Edoardo Galeano, un critico antisistema

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di Giorgio Riolo

Ci sono opere e persone che, al di là del valore intrinseco, grande o piccolo, non importa, svolgono un ruolo formidabile nel contesto storico in cui sorgono. Diventano metafore di un moto storico, di un cammino in corso.

Diciamo subito che il valore letterario e di contenuti degli scritti di Galeano era veramente grande. Fossero libri o i suoi tipici folgoranti pezzi giornalistici, egli mostrava quale forza si può celare nella penna, se la si sa usare e a qual fine usarla. Sciascia ricorreva a questa metafora della penna come spada, pensando al suo ruolo di scrittore e di intellettuale. Impensabilmente coincidente con quello che l’analfabeta bracciante siciliano riteneva a proposito del valore, dell’importanza della cosa scritta. Ma oggi con il minimalismo, la ciarlataneria chiassosa, le parole in libertà, in ogni dove (la falsa democrazia del Twitter, Facebook e minchiate varie), tutto ciò assume distanza, alterità omerica, biblica.

La cultura, la letteratura, la grande arte non cambiano il mondo, sicuramente. Ma è sacrosanto che esse contribuiscano a preparare, a invogliare, a spingere gli esseri umani a “desiderare” un altro mondo, a cambiare la propria vita e la vita quindi dei gruppi associati. L’antropologia culturale viene prima della politica, sostanzia la politica e la spinge in avanti. Non al contrario, come taluni bonzi si ostinano a pensare e a praticare. Il risultato necessario, di causa ed effetto, come il giorno segue alla notte, è inevitabilmente la malapolitica.

Molti della mia generazione, tra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta, avevano come uno dei retroterra di formazione il cosiddetto terzomondismo. Allora spesso declinato come visione manichea di bene e di male, dislocati spazialmente, centro e periferie, Nord e Sud, mondo sviluppato e mondo sottosviluppato (il terzo mondo) ecc. Poi immediatamente considerando che la dinamica si riproduceva all’interno degli stessi centri sviluppati e all’interno delle periferie stesse (ricchi e poveri, padroni e salariati, classi dominanti e classi subalterne ecc.).

Ma una cosa è certa. Il terzomondismo costituiva allora la forma ingenua, ma fondamentale, indispensabile, del pensare che la storia dell’umanità è la globalizzazione-mondializzazione, accelerata in modo impressionante dal sorgere del capitalismo e dalla sua prorompente, irrefrenabile vocazione a espandersi e a occupare i quattro angoli del pianeta. Che il sistema è mondiale immediatamente e non per astrazione. Che occorreva il “pensiero planetario” (Ernesto Balducci) come grado minimo, come primissima base, per un discorso serio e sensato sul mondo. Che tutto cambia a misura della prospettiva con cui si guarda il mondo. E così si cercava di sfuggire all’eurocentrismo, al colonizzatore e all’imperialista che era in noi (e molta sinistra questo non lo faceva) e si cercava di guardare il mondo “dal rovescio della storia” (Teologia della Liberazione). Di guardare con gli occhi dei popoli vessati, depredati, umiliati dal colonialismo prima e dall’imperialismo poi. Tutto cambia, ripetiamo.

Opere come Le vene aperte dell’America Latina del 1971, prima, e in seguito le tre parti di Memoria del fuoco (apparse tra il 1982 e il 1986), vennero ad aggiungersi al breviario minimo di questo pensiero planetario di cui avevamo bisogno, che avidamente cercavamo. Così come i tanti interventi, articoli e saggi, inconfondibili, che il fine letterato-intellettuale e attivista ci ha offerto fino alla fine dei suoi giorni. Latinoamericano come prima sostanza e radice, come prima attenzione, come un entomologo che scruta il brulicare della propria gente, che scruta la microstoria, la vita quotidiana, i recessi della storia, così spesso trascurati, ma che sa collegare la sua prospettiva latinoamericana, la sua realtà, alla prospettiva mondiale. Che sa collegare la microstoria e la vita quotidiana alla macrostoria, alla politica, alle dinamiche più vaste. Alle lotte necessarie in America Latina e nel mondo. Poiché la concezione della penna come spada implica sempre mettersi in gioco, agire, collaborare con altri gruppi umani, con partiti, con gruppi, con movimenti sociali affinché qualcosa cambi. Altrimenti ci si limita a scrivere libri, ci si rifugia nel piccolo narcisismo dell’intellettuale, anche se raffinato.

Il ricordo, la perdita di Eduardo Galeano ci impone di fare alcune modeste, non peregrine, considerazioni sui movimenti antisistemici. Altri hanno scritto e scriveranno molto e bene su di lui.

Recentemente, concluso il Fsm [Forum sociale mondiale] di Tunisi 2015, Roberto Savio, un giornalista-saggista molto attivo nel movimento altermondialista, uno dei fondatori del Forum Sociale Mondiale, ha scritto un intervento critico, una sorta di bilancio dello stesso Forum Sociale Mondiale dopo 15 anni di esistenza. Di bilanci ne abbiamo fatto nel passato in vari scritti e interventi. Qui solo alcuni spunti.

