Il braccio destro

annegamento 2

di Rita Simonitto

Quando si svegliò di soprassalto non era del tutto alba. Lo si capiva dalla luce ancora tenue che filtrava dalle stecche della persiana, quell’orologio naturale che, nei molti anni di levate mattutine, aveva imparato a riconoscere. “Saranno le cinque e un quarto”, diceva. Oppure, “saranno le quattro e mezza” a seconda della stagione o dell’ora legale. Così si girava verso la sveglia e, constatando con soddisfazione che il suo orologio interno aveva funzionato a dovere, metteva lo stop alla suoneria ancora prima che si attivasse. Le puntate sull’ora potevano variare mentre, per quanto concerneva i minuti, la sveglia veniva sempre mantenuta sul quarantacinquesimo. Amava la sua precisione e si sentiva orgogliosamente consapevole dell’adeguamento tra il suo sentire e la realtà esterna in quel minuscolo frangente mattutino in cui si apprestava a prepararsi per andare al lavoro.
Ma, quella mattina, ciò che lo aveva fatto svegliare anzitempo era stato un particolare formicolio al braccio destro decisamente accentuato al dito medio e anulare e che non accennava a dissolversi. Non era una esperienza insolita: a volte capitava che una anomala posizione del corpo durante il sonno producesse quell’ assenza di circolazione che rendeva come ‘morta’ e insensibile la parte che veniva interessata. Poi, dopo qualche movimento e stimolazione massaggiando la zona colpita, il tutto riprendeva a funzionare. Invece stava accadendo che quella riabilitazione non sortisse alcun effetto.
Sentiva che non era ancora giunta l’ora di alzarsi e nello stesso tempo non voleva accendere la luce per accertarsene e quindi guardò nella penombra il suo arto ribelle che si protendeva sul cuscino in direzione della sagoma della moglie che dormiva al suo fianco e che stava ronfando leggermente.
Al vedere ciò che vide non poté dare un grido, ma il forte tuffo al cuore che ne ebbe fece corrispondere all’interno ciò che non poteva essere espresso all’esterno.
Due deliziosi piedini, ultime propaggini di due gambe affusolate, femminili senza dubbio, giacevano lì sul cuscino a fiorame – sua moglie amava questi vezzi campagnoli – abbandonati e ammiccanti come possono esserlo soltanto i piedini delle adolescenti. Questa apparizione tra il lusco e il brusco – il quale non riguardava soltanto la penombra relativa ad un giorno che ancora si stava facendo strada, bensì quella linea indefinita che separa realtà e fantasia – lo spaventò alquanto.
Con gesto rapido e furtivo coprì col lenzuolo quella strana visione nel mentre la sveglia, che non si faceva distrarre nello svolgimento del suo compito dalle stranezze del mondo degli umani, si mise a trillare: erano le sei e quarantacinque.
Che la sveglia suonasse era cosa insolita, sua moglie disturbata mugolò nel sonno e lui si alzò di scatto, come a voler dimostrare di essere al pieno padrone di se stesso, mentre il turbamento aveva lasciato una scia non indifferente nel suo animo.
La tentazione a voler guardare il braccio per accertarsi che tutto fosse a posto, una volta che la parestesia si era normalizzata, continuava a permanere. Però le incombenze della mattina si facevano pressanti: vestirsi, preparare la colazione, programmare la giornata, tutte quelle cose che ogni lavoratore si appresta a fare ogni giorno, soprattutto quando l’abitazione è abbastanza lontana dal posto di lavoro.
Sua moglie, invece, poteva prendersela comoda: il negozio, che avrebbe dovuto aprire alle nove, distava pochi isolati da lì.
Fra l’altro, proprio quella mattina, non sarebbe passato a prenderlo un collega, insegnante al par suo, perché era di libertà: quindi doveva affrettarsi per poter prendere la corriera che lo avrebbe portato a destinazione.
Il tempo si preannunciava piovoso: quasi quasi avrebbe preso l’auto per recarsi a scuola perché l’idea di intrupparsi nel mezzo pubblico pieno zeppo a quell’ora lo inquietava e ciò lo portò, inconsapevolmente, a guardare ‘quel’ braccio che ora gli appariva normale, non diverso da quello con cui era rimasto in contatto tutti gli altri giorni, 17.520 per l’esattezza, ovvero dacchè si conosceva.

