essere oggi un mecenate? gli industriali che preferiscono finanziare le squadre di calcio o le olgettine per avere dalle une e dalle altre ritorni in termini pubblicitari o sessuali o omertosi? quanto alla militanza critica mi riservo di intervenire in seguito

    1. Caro Eugenio, non giudico farneticanti le tue posizioni né mi interessa se siano di sinistra o di destra, preferisco giudicarle nella loro realtà o corrispondenza con il modo in cui le cose funzionano veramente. Da questo punto di vista divido le tue affermazioni in: a) giuste e condivisibili; b) esagerate pur contenendo una parte di verità; c) errate e non condivisibili. Mi limito a pochi esempi:

      1) «questo capitalismo mercantile che ha ridotto tutto a merci». È vero, ma le conseguenze da trarne non mi sembrano poi così negative. L’organizzare le cose in “merci” è la forma oggi prevalente di far circolare le cose prodotte dall’uomo e permettere loro l’incontro (sul mercato) fra individui che di volta in volta possono assumere ruoli diversi (produttore, consumatore, acquirente per scopi diversi dal consumo ecc.) e quindi fra bisogni e soddisfazione degli stessi. Se i prodotti fossero organizzati in maniera diversa, ad esempio, anziché in merci, in “dono”, oppure in “distribuzione gratuita” da parte di un ente a cui venisse assegnato il compito di raccogliere e distribuire i prodotti, il risultato finale sarebbe di gran lunga peggiore e il livello complessivo di soddisfazione molto inferiore. Ad esempio, nel caso della poesia, ci sono state e ci sono ancora oggi società in cui a decidere quali poesie pubblicare e distribuire sono commissioni statali che hanno poteri assoluti. La storia ci dimostra che è molto peggio e che i poeti che hanno accesso al diritto di pubblicazione, in questi casi, sono pochi e solo quelli strettamente in linea col governo. Nel caso di Cuba, nel primo decennio circa della sua esistenza come potere castrista rivoluzionario, la poesia era stampata dallo Stato e distribuita gratuitamente (i libri non si vendevano), tuttavia, nonostante l’assenza del capitalismo mercantile (però, io direi, solo in apparenza, perché i libri avevano comunque un costo e il rapporto di mercato esisteva comunque ad un livello che era al di sopra del singolo cittadino), però i libri erano pochi e gli autori non in linea ignorati e, se pubblicavano in proprio con copie dattiloscritte o ciclostilate, subivano la repressione poliziesca e alcuni sono stati anche ammazzati. L’organizzazione in merci, pur con tutti i suoi difetti, garantisce comunque una maggiore libertà e circolazione e, ti garantisco, è più facile entrare nel mercato, per quanto tu lo possa concepire in termini negativi, che nelle grazie della commissione statale competente a decidere quali poeti pubblicare e quali destinare al silenzio più completo.

      2) «che non hanno valore per la creatività in esse inglobata». È vero che le merci hanno valore per la loro possibilità di essere collocate sul mercato e produrre un profitto, però il mercato ha la capacità di selezionare le merci migliori. Quando non riesce a farlo abbastanza, più che colpa del mercato è colpa dei troppi vincoli che la politica parassitaria e rapinatrice gli oppone, il che è un vero e proprio taglieggiamento contro il mercato, cioè contro gli interessi sia di chi vende sia di chi compra. Purtroppo troppo spesso ci si scaglia contro il mercato dimenticando che, come oggi in Italia, il mercato controlla meno del 50% dell’economia, mentre tutto il resto è controllato non dalla libertà dei contraenti ma dai divieti e dagli obblighi di legge. E da questi, non dal libero mercato, dipendono le distorsioni maggiori. Il libero mercato porta ad una selezione delle merci, compresa la poesia (che, una volta prodotta e confezionata in libro, è una merce, piaccia o non piaccia, e segue le regole della merce; salvo che non si decida di stampare in proprio e regalare il libro, che però non è certo il modo migliore per diffondere su scala relativamente vasta la poesia). È così vero che i poeti che vendono, anche se di idee politiche opposte a quelle dell’editore, vengono pubblicati, senza nessuna censura. Ed è vero che gli editori di cultura, purtroppo sempre più rari, come erano Bompiani e Garzanti ed Einaudi, curavano la selezione della qualità. Certo, poi dovevano anche sopravvivere e non potevano quindi pubblicare in perdita, se non in qualche raro caso in cui da editori si trasformavano in mecenati.

      3) «mi pare che i fatti dicono che per aver successo in ogni campo si deve avere buoni appoggi ed una buona campagna pubblicitaria». È verissimo e l’ho già scritto nel mio intervento di ieri. Ma perché scandalizzarsi? L’appoggio e la pubblicità permettono una maggiore trasparenza del mercato e la conoscenza della merce da parte dei possibili acquirenti. In sostanza facilitano l’incontro fra la domanda e l’offerta, come dicono gli economisti. Ciò è normale. L’anormalità consiste, semmai, nel fatto che spesso l’appoggio e la pubblicità vengono dati non al libro migliore ma a quello che gode di particolari “raccomandazioni”. Questo non è certo colpa del mercato, ma è, al contrario, una sua distorsione dovuta a fattori diversi che qui sarebbe troppo lungo analizzare. Pertanto è sui fattori distorsivi che bisognerebbe appuntare la critica, non sul mercato.

