La vita è sogno, ma il sogno è morte

nova 2 vita

di Franco Nova

Fin da bambino l’avevano educato con questa cantilena: la vita è sogno. Era stato cullato, coccolato, poi era cresciuto nella bambagia e sempre tranquillo, trasognato. Divenne adolescente poi adulto; gli altri lo sopportavano come un tipo sempre tra le nuvole. Sgobbavano, tiravano avanti con fatica, soffrivano tanto e gioivano poco. E lui ripeteva a tutti: avanti, la vita è sogno! Lo guardavano storto, ma lo prendevano per leggermente ritardato e quindi sorridevano con benevolenza (un po’ forzata) senza mai replicare. Lui non aveva mai sognato nel mentre dormiva, ma questo non lo sorprendeva: se la vita è sogno, che cosa avrebbe potuto sognare ancora?
La vita continuava a passare; in effetti come sogno. Si fece un po’ curvo e brizzolato, quasi bianco, appena un po’ rugoso. E incredibilmente una notte sognò. Si trovò in una foresta di alberi parlanti. Chiacchieravano fra loro, ma quando lo videro arrivare tacquero e una vecchia quercia gli chiese: “sai chi siamo noi?”. “Certamente, siete alberi di varie specie” rispose lui. “Ne sei sicuro?” ribatté un pino. “Che discorsi fate, vi ho sempre visti pur se meno ciarlieri”. “Ma hai sognato tutta la vita, non esserne così sicuro” intervenne un larice. Scosse le spalle e proseguì il cammino. Sentì un fitto borbottio tra folti cespugli; vi penetrò a fatica, andò avanti e si imbatté infine in alcune lepri, che stavano parlando fra loro. Anch’esse smisero di discutere ed una gli chiese: “sai chi siamo noi?”. “Delle lepri, che cosa volete essere!”. “Ne sei sicuro?” sbottò un’altra”. “Adesso basta con queste domande sceme, so bene che siete lepri!”. Una terza lo guardò con commiserazione: “Ma hai sognato tutta la vita, riflettici!”.
Era stizzito e se ne andò, proseguì il cammino. Udì il fresco rumore di un ruscello accompagnato dal bel canto di voce femminile: molto sonora e armoniosa. Vi si diresse con rapidi passi e scorse una bella fanciulla; stava lavando i panni in un piccolo e tranquillo corso d’acqua, intonando una canzone a lui non nota. La fanciulla smise di lavare e cantare, lo guardò, gli sorrise e poi lo apostrofò: “Sai chi sono io?”. “Una fanciulla che non conosco, ma molto carina e con una bella voce”. “Ne sei sicuro?” disse lei, ridendo brevemente con seduttiva allegria. “Ma insomma, siete tutti assai strani quest’oggi, che cosa vi piglia?”. “Beh, sai, hai in fondo sognato tutta la vita, non essere del tutto sicuro di ciò che vedi”. Questa volta, nemmeno alzò le spalle e si allontanò sempre più infastidito.
Sbucò finalmente in un sentiero piuttosto ben ritagliato dentro il bosco; vi aveva appena messo piede che vide al bordo, ben ritto in piedi, un vecchio dall’aria molto stanca, che gli ricordava qualcuno. Lo guardava ma non fiatava. Anche lui lo scrutava, ma voleva essere interpellato com’era accaduto in precedenza. Il vecchio, però, non se ne dava per inteso; e i suoi sguardi cupi con quegli occhi smorti, quasi vitrei, sembravano punture di spillo. Allora prese lui l’iniziativa: “Chi sei? Mi sembra d’averti visto altrove”. Una risata rauca e nello stesso tempo priva di sonorità alcuna gli fu sputata in faccia: “Mi hai visto in ogni attimo del tuo vivere, ma hai voluto ignorarmi. Sono te stesso, quello che ha vissuto al tuo posto nella realtà; che si è ammazzato di fatica, che ha gioito e sofferto mentre tu continuavi a credere alle sciocchezze raccontate dai tuoi genitori sulla vita come sogno. Volevano soltanto che tu non intralciassi troppo il loro operare perché avevano un bel da fare per mantenervi tutti. Solo che tu hai continuato a crederci finora”.
Si svegliò di colpo, tutto sudato e con un senso di terrore. Si alzò precipitosamente dal letto; fu assalito da un violento dolore alla bocca dello stomaco, avvertì l’impossibilità di tirare ancora il fiato. Boccheggiò per un minuto forse, forse meno, infine stramazzò al suolo. Tutto il sogno della vita era svanito all’istante; la realtà della morte aveva preso il sopravvento.

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E si svegliò nuovamente! Restò attonito per alcuni minuti; era tutto sudato perché l’infarto di prima, del sogno precedente, l’aveva colpito a fondo pur non essendo reale. Si sentiva le membra intorpidite, il braccio sinistro gli doleva; no, non era vero, era una semplice sensazione, il sogno era stato di un realismo impressionante, era ancora sotto choc. In un certo senso, aveva l’impressione d’essere rinato. Non riusciva a capacitarsi di essere ancora vivo, si guardava timoroso intorno, temendo di vedere approssimarsi la “triste mietitrice” con la sua falce che secca l’anima. No, era decisamente vivo. Si alzò dal letto, le gambe tremanti. Andò in bagno e si guardò allo specchio; si vide pallido come un cadavere vero. Si tastò il polso, non sentì pulsazioni: “Mio Dio, non sarò mica diventato zombi?”, s’interrogò atterrito. Poi lo sentì, debole; le pulsazioni si andavano però rafforzando ed erano molto accelerate poiché lo spavento non era ancora passato. Rientrò in camera da letto e si scaraventò su una poltrona. Era confuso e meditabondo.
La vita è sogno? Anche la morte lo era stato! Tuttavia, una differenza c’era. Tutti gli eventi della sua vita, mai sognati ma vissuti da sveglio, li aveva sempre pensati come sogni. Così gli era stato insegnato e così aveva accettato di crederli senza discutere l’autorità di chi gli aveva inculcato quella convinzione. Erano quindi eventi vissuti – tanto vissuti che avevano sempre bloccato in lui il ricordo di un qualsiasi sogno da dormiente – e tuttavia vi era passato attraverso sempre pensando che fossero sogni. Ed erano stati simili a bozzetti vissuti in tutta serenità senza mai uno sbalzo di umore: di gioia o dolore, di odio o amore, di ira o bonaria sopportazione. Insomma nessuno stato d’animo altalenante, un mare placido senza la minima onda. Poi era arrivata, mentre dormiva, la morte e questa l’aveva terribilmente scosso, in quel momento era convinto che non sarebbe più stato tranquillo come prima del terribile sogno. Era soltanto un episodio? E perché adesso? Quanti anni aveva? Non lo ricordava, tutto era sempre trascorso così liscio e piatto.
Tornò in bagno e si guardò allo specchio. Sì, indubbiamente il viso era rugoso ma non troppo; tuttavia non aveva mai fatto caso ai visi dei suoi simili. Se la vita è sogno perché occuparsene. E’ vero, molti di quelli che conosceva erano morti, ma nessuno che gli fosse proprio vicino; in primo luogo i suoi genitori, e anche gli altri parenti e amici stretti, tutti vivi. Secondo i suoi calcoli, mai prima fatti, doveva essere appena oltre la mezza età. In definitiva, a meno che non fosse malato – e per la verità non era mai andato da un medico né aveva fatto esami di un qualsiasi genere – quella che veniva indicata come morte, immersione perpetua dell’individuo in un sogno sempre eguale e invariabile, non doveva essere vicinissima. Già, la morte dovrebbe tutto livellare, meglio detto annullare ogni differenziazione del trascorrere del tempo in tanti “fatti”; quelli che aveva appunto vissuto come sogni diversi in successione. Invece, la morte aveva rotto ogni equilibrio, aveva segnato un prima e un poi, si era svolta secondo un seguito drammatico e sconvolgente di accadimenti fino al risveglio improvviso e comunque doloroso, che aveva definitivamente interrotto ogni sereno scorrere dei suoi giorni; almeno così pensava al momento.
Era sorpreso. I sogni vissuti, pur essendo differenti, non avevano creato nella sua vita alcuna increspatura, nemmeno una lieve ondulazione. La morte “livellatrice” aveva fratturato quella superficie liscia, creato degli avvallamenti, anzi crepacci; insomma aveva sconvolto tutto il terreno su cui era sempre stato in cammino sonnolento e pigro. Adesso tutto vibrava, circolava nelle sue vene un liquido che bruciava, scosse elettriche attraversavano non il suo fisico ma la sua mente e la parte che viene detta anima. Una sensazione di tormento, eppur piacevole. La vita è sogno gli avevano detto; ed infatti aveva in pratica sempre dormito, vivendo come era sempre vissuto fino ad allora. Aveva infine veramente sognato, ma era la morte che era sopraggiunta in questa condizione da lui mai conosciuta; e la morte gli aveva donato il soffio vitale, quello che ritma ogni istante del nostro procedere, che rischia di alterare ogni ordine di successione lenta e prevedibile dei vari momenti vissuti. La sorpresa aveva fatto irruzione nella sua vita, una sensazione mai prima provata. Allora la vera vita è la morte? Che contraddizione insolubile! Doveva riordinare le idee.

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I suoi genitori abitavano proprio sotto di lui. Gli sembrò giusto cominciare da loro il suo “nuovo” attraversare i giorni; chi infatti lo aveva abituato a pensare la vita come un lungo sognare? Scese le scale e suonò il campanello. L’attesa fu abbastanza lunga; sentì la madre che diceva “aspettate un momento”. Sorrise; non attendevano una sua visita e probabilmente dovevano vestirsi per ricevere un possibile sconosciuto. Alla fine la madre aprì: “Ah, sei tu, abbiamo dovuto fare tutto in fretta e furia; l’appartamento e noi stessi eravamo in completo disordine”. Entrò, gli venne incontro anche il padre ancora in pantofole e senza calze ai piedi. Si diressero tutti in cucina, dove c’era una pentola, il cui liquido bolliva. Si avvicinò e sentì l’odore della pasta e ceci che stavano preparando. Guardò l’orologio e si accorse che era passato mezzogiorno; veramente per lui tutto era un sogno! Si era svegliato per il terrore poco dopo le otto e adesso erano trascorse quattro ore; la sua sensazione era di una al massimo. Comunque non disse nulla e affrontò subito il discorso.
Non raccontò con precisione lo svolgimento degli avvenimenti. Si soffermò soltanto sul brusco risveglio e, sia pure in modo confuso, fece capire che aveva sognato per la prima volta in vita sua; disse che tutto gli era sembrato estremamente reale, più reale della sua vita. Aggiunse che riteneva tale impressione un errore evidente; il sogno si fa dormendo, la vita da svegli. Chiese in tono gentile e affettuoso (un affetto un po’ ipocrita): “Perché mai mi avete insegnato che la vita è soltanto un lungo sognare?”. Lo guardarono sorpresi e sconcertati. Gli risposero che aveva capito male; gli avevano semplicemente consigliato di vivere la vita come fosse un lungo dormiveglia proprio per evitargli quanto essa riserva a chi l’affronta con ansia, con eccessiva fretta di viverla. Non bisognava pretendere di goderla attimo per attimo, ma diluirla in tempi da sogno e incantesimo per non soffrire troppo, non avere grandi scossoni emotivi. La vita è senza dubbio molto reale; è però necessario affrontarla con distacco, e nessun distacco è maggiore di quello procurato dalla sensazione di sognare.
Il “nostro” rimase annichilito. Allora la sua vita non era stata un sogno; i suoi genitori erano semplicemente convinti che essa andasse affrontata come tale. Divenne molto serio e tutto sommato guardò storto entrambi. Cercò di ricordare bene che cosa gli era stato detto in merito; non poteva più esserne sicuro e tuttavia non fu convinto che gli fosse stato semplicemente insegnato a vivere placidamente come se stesse sognando. In ogni caso, inutile ribattere; i genitori erano molto convinti di quanto gli avevano appena riferito. Stette ancora un quarto d’ora, parlò del più e del meno e poi li salutò dicendo loro che sarebbe andato anche lui a pranzare. Salì nel suo appartamento, ma si diresse verso la stanza da letto poiché sentiva l’impellente bisogno di riflettere sulla nuova situazione venutasi a creare quando ormai la metà, e qualcosa in più, della sua vita era trascorsa. Forse sarebbe stato utile compilare l’elenco di tutto quanto non aveva fatto in vita sua, pensando che in fondo era un semplice sogno; per cui che si impegnasse o meno in date esperienze, effettuasse o meno date scelte, si immergesse o meno nel rutilante fervore delle opere, ecc. era esattamente lo stesso. Questo aveva sempre creduto! Anche l’amore era stato affare di qualche breve istante, poiché un’eccitazione troppo forte avrebbe rischiato di farlo uscire dai binari che conducevano ad un bacino d’acque tanto calme da parere stagnanti.
Una vera fregatura! Se la vita era qualcosa di estremamente reale, da vivere con spirito creativo e per ciò stesso inquieto, aperto all’irruzione della sorpresa e al mutamento improvviso, la morte doveva allora riprendere la sua funzione di livellatrice, di spegnimento di ogni sussulto, di ogni onda corrusca? Sarà, si disse; per lui però la morte, arrivata con il vero sogno, quello che penetra nel sonno e lo spezza in tante parti, aveva avuto tutt’altro significato, lo aveva almeno per qualche ora scosso dal languido torpore e lo aveva dunque consegnato alla realtà della vita così come questa è. Per capire infine la vita, e il lungo equivoco intercorso tra lui e i suoi genitori, era stato necessario l’intervento sognato della morte. E tuttavia era stato proprio un vero sogno, il primo sogno reale della sua vita. In assenza di quest’ultima, nessuno può garantire che si sogni ancora qualcosa; solo la vita dona il sonno come mezzo per riviverla giorno dopo giorno con energie rinnovate. E solo nel sonno, in quel sonno che è parte della vita, suo ristoro, si può sognare; e nel sogno si era verificata l’irruzione della morte. Una irruzione subordinata al sogno, dunque al sonno, quindi alla vita che consente il sonno. La morte si era presentata a lui solo perché la vita glielo aveva permesso sotto forma di sogno. Una morte coartata dalla vita, da quest’ultima obbligata a farsi viva con lui per smuoverlo infine dal suo pigro adagiarsi. La vita si era stufata del suo continuo sognarla e gli aveva ricordato, tramite l’intervento della morte in un vero sogno, che pretendeva d’essere infine vissuta.
Ecco il significato reale del suo sogno: “svegliati e canta”, maledetto, ricordati che sei mortale e stai sprecando il tempo concessoti in questo mondo per una “sosta” di brevità sconsolante. Rimase nella sostanza male. Adesso aveva finalmente compreso che la vita non è un semplice sognare. E per insegnargli questo gli aveva inviato in sogno la “scossa” vitale, rappresentata dalla morte. Provò pena per questa poveretta, degradata ad annunciatrice di vita, lei che annulla ogni vita e per sempre. E nemmeno bastava. La vita gli chiedeva d’essere vissuta perché ogni attimo perso non è goduto. Che banalità! Veniva preso per un animale qualunque. Solo le bestie possono godere veramente dell’attimo presente, di ogni attimo che diventa presente. Il pensiero fugge da questa ristrettezza: si immagina una lunga serie di attimi futuri di cui non conosce affatto gli accadimenti. Saranno belli, brutti, né belli né brutti; e chi lo sa? E perché li si dovrebbe godere ad uno ad uno quando ognuno d’essi parla di una successione futura di altri accadimenti del tutto ignota? Va bene, è logico che se in quel dato momento si vivrà un bell’evento, lo si gusterà, si avvertiranno sensazioni di pienezza e di…….. “vitalità”. Salvo pensare che proprio non si sa un bel nulla di ciò che seguirà; sarà necessario essere continuamente sul “chi va là”, pronti ad improvvise “svolte”. Nessun godimento pieno, giacché si è inconsapevoli della pena che potrebbe trovarsi dietro l’angolo; ma nemmeno un lutto continuo se si incappa in una evenienza dolorosa, poiché pur essa non è detto che si protragga negli avvenimenti che seguiranno.