La giornata a scuola filò liscia. Aveva ormai imparato che bisognava defilarsi dalle provocazioni al reclutamento, alle petizioni, alle proteste, provenissero esse da destra o da sinistra. Tanto, la sua esperienza gli confermava – pur non essendo ancora così gravato dall’età da essere disfattista-esistenzialista – che ben poco si poteva macinare.
De-ideologizzato? Forse…….

Quello che però gli venne subito all’occhio era il fatto che non si stava muovendo con la scioltezza che gli era nota. Sapeva che quella scioltezza era una ‘copertura’, se così si voleva chiamarla, di un suo disagio interiore, di un sentire che il non essere capiti rappresentava per lui una spina che ormai si era quasi incistata nella carne. Ma che, nonostante tutto, era in grado di distrarsene, di pensare ad altro, e di trarne soddisfazione, senza dover affrontare i pericoli della zona off limits. E poi, non capitava forse a tutti di vivere questo sdoppiamento?
Ma in quella circostanza non si trattava di una scioltezza perduta a causa di un cedimento delle sue difese bensì di un ‘ingresso corposo’ che lo metteva a disagio.
Passando infatti per la palestra – gli piaceva fare qualche palleggio alla fine dell’ora con l’insegnante di educazione fisica, dolce fanciulla appena reclutata nelle file dell’istituto dove lui insegnava – quella mattina aveva notato una specie di ritrosia nel mettere in contatto con gli altri quella sua propaggine che stava diventando così strana. Pensò dunque di tenersi protetto camminando lungo le pareti, ma lo stesso si sentiva insicuro di questo escamotage. Così, senza alcun motivo apparente, nonostante la ragazza gli facesse cenno con la mano, girò sui tacchi avviandosi per tornare a casa. E quel giorno la cosa finì lì.

Qualche mattina dopo, lo stesso formicolio ebbe luogo, ma senza che lui vi desse particolare rilievo. Permaneva una specie di noiosa insensibilità alle dita che, inibendogli in parte il tatto, gli sembrava rallentasse la presa dei vari oggetti. Ma era così indaffarato a pensare agli impegni quotidiani che quei sintomi vennero rubricati come fastidiosi inceppi alle ordinate sequenze che si era prefissato di rispettare.