      4) «rinunziare alla poesia perché è un prodotto fuori commercio?». Ma la poesia non è affatto fuori commercio: mai come oggi è capitato nella storia della poesia che si trovino in commercio migliaia e migliaia di libri di poesia. E, naturalmente, in base alla legge della domanda e dell’offerta, se l’offerta supera la domanda il prezzo di vendita si riduce fino all’insignificanza. Ciò vuol dire che la maggior parte dei libri di poesia non vengono venduti, ma vengono acquistati direttamente dall’autore e distribuiti gratuitamente. Tuttavia il mercato ci mostra un’alta commerciabilità della poesia da un altro punto di vista. Non da quella del poeta che offre e del lettore che domanda, ma da quella del poeta che domanda un’edizione e dell’editore che offre l’edizione. Da questo punto di vista la poesia è altamente commerciabile e, nonostante tutto ciò che si può dire del fenomeno, io non ci vedo nulla di male, anzi, lo giudico positivo. Negli ultimi dieci anni sono sorti decine di nuovi editori o decine di nuove collane di vecchi editori, rivolti esclusivamente a soddisfare la domanda di edizioni. Alcuni di questi editori (lo si verifichi con una piccola ricerca in internet) in tre anni di esistenza hanno messo insieme cataloghi di oltre cinquemila titoli, di cui gran parte di poesia, di libri editi a pagamento a spese dell’autore e con tirature al 90% assorbite dall’autore stesso. Vecchi piccoli editori di cultura, sull’orlo del fallimento, si sono rivitalizzati aprendo collane alimentate a spese degli autori. Tanto che in questo modo possono continuare, per una parte della loro produzione, a fare gli editori di cultura in senso stretto e secondo vecchie regole. Il fenomeno si è ingrandito moltissimo, ma non è nuovo, visto che da sempre la maggior parte degli autori (compreso Manzoni) hanno pubblicato a spese proprie. Solo nei Paesi, a partire dall’Inghilterra del Settecento, dove si è sviluppato un mercato più libero e un pubblico di lettori più ampio ed educato, gli autori maggiori (solo i maggiori) hanno potuto pubblicare a spese dell’editore e farsi anche pagare. In Italia, oggi, gli autori che vivono dei diritti di autore credo non siano più di una ventina, e nessuno di questi ci riesce grazie alla poesia.

      Tutto ciò può scandalizzare chi fa fatica a coniugare gli ideali con la realtà, non gli altri. (Ma fuori della realtà esistono poi dei veri ideali? o non piuttosto mere aspirazioni concepite in modo confuso e parziale proprio per evitare – in modo inconscio o consapevole – il confronto con la realtà?). A differenza di un tavolino o di un copertone d’auto la poesia – in genere, ma non sempre – non nasce come merce, cioè progettata per la vendita, se però si decide di diffonderla nel modo più libero e vasto possibile, non c’è altra via realistica che stamparla in un libro e trattare il libro come una merce e venderlo, se ci si riesce. Spesso si fallisce, tuttavia in tutti gli altri casi, cioè trattando la poesia diversamente e non come merce, il fallimento è sicuro fin dall’inizio. Tutte le forme alternative messe in pratica nel corso del Novecento hanno dato poco frutto e quando sono state positive lo sono state nel senso di aiutare a vendere i libri, non in modo autonomo e di per sé. Mi riferisco a due modalità principali di alternativa al libro-merce: quella della poesia diffusa solo oralmente e quella della poesia diffusa solo in fogli ciclostilati (il primo Roversi, ad esempio). Un’evoluzione del ciclostile (che era comunque a spese dell’autore) è l’odierna editoria a pagamento. L’autore può moltiplicare le copie e regalarle o, se ci riesce, venderle in proprio e recuperare la spesa. Ho conosciuto e conosco autori che, pur vendendo solo poche decine di copie tramite l’editore, con la vendita in proprio hanno recuperato totalmente le spese e a volte hanno guadagnato qualcosa. Dipende da quanti possibili acquirenti si riesce a coinvolgere e contattare direttamente. E da quanta grinta si ha per riuscire a vendere il libro in questo modo. A Milano, fino a una ventina d’anni fa, si poteva incontrare nelle vie centrali, quasi tutti i giorni, un poeta che stampava e vendeva in proprio. Un poeta ambulante, da strada, potremmo definirlo. Riusciva a farcela e, pur vivendo in miseria, è riuscito a stampare e diffondere una ventina di raccolte di cui alcune hanno superato le mille copie così vendute per strada. Ma credo che nemmeno questa sia un’alternativa al mercato “normale”.

      1. caro luciano,la tua descrizione no fa una grinza,solo che mi pare piuttosto panglossiana:questo è il migliore dei mondi, basato sulla iniziativa individuale,sulla libertà e sulla meritocrazia.solo che a me questo mondo non piace ed io non credo tanto alla meritocrazia e all’uguaglianza dei diritti in un mondo di diseguali:con ciò non voglio dire che mi piacesse il modello stalinista o quello cubano:solo cerco di esser critico rispetto al cattivo modello del mondo in cui viviamo.il mercato,con l’equilibrio tra domanda e offerta,fa da giusto regolatore dei rapporti tra i cittadini? magari potrebbe esser così se la concorrenza fosse tra uguali: ma lo è? o ci sono alcuni che riescono con la loro posizione di monopolisti o di monopsonisti a dettar legge?

    2. @ Grandinetti

      “che fare allora? rinunziare alla politica perchè si è totalmente commercializzata? rinunziare alla poesia perchè è un prodotto fuori commercio? Io continuo a fare in qualche modo l’una e l’altra : la politica come utopia nella speranza che forse un giorno possa trovare qualche interlocutore, e la poesia per soddisfare il mio desiderio di comunicare, anche se gli interlocutori si contano sulle dita di una mano sola.” (Grandinetti)

      Appunto! E non è militanza questa? Qui si sta discutendo della possibilità di non rassegnarsi alla spinta micidiale che ci assale da tutte le parti (dai mass media agli amici e alle amiche) e vuole farci accettare che le due dimensioni – poesia e politica – restino definitivamente separate. Significherebbe accontentarsi di usare – in privato e in pubblico – i surrogati che vogliono imporci. Surrogato della politica sono le proposte che arrivano dai vari partiti esistenti. Surrogato della poesia il suggerimento di scrivere in vista di un successo personale tutto iscritto nelle regole di questo (eternizzato) sistema capitalista. Dovremmo ubriacarci con questa ideologia, con questo “vino dei servi”, come diceva Fortini. Se è chiaro che militanza non equivale a fanatismo o partigianeria ottusa, non vedo contraddizione tra quella politica e quella – sì – poetica. Non è che la prima, rispetto alla seconda, richiederebbe un impegno di qualità diversa. È una medesima passione/volontà con la quale si agisce nelle due dimensioni. Senza confonderle o sovrapporle. Ma senza separarle. Perché c’è *politicità* nel linguaggio della poesia che non si riduce a pura finzione e puro gioco verbale. E c’è *poeticità* nel linguaggio della politica quando non accetta di ridursi a pura menzogna.