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Guardò l’orologio: le quattro del pomeriggio. Otto ore erano passate dal suo angoscioso risveglio in compagnia della morte. Pensò a che cosa si sarebbe scritto in un racconto o in un romanzo: “furono le otto ore più importanti della sua vita, quelle che gliela cambiarono improvvisamente e definitivamente”. Che sciocchezze si scrivono! La sua vita non poteva proprio cambiare in nulla. E nemmeno il suo carattere. Dopo decenni di vita, e di suo adattamento ad essa, tutto muterebbe improvvisamente? Ma non raccontiamo scemenze, per favore! Sarebbe stato torpido e un po’ sonnolento come lo era sempre stato. E sempre sarebbe rimasto un po’ svaporato di testa come se quel che gli capitava fosse stato un sogno. Semplicemente, adesso sapeva che non era un sogno. Sapeva che lui era lento in tutto ciò che faceva perché aveva sempre smorzato le sue emozioni dicendosi: tanto è un sogno. Va bene, adesso sapeva che non lo era, ma figuriamoci se all’improvviso poteva diventare veloce, pronto alla reazione, che implica il sussulto dell’anima, la scossa del cervello, la decisione rapida e sicura quando ci si imbatte in qualcosa che non ci si aspetta minimamente. Nemmeno per sogno…..; guarda un po’, non aveva mai pensato a questa espressione d’uso comune. Nel sogno può arrivare un “terremoto” com’era stata la morte, che gli aveva scombinato l’ordine della vita. Poi, una volta ripresa questa, tutto stava rientrando nel solito alveo. Quindi, in fondo è vero: nemmeno se nel sogno ti arriva lo sconvolgimento, questo muta in qualche modo la tua vita.
Bene, bene, sarebbe rimasto eguale a se stesso. E meno male; rabbrividì al pensiero che avessero ragione gli scrittori, che quelle otto ore passate sotto l’influsso del sogno sconvolgente potessero cambiare la sua vita; nel senso che mutassero da cima a fondo il suo carattere, la sua “natura” sognante. Dio ne scampi e liberi! Una fatica del demonio! No, nulla, lo sentiva bene in sé, tutto si stava sistemando e tutto avrebbe ripreso il ritmo di sempre. Avrebbe vissuto come in sogno, ma con la piena consapevolezza, ora, che invece questa era proprio la sua vita, la vita di uno che la vive come fosse un sogno. Qualcosa di veramente riposante. In fondo, ricordava che, prima, quando gli capitavano eventi negativi, li viveva come fossero incubi. Adesso sapeva invece che il negativo fa parte del vivere comune; solo che lo poteva attraversare e superare come in fondo stesse sognando, giacché il suo carattere a quest’abitudine si era conformato. Era quasi in estasi. Una situazione pressoché perfetta.
Ripensò alla morte, alla funzione decisiva che aveva svolto in tutto questo. Invece di pena, come prima, provò adesso quasi tenerezza. Era stata buona. Normalmente, è terribilmente egocentrica, non accetta compromessi con gli altri, vuole quello che vuole e nessuno la distoglie dal suo intento. La medicina pensa di avere fatto passi da gigante sconfiggendola in certi casi. Vittoria effimera. La morte, sorniona, si “ritira” alla guisa delle truppe russe guidate da Kutuzov mentre Napoleone avanzava orgoglioso e a lungo convinto del successo finale. Intanto, essa distrugge tutte le risorse, gli alimenti, nei “territori” che l’avanzata della vita “medicalizzata” sta conquistando. Alla fine, quando si accorge che l’azione di accurata desertificazione, se non addirittura di devastazione, delle scorte di vita ha indebolito l’“avversario”, lo colpisce, subitamente o con più o meno lunga offensiva, fino alla sua resa definitiva. D’accordo, può perdere qualche anno in queste “operazioni strategiche”, ma che le importa! Ha poi tutta l’eternità a disposizione per godere dell’autentico trionfo, che ogni volta è indefettibile e senza possibilità di riscossa per lo sconfitto.
Nel mentre si smuoveva in lui questo turbinio di pensieri, si era meccanicamente vestito, pettinato, profumato. Quasi senza esserne consapevole aveva deciso di uscire per cena. Non aveva molta voglia di vedere gente, ma ne aveva ancora meno di restare a casa mettendosi a cucinare. Guardò fuori della finestra e vide che aveva cominciato a piovere. Fu per un momento indeciso, poi prese l’ombrello dall’armadio dove lo teneva abitualmente e si diresse alla porta. Fece per uscire, poi si fermò con un sorriso tra l’ironico e il benevolo: si inchinò e fece cenno a “qualcuno” di uscire per primo. Non c’era però nessuno salvo che nella sua scherzosa finzione; immaginò di cedere il passo alla morte, che si era gentilmente prestata ad impartirgli quella notte una lezione di vita. Chiuse a chiave la porta e scese le scale. Iniziava così la sua “nuova” esistenza, che sarebbe stata tale e quale alla precedente, soltanto arricchita dell’insegnamento impartitogli nel sonno dalla morte, una volta tanto ancella della vita e non sua “pietra tombale” definitiva.

68 pensieri su “La vita è sogno, ma il sogno è morte

  1. Di nuovo la tabuizzazione della morte nella nostra mentalità di ceto medio ma ” la sua ‘nuova’ esistenza, (che) sarebbe stata tale e quale alla precedente, soltanto arricchita dell’insegnamento impartitogli nel sonno dalla morte”. L’ex bambino “cullato, coccolato, cresciuto nella bambagia e sempre tranquillo” all’imbocco di “un sentiero piuttosto ben ritagliato dentro il bosco” incontra tra varie figure la propria natura.
    Di fatto la morte (i morti) ci circonda dappertutto, travestita dall’immaginario dei media, solo un viaggio nell’inconscio la smaschera come vuota realtà: “Fece per uscire, poi si fermò con un sorriso tra l’ironico e il benevolo: si inchinò e fece cenno a “qualcuno” di uscire per primo. Non c’era però nessuno salvo che nella sua scherzosa finzione…”.

  2. Questo racconto affronta temi filosofici presentandoci un personaggio che chiamerei *senile* (senza dare al termine alcuna connotazione negativa). Il narratore-persoaggio mira ad un bilancio complessivo, finale di un percorso di vita. Discute in sostanza della sua giovinezza, delle illusioni. E prende drasticamente le distanze. (Capita spesso anche nella vita di sentire dei vecchi ipercritici rispetto alle loro passate esperienze o a passioni ormai “raffreddate”. La cosa personalmente mi ha sempre insospettito, non la ritengo ovvia, naturale, pur essendo io stesso vecchio).
    Nel caso del racconto tutto appare molto “caricato”. Ci si può dipingere tanto ingenui e idealisti e per giunta ancorati alle sole «sciocchezze» raccontate dai genitori? E perché poi esclusivamente questi (i genitori) sarebbero gli unici “responsabili” del procedere sonnambulico nella vita dell’io che narra?
    Colpisce anche l’obbedienza cieca a quel che «gli era stato insegnato», la sottomissione assoluta all’autorità (indefinita). Che non viene mai indagata e quindi “preservata” dall’esame critico.
    Il bilancio perciò tende al contrasto netto (ieri/oggi, illusione massima/realtà indiscutbile). La metamorfosi è improvvisa e radicale. Mancano sfumature, incertezze, commistioni. Possibile che, prima di questo intervento da *deus ex machina*, «tutto [fosse] sempre trascorso così liscio e piatto»? Possibile che solo la morte (o la morte sognata o il pensiero della morte) rompa di botto «ogni equilibrio» e segni « un prima e un poi»?
    Ne risulta un io pesantemente determinato da Assoluti (morte o vita) senza possibilità di riscatto o ribellione. È solo la morte a donare a questo io «il soffio vitale» della coscienza e «almeno per qualche ora [a scuoterlo] dal languido torpore». Oppure si ha «una morte coartata dalla vita», che si presenta, tra l’altro, solo «perché la vita glielo aveva permesso sotto forma di sogno».
    Assente è l’idea (o l’ipotesi) che la morte conviva fin da subito con la vita; e la logori o sia arginata in qualche modo dall’io (spesso in alleanza con altri). O che lo stesso io possa abituarsi a convivere con essa e con la vita almeno per quel che è possibile. (Qui dovrebbe parlare Mayoor che se ne intende più di me di certe “preparazioni” alla morte saggiate dai pensatori orientali…). Come fondo filosofico del racconto, dunque, intravvedo una concezione “non dialettica”: o c’è la vita che “comanda” alla morte o viceversa. Il che mi fa pensare a quell’«essere per la morte» di matrice heideggeriana, di cui, per quel che capisco di filosofia, diffido.
    Un’altra cosa che colpisce è la svalutazione della funzione del sogno. Che, almeno in parte (se non vogliamo appiattirci su Freud…) è espressione cifrata o confusa di desideri e – come diceva Leopardi – stimolatore di opere, di esperienze, di gesti amorosi. Il narratore/personaggio li azzera. E perciò lo trovo somigliante all’*inetto* di Svevo e di molta letteratura del primo Novecento che resta in una sorta di limbo impossibile, tra la vita e la morte. Non vuole abbandonarsi o provare a vivere, «per cui che si impegnasse o meno in date esperienze, effettuasse o meno date scelte, si immergesse o meno nel rutilante fervore delle opere, ecc. era esattamente lo stesso». Né vuole cedere all’amore, cercare d’ottenerlo, provarlo: «Anche l’amore era stato affare di qualche breve istante, poiché un’eccitazione troppo forte avrebbe rischiato di farlo uscire dai binari che conducevano ad un bacino d’acque tanto calme da parere stagnanti». È persino scettico verso l’arte (del narrare) nel mentre un po’ la vagheggia: «Pensò a che cosa si sarebbe scritto in un racconto o in un romanzo: “furono le otto ore più importanti della sua vita, quelle che gliela cambiarono improvvisamente e definitivamente”. Che sciocchezze si scrivono!».
    In questo limbo parrebbe esserci posto per il pensiero: «La vita gli chiedeva d’essere vissuta perché ogni attimo perso non è goduto. Che banalità! Veniva preso per un animale qualunque. Solo le bestie possono godere veramente dell’attimo presente, di ogni attimo che diventa presente. Il pensiero fugge da questa ristrettezza: si immagina una lunga serie di attimi futuri di cui non conosce affatto gli accadimenti».
    Neppure al pensiero però cede nel timore che, proiettandosi il pensiero in «attimi futuri», di cui «non si sa un bel nulla», sarebbe «necessario essere continuamente sul “chi va là”, pronti ad improvvise “svolte”». E così –è l’aspetto per me quasi “orientale” del racconto – lo sbocco è una sorta di atarassia: «No, nulla, lo sentiva bene in sé, tutto si stava sistemando e tutto avrebbe ripreso il ritmo di sempre. Avrebbe vissuto come in sogno, ma con la piena consapevolezza, ora, che invece questa era proprio la sua vita, la vita di uno che la vive come fosse un sogno. Qualcosa di veramente riposante».
    Ad essere fuori gioco in fondo mi pare il contatto con gli altri che trasforma (in bene o in male, eh!). E non è un caso che gli unici “altri” che appaiono fugacemente nel racconto siano i genitori.

    P.s.

    Si tenga sempre presente che quanto qui scrivo sull’io narrante (di fatto un personaggio) non è automaticamente riferibile all’autore, che è/non è il personaggio.

  3. La dialettica nel racconto c’è, eccome! Nella forma dell’astrazione del concreto, prima. E poi, dopo la “rivelazione” del sogno, nella forma del “concreto dell’astrazione”. Segno che, la dialettica, è il movimento del reale.
    E … lasciatemi divertire!

  4. …Secondo me il protagonista di questo racconto di Franco Nova soffre di una vera e propria patologia in quanto narcisista flemmatico (ma finiremo per diventare tutti così se un giorno la realtà ci spaventerà troppo? Soprattutto i giovani, frastornati da un mondo di finzioni?)…Si è rifugiato nella sua convinzione, mediata dai genitori, secondo la quale la vita è sogno, di modo da farla scorrere senza scossoni, su binari tranquilli, senza mai mettere in discussione l’autorità, tutta concentrata su se stessi. “…non aveva mai fatto caso ai visi dei suoi simili…E’ vero molti di quelli che conosceva erano morti, ma nessuno che gli fosse proprio vicino; in primo luogo i suoi genitori, e anche gli altri parenti e amici stretti, tutti vivi…” Certo il tipo che chiude tutte e due gli occhi davanti alla tragedia dei barconi… Ma un bel giorno, non nella realtà bensì nel sogno, la vita con le presenze di sempre, gli appare ben più complicata, per la sua duplice problematicità: la necessità di porsi delle domande (“sei sicuro che sono un larice?”, nulla è più scontato) e la visione della morte, nel riconoscersi in un vecchio provato e in fin di vita. Ridestandosi, per il trauma è colto da una sorta di infarto e rimette in discussione il suo schema di vita, che l’aveva privato della vera gioia di vivere e della sorpresa di ogni attimo, nella consapevolezza che tutto ha un termine…è grato alla morte che, tramite il sogno, l’ha risvegliato alla vita…Ma l’intero percorso, crisi e riposizionamento, ha la durata di poche ore, perché poi il nostro eroe ritorna tale quale a prima: meglio per lui continuare a considerare la vita un sogno, meno coinvolgimento, meno sofferenza…cavallerescamente cede il passo alla Signora…scuoterlo è impossibile. Tutte le tempeste finiscono in un bicchiere d’acqua…

  5. Sono sempre più partigiana in questi “fantastici” appuntamenti con i racconti di Supernova. Cioè, voglio dire che non posso commentarli come all’inizio facevo, pur sempre poco obiettiva, vista l’attrazione immediata, data dalla grande conoscenza da parte di Novadella “razza umana” e le sue relazioni con le cose della morte, della vita, sogni e incubi tutto compreso. Mi limiterò quindi a dire quanto e come sia centrato , o dritto al punto, il commento di Annamaria (altro mio debole per cui ormai ho perso del tutto obiettività, visto che sa parlare dritta alla mente e al cuore senza troppi inutili tornanti a sfoggio di chissà quali analisi in cattedra). Il problema e soluzione e dissoluzione, di ognuno dei racconti di Nova, è nella sua biografia. Che la racconti o meno direttamente lui (come uno stralcio che lascio dopo i miei saluti) , si ascolta, come una musica data dal leggero o tumultuoso ondeggiare del mare sulla riva, un tema ricorrente in una mille e una notte di infiniti racconti. Ogni personaggio che mette in scena con le cose della vita, è frutto della sua conoscenza, dei suoi studi, del suo amore per i dannati della terra, o perlomeno di base sicuramente per la loro rappresentazione. Non c’è da analizzare l’autore , la struttura dei racconti o la destrutturazione dei personaggi via via messi in scena: sonoi limiti che ha studiato pelo e contropelo della razza a cui apparteniamo, sogni e realtà compresi, che fanno lavorare dentro se stesso il lettore, in una combinazione di infinita di individuo/gruppo e ritorno. Parti a particelle , comparse, scomparse…
    ciao