“Mi stai trascurando”. La vocina era chiara, era meno chiaro da dove essa provenisse.
In cucina non c’era nessuno, la moglie era in bagno a farsi la doccia, il gatto era uscito all’alba per le sue scorribande. Chi poteva aver parlato?
“Non ti sei accorto dei miei cambiamenti”, disse ancora la vocina che sembrava non distante da lui, anzi era così prossima che poteva toccarla con mano.
Toccarla con mano, ecco di cosa si trattava, era la sua mano. Ma come poteva parlare la sua mano?
Si guardò intorno, sospettoso, prima di dirigere con cautela lo sguardo su di essa: diede un grido trattenuto, perché ciò che vide era sconvolgente. Un dolce viso di fanciulla aveva preso il posto della sua mano e da lì lo stava guardando amorevolmente. Non era distaccato da lui, faceva parte di lui, non sapeva dire come, ma il suo braccio si era trasformato nel corpo di questa figura che gli stava parlando con il massimo della tenerezza possibile. Con voce suadente voleva convincerlo che non si sarebbero lasciati mai, che lei sarebbe stata la sua musa e il suo ‘braccio destro’. “Non è quello che hai sempre cercato?”, chiese.
Nonostante il tumulto interiore, il tempo pareva immobile e lui non sapeva che cosa rispondere. In tutta sincerità era frastornato e ne aveva ben donde. Non sapeva di aver avuto simili desideri. Epperò tutto aveva un’aria così familiare e aliena nello stesso tempo.
Passi quel capovolgimento che gliela aveva mostrata prima di piedi e poi di testa: forse non è così che avviene quando ci giriamo nelle pance per nascere ‘di testa’? Ma che cosa gli veniva in mente? Di che ‘parto’ stava parlando? Non è che invece stava letteralmente andando via col cervello? Quel brulichio di pensieri e sensazioni che non poteva controllare lo metteva a disagio. Perché, pensandoci proprio bene, quello che lei gli aveva proposto non era poi così avulso da un suo profondo sentire affettivo: certo, la realizzazione di un sogno, di un desiderio che adesso aveva lì, a portata di mano! ‘Mano’, e non soltanto in senso metaforico!
Di punto in bianco decise che quel giorno non si sarebbe presentato a scuola, avrebbe disdetto anche gli impegni in agenda: doveva pensare a come gestire un evento che non si presentava di facile soluzione.
Che cosa avrebbe detto a sua moglie, agli amici, ai conoscenti qualora avessero scoperto la deliziosa fanciulla in miniatura che si era materializzata in quel braccio?
Oltretutto, adesso che era inverno, era ancora possibile tenere celata quella creatura ma quando i primi caldi si sarebbero manifestati come avrebbe fatto a nasconderla?
E poi gli altri l’avrebbero vista allo stesso modo in cui lui la vedeva? E come avrebbe fatto a testare questo? Non si trattava di un tatuaggio, ella aveva una corposità di tutto rispetto, una donnina mignon, jolie jolie, dotata di tutti i requisiti necessari.
Non solo fisici ma anche ‘spirituali’, perché gli chiedeva di far parte di lui senza condizioni.
“Ma che vuoi da me in cambio?”. Non ebbe nemmeno il tempo di terminare la frase che sua moglie gli gridò dal corridoio: “Ma che, stai parlando da solo a voce alta?”.
Fece per tirare giù la manica della camicia per non far scoprire il segreto e con grande stupore si accorse che la fanciulla era sparita: il suo braccio gli si presentava con tutta la sua maschia tonicità.
Ma che scherzo era quello? Poteva essere che la giovanetta avesse paura della moglie e quindi si fosse defilata. Sarebbe stato anche comprensibile tenendo conto del carattere impegnativo (per non dire altro) della signora! Ma perché nascondersi a lui?
Andò in bagno, vi si chiuse a chiave, si spogliò e meticolosamente guardò il suo corpo a scoprire dove diavolo la dolce ospite si era cacciata. Ma la ricerca fu infruttuosa.
Quel giorno e anche quello successivo, ella non apparve nonostante alla mattina lui con scrupolo creasse delle condizioni ottimali alla sua apparizione, ovvero mettendosi al riparo da eventuali incursioni coniugali. Tutto questo lavorio, questo impegno gli sollecitava una generalizzata animosità nei confronti del mondo circostante causando negli altri una reiterata domanda “ma che hai, oggi?” e che incominciava a dargli la nausea.
A scuola, una allieva impertinente gli disse, davanti a tutta la classe – facendo il verso ad analoga battuta che tempo addietro lui le aveva fatto – , “ma professore che ha? E’ innamorato?”. Beh, di certo non si sentiva completamente compos sui.

Accadde di pomeriggio, mentre nel suo studio si stava districando sul come avrebbe potuto presentare agli studenti la funzione che ha l’ideologia nella interpretazione del ‘reale’. Di quanto essa sia presente anche quando siamo convinti di essere liberi pensatori.
“Ciao”, sentì dire da una vocetta che non aveva più bisogno di presentazioni.
Velocemente corse in bagno, si tolse la giacca da camera, arrotolò la manica della camicia ed eccola lì, la sua ‘piccola’, più deliziosa che mai e la cui assenza lo aveva fatto stare in ambasce per ben tre giornate intere!
Accanto al piacere di rivederla gli montò la collera: “Dov’eri andata?” chiese, sul brusco.
“E dove vuoi che vada! Sono sempre stata con te”.
“Non è vero. Non ti ho vista!”
“Ma mi hai pensata. Non potevi staccare il pensiero da me, facevi fatica a concentrarti perfino nelle cose più semplici. Hai fatto cadere la teiera di Limoges, eppure la tua funzionalità manuale non è compromessa dalla mia presenza!”
“Ma io ho bisogno di vederti, di parlarti….” e, con sforzo, aggiunse queste parole, “di toccarti!”, mentre con le dita della mano sinistra leggermente le sfiorava il volto, le spalle fermandosi lì di colpo e arrossendo, come se quel lecito girovagare con i polpastrelli lo portasse inconsapevolmente a superare illeciti confini.
Lei ridacchiò, disse qualche cosa che lui non capì, forse riguardava il concetto dell’andare a fondo, ma a che cosa ella si riferisse non gli fu chiaro. Non ebbe tempo di interrogarla, lei disse ciao, ciao e sparì di nuovo.
“Fermati!”, gridò lui afferrandosi il braccio e torcendoselo fino a farsi male. “Fermati!”.
Fu tutto inutile.
Quando si è prigionieri è importante sapere il chi, il come e il perché: ciò ci favorisce un indirizzo verso cui rivolgere la rabbia e i tentativi di riguadagnare la libertà. Ma nel suo caso la cosa era davvero problematica. Egli era nel contempo padrone e schiavo: non era forse suo il braccio? Eppure ‘lei’ veniva quando decideva lei e non rispondeva, nonostante le promesse fattegli all’inizio che sarebbe stata sempre al suo fianco, quando lui ne avesse avuto bisogno!