      1. caro ennio, non vedo il disaccordo che dovrebbe esserci tra noi due.io non disdegno la militanza politica e nemmeno quella artistica,nè le interpreto come due mondi diversi.se mai qualcuno accusa la mia poesia (meglio alcune delle mie poesie)di essere troppo ideologicizzate.accusa contro la quale non ho niente da eccepire,anche perchè io ancora non considero -come oggi fanno tanti- che il termine ideologia abbia una valenza negativa, anzi penso che nella vita politica si sia rinunziato all’ideologia con i risultati regressivi che sono sotto gli occhi di tutti (quelli che non hanno difetti di vista,naturalmente)

  5. …se la critica ufficiale per quanto riguarda poesia e letteratura è in mano ai soliti noti editori rappresentanti di un potere che crea ricchezza, sì, ma non la fa circolare in maniera equa e detiene i mezzi d’informazione e di propaganda, allora certo il critico(e poeta) esodante ha una funzione diversa: “…quella che richiama la poesia di fronte al mondo sconvolto e alla storia..”(Ennio Abate) e cerca di valorizzare e riscoprire gli autori dimenticati, “scomodi” su questo fronte…Quando gli ostacoli incontrati sono eccessivi o addirittura invalicabili cosa si può fare? La risposta sembra duplice, come suggerisce Giorgio Mannacio: “o si marcia verso la politica (militanza?) o si marcia verso se stessi (testimonianza?)”; ma “entrare in se stessi” è rendere testimonianza di ciò che succede in noi come fuori di noi ( senza poter decidere la precedenza: è nato prima l’uovo o la gallina?) e perciò si incontra di nuovo la politica…gli altri

  6. @ Ennio – Rita – Tito
    Colgo l’occasione dell’ultimo intervento di Ennio per proseguire nella direzione di una pacata riflessione. Quegli estremismi, paradossi e provocazioni che a volte occhieggiano nei miei testi sono soltanto il riflesso, penso giustificabile, di una semplice constatazione: de re nostra agitur. Come non essere coinvolti integralmente? Ma spero tale atteggiamento non obnubili il mio senso critico che – ora – sollecita un chiarimento importante. Ennio dice che l’attuale situazione della poesia è il segno della crisi. Di quale ? Credo che intenda riferirsi ad una situazione di crisi più generale e che investe moltissimi aspetti della società e che ha investe aspetti molteplici della “ nostra cultura “. In questo senso sono pienamente d’accordo e condivido che in queste interconnessioni entri in gioco anche l’esperienza poetica ( e ovviamente la critica letteraria ) . Ma dato che questo non è il luogo per un discorso a largo raggio sui massimi sistemi, discorso al quale non sono preparato e forse neppure
    attrezzato ,limiterò le mie osservazioni al campo specifico della poesia. E mi chiedo: quali sono gli aspetti specifici della “ crisi in generale “ “sul mondo dei poeti in particolare“ ? A questa domanda ho cercato di dare una risposta che – come sono solito fare – prescinde in parte da una impostazione ideologica. Le mie osservazioni muovono da rilievi di fatto, a volte banali e dai confronti tra il passato e il presente. Solo in questo modo – credo – si possono scorgere quelle differenze che “ definiscono la natura della crisi”. Di crisi si parla allorquando si constata che un certo tipo di “ ordine” è venuto meno e si pensa che nessun ordine si sia ad esso sostituito. Io penso invece – anche se problematicamente – che la situazione attuale della poesia non sia “ il segnale della crisi “ ma “ il nuovo ordine della poesia “ che può essere anche caratterizzato – mi si passi l’ossimoro – dal disordine . La mia nozione di “ ordine “ non è valutativa.
    Disordine rispetto a che ?
    Se si pongono a confronto due situazioni differenti e si designa la prima come ordine e la seconda come disordine si dà già una valutazione negativa allo stato successivo. Bisogna concludere che “ si stava meglio prima “? Sarei portato a rispondere che tale domanda non ha senso. Il mio atteggiamento è diverso. Da un lato sostengo – anche se ciò è duro per me – che non è possibile – nell’attuale sistemazione socio-culturale –politica – altro stato se non questo e cioè “ il massimo disordine “ ( che cercherò di definire ) e dall’altro mi chiedo quale può essere l’esito finale. La morte delle arti e della poesia ? Bisogna mettere in conto anche questa conclusione. Poiché non sono un “ nichilista “ tendo ad escludere tale orizzonte ed allora cerco anch’io di costruirmi un panorama che, tenuto conto dell’irreversibilità ( più o meno duratura ) delle “ condizioni attuali “ , riesca a “ salvare il salvabile “. Perché ritengo tendenzialmente irreversibile la situazione attuale ? Perché essa non dipende o non dipende soltanto dalla “ astuzia dei singoli “ ma da , o anche da, quei fattori oggettivi che fanno della nostra società quella che realmente è. Il richiamo che io faccio costantemente alla Storia e i miei richiami paradossali ad Omero ed altri del passato ( richiami che mi vengono amichevolmente rimproverati ) hanno semplicemente la valenza metodologica di stabilire attraverso il confronto le caratteristiche differenziali.. Se vi è stata nella storia della poesia una “ mitica età dell’oro “ questa non è stata – a mio giudizio -caratterizzata da una sorta di
    “ patto di reciproco riconoscimento “ tra poeti e “ vulgus “ ma da una relazione unidirezionale tra poeti e società nel senso che i poeti – nell’ALLORA del passato – hanno goduto di uno statuto privilegiato anche se magari di contenuto ambiguo . Penso che noi , a volte,guardiamo il passato con occhi strabici e vediamo il rapporto poesia e società come compenetrazione dei valori della seconda in quelli della prima mentre invece si tratta di una sorta di indifferenza della seconda verso la prima. Era facile – penso – scambiare l’indifferenza per accettazione o per partecipazione in una situazione che – ancora nel corso del Novecento – conosceva tassi di analfabetismo con punte intorno al 70%. Pensate alla più remota antichità. Mi sembra chiaro – ma non vorrei sbagliarmi e sono pronto ad accettare opinioni più convincenti – che ad una situazione caratterizzata da un predominio di un certo tipo di cultura fondamentalmente elitaria sia conseguita necessariamente l’elaborazione di uno o pochi canoni di valutazione ricavabili dalla tendenza o tendenze dominanti nella cultura letteraria e poetica e sia stato relativamente facile emettere giudizi di valore sia perché la “ platea “ di rilevamento delle tendenze era relativamente ristretta sia perché i modelli letterari esaminabili con sufficiente approfondimento erano ridotti nel numero e “ consolidati “ ( cosa c’è di più consolidato che l’indifferenza ? ). Insomma i poeti – pochi – “ producevano “ in un quasi monopolio.
    Ma le cose – ad un certo punto – sono cambiate, e come ! L’ho già detto e mi ripeto. La scolarizzazione di massa ha messo a disposizione dell’esperienza poetica quei pochissimi strumenti necessari a fingerla. Essa è la “ più facile e a portata di tutti “. Nessuna abilità manuale, conoscenza di un certo numero di parole, vaghi ricordi scolastici di artifici elementari ( la rima, ad esempio ), un corteo di buoni sentimenti e una normale sensibilità….Debbo continuare ? Ma c’è dell’altro ed è la “ conquista “ della singolarità di ciascuno come espressione di libertà e dignità. Insomma libero mercato delle idee, libertà politica, eguaglianza . Vorrei che mi si spiegasse in altro modo la proliferazione della produzione poetica. In un certo senso è questa “ l’età dell’oro della poesia “ che esce dal ghetto “ dorato “ ( mi si permetta il bisticcio ) e va in mezzo alla gente, parla con essa e con il suo gergo. Ma – si sa – il progresso non è né rettilineo né omogeneo nè integrale. Quando noi poeti – chi più chi meno – lamentiamo la nostra sorte ingiusta e ria non facciamo forse che rilevare certi lati oscuri di esso, la sua stessa ambiguità ?
    Poiché è mia opinione – discutibile ma non esito a confermarla – che il canone di valutazione lo creano i poeti “ con la loro autorità “ l’elaborazione di esso , nel tempo attuale , è quasi impossibile per due ragioni: a ) perché non è possibile esaminare seriamente tutte le esperienze maturate in un tempo e in luogo definiti; b )perché tale operazione ci porterebbe a rilevare una molteplicità di esperienze non omogenee e non riconducibili ad una reciproca compatibilità. Non solo: anche l’atteggiamento dell’utilizzatore ( lettore ) è diverso perché diversa sarebbe, comunque, la nostra posizione come lettori.
    In termini economici: il mercato si apre alla concorrenza.
    Poiché mi sforzo di essere equanime debbo dire che la posizione della critica subisce delle reali ed oggettive difficoltà e –dunque – il “ rimprovero “ verso di essa può contenere tratti di vera ingiustizia e inutile polemica.
    Vi è pero – in essa – una contraddizione nel momento in cui da un lato non può non riconoscere la legittimità della individualità/pluralità e dall’altro tende a sottovalutarla distinguendo veri e falsi poeti ed elaborando distinzioni in funzione discriminatoria discriminatorie. Un atteggiamento “ equanime “ dovrebbe essere quello di chiarire preliminarmente l’adesione ad un certo canone sia esso costruito “ nel passato e dal passato “ sia esso costruito “ nel presente e dal presente “.
    La critica seria è prima di tutto “ una critica onesta “ che dichiara il proprio metodo di valutazione e si espone così ad essere esaminata come “ opinione “. In questa direzione ripesco il senso “ positivo “ del tanto vituperato “ critico militante “: la responsabile ricostruzione di un orientamento. E’ su questo che si gioca il tentativo “ di un nuovo ordine”
    E’ giustificato sotto ogni punto di vista il desiderio del poeta di vedersi riconosciuto come tale.
    E’ difficile individuare la radice di esso. Perché scrivo ? Perché – a volte – impegno tutta la mia esistenza ?Lascio da parte la questione per prendere atto che l’ansia di tale riconoscimento è in tutti i poeti e determina una sorta di ansietà che si traduce in “ lotta “ per il conseguimento di esso ( successo, fama, umana immortalità,realizzazione di una dote creativa ….).