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    “C’è un lato che credo non sia stato colto; ma ho fatto di tutto per nasconderlo. Salvo che in un punto: l’uomo che si ritiene divenuto calabrone (e con quel pungiglione odioso che può richiamare “qualcos’altro”) era abituato ad andare in un alberghetto miserabile con donne a pagamento. Mai andato in vita mia con prostitute; e mi mettono in difficoltà le donne che non hanno rispetto per il proprio corpo. Non mi piacciono gli uomini che hanno solo bisogno di sentire il calorino del corpo di una donna e poi….. ecc. ecc. Quindi il protagonista del racconto non mi sta per nulla simpatico. Questa scarsa simpatia si riverbera sulla donna. Qui l’ho resa mendicante perché non sopportava gli esseri umani che la circondavano. Io avevo però in testa certi sessantottardi “di famiglia agiata” che si rendevano “proletari” perché volevano diventare come gli operai, come i mitici “redentori” dalla società capitalistica e per ciò stesso infame, ingiusta, sporca e …. non so quante altre cose laide. Sono divenuto comunista nel 1953 (e non posso qui raccontare le contingenze specifiche) senza nutrire grandi illusioni sui redentori di un qualsiasi genere. Inoltre ero figlio di medio-alta borghesia industriale, giravo senza rimorsi e pentimenti con belle auto, andavo nei migliori ristoranti, conducevo una vita più che decente. Non mai però il lusso sfrenato (che odiavo tuttavia per semplici ragioni “estetiche”); mi piaceva molto lo studio e il pensare. Non pagavo, come facevano allora gli uomini “abbienti”, qualche abito o calze di seta o profumi o, nei casi “migliori”, alberghi e una brevissima vacanza alle “banconiere” (quelle dei bar), alle “sartine” (ragazze nelle sartorie), alle “barbierette” (le inservienti dai parrucchieri), ecc. per avere facili “amori” (che parola inappropriata!). Poi ho scelto l’Università, abbandonando l’industria, e così mi sono un po’ impoverito (cioè non ero più pieno di “schei”). Non ero portato all’industria e al commercio, mi sentivo fortemente interessato, come già detto, agli studi ecc. Gli esseri umani non mi sono mai stati insopportabili (salvo i fessi, i presuntuosi, gli arroganti, ecc.); ed infatti ho sempre socializzato e conosciuto centinaia di persone con grande mio piacere e gusto dello stare insieme. Quindi…. se ne traggano le conclusioni.”
    Franco Nova
    20 marzo 2015
    https://www.poliscritture.it/2015/03/19/rileggere-la-metamorfosi-cambia-qualcosa/#comments

  6. LEGGENDO E. DICKINSON. CONSONANZE E DISSONANZE SUL TEMA DEL SOGNO

    531
    Noi sogniamo – ed è un bene che sogniamo –
    fossimo svegli ci farebbe male –
    ma dal momento che è un gioco – uccidiamoci,
    urliamo – tanto è solamente un gioco –
    Che male c’è? Si muore – in apparenza –
    questa è una verità di sangue –
    ma noi moriamo in teatro –
    e il teatro non muore –
    Attenti a non sussultare –
    che nessuno apra gli occhi –
    perché il fantasma non si riveli errore
    e la sorpresa livida
    non ci raggeli in stele di granito
    con scritto sopra il nome – ed una data –
    e magari una frase in egizio –
    E più prudente sognare –

    ( Da. E. Dickinson, Tutte le poesie, pag. 595, Meridiani, Mondadori, Milano 1997)

    1. Sì, consonanze: “è un bene che sogniamo” (con la ‘i’? [*]), era un bene per il bambino poi protagonista del racconto di Nova.
      E le dissonanze? se apriamo gli occhi “la sorpresa livida/ non ci raggeli in stele di granito” (lapide sulla tomba) avverte Dickinson, invece, ed ecco la dissonanza: ” la sua “nuova” esistenza, (che) sarebbe stata tale e quale alla precedente, soltanto arricchita dell’insegnamento impartitogli nel sonno dalla morte, una volta tanto ancella della vita e non sua “pietra tombale” definitiva”.
      Non l’essere per la morte, ma il banale e sereno esaurirsi di ogni cosa, perchè, altra consonanza: morire è una verità di sangue, ma “noi moriamo in teatro –/e il teatro non muore – “. Sangue vs teatro: “Fece per uscire, poi si fermò con un sorriso tra l’ironico e il benevolo: si inchinò e fece cenno a “qualcuno” di uscire per primo”.

      APPENDICE

      1.
      * Nota di Grammaticus

      Coniugazione del presente indicativo:
      io sogno
      tu sogni
      egli sogna
      noi sogniamo
      voi sognate
      essi sognano

      2.
      Cristiana Fischer

      Spiegato il motivo della presenza della i va detto che la norma, oggigiorno, è relativamente elastica in merito. Patota, in appendice alla grammatica di Serianni, scrive: «Nei verbi con tema uscente in -gn (come […] bagnare, sognare, vergognarsi, regnare ecc.) alla quarta persona di indicativo e congiuntivo e alla quinta del congiuntivo (bagniate / bagnate) la i della desinenza viene assorbita [nella pronuncia] dal suono palatale precedente. Può essere opportuno mantenerla graficamente per ribadire la solidarietà di quelle forme con tutti gli altri indicativi e congiuntivi in -iamo, nei quali la i ha conservato la sua piena riconoscibilità fonetica (amiamo [a’mjamo]) o è indispensabile come segno diacritico (leggiamo [led’dZamo]). La norma grammaticale è comunque tollerante in proposito, sicché forme come bagnamo o bagnate non potrebbero essere considerati errori».

      http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/digramma-gn-presenza-forme-verbali-guadagnia

      3.
      Emilia Banfi

      Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte.
      (Edgar Allan Poe)

  7. Al carissimo Nova che ammiro tanto, dico che questa volta avrebbe potuto sorprenderci di più. Penso che abbia spiegato un po’ troppo lo stato d’animo di quest’uomo , la sua vita di sogno (e non da sogno) , il suo cullarsi in questo stato senza mai affrontare le emozioni della vita comprese quelle che ci danno la voglia di continuare a vivere sapendo che arriverà la morte che lui trova solo nel sogno del dormire. Ragazzi quant’è importante dormire! Sapete anch’io un giorno feci un sogno che mi cambiò la vita, ma essendo donna era tutta un’altra cosa. Ma non ve lo racconto. Apprezzo l’originalità del racconto e come al solito ne aspetto un altro. ciao e grazie

  8. “Mi hai visto in ogni attimo del tuo vivere, ma hai voluto ignorarmi. Sono te stesso, quello che ha vissuto al tuo posto nella realtà… ”

    Il racconto di Nova è come un gioco di specchi, nulla è reale, purché non ci si creda molto.
    Interessante e intrigante, come l’ambivalenza nell’immagine di apertura: che l’uomo volga il viso o le spalle a quel bagliore, si presta volentieri a qualsiasi interpretazione soggettiva.

  9. …quante cose orribili della realtà non riusciamo spontaneamente a vedere, né ad accettare e tanto meno troviamo in noi la forza, se necessario, di combatterle…Sarà per questo che l’uomo ha escogitato lo specchio (lo scudo di Perseo ad evitare lo sguardo pietrificante della medusa), il sogno e il teatro? Preparazione alla morte ? Prove di morte indolore? Ma, come dice Emily Dickinson, “attenti a non sussultare/ che nessuno apra gli occhi” perché il rischio è davvero mortale. Il protagonista del racconto di Franco Nova, una volta “scoperta” la realtà si rifugia comunque nel sogno, cioè in una vita vissuta come un sogno, escludendo di fatto il mondo intero. Ma il vero sogno, anche se incubo, attinge a una linfa segreta che agisce a favore della vita e, credo, della verità…

  10. scrivere questo racconto mi ha forse “divertito” più che non scriverne altri. Ma chi scrive vede le cose in modo diverso da chi legge. E vedo che non è piaciuto molto; è stato anche velocemente “sorpassato”. Per me questo racconto è più chiaro di altri, ma è abbastanza complesso nel continuo scambio di posizioni tra vita e morte, gli unici veri protagonisti del racconto; il resto sono “ombre”, necessità di metterle altrimenti non facevo un racconto ma un saggio tra il filosofico/politico e il sociologico. Mi spiace che solo un amico trevigiano – che però non è qui intervenuto – abbia colto il “gustoso” accenno alla morte come Kutuzov con Napoleone (la vita in apparente trionfo); anche perché chiariva abbastanza il significato del racconto. Adesso ne sto facendo uno (che è ancora più complicato e non so se riuscirò a dargli forma pubblicabile) su Nulla e Tutto (e Buio e Luce). Appena avrò tempo, magari tornerò su questo con maggiore ampiezza. Spero di poterlo fare perché qui è sempre un casino immane di cose da fare.

  11. prego comunque i lettori di voler capire che nei miei racconti non parlo degli “altri” ma nemmeno di me stesso. A parte i primi 13 anni, in cui sono stato molto solo e isolato, sono sempre stato in contatto aperto con gli altri. Ne ho conosciuti a centinaia, a migliaia; e ovviamente sono stato in contatto con me stesso (senza però conoscermi, lo ammetto). Ma non parlo mai di nessuno di questi; accenno a finti personaggi demenziali e pazzolici, fuori di ogni realtà. Essi esistono solo per dare consistenza di racconto a ciò che allora sarebbe tutt’altra cosa. Gli unici protagonisti dei miei racconti sono la Vita e la Morte e, tramite una serie di traslazioni ancora più complicate, sono la Rivoluzione e la Restaurazione. Tenetene conto nel leggermi.

  12. Invece l’ho trovato divertente e anche molto ironico, soprattutto nel rapporto con i genitori (come a dire che talvolta è meglio diffidare di quanto pensiamo di aver compreso), ma anche per il finale.

  13. … Franco Nova, mi è piaciuto moltissimo anche questo suo ultimo racconto con quel riferimento alla invincibilità della morte (che se trova ostacoli sul suo cammino, logora come il generale russo con l’armata napoleonica, sino a spuntarla)…In questi giorni, secondo me, siamo tutti colpiti dalla terribile sorte delle ottocento persone sprofondate nel mare…la morte all’improvviso e subito…e altri uomini non ne sono estranei…E poi ci sono i progressi della medicina che permettono “qualche giro in più intorno alla fossa” a chi se lo può permettere…
    La Signora è invincibile ed anche giusta?

  14. Chi crede in Dio non può che credere che la Morte sia giusta, comunque avvenga, anche fra le più atroci sofferenze. Io non sono credente; anzi non credo nemmeno nella “non credenza”. Allora sono agnostico? Beh, non so; ho la sensazione che l’agnostico sia convinto della giustezza del dubitare; io non credo nemmeno a questo, non credo che sia giusto dubitare. Semplicemente, non sono mai riuscito a pormi il problema di Dio, dell’esistenza di qualcosa chiamato anima, di un’altra vita, ecc. ecc. Quindi non riesco a pormi bene nemmeno il problema della morte; e tanto meno quello della vita e soprattutto di questo essere strano che si pone i problemi della vita e della morte e ci fa una montagna di ragionamenti sopra senza mai arrivare a nessuna conclusione purchessia. E non lo dico con ironia e disprezzo; anzi ritengo molto positivo che non si giunga ad alcun risultato e che i vari pensatori vi si sbizzarriscano sopra in modo estremamente dotto e con grandissima profusione di intelligenza, ma senza risolvere (per fortuna) nulla. Resta il fatto che ho timore di dover soffrire morendo e non so se ci sia una transizione che potrà apparirci come un lungo incubo. Quelli che sono tornati dalla morte dicono mirabilia del mondo meraviglioso in cui si sono trovati. Ma se sono tornati, ciò significa che in realtà non erano morti e quindi non erano affatto nella “fase di transizione” (se esiste questa fase ovviamente). Quando ci saremo, se ci saremo, come sarà? Boh! Comunque alla fine saremo nella condizione di autentici cadaveri. Se c’è qualcosa dopo, mi sembra inutile stare lì a pensare che cosa potrà essere. Lo si saprà solo al momento. Se, come tendo a credere, non ci sarà poi più nulla……sì so cosa si dice: non sentiremo nulla, non sapremo nulla, tutto sarà nulla. Quindi non dovremmo preoccuparci di nulla. Sì va bene, sono d’accordo: ma è precisamente il pensiero che divento nulla e che non sentirò più nulla che mi rompe il c…..adesso. Dopo non sentirò più nulla, ma intanto adesso mi devo sorbire il pensiero che fra un po’ non sentirò più un bel niente. E mi rompe, mi rompe tantissimo. Quindi io non so se la morte sia giusta o meno; so che il pensiero della morte, in quanto pensiero dell’annientamento di ogni sentire, è quanto di più insopportabile ci sia. Non me ne frega nulla se la morte è giusta o ingiusta. Dico solo che non la capisco, perché mi sfugge la comprensione di non avere più alcuna sensazione, di non sentire nulla. Non riesco a capire perché non sono come i miei gatti che sicuramente non hanno simili pensieri; almeno ne sono convintissimo. Boia d’un mond leder, io vorrei continuare a sentire; non sarà gran che avere la sensazione d’essere cadavere che pian piano si decompone e alla fine diventa scheletro ben ripulito. Mi rendo anche conto che i maledetti vermetti che mi vengono addosso possono anche farmi soffrire il solletico perché non sono in grado di spazzarmeli via. Ma insomma…..piuttosto che niente, meglio tutto questo. Accidenti, voglio sentire qualcosa insomma! E che diamine, dopo lo so, l’ho capito: non avrò più nessuno di questi pensieri. Ma intanto…… una bella fregatura. Certo; se uno crede in Dio, è salvo. Ma deve crederci sul serio e non so quanti ne siano veramente convinti. Se lo fossero, non avrebbero paura di parlare della morte. Ed io infatti li provoco: parlo spesso di morte con loro. E mi guardano male, mi dicono: ma dai smettila, adesso pensiamo alla vita. Eh, cari voi, vi ho beccati: avete tanta paura di finire nel nulla, tanta quanto me. E allora, che c…. vi serve credere in Dio? Per me, una simile credenza ha senso se salva dal pensiero del nulla. Me se voi in realtà questo pensiero ce l’avete, e preferite soprassedere da ogni discorso sulla morte, allora la vostra credenza veramente non m’interessa; l’unico interesse sarebbe pensare che dopo si continua. Non si sa bene che cosa, ma si continua, il nulla è scansato: e per l’eternità, pensate che meraviglia! Altrimenti, se così non è, continuo a tenermi la mia incomprensione: non capisco la morte, accidenti a lei. E’ vicina e non so cosa voglia, perfetta mentecatta che non è altro. Ma guarda un po’ se uno deve avere a che fare con personaggi simili! Morte: vaffan….. un brodo! Non offendiamola perché quella s’incazza, non credo abbia il senso dell’umorismo.

    1. @ Nova

      Indipendentemente dall’esistenza o meno di Dio la morte (con la minuscola) c’è. Della sua esistenza abbiamo le prove. Da secoli.
      Indipendentemente anche dal fatto che io creda o meno in Dio, attorno a me milioni di uomini in qualche forma ci credono ( o credono di crederci), misurano insomma il loro sentire e operare anche o soprattutto alla luce di tale presenza/assenza. E perciò, anche se mi considerassi agnostico, ateo o fossi semplicemente indeciso o infastidito da questo problema che occupa le loro menti, non posso non tenerne conto. (Se tutti fossimo, infatti, agnostici o atei o indecisi, il “clima culturale” sarebbe diverso. Come sarebbe diverso se tutti fossero credenti). Insistere, dunque, sul fatto che il singolo non può trascurare l’effetto sociale della religione o delle religioni.
      Quando poi sostieni che non sei mai riuscito a porti il problema di Dio è come se dicessi: non sono mai riuscito a capire perché una consistente parte degli uomini si pongono un problema che io non mi riesco a porre.
      Può darsi che la cosa sia irrilevante per intendere quello che avviene tra te e loro o tra loro ed altri. Ma non ne sarei certo. Del resto non si spiegherebbe perché tu mostri una certa di tolleranza verso i credenti («non lo dico con ironia e disprezzo») e consideri una «fortuna» e non un danno che i vari pensatori non riescano a dire nulla di definitivo sulla questione.
      Che legame ha poi – bisognerebbe chiedersi – il «timore di dover soffrire morendo» con il problema dell’esistenza o meno di Dio?
      In effetti o l’essersi accorti dell’esistenza di Dio o l’averlo “inventato” è stato un modo di placare quel timore proprio perché, come tu scrivi, «il pensiero della morte, in quanto pensiero dell’annientamento di ogni sentire, è quanto di più insopportabile ci sia».
      Perché non è una cosa che si riesce a “capire”, ma si sa che si dovrà subire.
      E allora come la mettiamo?
      Essendoci incertezza, non essendo né tutti convinti dell’esistenza di Dio, che non solo garantisce un lenimento di quella paura ma tranquillizza anche su un Ordine della Natura, né tutti della «morte di Dio», che libera da certi fantasmi, ma altri sempre inquietanti ne produce, continuiamo – credo – a seguire i due modi ormai sperimentati da secoli:
      – una parte degli umani continuerà a credere in Dio (e mi pare irrilevante pretendere che ci credano «sul serio» o che «ne siano veramente convinti», proprio perché l’effetto positivo della credenza o fede è soggettivo e, orientandosi in tale direzione, si sfugge al piano logico e razionale;
      – un’altra continuerà, come mi pare tu faccia, a tenersi la sua «incomprensione», bofonchiando o teatralizzando o sbeffeggiando da una posizione orgogliosamente “signorile” i “servi” che, un po’ pecoroni, non sanno guardare la Morte (con la maiuscola) in faccia.
      Domanda finale: tra i due atteggiamenti nessun vero dialogo o dialettica?