I suoi amici e colleghi erano un po’ preoccupati perché ogni tanto sembrava allontanarsi dai loro discorsi e non darvi più retta; e sua moglie pure, avendo notato le lunghe ed immotivate, almeno così sembrava, sedute in bagno. Oltretutto era diventato irascibile e fastidioso su ogni cosa.
Anche con la fanciulla trovava da ridire e ciò accadeva sia nei suoi dialoghi interiori, quando ella non era ‘fisicamente’ presente, e sia quando si faceva materia, materia nel suo braccio.
“Mi hai fatto promesse che non hai mantenuto”, le rinfacciava.
“Sì”, rispondeva lei, “ho promesso che posso darti quello che desideri, ma a condizione che tu mi sia fedele”
Ma che cosa voleva dire ‘fedele’? “Vuoi che lasci mia moglie?” chiese titubante.
“No. Non si tratta di questo. E’ che preferisci dare retta alla realtà piuttosto che a me.
Non capisci che sono io, io, la realtà? Una realtà che si fa consustanziale al sentire?
Infatti, ciò che tu senti, io sono. Ma non ti accorgi che non riesci a sentire altro da me e che quando ci tenti ti senti mancante di qualche cosa di vitale?”
Non poteva che convenirne. Ma quale demone lo stava possedendo?
Si era venuta a creare una situazione anomala: più lui cercava di interrogarsi e muoversi nel regime della razionalità e più si ingarbugliava: era come una mosca che, nella tela del ragno, cerca di riprendere la sua libertà ma ormai il ragno se l’è bella che impacchettata.

Gli era sempre più necessario poter parlare con lei, chiarirsi e chiarire la loro posizione. Lei lo ‘prendeva’ oltre misura, entrava anche nei suoi sogni, non ne poteva fare a meno. Ma se da un lato voleva farsene una ragione dall’altro desiderava mandare all’inferno tutte le ragioni di questo mondo: lei era lì, sua, ne aveva un bisogno vitale, era o non era il suo braccio destro? Ma che se ne faceva ridotto in quello stato! Non che avesse perso l’agibilità del braccio, ma aveva sempre paura che la figura di lei si palesasse anche agli altri, bastava magari una piccola distrazione e…
E la necessità di confronto lo prendeva all’improvviso, nei momenti più imprevedibili, facendolo sentire nel pericolo di dare in escandescenze senza che ci fosse un giustificato e palese motivo.
Come quel giorno al ristorante. La sala era deserta eccetto una coppietta assorta dall’estrinsecare effusioni e indifferente di fronte a tutto.
Il cameriere andava avanti e indietro lungo il corridoio mettendo a posto un tovagliolo, raddrizzando una forchetta, spostando un vasetto di fiori e lui, preso dal pressante desiderio di lei, aveva bisogno di un momento di privacy per poter tirare su la manica. La sua collericità, che stava crescendo ad ogni passo che risuonava nella sala, l’aveva portato ad un pelo dall’urlargli di smetterla di andare su e giù: l’unico elemento di dissuasione è che rischiava di mettere allo scoperto la presenza di lei.
Così si tacque. Ma lei non si materializzò.

C’erano state piogge intense in quei giorni e finalmente era spuntato il sole.
Lui aveva deciso di andare a fare una passeggiata lungo il fiume: una passeggiata corroborante anche perché avrebbe potuto parlare tranquillamente con lei senza timore di intrusioni.
Si trattava di capire – e si rendeva conto che il bisogno partiva essenzialmente da lui – quali benefici concreti gli stavano derivando da quella ‘relazione’, se così si poteva chiamare. Ne stava individuando uno, ad esempio, che aveva a che fare con la speranza e avere la speranza è una bella cosa. Salvo che c’era una condizione. Pareva che, per mantenerla, bisognasse insistere sulla via presa e non desistere anche se non se ne capivano più bene le ragioni. Un giorno il braccio destro, cioè lei, gliele avrebbe finalmente mostrate: aveva o no detto che poteva affidarsi a lei ciecamente?
Una cosa però stava incominciando a intuire e cioè di quanto il dubitare sulle cose le desse fastidio, la contrariava e così faceva il broncio atteggiando la boccuccia come fanno le adolescenti vezzose. Era adorabile, c’era di che rimanere incantati, però…