    In questa competizione – che la “ concorrenza “ rende più acuta – non ci sono “ angeli “ e forse neppure “diavoli “ ma solo persone che tendono ad un’affermazione di singolarità . Ma anche noi dobbiamo fare i conti con la realtà che significa –a mio giudizio – non inseguire orizzonti di universalità ( mi chiedo: vi sono mai stati ? vd supra ) ma di particolarità, agendo in uno di quei contesti in cui la propria opera è riconosciuta e che la società nella sua struttura attuale contiene. Dobbiamo operare in essi con la stessa serietà che pretendiamo dai critici ed essere “ autentici “; non dobbiamo vivere il disconoscimento come una sconfitta globale del nostro essere uomini liberi.
    Questo è uno schema di ragionamento per così dire reale che se non presuppone certo non esclude “ pratiche distorsive della concorrenza “ in cui spesso si incontrano, in patti
    scellerati ,ideologie contrapposte . Quando non anche “ conflitti di interesse “ tra critico e poeta critico ( Non si finga di ignorarli ) Questa denuncia – se fatta realmente in nome di una attendibile verità – è in un certo senso un dovere civico. Tutte le mie precedenti affermazioni che sembrano in contraddizione con quanto ho detto non lo sono perchè rese “ in funzione “
    di stabilire differenze, distinguo, comparazioni dialettiche: chiarire cioè il movimento quasi perenne del nostro pensare, ma anche le storture che esso può presentare.
    Non saprei dire altri e, dunque , mi fermo. Con un cordiale saluto. G.M