  15. …Franco Nova, sei fortissimo! Persino Lei si starà scompisciando dalle risate e non potrà che riservarti un trattamento di favore…per quanto possa valere quello che penso io: non c’è da preoccuparsi per il dopo. Saremo in mano agli elementi della natura…terra, acqua, fuoco, aria sono molto più clementi degli umani. Che ci impastino, cullino, trasformino alla maniera degli artisti, diventeremo opere d’arte della natura.
    Ma spesso mi chiedo: sono pronta per il viaggio?

  16. io manco per gnente, adesso almeno no, non sono pronto. Se starò proprio male, non so. Che madre natura mi impasti (cullare ne dubito) non mi darebbe troppo fastidio se ne avessi coscienza. Ma è proprio questo pensiero che mi dà fastidio (adesso certo, dopo no): che non sentirò comunque nulla di quello che la natura mi farà. E non penserò proprio più nulla, non mi accorgerò di nulla. E poi, più che essere impastato io, preferirei mangiare la pasta (magari con le melanzane o gli zucchini fritti o qualsiasi altra) e bere del vino che dico io. Perché devo essere impastato io e senza nemmeno saperne niente, non averne alcuna coscienza?

  17. Casualmente ieri sera, mentre Nova scriveva delle discussioni con i suoi amici credenti, credenti in modo per lui, Nova, contraddittorio in ragione del fatto che la loro “riluttanza” a parlare di, indicherebbe solo una reale “paura” nei confronti della, morte, stavo leggendo un breve scritto su Duns Scoto, sul tema della resurrezione: vera morte ma continuazione della vita sotto altra specie. Questo bisogna credere, infatti, per potersi dire credenti!!!
    Ed ecco come argomenta Duns Scoto, ricostruito dall’autore del saggio. Il desiderio naturale di vivere per sempre (comprendendo in esso desiderio anche la nobiltà di sacrificare la vita in favore di altri) si lega, grazie alla rivelazione, all’amore di Dio per la creazione, per il Figlio incarnato, morto e risorto, che garantisce la nostra vita eterna: “Certo, la resurrezione di Cristo è già avvenuta (e dunque può essere narrata e creduta), e ciò giustifica il fatto che si deduca la nostra dalla sua: ma questa è una sequenza che ricostruisce un ordine della conoscenza, non dell’essere.”
    Invece Nova ha ragione: “Eh, cari voi, vi ho beccati: avete tanta paura di finire nel nulla, tanta quanto me. E allora, che c…. vi serve credere in Dio?”
    E questo è il link, da girare agli amici. http://mondodomani.org/reportata/salmeri06.htm

  18. Quel che possiamo fare è osservare la vita nelle sue svariate forme, e possiamo farlo perché una certa distanza dal nostro corpo l’abbiamo: così come portiamo sollievo a una ferita o ci procuriamo del cibo quando abbiamo fame… siamo corpo e mente, eppure non siamo corpo, e se ci pensate nemmeno mente se è vero che possiamo osservare anche i nostri pensieri, il nostro pensare mentre accade. E se possiamo osservare il nostro pensare a maggior ragione potremo accorgerci del silenzio, che non è silenzio di assenza dei rumori ma pura osservazione. Questo lo sanno le persone che fanno meditazione, ma anche i poeti, gli artisti quando sono tutt’uno con l’opera; ne riemergono, ed ecco che torna il pensiero, quella cosa che chiamiamo vivere. Dove abiti nel tuo corpo? Qui, tra le spalle, sotto l’ombelico, oppure in qualche parte dell’encefalo che ancora non conosciamo? Prendiamo gli occhi, in senso figurato, se li apriamo è un universo, se li chiudiamo un altro. Quando li apriamo è come se qualcuno buttasse un sasso dentro uno stagno: per un po’ la superficie dell’acqua si agita poi tutto ritorna com’era, di fatto però quello scossone segna un cambio di stato, seppure momentaneo. Siamo come lo stagno: apri gli occhi e sei fuori di te, li chiudi e sei dentro. Non è automatico, serve un brevissimo intervallo di tempo, come quando ci si abitua la buio dopo essere stati alla luce. E’ il tempo che serve alla coscienza per cambiarsi d’abito. Per me la morte è così. Di fatto siamo pura osservazione, e se ci pare di essere qualcuno è perché ne abbiamo ricevuto ripetutamente delle prove; dagli altri in primo luogo, e poi perché ci sorprendiamo delle nostre reazioni, e queste ci dicono di noi. Ma questi non sono altro che gli elementi costitutivi delle nostre diverse personalità. Dunque chi e cosa siamo se non riusciamo nemmeno a sapere dove siamo nel corpo e se a stento abbiamo un’idea di noi stessi? E se non siamo il corpo, chi muore? C’è un CHI che muore? C’è un CHI che nasce? C’è un CHI che vive, che percepisce coi sensi la vita… e ci sarà un CHI che percepirà la morte dopo che sarà avvenuta? Sei corpo ma non sei del corpo, quando il corpo cesserà di di funzionare , in quel preciso momento miliardi di cellule ne formano altri, di ogni genere, api piante germi, esseri umani… qui potete farvi un’idea https://ce748cb871824cb2614ac1360e806f9bf6df7ad2.googledrive.com/host/0ByKfIv2IzNdsYjlmaURxSTZER3M/
    mentre noi pensiamo alla nostra morte l’ecosistema si rigenera, perché questa è la morte: è morte e nascita; i corpi non vengono mai a mancare, non è faccenda che dipende da noi ma dalla Terra, dove tutto ciò che nasce fatalmente muore. Quindi, per cominciare, la vita non è cosa che riguarda solamente noi umani. Il dopomorte è quel che non appartiene ai sensi. Possiamo farne l’esperienza fin da ora distinguendo l’essere dal pensante. Poi potete scegliere se leggere quei semiseri dei buddisti che hanno scritto Il libro tibetano, il Bardo, oppure aspettare la resurrezione dei morti cristiana. La differenza sta nel fatto che il primo è un manuale che ti spiegherà come evitare di rinascere nel corpo di un cavallo e come destreggiarti almeno nei primi 40 giorni che seguono il tuo decesso, l’altro ti affiderà al volere di Dio nonché al suo giudizio. Personalmente non guardo alla morte come fosse qualcuno, una divinità misteriosa, mi considero un morto- diversamente-vivente – e malgrado tutto anche felicemente – e quando morirò sarà come tornarmene a casa. Chiudo gli occhi e non sono quel che penso di essere, li apro e continuo a non crederci. Un po’ come il sognatore di questo bel racconto di Nova, un tipo davvero poco terrestre.

  19. Mentre scrivevo il mio post, Mayoor scriveva il suo. Ecco due sistemi di pensiero, tradizioni, verità (?) affiancate. Ma Nova ha già messo le mani avanti da prima: “questo essere strano che si pone i problemi della vita e della morte e ci fa una montagna di ragionamenti sopra senza mai arrivare a nessuna conclusione purchessia. E non lo dico con ironia e disprezzo; anzi ritengo molto positivo che non si giunga ad alcun risultato e che i vari pensatori vi si sbizzarriscano sopra in modo estremamente dotto e con grandissima profusione di intelligenza, ma senza risolvere (per fortuna) nulla”…

  20. “Ed io infatti li provoco: parlo spesso di morte con loro. E mi guardano male, mi dicono: ma dai smettila, adesso pensiamo alla vita.” ( Nova)
    E io direi che hanno ragione, se significa uscire dai patemi d’animo e dalla paura che paralizza l’io. E poi con la vita si può provare a cambiare qualcosa, con la morte non mi pare.
    Segnalo un passo di Fortini. Bei tempi quando un pensava che si potevano persino cambiare i rapporti di produzione della vita, eh?
    *****

    «Qualche anno
    fa Calvino mi chiese di scrivere una prefazione a “La morte
    di Ivan Il’ič * di Tolstoj. Non l’ho scritta quando ho capito che
    tutto il senso del mio discorso possibile su quel meraviglioso
    racconto sarebbe consistito in una sola affermazione: che il
    rapporto con la propria morte è determinato non solo, come
    è ovvio, dalla vita che l’ha preceduta ma dal contesto etico-
    storico nel quale ci si educa a considerarla; e che quindi og-
    gi – con eccezioni, s’intende – non si muore come Ivan Il’ič.
    L’eros e la morte, lo sappiamo benissimo, non si possono
    guardare in faccia, come il sole. Ma ci è pur dato, come a
    Faust, volgere le spalle al sole e guardare i colori dell’iride nel pol-
    verio d’acqua della cascata e chiamarli vita. Lavoriamo (conti-
    nuerò a dire ai giovani, davanti ai quali Calvino finge di am-
    mutolire e di passare, come Parsifal, al «latino degli uccelli»),
    lavoriamo a mutare i rapporti di produzione; e cosi facendo
    anche l’indicibile delle esperienze vitali verrà circuito, ridot-
    I to, ritualizzato, grammaticalizzato. La «civiltà» potrebbe non
    essere altro che questo: il discorso ininterrotto sull’indicibile e
    la sua trasmissione.»

    (1975)

    (F. Fortini, Non solo oggi, pagg. 177-178, Editori Riuniti, Roma 1991)

  21. Non importa che sia vero o falso, credere nella reincarnazione è viverla. Non toccherà i rapporti di produzione ma, per dirla con Totò

    “Tu qua’ Natale…Pasca e Ppifania!!!
    T”o vvuo’ mettere ‘ncapo…’int’a cervella
    che staje malato ancora e’ fantasia?…
    ‘A morte ‘o ssaje ched”e?…è una livella.

  22. Non potendo trovare risposta al perché della vita e alla morte, l’atteggiamento di Fortini aiuta perlomeno a non abbattersi di fronte all’inesorabilità (così dicono) della morte, e a cercare di trovare nella dialettica il senso del perché. Poco, ma buono, mi verrebbe da dire, almeno per stanare le paure o quella più grande “La” paura di morire, di non essere. Cosa che Franco Nova ci mostra nei suoi racconti, sebbene poi, precisa, più che paura sarebbe il fastidio, quando non proprio avversione, per un finale (e l’ulteriore inizio) di qualcosa che in qualche modo disporrà del nostro corpo in assenza totale della nostra volontà. Il punto cardine della discussione, e del problema, a me sembra risieda in questa assenza o impossibilità decisionale: la totale incapacità di incidere, dopo morti, con una progettualità del nostro beneamato/dannato corpo e, dunque dell’io. Dato che, infatti, non esisteremo più. Punto.
    Mayoor, Lucio, si discosta da questo angolo visuale ponendo la questione in maniera differente e parla del pensiero che ci abita e da cui talvolta siamo abitati senza volerlo nemmeno.
    Quello del pensiero è un aspetto che mi trova in accordo con Lucio, e vorrei aggiungere che ci sono momenti nei quali – credo un po’ tutti l’abbiamo sperimentato – il pensiero è letteralmente assente, e sono quei momenti in cui si determinano i passaggi importanti nella nostra vita.
    Parlando in prima persona, sembrerà assurdo, ma il timore maggiore è di una sensibilità dopo la morte, ovvero è il timore di una incapacità di gestirla, ammesso che rimanga. Però mi piace quanto dice Lucio: “E’ il tempo che serve alla coscienza per cambiarsi d’abito. Per me la morte è così.”
    Ci resteranno i dubbi (lecito averne), come quello sulla capacità o possibilità di ricevere il pensiero altrui o poter trasmettere il proprio ai nostri ‘affini’. Chi lo sa?
    Mi scuso per la tetraggine dell’argomento e per essere andata fuori tema, come penso.

    1. Puoi parlare con i tuoi defunti, e se lo fai è perché la morte non ha spezzato alcun legame. L’amore resta vivo in te: il legame è tutto qui, esattamente come quando erano in vita. Da qui può nascere la fiducia e potresti comportarti come un idiota parlando da solo senza che qualcuno ti senta o ti possa rispondere. Pensa, se fosse vero e tu non ci provassi nemmeno, sarebbe il defunto a dire Ecco, lo è sempre stato un idiota! Io una possibilità me la darei, è anche divertente, come quando parli col gatto o con le piante del giardino. E può essere utile anche dal punto di vista terapeutico, specialmente se ci sono faccende lasciate in sospeso col defunto. Ma nel caso è meglio dire qualcosa di utile, più che altro perché il defunto impiega un po’ di tempo per abituarsi al suo nuovo stato, specialmente se c’è di mezzo un trauma. Tu piangi, lui vorrebbe consolarti ma non può; dormirai nel letto sola e lui vedrà il suo posto vuoto, i suoi vestiti, l’automobile… Invece di chiederci cosa sappiamo della morte potremmo cominciare a chiederci che ne sappiamo della vita, ovviamente se il leone lascia scampo alla gazzella. ma anche correndo…
      Capirete che se queste cose non vengono dette così, bruscamente e senza mediazioni, nessuno ne parlerà mai. Non c’è altro modo.

      1. Possiamo solo chiarire, delucidare, analizzare… non è possibile definire con metodi che ci sono propri una situazione che non ci appartiene. E’ assai dubbio affermare che oggettività e soggettività si escludano a vicenda.

  23. “L’amore resta vivo in te: il legame è tutto qui” – Continua a parlare…
    Tocchi un nodo cardine, Lucio, e ti ringrazio, soprattutto per questa tua capacità di dire, con parole semplici, di cose altamente difficili da affrontare. Ne sono convinta anch’io. Alle volte però preferisco scrivere poesie, mi piace credere che valga come il parlare.

  24. Comunque, non ho fatto che raccontarvi grosso modo quel che si racconta nel Libro tibetano dei morti, che io sappia l’unica guida esistente del dopomorte. Tenetene conto se volete, altrimenti andatevi a studiare le ricerche sulle superstringhe volte alla ricerca della legge del tutto, sulle particelle della materia, sulle loro vibrazioni, il formarsi e riformarsi della materia, lo spazio tempo, la multidimensionalità eccetera eccetera e forse avrete un’idea del corpo mentale che può sopravvivere alla morte, che poi è lo stesso che abbiamo in vita. Ovviamente.

  25. Quanto al “problema di Dio”,
    per un credente Dio non può essere un problema, se mai la soluzione. Per i non credenti è un problema indotto, nel senso che se nessuno ne parlasse forse al mondo ci crederebbero poche persone sparse sul globo. Discuterlo dialetticamente è accogliere Dio come problema: a quel punto la frittata è fatta. Su questo la penso come Nova, se qualcuno mi dicesse che in giardino potrebbe spuntare una fragola alta sei metri, e mi dicesse “Vogliamo parlarne almeno dialetticamente? non si può escludere in assoluto non che possa accadere”, ecco, piuttosto che parlarne gli chiederei del suo bisogno di avere una fragola tanto grande… del bisogno di Dio, ritengo che di questo si possa parlare anche tra atei tra credenti.