Da una zolla pantanosa si staccò un sasso su cui, preso dai suoi discorsi interiori, aveva inavvertitamente messo il piede. Scivolò in acqua dove il fiume faceva una leggera ansa e dove la corrente non era forte. Era un abile nuotatore e la cosa non si presentava come un problema ma lei apparve all’improvviso e gli stava paralizzando il braccio intralciandolo nei suoi movimenti, pareva che le parti adesso si fossero invertite e fosse lei ad avere paura che lui la abbandonasse. E lui cercava di tranquillizzarla anche se rabbiosamente tentava di scrollarsela di dosso ma lei gli si avvinghiava lo tirava giù, giù, sempre più giù…

Aprile 2010

19 pensieri su “Il braccio destro

  1. Mi complimento con Rita Simonitto per il suo racconto, per l’abilità, non solo stilistica, con la quale ha saputo mettere in luce le fobie e i turbamenti della mente del personaggio. L’evento straordinario del quale è fatto oggetto (la creazione di un alter ego, di sesso opposto) lo condurrà alla perdita del controllo delle proprie emozioni e, infine, alla morte.
    Non è la prima volta che i racconti di Simonitto affrontano il tema della dualità mente-corpo, come anche noto una specie di sotto-missione che porta i protagonisti ad una sorta di resa (mi sembra che ciò accade anche nel racconto delle forbicine, ma dovrei rileggerlo) nel momento in cui il malcapitato di turno capisce che non potrà governare il proprio corpo con la sola volontà.
    Sicuramente il messaggio del racconto è un altro e, sono certa, questa mia lettura ‘esistenziale’ non riesce a coglierlo, voglio dire però che questo raccontare senza una logica apparente a me piace molto.

  2. …Anch’io ringrazio Rita Simonitto per questo scritto che sa raccontare il dramma di un personaggio (o due?) che vive il bel mezzo di una trasformazione di crescita, credo, di integrazione di una parte di sé “alter ego di sesso opposto” (Giuseppina Di Leo), che viveva già sotto la “copertura” di una personalità sicura, che dava un valore fattivo al tempo della sua vita, di cui contava persino i giorni (quanti di noi?)…Da quando questa “nuova” presenza si era incarnata, impossessata del suo braccio destro, nella forma di una fanciulla adorante, lui aveva perso in parte “la scioltezza che gli era nota” e rischiava di destabilizzare il suo “equilibrio” interiore, quanto il rapporto con le persone reali della sua esistenza…Ma ormai anche “lei” pretendeva di essere reale e di tenerne conto, ma tanto era forte nello stringergli il braccio, quanto evanescente, come un fantasma (non si erano quasi mai toccati), un feto mai completato in acque pericolose, dove entrambi rischiavano la morte…E proprio quest’ultimo episodio nelle acque del fiume, di massima tragicità, in cui sembrano incontrarsi nella massima unione e scontrarsi due volontà (allora sono due?) di vita e di morte, per cui “lei” gli si avvinghia, temendo di essere abbandonata, tirandolo ” giù, giù, sempre più giù…”
    Così finisce il racconto di Rita, ma forse è solo sospeso in attesa che noi possiamo immaginare il proseguo…tragico o più vitale. In fondo i “due” personaggi hanno evitato dialogare, di toccarsi, per pudore o per paura, si sono reciprocamente trasformati in mostri sacri, che attengono solo alla morte, mentre magari lui è solo un guerriero buono, lei una lumachina, un fiore che deve uscire da un incantesimo…

  3. Lo ho letto con molto piacere, perché la scrittura sciolta e piana ha in realtà un continuo spessore retorico, fantasmatico e concettuale.
    Si intrecciano parecchi temi in quel braccio “trasformista”: il sesso come autoerotismo e fantasie adolescenziali; la differenza sessuale come coincidenza e come distanza, come pesante identificazione di ruoli, come sostanziale subordinazione della donna-ragazza a “braccio destro”; il capovolgimento filosofico del primato della nascita rispetto alla morte nella filosofia femminista; e infine il tema dell’ideologia che si dilata fino alla follia che imprigiona, come una malattia che rinchiude la vita e la porta alla morte.
    Bello!