    1. @ Mannacio

      Ribalti la mia percezione di una poesia (e di una politica) come segno della crisi (generale) e non vedi, mi pare di capire, che il venir meno – in poesia e politica – di una visione critica (del linguaggio poetico e dei rapporti sociali) e l’esaurirsi della ipotesi di passaggio ad altra forma di società (socialista/comunista) sia un danno, un regresso, una stagnazione.
      Ci sarebbe un «“nuovo ordine della poesia “ che può essere anche caratterizzato – mi si passi l’ossimoro – dal disordine». E arrivi a conclusioni non dissimili da quelle di Luciano Aguzzi: «non è possibile – nell’attuale sistemazione socio-culturale –politica – altro stato se non questo e cioè “ il massimo disordine “». (Io aggiungerei: tipico del regime “rivoluzionario” del Capitale).
      Che dire?
      Non mi pare che, difendendo un atteggiamento critico, io abbia però nostalgia di un’età dell’oro della poesia (per me inesistente). Non vedo, cmunque, in maniera così ottimistica il passaggio da una società elitaria a una società di massa. Non credo , infatti, che la scuola di massa abbia permesso «la “ conquista “ della singolarità di ciascuno come espressione di libertà e dignità. Insomma libero mercato delle idee, libertà politica, eguaglianza ».
      E non ho mai pensato, anche quando ho parlato (credo sempre in modo critico) dei “moltinpoesia” che la «proliferazione della produzione poetica» (correggerei: con intenzioni poetiche) possa essere presentata addirittura come «“ l’età dell’oro della poesia “ che esce dal ghetto “ dorato “ ( mi si permetta il bisticcio ) e va in mezzo alla gente, parla con essa e con il suo gergo».
      I ghetti, se non proprio dorati, continuano ad esistere anche in poesia accanto a quelli d’ottone o di bronzo. (Come i grattacieli non distanti dalle favelas o dalle deprimenti periferie).
      Adattarsi a questa nuova (?) situazione? Rinunciare, non dico a un canone o agli orizzonti di universalità» (certamente sgretolatisi e del resto impossibili da far valere in questo caos o in questa babele rissosa), ma a fare critica? Sospettarla di svolgere una «funzione discriminatoria»? E accucciarsi «in uno di quei contesti in cui la propria opera è riconosciuta e che la società nella sua struttura attuale contiene»? Rimanere cioè, come si è teorizzato tra anni Ottanta e Novanta, negli «interstizi» contenti di quell’aroma di anarchica libertà (privata o appunto interstiziale) che lì alcune minoranze respirano?
      Personalmente direi: No, grazie.

  7. Non credo di riuscire a rispondere ai precedenti interventi di Giorgio ed Ennio! Mi permetto solo un paio di battute per continuare a dire la mia e contribuire alla riflessione. In questo caso in parte mi ripeto. Mi sono accorto ora degli altri interventi che leggerò con calma e attenzione. Vi mando questi appunti che avevo scritto e che però erano rimasti inevasi…

    Sul “riconoscimento”…

    Ho sentito qualche giorno fa a Radiopopolare una intervista di Peter Greenaway, il quale su una domanda simile a quella che ci poniamo noi ricordava che Van Gogh, nonostante che in vita avesse venduto solo un quadro (a suo fratello), ha continuato a fare arte con grande piacere di farla e ora viene ossequiato da tutto l’universo… Van Gogh non si è fatto frenare dal fatto che non avesse ricevuto riscontri positivi, anzi, ha continuato a dipingere perché era necessariamente motivato sulla sua attività artistica.
    Questo potrebbe far pensare che quello del riconoscimento sia un falso problema. E in parte lo è.
    Dico in parte perché riconosco la positività di un confronto con l’esterno.
    Sembra un falso problema perché, a vari livelli, tutti (anche i mondadoriani o chi per essi) soffrono attualmente della stessa frustrazione (da riconoscimento).
    Sembra un falso problema perché la stessa condizione la vivono migliaia di poeti , i quali, diciamoci la verità, non fanno granché per essere riconosciuti.

    Anche quando talvolta riusciamo a spostare verso l’alto l’asticella del “riconoscimento“ ci troviamo comunque nella stessa cerchia degli ansiosi. Con questo non voglio azzerare le differenze. Non significa che è preferibile il silenzio.
    Mi sembra una buona intenzione quella di voler mettere davanti alle proprie responsabilità i critici che potrebbero, o dovrebbero, avere uno sguardo più “serio”. Dico solo che potrebbe essere utile spostare la direzione.

    Proviamo a mettere in discussione la produzione, i libri, i testi, le riviste, le letture, le presentazioni, i concorsi, mettiamoci anche il lavoro dei critici… Mettiamo in discussione quello che realmente realizza questo esercito di poeti e letterati, mettiamo in discussione il metodo col quale viene prodotta questa grande e incontenibile espressività. L’avviso, dal mio punto di vista, dovrebbe valere per “i moltinpoesia”, per i “pochinpoesia” e anche per gli “elettinpoesia”.

    Mi sono sempre chiesto come mai la poesia fosse praticamente assente dal palinsesto di Radiopopolare (una radio peraltro attiva e attenta su molti versanti della cultura e del sociale). Certo, Radiopopolare potrebbe smuovere le acque, aiutare… Ma probabilmente non lo fa perché ha esperienza delle tante miserie dell’ambiente poetico e soprattutto sa che non avrebbe un pubblico. Forse sbaglia, ma è così.
    E attenzione, in questa situazione non è sufficiente l’esempio positivo di un singolo che talvolta riesce a bucare il muro… Mi viene in mente l’esempio di “Ivan” (poeta di strada…) che ha partecipato al programma di Fabio Fazio, di Magrelli, di Crocetti, anche loro presenti talvolta in TV, eccetera…

    Secondo me, più che il problema del riconoscimento bisogna porre il problema della qualità della produzione artistica e della qualità dell’organizzazione (o disorganizzazione) che sottende a tutto il fare poetico attuale. Alla vasta produzione (antologie-plaquette-concorsi-reading) non corrisponde una attività determinata (coraggiosa), insistita, necessitante, in relazione alla produzione di testi o in relazione a progetti culturali. I protagonismi che percorrono l’italietta si fondano esclusivamente su tentativi solitari, o di raggruppamenti di singoli, i quali talvolta esprimono qualche valore, ma sono (essi stessi deficitari) dentro un sistema pienamente deficitario, inefficace, superficiale.
    In realtà oltre che certificare la “frustrazione” di noi tutti, dobbiamo anche notare paradossalmente un altro elemento. E’ anche vero che il patentino di “poeta” è facile da ottenere in una società di illetterati. Un patentino che gratifica comunque nell’immediato, nel microcosmo amicale o di gruppo. E quindi i moltinpoesia non sono stimolati a realizzare approfondimenti, discussioni, progetti, ad agire cioè in una attività letteraria (o politica) di ampio respiro. Basta il concorso, la plaquette in 50 copie, un incontro mensile e il gioco è fatto.