  26. …Mayoor, mi sento in sintonia con i tuoi discorsi sulla morte, tratti dal Libro tibetano dei morti…mi convincono e mi commuovono. E l’ultima tua affermazione: “del bisogno di Dio, ritengo che di questo si possa parlare anche tra atei e credenti”, la ritengo molto giusta, in quanto in fondo l’uomo stesso, con i suoi bisogni, paure, aspirazioni, ma anche razionalità, è il denominatore comune delle nostre credenze. Spesso, anche chi non crede come me, fa entrare dalla finestra quello che ha fatto uscire dalla porta, cioè può sorprendersi a parlare con i defunti, a pregare…per quanto mi riguarda ho paura della sofferenza che accompagna la morte, ma non del nulla. Spero ( non so, tutto è consolatorio) che quando, come individui, abbandoneremo l’ultimo respiro saremo accolti nel grande respiro dell’universo: le maree, le alba, i tramonti, i moti della terra. Forse in quella dimensione potremo addirittura aiutare di più i nostri simili, la Terra, mentre avviluppati come siamo oggi nelle nostre individualità, nel nostro antropocentrismo…Nel frattempo la vita come donne e uomini, con i nostri strumenti e doveri ci aspetta, e la lezione di Franco Fortini mi sembra ottima…

  27. In fondo la lezione di Fortini “il discorso ininterrotto sull’indicibile e la sua trasmissione” sta dentro la cultura occidentale: “La «civiltà» potrebbe non
    essere altro che questo”.
    Questo discorso ininterrotto è una ricerca, la famosa “via”, su questa via mi sembra che le posizioni di Mayoor, come di Nova, concernano lo stesso tema di cui si occupava il cristianesimo nella persona di Duns Scoto, cui accennavo: l’identità personale nella sopravvivenza dopo la morte. Che l’identità personale sopravviva, è il tarlo di Nova, ma è svuotata da Mayoor.
    Che tutti riconfluiremo in sostanze chimiche, in materia (ma i fisici parlano di geometria, prima del formarsi della materia… di nuovo la mente, quella nostra of course, prima del corpo), perfino in superstringhe (al confine tra matematica e materia) credo sia una convinzione condivisa, quasi pacifica, dei non-credenti. Ma le idee sulla materia sono, appunto, confuse.
    Poi ci sono le religioni del dio personale, e di amore, che salvano l’identità personale nella sua eccezionalità, e siccome noi di solito siamo d’accordo su questa eccezionalità, ecco che le religioni del Libro trovano ragione per il loro radicamento. Insomma, è un vero “casino”.

  28. Mescola e rimescola, restano alcuni problemi. Intanto, siamo esseri strani fra quelli animati; gli altri non hanno modo di rimestare pensieri simili in tutte le salse, così come facciamo noi. Anzi credo proprio che questi altri esseri vivano e non pensino gran che se non proprio questioni strettamente esistenziali relative alla loro specie e ai rapporti con le altre specie. In secondo luogo, continuo a non sentire molto il problema di Dio, di una possibile “altra vita” o comunque di che cosa può esistere dopo la morte. Io resto convinto di finire nel nulla più assoluto, ma anche se così non fosse, non sono per nulla convinto che ci sarà una qualsiasi cosa che noi riusciamo ad immaginare. Capisco l’esigenza di molti (i più) di credere e di volersi immaginare che cosa ci sia stato prima dell’Universo e che cosa ci sarà poi. Ma io non riesco a pormi tale problema; mi sembra un inutile arrovellarsi. Certamente, anche il mio arrovellarmi su che cosa fosse la società in cui ho vissuto, sul suo modo di formarsi, sul suo possibile trasformarsi e sulla società che sarebbe potuta nascere da tale trasformazione, ecc., hanno mostrato alla fine la corda; e sono arrivato a nuove conclusioni, cui ne seguiranno altre: sia mie, fin quando penserò, sia di altri dopo di me. Tuttavia, qualche elemento di possibile immaginazione mi sembra sia esistito nel crogiolo delle esperienze plurisecolari (e plurimillenarie) della società. E anche le conoscenze delle scienze naturali hanno avuto questi elementi di esperienza, che senz’altro temo non conducano proprio alla conoscenza della cosiddetta “realtà” così com’essa “veramente è”. E tuttavia, avverto un certo muovermi in un mondo di cui una qualche “realtà” ci appare indubitabile; anche se si dubita continuamente dell’interpretazione che di essa viene data. Ma Dio (è più che un nome dato a nostri desideri e sogni?), un’altra vita dopo questa, chi ha creato questo Universo (e l’uomo), che cosa seguirà a tutto questo ambaradan di cui abbiamo una qualche consapevolezza “realistica” e via dicendo, è qualcosa di più di un continuo rimuginare? Magari sì, ma non riesco ad appassionarmi al problema. L’unica cosa che continua a turbarmi è che la morte mi porterà a nulla più sentire. E quando parlo di sentire, certamente, faccio riferimento alla vita avvertita con i nostri sensi. Ci sarà un’altra vita? Posso confessare che non m’interessa? Una vita in cui non mangio, non bevo, non…..(censura), nemmeno penserò più al problema se c’è un’altra vita, nemmeno gusterò le opere d’arte o di scienza che godo perché le ha fatte qualcuno di simile a me mentre viveva; e poi le godo ancora una volta con i miei sensi e quindi mentre sono in vita. E certamente le godo anche con il cervello che pensa e con quel certo che chiamato sensibilità, intuizione o non so come altro definirla. Comunque sia definita, siamo convinti che tutto questo permarrà dopo morti? Insomma, scusatemi, ma io non so andare oltre questa che chiamiamo vita. Quando si è stanchi di essa, la si ritiene tutto sommato di m….. allora conviene suicidarsi. Ma lo facciamo veramente per conseguire la felicità nell’altra vita? O piuttosto speriamo proprio che tutto finisca e nessun’altra rottura di scatole venga a turbare l’“entropia” eterna che con il suicidio riveliamo di desiderare? No, niente da fare; l’unica cosa che mi resta è sempre il fastidio di questa “parola”: Nulla. Non mi consolerà nessun’altra elucubrazione. Mi piacerà sempre seguirla, così come mi piace leggere e seguire i discorsi intelligenti e che stimolano il pensiero. Ma so che poi, una volta morto, non godrò più nemmeno di queste elucubrazioni. Resterà questo piacere ai posteri. Bene, sono contento per loro; ma a me non resta un bel…..Nulla.

    1. Dicono che Buddha si illuminò quando smise di cercare, quando si accorse della vacuità delle cose. Ho sempre pensato che i grandi mistici della storia non erano quel che normalmente si crede, persone votate all’estasi, santi o eroi dotati di poteri straordinari, no, erano dei materialisti. E quel che scoprirono non stava in un altro mondo ma era tutto qui, ben visibile. Sono d’accordo con Franco, anche a me non interessa la morte come assoluto, sarebbe un’astrazione. Per cominciare non si dovrebbe dire della morte senza parlare della propria morte, da qui l’indagine conoscitiva avrebbe un altro corso.

  29. desidero solo brevemente precisare che io sono uscito da una condizione medio-alta “signorile” (poi abbandonata per certe mie scelte). Comunque, in questa (cosiddetta) classe “di nascita” non ho trovato molti che sapessero guardare la morte in faccia. Non mi sembra di aver conosciuto molti “servi”, ma operai e contadini o comunque “popolani” tantini. Ho più o meno trovato la stessa percentuale di gente che sapeva guardare o non guardare la morte in faccia e anche una divisione tra credenti e non credenti abbastanza simile a quella della mia primitiva “classe” di appartenenza. Preciso inoltre che ho avuto 4-5 amici (ivi compresa la “buona conoscenza” e una certa vicinanza di gusti e di sensibilità) tra i colleghi d’Università e intellettualità in genere. Nessuno (proprio nessuno) tra i “ricchi borghesi” di tutta la mia infanzia, adolescenza e primissima giovinezza; un numero non proprio indifferente tra le “classi” medie e più “in giù”.

  30. @ Nova

    A PRECISAZIONE, PRECISAZIONE.

    Chissà perché, ma in questi giorni (e anche su LE PAROLE E LE COSE dove si è aperta di nuovo in sordina una discussione sul caso Moro (http://www.leparoleelecose.it/?p=18653 ) che ho cercato di alimentare…), trovo negli scritti di Fortini passi di una lucidità e attualità estreme, che, certo ricontestualizzati nel mondo completamente stravolto di questi primi decenni del Duemila, aiuterebbero a chiarire meglio certi nodi quasi inestricabili delle fiacche discussioni odierne.
    Per ora posso solo scannerizzarli e farli conoscere a persone (anche giovani studiosi!) che li ignorano.
    Lo stesso faccio prendendo lo spunto da un cenno che ho fatto nella discussione sul racconto di Franco Nova alla dialettica hegeliana tra servo/padrone.
    Certamente la sua importanza per chi vuole ancora ripensare i rapporti individuali e sociali d’oggi e la stessa questione del rapporto del singolo con la morte non deriva da un esame sociologico dei comportamenti. Non è, cioè, che la paura della morte la troviamo tutta nelle classi che Gramsci chiamava subordinate mentre gli appartenenti alle classi alte saprebbero tutti guardarla in faccia.
    Ma lascio volentieri la parola a Fortini. Tra l’altro in questo passo egli allude, forse con eccessiva abbondanza di riferimenti colti propri del suo tempo e della sua formazione (non spaventatevi!), a un modo di sentire il rapporto vita/morte/azione che ha fatto da modello a molti intellettuali di sinistra; e che, credo, abbia un po’ anche a che fare con quell’abbandono della «condizione medio-alta “signorile”» di cui parla Nova e con la tematica del Nulla o della Negatività:

    « Se Marx viene, come Robespierre, da Rousseau, Nietzsche, lui, credeva di venire da Voltaire, oltre che da Schopenauer. Se Dio non c’è e la Democrazia nemmeno, la metafora dei lupi e degli agnelli non era più una metafora; con l’aiuto di Darwin, naturalmente. Il nichilista, cioè il nemico del populista, predicherà e praticherà la morale dei signori, la capacità, secondo Hegel, di *werweilen*, *demeurer*, sostare accanto alla Morte diventando degno della propria condizione di signore proprio per aver saputo sostenere lo sguardo della Morte, del «padrone assoluto», della Negazione integrale. La morale dei servi, lo sappiamo bene, è di vivere e di fuggire dalla Morte; parrebbe la distanza massima dalla morale dei signori. Ma l’intellettuale tentato dalla lucidità, il Raskolnikov napoleonide, scopre prima di tutto che i «signori» non ci sono più, che non dimorano più, come nell’era feudale, accanto alla Morte ma accanto ai listini di borsa («notre civilisation … depuis 1815, a remplaucé le principe Honneur par le principe Argent», Balzac, «Melmoth reconcilié», in «La comédie humaine», Paris 1950, t. IX, p. 269); poi si avvede che il popolo dei servi tanto più vive la bassa gioia della viltà e accetta i miti forniti dai suoi nuovi padroni umani-
    tarismo cristiano, democratismo progressista , quanto più, nella realtà, vive concretamente in pericolo di morte, di perdita dell’identità, di dissoluzione e anomia, nelle rivoluzioni industriali, nelle demolizioni coloniali e finalmente nelle catastrofi imperialistiche. Quella identificazione al mondo dei signori che l’intellettuale non può perseguire se non nel gesto della creazione intellettuale solitaria e sublime (Nietzsche, Mallarmé … ) o nella esaltazione degli eroi industriali, dei «titani» e dei dittatori, quel rovesciamento della morale degli schiavi di cui la sua corporazione si è fatta ipocrita latrice al mondo dei cosiddetti «umili», potrà compiersi solo percorrendo la via del sublime inferiore, togliendo agli schiavi l’illusione che li fa schiavi, rabbrividendo con loro al vento del Nulla. E se, in origine e per più di cent’anni aristocratici declassati e intellettuali in fu-
    ga alle proprie catene hanno guardato ai capaci di «atroci e sublimi delitti», al «forçat intraitable» [galeotto intrattabile], a Ravachol [(1859-1892), criminale anarchico francese] o Lafcadio [giovane avventuriero de «I sotterranei del Vaticano» di Gide], quando si avvedranno che è impossibile abbandonare la propria identità per un’altra individuale (è questo il senso del j’y suis j’y suis toujours [ ci sono, ci sono sempre]di Rimbaud), andranno in cerca della classe sentita naturalmente come enorme monade e mostro delizioso degli abissi, cui arrendersi. Questa classe avrà, nel proprio moto obiettivo, nella propria «coscienza possibile», i caratteri plebei e signorili preborghesi: il realismo, l’assenza di valori, la spietatezza; e soprattutto, ‘perché oppressa, perché belva ancora in gabbia, avrà, sarà, la Negatività, il No permanente e assoluto. A questo punto, l’intellettuale vuole affittare una stanza da studio nel Negativo. Nel nostro paese e nella storia dei suoi gruppi intellettuali era accaduto, come sappiamo, che i miti dell’ antidemo-crazia e dell’antiumanitarismo non avevano avuto spazio a sinistra, come invece in Francia e, seppure diversamente, in Germania, nel primo trentennio del secolo. Questo spazio si è venuto creando nel quindicennio seguito alla guerra fascista. Le prime miscele di estremismo rivoluzionario di aristocratismo e d’antivirtuismo signorile spuntano sul finire degli Anni Cinquanta in parallelo al formarsi della cosiddetta società dei consumi. Esse cominciano ad alimentarsi, intellettualmente, proprio alla cosiddetta «critica della cultura», cioè ad alcuni testi della Scuola di Francoforte.
    Mentre una parte andrà a nutrire Ie varie forme di contestazione dei *mores* che precedono il Sessantotto, una e più seria parte vivrà, più o meno latente, nelle file di quelle formazioni, labili ma di straordinaria importanza, che nella prima metà degli Anni Sessanta anticiparono la seconda metà. Quanti compagni di quegli anni ho conosciuto, che portavano come un destino la vocazione a ripetere in gruppo quel che in altre parti di Europa avevano, altri intellettuali e politici, sperimentato ai margini o nelle file dei partiti politici del movimento operaio.
    Sto ormai parlando, e davvero non me lo nascondo, di un’area psicolog ica. Se fin dagli anni di cui ho detto, leggevo chiaro l’ errore e il vizio che abitavano quell’area, lo facevo per una attitudine personale spiegabile, almeno imperfettamente, con radici di classe e ceto; per un difetto, certo, che aveva però il vantaggio di farmi meglio comprendere i caratteri altrui. Era la certezza o,.per essere più cauti, il sospetto che dietro quegli atteggiamenti vi fosse una giovinezza irrisolta, un rapporto incompiuto coi padri, una sequela di conti ancora aperti. Era la persuasione, combattuta, che non solo la rivolta non fosse mai la rivoluzione né la via ad essa ma anzi la via opposta e che solo per questo le potesse tanto assomigliare. In quei giovani appassionati e devoti, coraggiosi fino al sacrificio, intransigenti e casti anche nella sregolatezza, leali alla propria volontà di coerenza,non cessavo di avvertire qualcosa di imperfetto e immaturo e precocemente piagato. Era qualcosa che affascinava le ragazze ma anche era il tributo di distruzione che gli Anni Sessanta hanno chiesto ai migliori.