  4. …le sintesi supreme di cui Cristiana è capace, colpiscono sempre…certo mi fa riflettere sul fatto che il rapporto tra i due aspetti, maschile e femminile, del personaggio del racconto vivono due dimensioni completamente diverse. Il primo è definito socialmente molto bene: è un insegnante, ha la moglie, gli amici, i colleghi, gli studenti a cui rendere conto, mentre la figura femminile, che compare a spezzoni, una mera fantasia avulsa dalla realtà, sembra dominata solo dal desiderio di fondersi con lui e di convincerlo di come abbiano un sentire solo…Un rapporto di innamoramento, di attrazione, ma anche di forza, di possibile annullamento reciproco…di “sostanziale subordinazione della donna-ragazza a “braccio destro” come dice Cristiana, ma anche del suo contrario: “ero come una mosca…nella tela del ragno” come sente il personaggio…”e infine il tema dell’ideologia…che imprigiona…”, ancora Cristiana a non fornire speranza ad una conclusione armoniosa di questo rapporto…In una fiaba si ricorrerebbe all'”intervento magico”, ma questa è realtà

  5. Le implicazioni di natura filosofica e sociologica, compreso il femminismo e l’onanismo, di cui parla Cristiana Fischer, ci stanno, ma mi viene da dire che ci stanno sempre in tutte le manifestazioni di pensiero, arte inclusa. Sentivo dire, per esempio, che Gaudì, con le sue architetture fantasiose e incredibili elevate verso il cielo e la fede religiosa, non ha fatto altro che riprodurre incessantemente forme falliche e uterine. Sebbene a me abbiano dato, avendo avuto modo di ammirarle, un’impressione ben diversa, improntate cioè alla ricerca della perfezione. Però se consideriamo la perfezione con la forma del guscio (e qui cito Lucio Mayoor Tosi e la sua ultima poesia nel suo blog), forse è vero ciò che gli esperti d’arte dicono.
    Ho fatto questa premessa ‘fuori luogo’ perché, tornando al racconto di Rita Simonitto, la mia impressione si discosta da quella di Cristiana e di Annamaria perché penso che al personaggio in questione manchi la capacità critica. Quasi che l’essere quadrato e razionale quale il personaggio dimostra inizialmente di essere, in realtà diventa poi incapace di gestire il rapporto tra sé-corpo e sé-desiderio. La dualità o il dualismo del personaggio, a mio modo di vedere, si manifesta tra quel timore iniziale e il vero e proprio autocompiacimento successivo. E, nonostante ciò, nonostante cioè l’appagamento che prova per quella creatura bizzarra, anziché reagire da persona pensante rimane affetto da una passività che sarà cronica. Criticarsi è meglio che curarsi, mi verrebbe da dire.

    1. Tra il sognare e il fare c’è di mezzo il mare, in questo caso il fiume.
      Il nostro io, avvinghiati ad esso fino alla morte. Che resta dei desideri che penetrano la mente e il corpo? Il sesso mortificato, la voglia di fuggire incapsulata in doveri che escludono la voglia di essere ciò che in realtà siamo . La morte se ne appropria, avida di tutto. per finire in questo caso vittime di noi stessi e di tutto ciò che ci ha attratti e di cui non abbiamo voluto ascoltare la grande potenza , la potenza della vita. Bene Rita! Bene bene

      1. …”tra il sognare e il fare c’è di mezzo il mare, in questo caso il fiume. Il nostro io avvinghiati ad esso fino alla morte…” Emy sono tanto tentata di pensarla anch’io così e comunque so che le spinte interiori sono molteplici e non quantificabili, come i comportamenti non si possono giudicare, tuttavia sono convinta che quell’io, la nostra identità imperfetta, sottintende molte cose: sentimenti, impegni promesse a persone e valori da difendere, la Storia che bussa alla porta (oggi è il primo Maggio)…Azzerare per aver interiorizzato una nuova dimensione, mi sembra avvilente. Secondo me, il personaggio può recuperare l’uso del braccio, se mai con un ingrediente in più…che forse attiene al mondo della poesia