    Come se ne esce? Instaurando relazioni più gratificanti, interagendo reciprocamente ad un livello più profondo, costruendo una collaborazione artistica più “seria”. Il metodo è sempre lo stesso. Dalla crisi se ne esce collettivamente! Organizzati! Con determinazione! Bisognerebbe mettere insieme le forze per produrre qualcosa di più rilevante rispetto ai soliti contenitori. Non è un problema di quantità. Almeno una “social catena poetica”…

    1. Concordo con Tito Truglia sui due argomenti del suo commento: bisogno di riconoscimento (generalizzato) e risposta con l’organizzazione (più seria! determinata!).

    2. @ Truglia

      Non capisco perché il riconoscimento sarebbe un falso problema. Si può essere motivati come Van Gogh (o Calogero, per ricordare un nome già fatto di recente) e dipingere o scrivere, per decenni o tutta la vita, senza ricevere riscontri positivi o decisivi. Ma non si può trascurare l’effetto negativo che una tale frustrazione comporta sull’individuo. Che può arrivare a svalutarsi del tutto o a reagire adottando un atteggiamento sinceramente ascetico ( non una posa), proseguendo caparbiamente la sua ricerca in solitudine, attutendo così il colpo che comunque ha ricevuto dall’indifferenza o dall’ostilità altrui.

      Si tratta poi di intenderci su quale sia il riconoscimento giusto ed opportuno che possiamo come singoli rivendicare nelle concrete situazioni socio-storiche in cui ci troviamo ad agire. Il nostro desiderio di riconoscimento può essere troppo ambizioso e la possibilità di soddisfarlo da parte delle persone, che noi condieriamo autorevoli, o delle istituzioni, da cui lo desidereremmo, impedita da mille fattori. I nostri desideri e le nostre opere (i risultati) sono in concorrenza coi desideri e le opere di altri. E poi si creano e si distruggono di continuo occasioni e possibilità. Insomma una guerra/gioco ci viene imposta. E spesso un certo riconoscimento, anche quando ottenuto, è mentitore, perché chi ha il potere di darlo ha fatto i suoi calcoli e lo fa dipendere più da fattori esterni che da una reale valutazione del valore in sé dell’opera. Il problema è davvero labirintico e andrebbe studiato a fondo, oltrepassando i luoghi comuni e i personalismi.

      Invece mi ha colpito la frase: «migliaia di poeti , i quali, diciamoci la verità, non fanno granché per essere riconosciuti». Si potrebbe dire che sono come i disoccupati che, sapendo di essere troppi, non cercano neppure più un lavoro. Credo sia un atteggiamento sanamente rinunciatario, non avendo senso sgomitare inutilmente. Ma c’è da considerare pure un altro elemento (forse variabile a seconda delle generazioni): i poeti hanno bisogno di essere un po’ monaci, se non eremiti, per poter lavorare. E lavorare a volte dà più soddisfazione che darsi da fare per ottenere riconoscimenti. O anche dal partecipare a gruppi, laboratori, caffè letterari, blog, dove il rischio della chiacchiera è sempre in agguato.

      Non contrapporrei neppure una sobria ricerca di riconoscimento al lavoro critico (e autocritico) per accertare la qualità di un testo o raccolta o insieme delle opere di un poeta. Né a quello della divulgazione. Ma dove sono i critici? E dove dei veri e capaci organizzatori? E nel caso ci fossero – penso con rabbia allo scomparso Gianmario Lucini – non verrà in mente a qualcuno di organizzare una specie di giro d’Italia dei poeti come si organizzano le gare di slam poetry? Saranno esperienze capaci di produrre « relazioni più gratificanti», ma davvero permettono di interagire reciprocamente «ad un livello più profondo»? Insomma, mi porrei il problema di quanto lavorare sull’io e quanto sul noi. Lasciando aperta la domanda: chi deve tirare la volata, l’io o il noi? Dante o Leopardi mica lavoravano in gruppo. Ma forse oggi noi viviamo sempre circondati da un alone di gruppo. E la cosa va accettata, quando è sicuro che non è perdita di tempo. Poi può anche succedere che certi legami con gli altri si spezzino e siamo costretti a dialogare soltanto con il nostro daimon…

  8. Considerando che la comunicazione e l’interscambio si caratterizzano sempre più per efficienza e brevità discorsiva, dove si evidenza lo stridore tra sostanza superficialità, mi meraviglia che la poesia stenti a trovare un suo collocamento, diciamo commerciale. Va detto che la rete è un ottimo mezzo ma è anche un grande concorrente per il libro: lo penalizza Il fatto che tutti oggi possono scrivere e leggere gratuitamente. La poesia in sé non avrebbe alcun bisogno di segnalarsi con altri mezzi o altre parole, forse nemmeno della critica mestierante; perché è auto-comunicante, è essa stessa un mezzo per le parole. La crisi sociale non è crisi della poesia; all’opposto questa deriva dalla sovrabbondanza, dalla concorrenza verbale dei media, più o meno come accade per certe arti figurative che da oltre un secolo non detengono l’esclusiva delle immagini. Secondo me si tratta di aspettare che passi lo shock teconologico (creato dai mercati globali), dopodiché , ma già non mancano segnali, si tornerà a comunicare umanamente. Quel che potrebbe cambiare è lo stato di necessità a cui bisognerà dare risposte adeguate. Tutto questo lavorio, tra modernità e classicismo, non può ridursi a soluzioni stilistiche. La poesia come arte della parola non teme confronti, ma come arte del pensiero, se l’intendiamo come metapensiero, deve fare i conti con lo scetticismo sociale che non approva tutto quel che vien più o meno tacitamente considerato come una inutile perdita di tempo. Questo i poeti lo sanno da sempre perché gli vien da scrivere quando ci sarebbe da andare a vuotare la spazzatura, o alle tre di notte se si alzano senza avere il mal di pancia, per un maledetto verso… torneremo umani.