    ( F. Fortini, «L’ordine e il disordine» in «Questioni di frontiera» pagg. 103 -105, Einaudi, Torino 1977)

  31. Un articolo interessante che mi è giunto stamane per chi volesse continuare questa discussione. Eccone uno stralcio:

    La vita biologica dell’uomo è un frammento, un segmento d’eternità. Nascita e morte sono gli estremi di tale segmento, i punti di contatto (gli sconfinamenti) della vita umana sul piano dell’eternità.
    Ora, è fin troppo evidente che della nostra nascita, e dei nove mesi di vita intrauterina, non ricordiamo un bel niente, e poco c’importa (checché ne dicano Freud & C.). L’unico limite che davvero ci preme, assillante e pieno di fascino, è quello della morte. Per il pensiero umano, la morte rappresenta anzi l’estremo per antonomasia, l’inconoscibile, l’ignoto, o quanto meno una soglia, una demarcazione incontrovertibile e fatale. Non solo. Tutto ciò che in ogni ambito può rinviare ad un punto estremo, ad un’esperienza-limite, ad un eccesso di senso o di vita, ha sempre – almeno per immagini o concetti traslati – una contiguità, una prossimità, una qualche attinenza con la morte. Gli esempi, nelle arti e nel pensiero, si sprecherebbero.
    La morte è quindi una sorta di sfondo, di quinta immutabile della storia e della cultura umane, che ha origine con la coscienza della mortalità e il seppellimento dei cadaveri. Il movimento che anima l’uomo è essenzialmente un movimento contro la morte; di volta in volta, movimento di accoglimento (accettazione) o di nascondimento (occultazione) della propria identità mortale, di cui si ha nozione e coscienza solo attraverso l’esperienza di morte dei propri simili.
    Con la coscienza della morte, nasce l’umano e si forma la comunità dei viventi. I gruppi umani si strutturano procedendo all’inumazione delle spoglie. Per scongiurare il termine ineluttabile della propria esistenza, l’uomo s’inventa l’idea dell’essere. Solo l’esistenza muore, non l’essere. Il fine dell’essere, per così dire, è l’elusione della morte, ossia ciò che sospende, trasla, differisce la fine dell’esistenza.
    Il fondamento della comunità – principio dell’amicizia – sarebbe quindi la negazione della morte? Il far fronte al senso d’inadeguatezza generato dall’inconoscibile? O che altro?
    (continua qui
    http://carminemangone.com/2015/04/24/il-movimento-contro-la-morte-principio-dellamicizia/

    Inutile dire che su molte cose mi trovo d’accordo. Quel che non mi va di quanto detto fin qui è che si arrivi a far passare l’idea che anche la morte sia una faccenda classista. Davvero, su questo non ci sto.

  32. https://etadellainnocenza.wordpress.com/2015/04/25/arsenij-aleksandrovic-tarkovskij-poesia-morire-in-levita/

    Andreij Tarkovskij rilegge le poesie del padre Arsenij.
    Dal film Nostalghia.

    Si oscura la vista
    La mia forza sono due occulti dardi adamantini,
    Si confonde l’udito per il tuono lontano
    della casa paterna che respira
    dei duri muscoli i gambi si infiacchiscono,
    come bovi canuti all’aratura
    e non più quando è notte alle mie spalle splendono due ali
    nella festa, candela, mi sono consumato
    all’alba raccogliete la mia disciolta cera
    e, lì, leggete chi piangere, di cosa andar superbi
    come, donando l’ultima porzione di letizia:
    morire in levità
    e al riparo d’un tetto di fortuna,
    accendersi postumi
    come una parola.

  33. Quando vi siete arricchita l’anima
    fino al massimo,
    con libri, pensiero, sofferenza, comprensione,
    la capacità d’interpretare occhiate, silenzi,
    le pause nei mutamenti importanti,
    il genio della divinazione e della profezia;
    tanto da sentirvi capaci, a momenti, di tenere il mondo
    nel cavo della mano;
    allora, se per l’affollarsi di così grandi poteri
    nel recinto della vostra anima,
    l’anima prende fuoco,
    e nell’incendio
    il male del mondo è illuminato e reso limpido —
    siate grati se in quell’ora della visione suprema
    la vita non vi canzoni.

  34. Sono arrivata in ritardo per cui faccio un mix di commenti prendendoli alla rinfusa.

    1) Franco Nova

    *Gli unici protagonisti dei miei racconti sono la Vita e la Morte e, tramite una serie di traslazioni ancora più complicate, sono la Rivoluzione e la Restaurazione. Tenetene conto nel leggermi*.

    Queste personificazioni di astrazioni (sottolineate dalle maiuscole) o, se vogliamo, queste generalizzazioni rischiano di essere astoriche! Mentre anche la Vita sussunta dal personaggio del racconto di Franco Nova non è la stessa, cambia durante lo sviluppo narrativo. Ciò vale anche per la Morte. E visto che parliamo della Signora, la Morte non è protagonista allo stesso modo nemmeno all’interno della narrativa di un singolo scrittore. Prendiamo infatti L. Tolstoj: “La morte di Ivan Il’ič “ non ha nulla a che vedere con la morte annunciata in “Sonata a Kreutzer”; né la morte di questa protagonista ha somiglianze con quella di “Anna Karenina”. Inoltre, queste rappresentazioni, che lo si voglia o no, sono sempre e comunque proiezioni di chi scrive e delle sue relazioni con il mondo.

    2) Mayoor

    *Personalmente non guardo alla morte come fosse qualcuno, una divinità misteriosa, mi considero un morto- diversamente-vivente – e malgrado tutto anche felicemente – e quando morirò sarà come tornarmene a casa*.

    Interessante questo punto di vista che mi richiama una poesia egiziana scritta su un papiro (XII dinastia) conservato al Museo di Berlino e che riporto in calce.

    3) Abate

    *La «civiltà» potrebbe non essere altro che questo: il discorso ininterrotto sull’indicibile e la sua trasmissione.»*

    Pensare ad un discorso ininterrotto significa prendere in considerazione una oscillazione pressoché costante tra continuità e discontinuità. E’ questa oscillazione che oggi purtroppo si è interrotta e si è precipitati nel caos.

    4) Mayoor

    *Puoi parlare con i tuoi defunti, e se lo fai è perché la morte non ha spezzato alcun legame. L’amore resta vivo in te: il legame è tutto qui, esattamente come quando erano in vita*.

    Infatti l’amore è una funzione di legame che rimane al soggetto anche quando l’oggetto di questo sentimento viene a mancare.

    5) Franco Nova

    *E quando parlo di sentire, certamente, faccio riferimento alla vita avvertita con i nostri sensi. Ci sarà un’altra vita? Posso confessare che non m’interessa? Una vita in cui non mangio, non bevo, non…..(censura), nemmeno penserò più al problema se c’è un’altra vita, nemmeno gusterò le opere d’arte o di scienza che godo perché le ha fatte qualcuno di simile a me mentre viveva; e poi le godo ancora una volta con i miei sensi e quindi mentre sono in vita*.

    E’ un bel casino depositare tutto sui sensi! Perchè se, indubbiamente, sono quelli che ci permettono un certo orientamento sono anche fallaci (non sto qui a riprendere le polemiche tra ‘sensisti’ e non).
    Lo vediamo molto bene anche dal racconto di Nova nel rapporto sogno-realtà. I sensi tendono a funzionare on-off. Il pensiero avrebbe invece anche una tendenza che oscilla tra continuità e rottura. Ma quando il sistema di pensiero non è elastico le rotture vengono interpretate come catastrofi, come morte. Così come quando i sensi non ‘ci’ corrispondono, il vissuto che ne deriva è il collasso.

    6) Cristiana Fisher

    *Che tutti riconfluiremo in sostanze chimiche, in materia (ma i fisici parlano di geometria, prima del formarsi della materia… di nuovo la mente, quella nostra of course, prima del corpo), perfino in superstringhe (al confine tra matematica e materia) credo sia una convinzione condivisa, quasi pacifica, dei non-credenti. Ma le idee sulla materia sono, appunto, confuse*.

    Mi perdoni Cristiana, ma ho una battuta sconcia che riporto solo per alleggerire il tema: “dopo la morte diventeremo tutti concime organico…. molti si avvantaggiano comportandosi da merde già da vivi!” Et voilà!

    7) Mayoor

    *Ora, è fin troppo evidente che della nostra nascita, e dei nove mesi di vita intrauterina, non ricordiamo un bel niente, e poco c’importa (checché ne dicano Freud & C.)*.

    Una leggenda ebraica racconta che la ragione per la quale l’uomo, prima di nascere, deve passare nove mesi nel ventre della madre è che lì l’arcangelo Gabriele gli insegna tutta la Torah, quella scritta e quella orale. Per nove mesi, con una candela accesa sulla testa, l’uomo impara tutta la Legge e, solo quando è pronto, può uscire alla luce del mondo. Un istante prima della nascita l’angelo gli spegne con un soffio la fiammella e il bambino dimentica tutto: tutta la sua vita dovrà essere dedicata allo studio della Torah, a cercare di ricordarsi quello che aveva già imparato. Gli viene spenta la fiammella che portava sulla testa nel ventre della madre e questa viene sostituita dalla luce del mondo esterno. Nei meandri oscuri del ventre materno aveva una luce interna, questa si spegne e al suo posto viene la luce del sole, che abbaglia invece di illuminare. Per questo, continua la leggenda ebraica, il neonato piange al momento della nascita, poiché ha dimenticato tutto e dovrà dedicare tutta la sua vita a cercare di ricollegarsi faticosamente al sapere perduto.

    8) Franco Nova

    * Certo; se uno crede in Dio, è salvo. Ma deve crederci sul serio e non so quanti ne siano veramente convinti. Se lo fossero, non avrebbero paura di parlare della morte. Ed io infatti li provoco: parlo spesso di morte con loro. E mi guardano male, mi dicono: ma dai smettila, adesso pensiamo alla vita.*

    Il problema di Dio è un falso problema. Io sarei più materialista. Il titolo di questo racconto “La vita è sogno ma il sogno è morte” mi ha fatto venire in mente la diversa impostazione del “La vida es sueño” di P. Calderòn de la Barca, relativamente alla difficoltà a distinguere la realtà dal sogno. Sarà anche pragmatismo, ma mi era piaciuta la soluzione finale del principe Sigismondo quando compie la sua scelta: “Sia la vita realtà o sogno, una sola cosa importa…, agire bene. Se è realtà, perché lo è, e se non, per acquistare amici al momento del risveglio.”.

    *****

    Parte del dialogo di un uomo con il proprio ba:

    La morte è davanti ai miei occhi oggi
    Come la guarigione per il malato
    Come l’uscita dalla sofferenza.
    La morte è davanti ai miei occhi oggi
    Come il profumo della mirra
    Come sedersi sotto un baldacchino in un giorno di vento.
    La morte è davanti ai miei occhi oggi
    Come il profumo del loto
    Come sedersi sulla riva del paese dell’ebbrezza.
    La morte è davanti ai miei occhi oggi
    Come il percorso della pioggia
    Come il ritorno del soldato a casa.
    La morte è davanti ai miei occhi oggi
    Come una schiarita nel cielo
    Come la comprensione di un enigma.
    La morte è davanti ai miei occhi oggi
    Come il desiderio di un uomo di rivedere la sua casa
    Dopo lungi anni di prigionia.

    (da Nicolas Grimal, Storia dell’Antico Egitto)

    – ba: il ba è la parte divina, totalmente spirituale che si riconduce alla particolarità dell’anima della persona. E’ una essenza che permane nei mondi spirituali dove si può moltiplicare: esce dal corpo del defunto e vi ritorna a mummificazione avvenuta.

    R.S.

    1. Resta da vedere quale sia la tua interpretazione, o il vissuto della morte, anche se qualcosa, anzi molto traspare nell’intelligente volontà di lasciare quanto meno le porte aperte a un edificio, il corpo, che vorremmo fatto e finito. Alla nota 7, dove riporti la bellissima tradizione ebraica, devo precisare che non sono io a dire che non ricordiamo un bel niente della nostra nascita, era un commento di altri che avevo riportato e sul quale mi trovavo in accordo “quasi” su tutto, ma nel caso in oggetto no. Lo smentisce anche la mia esperienza personale allorché, tramite tecniche di analisi profonda, sono riuscito perfino a vedere l’atto del concepimento dei miei genitori, e da qui anche la chiara ragione che mi ha portato al mondo. Ma ho difficoltà a condividere queste esperienze con chi non ha iniziato un viaggio introspettivo, armi e bagagli.
      Grazie Rita, trovo questa discussione salutare e avanguardistica in quanto di solito si viaggia soli su questo tema, soli perché altrimenti bisogna aspettarsi. E’ il rebus di tutti i bodhisattva.

  35. # Mayoor: del concepimento non so nulla, ma di qualche momento dei nove mesi sì, qualcosa

    nulla
    le brevi frasi del tempo

    scura notte sopore
    nel denso sospiroso
    nel profondo sordo

    vibrano membrane

    è suono
    chiaro e soffocato

    la cara voce interna
    il suo riso mi stringe

    @ Rita Simonitto: sulla leggenda ebraica, la mia versione un po’ più laica

    sei quando ancora non sei
    sei nel pensiero di lei
    e nel suo corpo che è il tuo
    fuori di te e dentro Altro e in quei pensieri
    quasi pensata eppure miei
    già miei che per la vita
    cercherò cominciati dove in chi
    già dati i semi e le ragioni forme
    che svolgerò incarnata

  36. “Una leggenda ebraica racconta che la ragione per la quale l’uomo, prima di nascere, deve passare nove mesi nel ventre della madre è che lì l’arcangelo Gabriele gli insegna tutta la Torah, quella scritta e quella orale. Per nove mesi, con una candela accesa sulla testa, l’uomo impara tutta la Legge e, solo quando è pronto, può uscire alla luce del mondo. Un istante prima della nascita l’angelo gli spegne con un soffio la fiammella e il bambino dimentica tutto: tutta la sua vita dovrà essere dedicata allo studio della Torah, a cercare di ricordarsi quello che aveva già imparato. Gli viene spenta la fiammella che portava sulla testa nel ventre della madre e questa viene sostituita dalla luce del mondo esterno. Nei meandri oscuri del ventre materno aveva una luce interna, questa si spegne e al suo posto viene la luce del sole, che abbaglia invece di illuminare. Per questo, continua la leggenda ebraica, il neonato piange al momento della nascita, poiché ha dimenticato tutto e dovrà dedicare tutta la sua vita a cercare di ricollegarsi faticosamente al sapere perduto.”

    Non ho tempo di pensarci bene e commentare, anche perché mezzanotte è passata ed esco da una noiosa correzione di bozze. Dico solo che è comunque bello. Così, anche senza troppo pensarci sopra. E’ bello, c’è qualcosa che avvince; anche se può cullare e poi far accontentare della sensazione.
    Anche quanto dice Sigismondo è bello. Salvo una cosa che mi lascia assai più che perplesso: “agire bene”. Che significa? Chi lo decide? Immagino Sigismondo stesso: quello che è bene per lui diventa bene per tutti? Ma bisognerebbe capire meglio la sua idea di bene. Agire bene, in un contesto di conflitto com’è la vita – degli individui in se stessi, degli individui tra loro, dei gruppi sociali, dei vari paesi, ecc. ecc. – è aperto a molte interpretazioni. E da parte di diverse impostazioni ideologiche. Non so; non capisco l’agire bene. In ogni caso, è vero: il mio personaggio (che ho già chiarito non essere un personaggio in effetti) non si pone questo problema. E quale si pone? Solo il fastidioso dover pensare che fra un po’ dovrà non sentire più nulla; e non gli interessa una gran discussione filosofica sulla vita e la morte, sull’esistere e il non esistere. Semplicemente gli dà fastidio dover pensare – cosa che secondo me non accade agli animali – che fra un po’ non esisterà più nulla. Poi, lo ripeto, va bene: se non c’è nulla, non penserà più niente, non saprà niente, non soffrirà di niente, non avrà coscienza di nulla di nulla di nulla…….. di nulla. Ma adesso questo pensiero gli secca da…..morire (il modo di dire). E sarebbe bello essere fatti in modo che si può fare tutto, ma proprio tutto quello che l’umanità ha fatto nelle decine di migliaia d’anni d’esistenza; tutto quanto stiamo facendo oggi in fatto di tecnologia e quant’altro. Ma senza mai essere toccati durante la vita dall’idea che un giorno si morirà e si andrà nel nulla. Su questo punto una nebbia totale avvolga il cervello. Ma è impossibile, lo so. E allora, tiriamo avanti. E agiamo secondo quanto possiamo e come possiamo. E cerchiamo di agire bene; ma sapendo quanta ambiguità c’è in questa parola: bene. Agire è già parola appena un po’ più semplice da pensare.