  6. …sì, Giuseppina, penso anch’io che il personaggio si deve curare, ma non perché è affetto da una strana patologia ( se vogliamo cambiare a volte dobbiamo correre il rischio di essere bizzarri) ma perché finalmente “scoperto” vive la sua situazione con una forte divisione interiore: tra gioia e disagio. Il secondo prende il sopravvento e non gli permette di portare a termine un cammino di integrazione. Teme la disintegrazione della sua “identità”, del suo mondo e in fondo dubita, anche se affezionato, della sua nuova e acerba dimensione…e ha anche delle buone ragioni, perché perdere il controllo di sé non sai dove ti può portare. Questo racconto di Rita , che spero poi ci dica, mi sembra sulla linea degli altri presentati o riferiti sul blog, come l’uomo-scarafaggio di Kafka, l’uomo-calabrone di Franco Nova…vita-morte e le umane trasformazioni

  7. Sono d’accordo con te Annamaria che la divisione sia il prodotto di una integrazione. E qui ci sarebbe da chiedersi: chi e che cosa ci divide?
    Ma mi fermo, attendo anch’io il commento di Rita.

    1. Giuseppina, visto che l’hai nominata: ieri sera la poesia Boom Shankar è misteriosamente sparita dalla mia pagina di fb, e senza che io abbia fatto nulla… com’è stato possibile?
      Rita, ho letto il tuo racconto ma non ho proprio tempo in questi giorni per commentare; piaciuto, ma dovrei rileggerlo, se il tema è il corpo-mente meriterebbe una riflessione.

      1. Che dire, Lucio? Accadono cose … che voi umani non potreste immaginarvi… (sul web).

        Ad Annamaria vorrei precisare che con “Criticarsi è meglio che curarsi”, intendevo dire che l’autocritica è salutare, cosa della quale il personaggio è incapace, quindi non già che avrebbe dovuto curarsi…

  8. Quando Giuseppina e Annamaria mi chiedono lumi immaginano che io sappia più di loro mentre invece so solo diversamente. Infatti, di fronte alla rilettura del mio stesso testo e dei commenti, mi trovo nelle loro identiche condizioni: di pormi e porre delle domande. Ad esempio che cosa intende Cristiana quando scrive: * il capovolgimento filosofico del primato della nascita rispetto alla morte nella filosofia femminista *?
    Inoltre, quando mi sono trovata di fronte alla immagine scelta da Ennio, sono rimasta stupefatta: come ha fatto a condensare attraverso quel dipinto una serie di significati che potevano essere presenti nel testo ma non nel mio orizzonte quando lo scrivevo. La storia mitica del giovinetto Ila, amato corpo e anima da Ercole, e che si inabissa nelle acque di una fonte trascinato giù dalle Ninfe, mi ha aperto a nuove domande, a nuove strade interpretative. Infatti non si tratta del giovinetto Narciso perso dalla bramosia di sé ma di un adolescente che si perde nelle (o a causa delle) brame dell’altro. Di Ercole prima e delle Ninfe, poi.
    *Vittime di noi stessi e di tutto ciò che ci ha attratti*, come scrive Emilia?
    Oppure un tentativo fallito *di integrazione di una parte di sé “alter ego di sesso opposto”, come scrive Giuseppina, nell’intenzione evolutiva di un passaggio da una posizione omo-sex ad una etero, però ancora immatura (*fantasie adolescenziali* come le chiama Cristiana)?
    In fondo ci sono più livelli interpretativi (come scrive Cristiana stessa).
    Anche lo scrittore mette fuori delle parti di sé alle quali può rimanere legato e da cui non può prescindere (ecco il formarsi dell’aspetto ideologico: non riconoscere quanto di proiettivo e di personale c’è nella realtà)!
    Certo, io sono anche quel personaggio – nel momento in cui proietta una sua idealità -nel rappresentare e costruire una storia.
    Ma il personaggio può (e quanto) prendere la mano all’autore?
    Se penso all’origine di questo racconto mi sono accorta di come l’evento che ha dato l’avvio alla storia ha fatto partire tutta una serie di associazioni staccandomi dal reale.
    Era successo che in treno – oggi è di moda questa ‘intimità diffusa’ per cui al telefonino le persone parlano tranquillamente dei loro fatti intimi – un signore stava dicendo enfaticamente ad un interlocutore/trice in ascolto: “non puoi chiedermi di lasciarla! E’ la mia vita… Sarebbe come se tu mi chiedessi di tagliarmi il braccio destro”.
    Di chi stava parlando? Di una fidanzata, di una amante, di una segretaria, di un’auto? Di una teoria, di una visione del mondo? Forse tutto questo o niente di tutto questo, ma ormai non mi interessava saperlo e quindi di continuare ad origliare. Ciò che mi aveva colpito era questa idea di contiguità massima. Contrabbandata come vitale.
    Non c’è uno spazio che intercorre tra sé e l’altro ma una continuità che non prevede cesure. Quindi se non c’è prima questa separazione nessuna integrazione è possibile e nemmeno la *capacità critica* (Giuseppina).
    [@ Mayoor: fra corpo e mente c’è cesura o continuità?]
    Ecco allora l’ideologia che pretende di farci vedere la realtà così come essa viene percepita (l’ideologia resta sempre una fanciullina: e non può che rimanere tale, in quanto non accetta il dubbio, il confronto, il passare del tempo ma funziona solo sulle basi seduttive e ricattatorie del “o con me o contro di me”).
    Nelle acque del fiume, l’incontro è veramente tragico, come scrive Annamaria, perché in quel frangente il protagonista si accorge che ciò che gli appariva seducente (la fanciulla/ideologia) come alternativa alla ‘ragione’ che lo costringeva a computare tutto, rischiava di trasformarsi in qualche cosa di mortifero.
    Di finire come Ila, di cui rimase soltanto la voce che gridava “aiuto”: non ebbe nemmeno (o almeno così mi pare) nemmeno il premio di una ‘metamorfosi’ come capitò a Narciso, trasformato in fiore.