Anche se con le sue parole, Savio riprende nel suo articolo la vecchia questione delle due anime del Fsm e quindi del movimento altermondialista. Da una parte, per utilizzare la metafora di un altro fondatore del Fsm, François Houtart, una sorta di “Woodstock sociale” (il Fsm come “spazio aperto”, come luogo di ritrovo e di messa in comunicazione dei tanti attori mondiali contro il neoliberismo), dall’altra, una sorta di Internazionale in cui organizzarsi e in cui assumere direttive, vincolanti per gli stessi attori, per contrastare il neoliberismo e il capitalismo e le sue dinamiche, opprimenti popoli, ambiente, diritti ecc.

Queste due anime rimangono e condizionano e hanno condannato il Fsm nel tempo, dall’iniziale forza e rilevanza mondiali, fino al marzo 2003 (“la seconda potenza mondiale” del New York Times e la retorica e metafisica di cui dicevo in un mio precedente articolo), alla attuale relativa irrilevanza. Come dice Samir Amin, le lotte decisive nel mondo ormai si svolgono fuori dal Fsm. Come afferma Savio, non c’è osmosi tra Fsm e mondo. Non è investita nel suo processo l’intera società civile globale. Alla quale appartengono, aggiunge Emir Sader, anche i partiti e le formazioni, partitiche e di movimento, sostanziate di materiale umano che lotta, pensa, si istruisce, agisce contro il sistema.

Con il rituale autoreferenziale dei Fsm, con i ripetitivi seminari, workshops, di edizione in edizione, mentre fuori nel mondo infuriano, guerre, conflitti, crisi climatica, emergenze sociali, ambientali, democratiche ecc.

Savio incentra molto il suo discorso sul ruolo del Consiglio Internazionale del Fsm. Il suo ruolo si è ridotto a quello del “facilitatore” e non quello, indispensabile, che miri a creare visione e strategia. Che miri ad avere un minimo di “verticalità”, di organizzare, senza venir meno alla “orizzontalità” delle pratiche e delle procedure.

Aggiungo solo, rispetto al discorso di Savio, che molto ruolo al Fsm e al Consiglio Internazionale hanno le élite mondiali, spesso europee e Usa, ma non solo, che possono pagarsi viaggi e soggiorni, soprattutto organismi come Ong ecc. che dispongono di molti mezzi. Movimenti sociali di Asia, Africa e America Latina, ciascuno costituito da milioni, e non migliaia, di aderenti spesso non dispongono dei mezzi necessari, non dico per essere presenti al Consiglio Internazionale, ma anche semplicemente per inviare un delegato a partecipare a una qualche edizione del Fsm.

Un solo episodio, come testimonianza personale, per tornare a Galeano e per concludere.

Al Fsm di Porto Alegre 2005, il quinto della serie, un gruppo di 19 intellettuali, strettamente legati al movimento altermondialista, tra i quali Galeano, Saramago, Amin, Houtart, Ramonet, Savio, Walden Bello, Aminata Traorè, Perez Esquivel, Petrella, Wallerstein, Frei Betto e altri, firmarono un testo, passato come “Manifesto di Porto Alegre”, contenente alcune affermazioni di principio e l’indicazione di 12 punti come programma minimo del movimento altermondialista. Per prendere seriamente di petto la questione “un altro mondo è possibile”, oltre la retorica e l’autonarrazione gratificante di cui sopra.

I punti erano semplici indicazioni di lavoro, non direttive dell’Internazionale. Ma erano punti precisi. La reazione di tanti, non tutti fortunatamente, piccoli liderini di movimento, di Ong ecc., tra i quali molti italiani, autoreferenziali i più, è stata stizzita. Si trattava di discutere, magari di proporre variazioni, integrazioni e via dibattendo. Ma la cosa è stata interpretata come ingerenza, come violazione della Carta dei Principi del Fsm, come lesa maestà democratica e via movimentando.

È l’usuale invocazione della democrazia quando non si hanno argomenti veri, coerenti, e si elude la vera questione: come essere efficaci e antisistemici veramente. Non a parole, una volta raggiunta e superata la soglia iniziale della presa di coscienza, della cultura e del sapere del movimento, della delegittimazione del sistema, della sottrazione del consenso.

Come tentare di cambiare veramente le cose. E in ciò concorrono le parole e le idee, la penna appunto, come quella di Galeano, e la lotta quotidiana, la politica e il movimento contro le brutture del mondo, altrimenti chiamate neoliberismo, capitalismo, imperialismo, razzismo, sessismo ecc. La difficile, faticosa, necessaria sintesi di sempre.