  37. …gli animali(forse) non hanno coscienza dell’evento della morte, l’uomo ne ha una coscienza pungente, ma diversificata da che idea, ma soprattutto sentire, si è costruito della vita…C’è chi la teme perchè vanificherebbe tutto nel nulla, coscienza compresa…come Franco Nova, che ama molto la vita, la vede in positivo nonostante…Altri, come Mayoor, non vedono discontinuità tra vita e morte e il pensiero di quest’ultima non lo sconvolge per nulla…C’è poi chi agogna addirittura la morte con tutto il suo essere e mi ritorna in mente un pensiero di una mistica cristiana (credo Teresa d’Avila) “la vita è come una sola notte passata in un brutto albergo”…la poesia dall’Antico Egitto sembra affermare la stessa cosa, ma secondo me riporta immagini troppo belle della vita stessa per non averla amata…Ci sono poi persone che mortificano la loro vita con scelte opprimenti di cui magari poi pentirsi, sulla base di situazioni contingenti…Ho conosciuto una suora entrata nell’ordine delle”ancelle riparatrici”(?) che molto anziana ha avuto una potente ribellione, ma venne risucchiata dal sistema a psicofarmaci…scriveva poesie
    non averla amata

    1. C’è anche chi, come Franco Nova, proprio per il fatto di temere il nulla, la cessazione della coscienza ecc., non s’accorge che questo è proprio il comportamento di chi vive l’eternità. Scherzo, e i suoi racconti mi piacciono davvero tanto, sono provocazioni che arrivano e toccando in profondità.

  38. MORTE: NELLA STORIA O FUORI?

    La morte nella storia o la Morte al di sopra della storia? Riassumerei così i due poli possibili in cui sembrano muoversi i commenti a questo post, prendendo atto – segno dei tempi bui? – che mi paiono prevalere quelli che si orientano verso il secondo (la Morte al di sopra della storia).

    I due modi di pensarla non sono equivalenti. Quindi si risale al problema: chi la pensa (o ne parla) come si pensa? Dove si colloca o s’immagina di essere: nella storia o fuori?
    Semplificherò, ma questa stessa discussione la vedo nella storia (nei tempi bui della storia “d’oggi”). E mi colpisce la distanza dal modo di parlare della questione di Fortini di cui ho citato il brano, che non solo insiste a dire che «il rapporto con la propria morte è determinato non solo, come è ovvio, dalla vita che l’ha preceduta ma dal contesto etico- storico nel quale ci si educa a considerarla» (cosa che condivido), ma mostra di avere ancora fiducia che se « lavoriamo a mutare i rapporti di produzione […]anche l’indicibile delle esperienze vitali verrà circuito, ridotto, ritualizzato, grammaticalizzato».

    Anche se questo lavoro oggi ci fosse impedito o fosse addirittura diventato impossibile, non credo ad un caos generale che avrebbe interrotto del tutto l’oscillazione tra continuità e discontinuità (Rita Simonitto). Posso anche dubitare di questa mia affermazione, ma tutte le posizioni qui esposte su morte (o Morte) mi paiono abbastanza “tradizionali” e dunque in continuità con quelle dei pensatori del passato (alcune vanno, mi pare, in senso nettamente materialistico-sensistico, come quelle di Nova, altre – quelle di Mayoor – abbastanza “trascendentali”).

    Trovo poi – e credo proprio perché siamo bloccati sul piano dell’azione *nella storia* – un preoccupante ridimensionamento della nostra riflessione.
    La leggenda ebraica riportata da Rita è molto bella ma, dall’alto (o dal basso) del Novecento che ci siamo lasciati alle spalle, mi fa un po’ sorridere l’idea che «il neonato piange al momento della nascita, poiché ha dimenticato tutto e dovrà dedicare tutta la sua vita a cercare di ricollegarsi faticosamente al sapere perduto».
    A me – prosaicamente e maliziosamente – viene da pensare che piange perché dovrà studiare, lavorare, difendersi da chissà quanti l’ostacoleranno in quel po’ di vita che riuscirà a strappare. (Che tutta questa fatica rientri comunque nella ricerca di un «sapere perduto» e io mi sbagli a interpretare? …).
    Tenderei tuttavia a non distaccare il discorso sulla morte dalle pratiche reali cui sono costretti milioni di persone per tirare a campare (per evitare cioè la morte!), a non dimenticarle o trascurarle, a non accontentarsi di un piano troppo “speculativo”. I “viaggi introspettivi” ma anche quelli filosofici sono permessi – diciamocelo – a una minoranza dei viventi. E osservo questo senza demagogia. Semplicemente vorrei che si tenesse in conto che per moltissimi la vita è sofferenza e solo per pochi è godimento pieno o coltivazione delle possibilità dei sensi o del pensiero. A me interessa capire perché Nova trovi «fastidioso dover pensare che fra un po’ dovrà non sentire più nulla; e non gli interessa una gran discussione filosofica sulla vita e la morte, sull’esistere e il non esistere». ( o «una vita in cui non mangio, non bevo, non…..(censura). Ma non riesco a capire perché, nella nostra riflessione sulla morte, non si dovrebbe tener conto della pessima sorte che tocca *in vita* a milioni di persone che mangiano o bevono di meno, etc. Non dovrebbe essere un dato (storico) da considerare accanto alla paura o al desiderio di non morire del singolo individuo?

    Ho perciò simpatia anch’io per la “soluzione pragmatica” del principe Sigismondo (“La vida es sueño” di P. Calderòn de la Barca), perché almeno riporta la questione dal piano teorico indeterminato e indecidibile (pare) a quello che, nel mentre si vive (in modi differenziati: più sopportabili o insopportabili o comunque tremendi), facciamo come singoli e come società.

    Per Nova, però, pare che la stessa indecidibilità si ripresenti anche sul piano dell’agire e infatti si chiede perplesso: «“agire bene”. Che significa? Chi lo decide?». Certo ci sono molte interpretazioni, ma non credo che si rimanga per tutta la vita in una nebbia assoluta e paralizzante. E infatti «tiriamo avanti. E agiamo secondo quanto possiamo e come possiamo. E cerchiamo di agire bene; ma sapendo quanta ambiguità c’è in questa parola: bene.» ( Lo stesso dicasi per la parola ‘male’). Cioè scegliamo, ci sbagliamo, ci correggiamo. Restiamo nella storia ( e nei limiti che essa ci impone). Ma cos’è agire bene per noi all’incirca lo sappiamo o arriviamo faticosamente e approssimativamente a saperlo. Magari tardi, troppo tardi. O, come diceva Brecht, ne sentiamo ancora la *tentazione*.

    1. Per me le due posizioni, quella realistica e storica e quella trascendentale, non sono tra loro in opposizione, possono tranquillamente convivere e anzi si completano. Perché porsi dei limiti? E’ realistico ammettere che esistano misteri. Battersi, resistere per non morire, è difendere un proprio diritto; e se è proprio è anche altrui, vale cioè per tutti gli altri abitanti della terra, animali e piante. Per questa ragione penso che parlare della morte sia parlare di vita: altro mistero che sfugge alla vostra volontà. Se non è un mistero nascere non lo è nemmeno il morire, e tutta questa discussione la si potrebbe risolvere in poche righe, anzi due cifre: nato il e morto il. Nel mentre ha vissuto in un corpo che gli ha procurato gioie e dolori; senza per altro capirne granché, tranne che ha dei bisogni se si vuole campare. Ma già qui osservo la difficoltà a identificare essere e corpo come una cosa sola, se è vero che il corpo “pensa” per istinto e un libro non lo scriverebbe né lo leggerebbe, più o meno come già fanno in troppi.

  39. @ mayoor

    Osservavo solo che le due posizioni (“quella realistica e storica e quella trascendentale”) rientravano più nella continuità che in una discontinuità assoluta ( caos…) del processo storico. Sulla loro opposizione o convivenza non ho detto. Ma, come sai, non la vedo facile.

    Al termine ‘mistero’ preferisco quello di ‘ignoto’ o ‘inconscio’. Il primo è troppo carico di pathos fatalistico o di sottile compiacimento elitario e pessimistico. (Maliziosamente penso che è come a dire: cari miei, il mistero non lo svelerete mai e – non ve lo diciamo – ma noi sacerdoti del mistero siamo qua a difenderlo!).
    Il secondo, è vero che può indurre a prometeismi deliranti, ma mi pare più rispettoso del bisogno umano di non rassegnarsi e di farsi “tentare dal bene” (Brecht). E comunque, al poveretto che “ha vissuto in un corpo che gli ha procurato gioie e dolori; senza per altro capirne granché, tranne che ha dei bisogni se si vuole campare”, invece di dirgli che deve interrogarsi sul mistero, io suggerirei di capire ancora cosa gli combinano quelli che gli stanno vicino, addosso o, da lontano, ne bloccano le possibilità o gli danno morte o sofferenza (in più…) con un drone o una manovra politico-finanziaria.

  40. *E cerchiamo di agire bene; ma sapendo quanta ambiguità c’è in questa parola: bene. Agire è già parola appena un po’ più semplice da pensare* scrive F. Nova.

    Faccio una precisazione, e in ciò accogliendo il richiamo di Abate (Morte: nella storia o fuori?) circa la necessità di storicizzare: il racconto ebraico e il dramma di Sigismondo rappresentano due modalità diverse di affrontare il rapporto interiorità (sogno) e esteriorità (realtà) e, di conseguenza, cambia anche il valore che viene dato alla Morte.
    Mentre nel primo si adombra l’idea della “reductio ad unum” (riduzione ad un unico principio, tornare all’unità perduta) – o il platonico trovare ciò che già si sa (il che è vero fino ad un certo punto, perché è la relazione con ciò che si sa che viene a mutare nel tempo) -, diverso è il discorso portato avanti nell’altra narrazione.
    Possiamo leggere il pensiero di Sigismondo sotto due profili, uno personologico e uno sociologico.
    Ad un livello, vediamo lo sviluppo del SUO processo evolutivo e di emancipazione.
    Questo passa DA un pensiero claustrofobico che lo faceva sentire “prigioniero-nella-mente-del-padre” – il quale lo aveva relegato nella torre per paura che si avverasse la profezia del regicidio – AD un agire impetuoso, una volta libero, che lo stava portando proprio a realizzare la “morte al tiranno” (ed in ciò rischiando di inverare le fantasie persecutorie di Basilio, il re-padre).
    E, successivamente, DA un agire dettato unicamente dalla forza ribelle – che aveva prodotto più che una liberazione una ulteriore prigionia – AD un momento riflessivo in cui Sigismondo si rende conto che il ‘pensare’, ovvero introdurre l’istanza ‘tempo’ tra il sentire e l’azione, poteva portare ad un ‘agire bene’. Sempre relativo, comunque.
    Perché, ad un altro livello sociale e culturale – ricordiamo che l’opera di Calderòn de la Barca è del 1635 e la sua finalità è filosofica -, ciò che viene in qualche modo criticato è proprio il concetto di ‘predestinazione’ a tutto favore della libertà di scelta e dove la funzione del sogno è propedeutica al pensare.
    Anche se i temi legati alla ribellione – uccisione del re – ovviamente sono espressione di conflitti connessi ai problemi di successioni dinastiche e di convenzioni sociali (la nobiltà, l’onore) c’è una modernità di pensiero nello sviluppo della storia dove ci viene fatto sperimentare – anche in virtù di vari travestimenti – che non tutto è come appare.

    Seguendo quanto dice Sigismondo alle persone attorno a lui che si meravigliano del suo cambiamento: “Di che stupite? che vi spaventa? Se il mio maestro fu un sogno, per cui temo di svegliarmi di nuovo, e ritrovarmi nel mio stretto carcere [che può essere letto sia come la ‘prigione del corpo mortale’ di contro alla libertà del pensiero e sia come la ‘prigione del pensiero’ quando non ha esperienze di cui nutrirsi]; e quantunque ciò non avvenga, il sognarlo basta”, anche il racconto di F. Nova potrebbe essere letto così, dove la Morte viene portata dentro il sogno come unico modo per viverla senza soggiacerne e facendola diventare così una morte storicizzata, una morte intesa come rottura a fronte di una ambigua interpretazione del mondo come quella trasmessogli dai genitori.

    R.S.

  41. Che il pensiero della morte (non la morte) subisca le evoluzioni di quella che chiamiamo storia è ovvio. E ci sono tante culture sulla morte; e tante credenze sul dopo morte. La morte non è però un fatto essenzialmente storico, ma biologico. Inoltre, un conto è la morte come atto finale della vita (che secondo me è sempre da temere e quasi tutti la temono) e la morte nel senso appunto di “stato permanente” che perdura nel “lunghissimo periodo” susseguente alla fine della vita (biologica) dell’individuo, di ogni organismo (individuale) vivente. Io parlo del pensiero che si ha (o almeno che ho), nel mentre si è pienamente vitali, di questo “lunghissimo periodo”. Non dico eterno perché anche questo Universo avrà probabilmente fine come dovrebbe avere avuto un inizio; e non so più che cos’è l’eternità se non un periodo di tempo di lunghezza indefinita (non infinita, termine che credo possa indicare solo confusione mentale; non ne sono sicuro, ma mi sembra).
    Vorrei comunque evitassimo di parlare della morte in un modo che a volte mi assomiglia a quello delle marxiste “sovrastrutture” (politiche e ideologiche), che dipenderebbero dalla “base economica”, cioè dal “modo di produzione” in quanto intreccio di rapporti (sociali) di produzione e forze produttive. Perché dovrei pensare alla morte, nel senso di quel lunghissimo periodo che ho detto”, provando pena per milioni di affamati sulla terra (sempre meno numerosi, non facciamo pietismo per favore)? E poi, mi si dice, molti non godono la vita, ma soffrono vivendo. Beh, dovrebbero essere i più fortunati, poiché non penseranno con rammarico alla fine della loro sofferenza e al “lunghissimo periodo” in cui o non esisteranno più o invece saranno in un’altra vita, di cui poco si sa e di cui dunque nessuno sa dire come veramente la si vivrebbe se ci fosse.
    Mi si permetta una diversione. Vorrei vedere quanti di quelli che soffrono tirerebbero un sospiro di sollievo se fosse trovato loro un cancro con poco da vivere. O se arrivasse loro un infarto o un ictus (di quelli che lasciano qualche ora di coscienza), i quali preannunciano una morte rapida, la fine di tutte le sofferenze sopportate in una lunga vita. Quelli che veramente soffrono, o anche semplicemente avvertono la noia del continuare a vivere pur godendo, si suicidano; devono avere questo coraggio. Altrimenti, in definitiva pensano quello che si pensa per lo più: sì, soffriamo, ma meglio “stare sulla croce”, qui sulla terra. Finire di soffrire che sia rinviato il più possibile!
    A parte questo, non posso che essere lieto che si sia profusa tanta intelligenza nelle considerazioni stimolate dalla lettura del raccontino. E dunque ringrazio tutti. Ma tutti rinvio al pensiero di quel “lunghissimo periodo” che seguirà la morte (quella che è solo un “atto finale”) di ognuno di noi. Credete che continuerete a vivere secondo una qualche modalità (più che vivere, diciamo esistere in una qualche forma, senza sostanza)? Oppure che apparterrete alla non esistenza di ciò che è già esistito ma ormai va a fare parte integrante della sostanza inorganica? Beh, anche questa sostanza fa parte dell’esistente, ma insomma…… ci siamo capiti, spero.

  42. ..parafrasando, forse, il pensiero di supernova, ripeto forse, il tutto può essere così riassunto: è morto ciò che in eterno può attendere (come il paradiso?)? Ma soprattutto, con techne, con il secolo breve, con la società di cartone etc si è consumata anche la morte? pure la morte è morta dopo che la vita non conta piu un cazzo o al massimo può essere solo virtuale? Con il pensiero di Nova, per me, nonostante tutto, la morte non è virtuale, la morte, come un teschio sulla scrivania di Michelangelo Merisi da Caravaggio, è ancora viva 🙂

  43. no, ro, non per me. Non so se mi piacerebbe essere io quel teschio; tuttavia, se lo fossi e avvertissi la sua presenza, vorrebbe dire che ho la coscienza di esserlo. Il mio pensiero è che non ci sarà più coscienza di nulla per un periodo di lunghezza indefinita. Se anche credessi in un’altra vita, non saprei ancora una volta nulla di quest’altra vita; quindi resterebbe il pensiero che questa vita sparirebbe per sempre. E mettiamo di credere nella reincarnazione. E allora? La vita di Franco Nova è sparita nel nulla e il nuovo essere non ne ha più alcuna coscienza; salvo quelli che vengono presi per lampi (attimi) della vita che fu. No, non ne usciamo. Ne potremmo uscire solo se mi concedessero l’immortalità. Ma non mi basterebbe. Voglio avere la scelta di trascinare nell’immortalità tutti quelli che mi sono amici e mi rallegrano la vita. Tutti gli altri, va bene, fuori dalle balle in media ogni 80 anni. E poi pretenderei che diventassero immortali anche i miei gatti e che quelli morti si ripresentassero qui a casa mia. Insomma, la morte dovrebbe essere per me un semplice contorno; la vedo circolare qua e là, ma la saluto, magari le offro una brioche e un cappuccino, e tanti saluti.