  9. Caro Ennio, gli artisti sono persone strane e i poeti più strani di tutti. Alcune tue osservazioni non mi convincono. Proverò ad affrontare l’argomento che ci interessa da un’altra parte. Immaginiamo due tipi di società con caratteristiche opposte quanto alla libertà di espressione.
    Eviterò di usare termini economico – politici. La prima società cui penso è una società in cui vige “ il pensiero unico “ ; la seconda una società dove vige incontrastata la libertà di espressione. Il poeta che vive nella prima non può esprimersi se non secondo il modello imposto dal pensiero unico e se devia rischia a volte persino la vita. Ha ragione di lamentarsi.
    Il poeta che vive nel secondo tipo di società può dire quello che vuole e nel modo che vuole. Di che si lamenta ? Stando a quello che ci stiamo scrivendo da troppo tempo pare che di questo il poeta si lamenti:“ di non essere riconosciuto come tale “. Mi pare che non possa prendersela con gli altri poeti che – come lui – praticano la nobile arte della poesia . Se la prende allora con quelle “ strutture “ che ostacolano in tutto o in parte tale riconoscimento. Si tratta di strutture che sono in parte culturali e in parte commerciali ovvero – ipotesi più concreta – uno e l’altro.
    Il nostro se la prende allora con la critica, con l’editoria o con entrambe. In fondo “ il mancato riconoscimento “ significa proprio questo: non essere citato nella critica come poeta; non avere una circolazione nell’editoria di vario tipo. La stranezza del nobile poeta è questa: si lamenta della situazione (paradossale ) di una libertà estrema che si ritorce contro di lui.
    Se la può prendere con la società malvagia e ria se è la società della massima libertà? Direi di no.Conosco l’obiezione . Questa nostra non è libertà. Dunque rimpiangi il passato ?
    Ma le lamentele sono irragionevoli se egli non affronta spregiudicatamente la questione dei motivi della situazione ( paradossale ) in cui si trova. Io questa spregiudicatezza cerco di averla. Ho individuato tali cause – sbaglierò,ma il mio pensiero non è reticente come qualche volta mi contesti che esso sia – nella struttura largamente democratica della nostra società,nell’alfabetizzazione di massa, nella relativa banalità del messaggio poetico fondato
    “ sulla parola “. Sono cause che hanno generato “ uno stato di crisi “,ma qui tu commetti – credo – un errore. Cosa significa crisi ( lo ripete con una certa sorpresa per l’incomprensione che mi dimostri ) se non venir meno di un modello precedente ? E’ la tua reticenza a guardare il passato ad impedirti –a mio giudizio – una corretta impostazione del problema. Eppure tu- con le tue esperienze politiche – dovresti essere ben sensibile al “ problema crisi “! Loewith nel suo magistrale Da Hegel a Nietzsche- La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo che altro vuol dire se non rilevare tale crisi in cui ancora ci dibattiamo? Ma dibattersi in una crisi è vivere in essa. Perciò quando accenno alla crisi attuale nella poesia come stato attuale del problema della poesia non dico affatto – mi pare – cose inesatte ma registro che viviamo un momento in cui i modelli del passato sono tramontati. Non mi pronuncio sul futuro non essendo profeta. Ma qui scorgo nel tuo pensiero una curiosa incertezza. Il passato non va bene; il presente neppure . Non credi all’età dell’oro della poesia , neppure io ci credo ma per ragioni forse opposte alle tue. Io penso – forse sbagliando ma senza reticenze – che la poesia non è stata mai nella sua essenza“ un fatto popolare e collettivo “.
    Un tempo non viveva nell’età dell’oro perché “isolata “ per determinate ragioni dalla globalità del contesto sociale in cui respirava; oggi non vive nell’età dell’oro perché costretta a misurarsi con fattori distorsivi della sua singolarità che contraddittoriamente reclama.
    Il tuo progetto del poeta esodante registra – questa è la mia idea – la tua reticenza a farti portatore di una “ eresia “
    Ma proprio questa reticenza è il lato che di te mi piace. Perché – non vorrei fare lo psicanalista della domenica – tu rimuovi l’idea che il poeta abbia qualcosa di “ diverso “ dagli altri e come tale non può mai trovarsi d’accordo del tutto con il mondo che lo circonda. Come si riveli tale diversità è problema sul quale si è scritto molto e molto abbiamo detto e che coinvolge come sai anche problemi schiettamente politici. Ad esempio quelli sull’egemonia culturale.
    Preciso subito che “ diversità “ non ha un significato politico ma attiene solo alla specificità della comunicazione che il poeta tende ad attuare.
    Il bello della religione – diceva Bloch – è che suscita eresie. Un caro saluto. Giorgio.

  10. @ Mannacio

    Cerco di evitare la personalizzazione del confronto e preciso questi punti:

    1. Il riconoscimento, di cui qui si parla¸ non va inteso in senso esclusivamente o soprattutto personale. Da qui l’insistenza su due ipotesi che ancora una volta riporto: 1 il poeta chiede il riconoscimento per qualcosa che normalmente è riconosciuto ad altri e a lui no; 2. Il poeta chiede (assieme ad altri, ecco l’io/noi…) il riconoscimento per qualcosa che non rientra nella normalità di questa società (o non è previsto) anche se essa viene presentata come democratica al massimo.
    È questa seconda ipotesi che mi appassiona. È qui che si potrebbe profilare qualcosa di “diverso”. E quindi il poeta che lavora in questa direzione è, sì, diverso da quelli che lavorano sulla traccia della prima ipotesi. (Che va pensata come subordinata e non necessariamente contrapposta a questa, evitando ogni fastidioso purismo).
    Ne consegue che non si vede perché il fautore di questa seconda ipotesi rimuova « l’idea che il poeta abbia qualcosa di “ diverso “ dagli altri e come tale non può mai trovarsi d’accordo del tutto con il mondo che lo circonda».
    La stessa definizione di “poesia esodante” (o critica) implica una fuoriuscita dall’esistente (dagli obiettivi e comportamenti conseguenti alla prima ipotesi). Quindi non si vede dove risiederebbe la «curiosa incertezza» o perché il progetto di poesia esodante registrerebbe una reticenza a dichiararsi “eresia”.
    Si può poi essere “eretici” ed evitare di scivolare nella retorica dell’eretico che lancia fulmini a destra e manca o enfatizza la propria “diversità” dagli altri o scivola nella paranoia dell’Unico stirneriano.