 

 

Milano, 15 aprile 2015

2 pensieri su “Edoardo Galeano, un critico antisistema

  1. Eduardo Hughes Galeano (Montevideo, 3 settembre 1940 – Montevideo, 13 aprile 2015) ha scritto opere fondamentali in cui la narrativa si mescola con l’antropologia, con la storia, con la politica, con l’economia, con la difesa delle identità culturali dei popoli nativi dell’America Latina (ma certamente nati prima che questo nome, imposto dall’esterno, diventasse comune) e dei successivi popoli latinoamericani. Come antropologo non poteva non incontrarsi con le tesi di «Razza e storia» («Race et Histoire», 1952; traduzione italiana di Paolo Caruso, Einaudi, 1967) di Claude Lévi-Strauss, che fu una delle letture che fecero scoprire l’antropologia culturale alla mia generazione, cioè ai giovani degli anni Sessanta e Settanta. In quel libro apprendevamo che non esistevano popoli primitivi e popoli civilizzati, bensì popoli con percorsi storici e culturali diversi, con un diverso senso culturale (e tecnologico) del tempo, ma di pari dignità e, soprattutto, con strutture culturali profonde e mai statiche. La «mondializzazione» aveva pertanto il volto duplice del riconoscimento, rispetto, accettazione delle diversità culturali, da un lato, e della comune considerazione che tutti i popoli sono protagonisti della propria evoluzione culturale, perché la storia, nemmeno per i popoli considerati – erroneamente – fermi all’età della pietra, nella realtà non si ferma mai. Da ciò però derivava anche una lezione oggi del tutto dimenticata, a destra come a sinistra, che è la considerazione che le emigrazioni, soprattutto quelle di massa, sono sempre il segno di una catastrofe e di una sconfitta da un lato, quello delle cause della loro origine; e fonte di altre tragedie dall’altro, dal lato del loro arrivo e del loro impatto con i popoli preesistenti nei territori dell’emigrazione. Le più grandi trasformazioni storiche degli ultimi diecimila anni non sono dovute alle guerre, che pure sono state continue e di grande impatto, ma all’emigrazione. Spesso le guerre sono state solo una conseguenza. La stessa distruzione delle popolazioni native dei continenti americani non era forse dovuta, prima ancora che alle guerre e alle conquiste militari, all’emigrazione? Le emigrazioni a volte hanno seguito, a volte hanno preceduto le conquiste militari, ma in definitiva sono state l’elemento maggiore della trasformazione a lungo termine, anzi permanente, dei continenti. Anche le cosiddette «invasioni barbariche» nei territori dell’Impero romano sono state, più che azioni militari, emigrazioni di popoli interi, e sono le emigrazioni, non le battaglie militari, che hanno in pochi secoli cambiato il volto dell’Europa di allora.
    Oggi, a proposito della nuova emigrazione e del flusso continuo di emigranti in entrata in Europa (e in particolare in Italia, terra di penetrazione anche quando non di permanenza), sia la posizione di chi vuole le porte chiuse, sia quella di chi le vuole aperte o spalancate, sembra avere dimenticato il duplice carattere tragico dell’emigrazione, che comporta modifiche disastrose, fino alla disintegrazione e distruzione, sia delle identità di origine (dei popoli migranti) sia di quelle ospitanti (dei popoli che ricevono i migranti). In questo modo tutte le culture identitarie subiscono un tracollo, con le conseguenze negative sia sul piano delle strutture sociali, con le comunità che perdono la coesione e la ragione stessa di riconoscersi come comunità sociale, sia sul piano delle «strutture» individuali (disintegrazione degli individui in quanto persone dotate di una coesa cultura, psicologia, carattere ecc.).
    Si realizza così una «globalizzazione» del tutto negativa che rende i popoli sempre più simili, ma a un livello culturale (in senso antropologico) sempre più basso. Tutte le strutture fondanti delle comunità (da quelle del nascere e del morire, delle parentele, dell’educazione, del vicinato, del lavoro ecc.) si semplificano e degradano e perdono il valore identitario, il valore culturale profondo, per ridursi a meri tratti comportamentali, senza più coerenza, per lo più sottoposti alla sola logica della convenienza individuale.
    In questa progressiva degradazione sociale le politiche di globalizzazione economica e quelle di globalizzazione dei diritti e delle carità/assistenza cooperano tra di loro, in una stretta complicità che mira a cancellare le diversità culturali che danno identità ai popoli.
    L’utopia costruttivista dell’uguaglianza si trasforma di fatto nella distopia di un’uguaglianza burocratica, degradata e avvilita, in cui si diventa uguali solo a patto di rinunciare a se stessi.

    1. Aggiungo una frase che è saltata nel precedente post:
      Mentre la vera uguaglianza deve farsi carico del riconoscimento e del rispetto delle diversità, almeno di tutte quelle compatibili, e del diritto, prima di ogni altro diritto, di vivere nel proprio Paese, fra la propria gente, con i propri costumi, lingua, tradizioni.

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