    1. Sì , infatti, tu supernova già scrivendo descrivendola così mortale, ti rendi oltre ogni illusione di vita e di morte..l’inganno non da per noi né al di qua che al di là e il superamento con l’immortalità o la reincarnazione, desiderio o meno o altra alchimia, poco serve infatti all osciillazione del teschio, di scheletro o in carne ossa, fra senso e non senso, fra cose della vita e della morte, se ancora significano qualcosa….un bacione

  44. @ Nova

    Devo proprio insistere. Non solo perché le pieghe della questione morte/vita/sogno esplorate in questa discussione partita dal tuo racconto mi paiono interessanti, ma perché c’è qualcosa nelle tue lucide affermazioni che non riesco a digerire. E vorrei capire se sbaglio o ho qualche ragione a contrastare un certo nichilismo strisciante che vi intravvedo.

    Sì, la morte è un fatto biologico, ma gli uomini (singoli o in società) non sono riducibili a mero fatto biologico proprio perché hanno costruito una storia che (in bene e in male, con rischi e vantaggi) ha prodotto un’evoluzione della specie umana più dinamica di quella di altre specie. E questa ancora in modi complicatissimi e contraddittori prosegue.
    Quindi, non mi pare che l’evoluzione riguardi solo il pensiero della morte (o sulla morte), ma lo stesso fenomeno naturale/storico della morte.
    L’allungamento della vita ottenuto, almeno per una parte della popolazione di questo pianeta, mediante progressi reali nella conoscenza della natura e l’interazione con essa più incisiva che in passato grazie alle tecniche e poi alle tecnologie (anche qui con nuovi rischi e vantaggi che non possono far pensare più, come accaduto in passato, ad un sicuro e lineare progresso) non hanno abolito di certo la morte degli individui ma ne possono controllare la minaccia, rallentarne l’arrivo. E in modi oggettivi, quantificabili. Perciò la percezione stessa della morte è andata mutando nel tempo ed è meno assillante che in certi periodi storici. (Si pensi alle pestilenze una volta incontrollabili o meno controllabili).
    Questo non garantisce nessun ottimismo. La morte resta temibile e temuta. E l’individuo d’oggi di fronte ad essa prova lo stesso sgomento dei suoi antenati di secoli fa e fa ricorso ad una delle medesime «culture sulla morte» o credenze millenarie per resistervi. Non perché si siano dimostrate efficaci contro «la morte come atto finale della vita», ma perché placano la sua angoscia. E gli permettono di pensare, agire, amare, costruire con altri. Né vedo perché la gente dovrebbe rinunciare a questo effetto placebo in mancanza di meglio. Chi rinuncia alla “consolazione” che danno le varie religioni – o per orgoglio o perché ha fiducia in qualche filosofia razionale – sceglie, credo, solo un placebo più raffinato, d’élite, che lo rassicura più di quello di massa.
    Quanto al pensiero della morte come «“stato permanente” che perdura nel “lunghissimo periodo” susseguente alla fine della vita (biologica) dell’individuo, di ogni organismo (individuale) vivente» a me pare semplicemente una delle varie forme che la paura assume. Non la vedo tanto diversa da quella che ci prende quando sentiamo la morte imminente o quando, da sani o magari in una fase tranquilla della nostra esistenza, quel pensiero si riaffaccia e getta un’ombra su tutto quello che facciamo o desideriamo.
    La domanda, che però pongo e che spiega anche l’apparente fuori tema in una discussione sulla morte (individuale) della mia attenzione ai «milioni di persone che mangiano o bevono di meno», è questa: se siamo in molti d’accordo nel non restare ostaggio di un pensiero della morte che svaluti la vita e i problemi che dobbiamo affrontare nella vita, se siamo d’accordo nel far resistenza alla morte (e al pensiero di morte che, se assorbisse tutta la nostra mente, non esito a chiamare nichilista), questa resistenza deve essere individuale ( come mi pare quella che si esprime nel tuo racconto) o deve coalizzare “insiemi sociali”?
    Non la faccio facile. Ma solo sottraendo spazio al pensiero di morte (starei per dire a una cultura della Morte), si possono prendere sul serio gli sforzi per migliorare la vita, nostra e degli altri; e prendere sul serio le attività di “civilizzazione” tentate finora. Criticabili, certo. Ma senza ridursi a disprezzarle o a vederne l’insufficienza rispetto al nostro desiderio individuale di durare, che può addirittura assumere la forma di un desiderio d’onnipotenza o d’immortalità.
    E qui torno al discorso dei milioni di affamati sulla terra (ma il discorso potrebbe riguardare il come campare in società in cui il lavoro diminuisce e la fascia di popolazione inattiva cresce o altro).
    Saranno in diminuzione i morti di fame, ma la loro esistenza è comunque uno scandalo. Certo per chi non vede il fenomeno come se fosse naturale (e cioè inevitabile, non prevenibile, che so, come un terremoto… o la morte). E io non vedo perché non si debba affrontare tale questione con lo stesso impegno d’immaginazione e rigore logico con cui qui abbiamo parlato della morte. Che vita è quella di un affamato, ma spesso anche di chi è uscito dalla fame? Perché il godimento (relativo) delle risorse della vita deve essere riservato alle classi dirigenti e alle loro cerchie più vicine o alle loro clientele?
    Perciò è una battuta troppo acida quella che rivolgi ai molti che «soffrono vivendo» e «dovrebbero essere i più fortunati, poiché non penseranno con rammarico alla fine della loro sofferenza». È, secondo me, una rimozione del problema. Non è pietismo il porlo. È che davvero certe sofferenze “storiche” potrebbero essere impedite o attenuate e non lo si tenta o non lo si pensa più possibile o, visti i fallimenti del liberalismo e del socialismo, non si crede che valga la pena di interessarsene più.
    Ecco perché a me pare che un pensiero nichilista sta incidendo anche in mezzo a noi. E penso che dobbiamo scioglierci più che possiamo dall’ipnotico « pensiero di quel “lunghissimo periodo” che seguirà la morte (quella che è solo un “atto finale”) di ognuno di noi». Per tornare a vederci, sì, individui, ma nella sequenza storica fatta da quelli che ci hanno preceduto e da quelli che ci seguiranno; sequenza che continuerà (almeno per un bel po’ di tempo) dopo la nostra morte individuale. Sforzandoci questa di accettarla e non solo di esorcizzarla nelle forme fantasiose che ironicamente proponi.

  45. Le religioni hanno prosperato , e prosperano, sulla paura della morte come sul sesso. Forse Nova ha voluto sminuire l’importanza della morte come a voler alleggerire le coscienze da questo gravame. Non mi sento di dargli torto, serve una visione più pratica che contrasti alcune usanze, come quella di seppellire i morti in terra inquinando le falde acquifere e l’impossibilità di ridere nei templi religiosi. Detto questo il fatto di morire resta immutato, esattamente come non possiamo nulla contro l’invecchiamento. Poi, che si creda o meno alla continuità dell’esistenza ( che per me è scelta di vita e fonte di ricerca e conoscenza) poco importa, è altra questione.

  46. …eppure non credo che Franco Nova sia indifferente alla sorte del prossimo, solo che qui non ne vuole parlare, oppure, insieme alla propria, la iscrive in quella lotta titanica e perdente tra il piccolo uomo e la gigantesca morte, qualsiasi sia la forma che assume, anche di cattiveria umana…Nei suoi racconti sembra un mach a due, ma non ci dice nulla delle sue lotte sociali…

  47. scusatemi, ma io dai vent’anni in su mi sono interessato di teoria della società. Sono partito per una lunga stagione all’interno del marxismo. Da tempo ne sono uscito (ma gradualmente, senza rotture precipitose e spesso opportunistiche), mettendone in luce quelli che per me erano gravi limiti (del tutto normali per una teoria formulata 150 anni fa) e cercando di capire come procedere oltre o comunque con uno scarto profondo rispetto all’origine. E continuo tuttora senza sosta. Vi pare che lo farei se pensassi che tutto si riduce al mio pensiero di morte? Quando racconto è il momento: 1) di mia distrazione rispetto all’atteggiamento in qualche modo distaccato che cerco di tenere quando spero di ottenere qualche risultato di non pessimo nel campo scientifico; 2) di messa in scena di uno stato d’animo mio personale quando penso che di me, secondo la mia credenza (o il mio timore), non resterà nulla e che dunque nemmeno potrò pensare e sentire qualcosa. Tutto il resto non viene negato e non ho dubbi che per qualche tempo (penso ancora millenni) la società umana continuerà il suo percorso, ma non so di preciso quale. Non credo che tale società possa essere eterna, ma non sono gran che sensibile a tutti i discorsi di distruzione della Terra, di fine delle risorse, di continuo peggioramento delle nostre condizioni di abitabilità su questo pianeta, ecc. Proprio negli anni ’50 ricordo ancora la rottura di balle del “Club di Roma” che mi annunciava disastri terribili entro al fine del secolo. E oggi sono più che mai irridente verso tutti gli annunci di catastrofi epocali. Si tratta spesso di buffoni che vendono libri e raccolgono dindi alle spalle di gente credulona e che è convinta di essere divenuta più intelligente non appena ascolta i cretini e i cialtroni. L’unica tragedia sarà forse la ripresa, entro un periodo non eterno, di nuovi regolamenti di conti anche bellici (ci sono già e continuano da sempre, ma sto parlando di eventi di proporzioni ben più drammatiche), resi necessari al prodursi di determinate condizioni, appunto quelle che cerco di analizzare con il più possibile di freddezza analitica. I miei racconti sono soltanto la messa in forma di racconto dei miei pensieri e delle sensazioni che via via provo mentre si svolgono i vari eventi di una vita singola e strettamente personale, diversa da ogni altra vita e che troverà ad un certo punto fine. Gli altri ci sono, alcuni moriranno più o meno con me, ma la vita della società continuerà. E tanti altri individui si succederanno per secoli e millenni. Non li conosco e non ne so le sensazioni. A malapena conosco le mie e le metto in scena, anche per vedere quanto sono simili o diverse rispetto a quelle di altri che, tuttavia, esse pure sono simili eppur tanto diverse tra loro. Come anche questa discussione ha (di)mostrato. Non aspiro all’universalità dei miei pensieri e sensazioni. Li butto sul tappeto; dovranno giudicare gli altri se vi trovano qualche attinenza con quanto essi pensano, ma soprattutto sentono. Gli altri esistono, esisteranno per tantissimo tempo ancora; e sempre stretti in certe forme di relazioni che costituiscono la trama della società e ne reggono l’evoluzione futura. Le forme di tale evoluzione (passata, presente e per un futuro molto vicino) sono quelle che studio cercando l’apprestamento di categorie concettuali a ciò adatte (o che tali mi sforzo di rendere). I racconti ……raccontano di me e delle mie “ossessioni”; le porgo ai miei simili (così si dice di individui tutti diversi fra loro) e lo faccio per motivi di distrazione mia del tutto personale, ma anche per vedere se ci sono punti di contatto e di somiglianza del mio sentire con quello di altri (e di altre). Nulla più che questo. Mi piace quando trovo qualcuno(a) che sente qualcosa di assomigliante al mio sentire.

  48. è appena il caso di dire che ho ernia iatale e riflussi esofagei con mal di stomaco (più che altro infiammazione dell’esofago) e tanta fastidiosa tosse. E poi ho diverticoli e problemi di colite. Me li coccolo e mi diverto a sentirli, proprio perché so che così sono ancora vivo. E vado spesso dai medici con la speranza che mi trovino altri difetti (possibilmente non cancri o insanabili insufficienze al cuore e alla circolazione); così mi sento ancora più vivo.

  49. @ Nova

    Può darsi che io mi sbagli a vedere tracce di nichilismo nel tuo racconto. E magari persino nei tuoi studi di teoria della società che ha portato te (o il tuo alias) a sottolineare i limiti della stessa teoria di Marx (e non solo dei suoi seguaci marxisti). Chiedo comunque se, a tuo parere, c’è o no una qualche relazione trai tuoi racconti e gli studi teorici, tra quello stato d’animo personale (o esistenziale) che nei racconti viene fuori e la tua ricerca scientifica sulla società umana e il suo probabile ulteriore percorso. Sarei curioso di indagare di più sulle *possibili* influenze reciproche.
    La risposta più semplice potrebbe essere quella di due attività nettamente separate, una principale e fondamentale e l’altra secondaria. ( Ed, infatti, sminuendo a mio avviso, tu parli dei tuoi racconti come “momenti di distrazione”). E se invece ci fosse un legame, magari sotterraneo, più vincolante?
    Certo la mia resta e vuol restare una supposizione. (Né voglio neppure sfiorare, per mia impreparazione, il controverso problema tra i fautori dell’oggettività assoluta e universale del metodo scientifico e i loro contestatori come Feyrabend).

  50. Ci penserò. Per il momento, non riesco a vedere un gran legame tra le due attività. In effetti, non è proprio una semplice distrazione il mio scrivere racconti. Ma non riuscirei al momento a collocare il tutto. Quando ho tentato di scrivere poesie, ero piuttosto sul “nero nero”. Qui scelgo la vena pazzolica e senza mai un effettivo realismo. Non so, dovrei pensarci un po’. Adesso sono su un racconto ancora più complesso e che è proprio una semplice scusa per esporre determinate concezioni. Non so quando lo finirò perché è forse il più difficile e complesso da me scritto.
    In ogni caso non credo ci sia in me del nichilismo. Di sicuro non vi è nel mio lavoro teorico (o nelle ipotesi storiche che ogni tanto vi aggiungo). Ritenere che una teoria scientifica, dopo 150 anni, sia molto invecchiata è atteggiamento sano, io credo; altrimenti quella teoria diventa pura credenza fideistica come quella dei rimasugli comunistici e anche marxistici. Ho sentito che quest’anno, alla biennale, faranno continue letture dal Capitale di Marx. Immagino già come sarà conciato dai buffoni che ci stanno scrivendo sopra di questi tempi. Un povero illuso, un utopista oppure uno “ganzo” che ha anticipato la globalizzazione mercantile. Coglioni e disonesti. Non c’era bisogno di Marx per questo; bastava Adam Smith e la sua “mano invisibile”. Tornando al mio presunto nichilismo, ripeto che si tratta solo del prendere atto che una teoria scientifica (e Marx ha passato vent’anni di esistenza al British Museum a studiarsi gli economisti classici e poi ha indubbiamente apportato una rivoluzione di paradigma con l’individuazione della differenza tra lavoro e forza lavoro) non può, non deve essere ritenuta valida in toto per più di qualche decennio; in specie nel campo delle teorie della società. Marx è invecchiato come qualsiasi altro scienziato. Delle acquisizioni restano valide, ma soprattutto come punti di partenza per radicali mutamenti. Ho sempre ricordato che io esco dalla porta del marxismo, non da altre; non so se da quella porta arriverò a qualcosa di costruttivo oppure no. Sto tentando; credo comunque che alcune acquisizioni discrete ci siano. Ma siamo a mille miglia dallo scrivere un altro “Il Capitale” adeguato alla società odierna che poco ha a che vedere con quella capitalistica inglese appena uscita dalla prima rivoluzione industriale. Marx affermò con nettezza (nella prefazione alla sua opera) che quella società era il suo “laboratorio” di analisi per arrivare a formulare un insieme di ipotesi teoriche. Egli ha quindi interpretato il capitalismo identificandolo con quello borghese affermatosi in Inghilterra. Quello Usa ha mutato alcuni connotati fondamentali. Comunque non credo che questa discussione sia da tenersi qui.

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