    R.S.

    1. Solo su un punto per ora:
      “Inoltre, quando mi sono trovata di fronte alla immagine scelta da Ennio, sono rimasta stupefatta: come ha fatto a condensare attraverso quel dipinto una serie di significati che potevano essere presenti nel testo ma non nel mio orizzonte quando lo scrivevo.” (Rita)

      Le immagini le scelgo da quelle che mi offre la “banca dati” di Google, partendo semplicemente da alcune parole-chiave ricavate dalla lettura del testo proposto.
      Questa mi è parsa la più appropriata. Confesso: non conoscevo il mito di Ila. Mi ha attirato il gioco delle braccia ( del giovane e della ninfa che lo accoglie) e l’acqua.

  9. Per il primato della nascita A. Cavarero, Dire la nascita, in AA.VV. Diotima. Mettere al mondo il mondo, La Tartaruga, Milano 1990 e http://www.adateoriafemminista.it/wp-content/uploads/2013/10/ada6_00_editoriale.pdf
    Mi è sorta spontanea l’associazione leggendo la frase “Epperò tutto aveva un’aria così familiare e aliena nello stesso tempo. Passi quel capovolgimento che gliela aveva mostrata prima di piedi e poi di testa: forse non è così che avviene quando ci giriamo nelle pance per nascere ‘di testa’? Ma che cosa gli veniva in mente? Di che ‘parto’ stava parlando?”
    La fanciullina poi si trasformerà in trappola mortale, ma prima ha la tenerezza sorprendente della nascita.

    1. p.s.: era l’accoppiamento di “capovolgimento” e “nascita” che mi aveva acceso un richiamo!

  10. Aveva colpito anche me l’immagine di apertura e, senza sapere perché, mi sembrava inappropriata (Ennio non me ne vorrà, anche perché non c’entra, come ha già spiegato). Ma nemmeno io conoscevo la storia di Ila.
    Trovo molto interessante quando Rita dice: *Anche lo scrittore mette fuori delle parti di sé alle quali può rimanere legato e da cui non può prescindere (ecco il formarsi dell’aspetto ideologico: non riconoscere quanto di proiettivo e di personale c’è nella realtà)!*. Ci sarebbe da riflettere, anche per la differenza di impostazione che connota invece un testo poetico rispetto alla prosa.

    1. @ Di Leo

      Inappropriata no. Ho infatti scritto :”Questa mi è parsa la più appropriata”. E aggiunto: “Mi ha attirato il gioco delle braccia ( del giovane e della ninfa che lo accoglie) e l’acqua.” E nel racconto di braccio e di attrazione si parla.

  11. Ennio, inappropriata lo è secondo me, perché mi era apparsa ‘eccessiva’ vista la responsabilità del protagonista nel suo svolgersi della narrazione.

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