    2.
    Crisi. Certo è il «venir meno di un modello precedente». E possiamo concordare, se guardiamo solo allo specifico campo della poesia mettendo tra parentesi la crisi sociale e culturale, ecc., che questo modello – la tradizione elitaria della poesia italiana – sia venuto meno e che né tu né io ne abbiamo nostalgia. La crisi è però un Giano bifronte: non è solo stacco dal passato, ma gestazione faticosissima ( almeno si spera…) di qualcosa che potrebbe essere nuovo. (Ma che non s’intrevvede e andrebbe indagato o sperimentato o tentato…).
    Anche dibattersi in una crisi è sicuramente da una parte «vivere in essa» – questa stessa faticosa discussione lo prova – ma anche distanziarsi da essa, da quel che ci impone, criticarla, al limite dire, come fa Eugenio Grandinetti, « a me questo mondo non piace». Anche se fosse il migliore dei mondi (democratici) possibili. E non solo per i poeti.

    3. Democrazia. Se Eugenio o io o altri non troviamo democratica o abbastanza democratica o per nulla democratica questa società (anche solo letteraria), non si può dire automaticamente che allora rimpiangiamo il passato. Il dissenso su questo punto tra noi ( e ora anche con Luciano Aguzzi) è di vecchia data e si è manifestato in diverse occasioni. L’alfabetizzazione di massa non pare un inoppugnabile segno di democraticità. La confusione e la babele delle molteplici forme di «libertà d’espressione», più che segno di democrazia, rientrano meglio nel concetto marcusiano di “tolleranza repressiva”. Qui il confronto fra noi durerà finché moriremo. La sua utilità sta nel capire meglio le nostre distanze e le sue ragioni.

  11. @ ennioFinalità delle discussioni.
    Caro Ennio, hai ragione a dire che le discussioni continueranno. Ma voglio precisare. Esse non debbono servire a convincere, ma ad arrivare ad una conclusione , sì : cioè all’individuazione esatta del pensiero dell’interlocutore. Ed alla fine dovrebbero cessare Nella discussione ognuno dei due contendenti ha diritto a che siano riferite esattamente le proprie parole. Questo non mi sembra sia avvenuto nella tua risposta e dunque debbo necessariamente ribadire il mio pensiero
    Riguardo ai motivi della crisi attuale della poesia sono stato estremamente preciso. Mi sbaglierò nel merito, ma il mio testo era chiarissimo.Diceva che la situazione di crisi in cui si trova la poesia sta “ nella struttura largamente democratica della nostra società, nell’alfabetizzazione di massa, nella relativa banalità del messaggio poetico fondato sulla parola “. Ho fatto un discorso – ripeto magari errato – incentrato esclusivamente sull’individuazione delle cause della crisi.
    Tu osservi – ma fuori dal mio testo sopra riportato – che “ l’alfabetizzazione di massa non pare un inoppugnabile segno di democrazia . Ripeto : io non parlo affatto dei segni della democrazia ma delle causa della crisi della poesia.
    Tra quello che dico io e quello che dici tu c’è una distanza abissale.
    Quali sono a tuo giudizio – scontando come io sconto possibili errori – le cause di essa ? Non lo dici.
    Nella ricerca di tali cause ho affrontato anche – ricorderai il mio testo La poesia come oggetto – anche l’influenza del “ mercato “. Che io sia “ più marxista di te “ ?
    Non dò patenti di democrazia, ma dico ancora apertamente che mi riconosco nei modelli di una qualunque delle democrazie occidentali, modelli dei quali riconosco la perfettibilità e la necessità di aggiustamenti ma che “ esistono realmente “ e nei quali milioni di uomini vivono una vita accettabile e spesso invidiata. Esiste nella realtà un modello di democrazia che ti soddisfi ? Se esisti perché non lo indichi? Se non esiste E’ UN PROGETTO , un fieri come è un fieri il mio atteggiamento dato che ritengo auspicabile che il mio modello si perfezioni.
    I giochetti di parole di Marcuse ( “ tolleranza repressiva “ ) non servono a risolvere questioni serie come la presenza della violenza all’interno di stati democratici. O forse il ns preferisce
    “ l’intolleranza repressiva “ ?
    Affermi – a proposito di “ riconoscimento “ – che vi sono due specie di esso. Il primo è costituito dalla richiesta del poeta che sia riconosciuto qualcosa che normalmente è riconosciuto ad altri e a lui no. Il secondo è la richiesta di riconoscimento “ per qualcosa “che non rientra nella normalità di questa società. Ne accetto l’esistenza
    Interpreto la tua distinzione in questo senso . Nel secondo tipo la società non disconosce il poeta come persona ma “ a monte “ non riconosce alcuni valori e- di conseguenza – disconosce coloro che se ne fanno portatori. E’ giusta la mia interpretazione ? E’ evidente che la risposta mi interessa. Penso anche che si tratti di valori “ a cavallo “ tra etica e politico. O sbaglio ? La mia obbiezione non è di principio Mi limito ad osservare che non c’è
    mai “ qualcosa “ che si riveli al di fuori degli uomini che vivono in un certo contesto.Questo qualcosa non esiste se non è oggetto di una “ esigenza o ricerca “ delle persone ( singoli o gruppi ) e non si esprima in una specifica “ comunicazione sociale “. Le idee camminano sulle nostre gambe, o no ? I regimi autoritari – quale che sia il loro colore , non possono mettere in catene le idee ma gli uomini che le esprimono.Un caro saluto e buona domenica . Giorgio

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