Sulle misere “Cinque giornate di Milano”

Lapidazione di cristo per  incidenti a MI

di Ennio Abate

Questa è la mia personale riflessione sui fatti di Milano accaduti il 1° maggio, festa oramai dell’Expo e non più dei lavoratori.  Altri – redattori e collaboratori di Poliscritture – interverranno se e come vorranno. [E. A.]

Siamo sempre alla ripetizione della vecchia storia. I più anziani di noi ricorderanno la teoria delle “due società” di Asor Rosa (circa 1977) che distingueva tra la “sinistra bene” e “gli autonomi cattivi”, ricorderanno le BR, i “compagni che sbagliano”, ecc. Fin quando i pacifisti saranno soltanto e soprattutto pacifisti e i violenti soltanto e soprattutto violenti non se ne uscirà. Non è questione di “ordine pubblico” o di “servizi d’ordine”. È questione di progetto politico che manca. Ci vorrebbe un Lenin capace di pensarne uno riassumibile in una parola d’ordine semplice e chiara, trovando il punto di fusione – fosse pure temporaneo – tra pacifismo attivo e violenza non gratuita o mediatica.
Nel frattempo tra esporre gli stracci di un Progresso fasullo all’Expo e esporre la rabbia fosse pure di pochi disadattati al Progresso fasullo non vedo differenza. La disoccupazione giovanile non l’hanno inventata loro e dà i suoi frutti ( che solo in queste occasioni appaiono malvagi). Das Kapital fornisce Milano di nuovi grattacieli e di nuove miserie periferiche, l’Expo multicolore e i giovani del “blocco nero”. Non rompete con le lamentele per le vetrine rotte e le auto bruciate. Misera cosa comunque rispetto alla “rottamazione” di Renzi & C. che nessuno ha saputo impedire.

P.s.

Guardate questo video del Corriere della sera  intitolato “La no Expo contestata dai milanesi: «Prendi la spugna e pulisci»” [qui], poi  chiedetevi  chi  ancora cerca di ragionare: la ragazza o i cittadini che hanno  partecipato alla manifestazione “Nessuno Tocchi Milano” e hanno ripulito  le mura imbrattate dalle scritte, riparato  a tempo di record i danni alle banche e ai negozi.   A me pare una conferma che la “caccia agli untori” sia cominciata (per ora siamo  ancora alle parolacce). Già  è annunciata un’altra manifestazione, “Milano non si piega“ di Forza Italia; e poi una fiaccolata della Lega.  Tutti sono indignati per la pagliuzza che i black blok hanno infilato nell’occhio dell’opulenta Milano e nessuno più vede la trave che  ha conficcato l’ Expo nei nostri. “C’è gente che mangia grazie all’Expo” urla il signore occhialuto. Eh, sì, bisogna vedere chi sono i mangiatori e quali porzioni gli sono state servite.

 

 

 

 

82 pensieri su “Sulle misere “Cinque giornate di Milano”

  1. Sinistra italiana: correva da tempo verso la sua distruzione. PDS, DS, PD.
    Si fossero fermate, le menti politiche, almeno ai, o al, DS.
    Oggi 74enne, il mio primo voto al PS di allora. Poi sempre PCI. Poi PDS. Poi DS. Nelle ultime elezioni: astenuta.
    Il mondo italiano – di sinistra -, che la mia generazione ha conosciuto, e vissuto, è finito per sempre, e da anni. Se dovessi vivere fino ai 94 anni – cosa che non mi auguro (per altre ragioni) -, forse – ma solo forse -, una ricostruzione di qui a ventanni, chi sa, forse, sarebbe visibile. Ma con quali mezzi – politici – nei prossimi ventanni?

  2. Trovo assolutamente legittima e comprensibile la protesta degli esclusi, in qualsiasi forma si manifesti. Tuttavia osservo che difficilmente si potrà cambiare qualcosa nell’equilibrio tra oppressi e oppressori; se era difficile trent’anni fa, oggi lo è ancora di più. Non basta aver migliorato le tecniche di guerriglia urbana, servono altre soluzioni, altri comportamenti di disobbedienza: a parer mio serve un veleno nelle istituzioni, in modo da generare tracollo delle stesse e progressivo cambiamento. Il veleno nelle istituzioni c’è e si chiama Movimento 5 stelle, purché non si fermi al reddito di cittadinanza e dica sempre in quale ampia prospettiva ci si dovrebbe muovere ( lavoro, ecologia, scienza ecc). Ogni azione dovrebbe avere un chiaro scopo e andrebbe detto, non può essere solo l’urlo di chi non ha niente da perdere. Non basta essere contro, bisogna dire anche perché e per cosa si fa. Gli obiettivi anti-expo sono riduttivi, e non comunicano perché mancano di sincerità e approfondimento.

  3. …se lo dovevano ampiamente aspettare… Veramente di cattivo gusto far coincidere l’inizio di un evento, l’Expo -tra l’altro “un’eccellenza” che sottolinea ancor di più, per contrasto, la miseria che nelle intenzioni vorrebbe debellare- e il Primo Maggio, considerata la festa del lavoro, l’isola che non c’è oggi soprattutto per i giovani. Un accostamento davvero esplosivo, che poteva solo generare un atto di protesta, per giunta non apprezzato dalla popolazione…forse perché, come dice Mayoor, non sufficientemente preparato e motivato, affidato, nel suo manifestarsi più appariscente, ai black block. Così sono apparse più evidenti le immediate conseguenze negative ( certo niente, come dice Ennio, rispetto a quelle che ci propinano dall’alto) sul’ambiente-incendi devastazioni- che le giuste motivazioni …

  4. C’era una volta il Lavoro, era con la L maiuscola e giustamente lo si festeggiava il 1 maggio, perché dava serenità e pane in tavola. Chi l’ha mutilato? Chi lo ha soppiantato con i licenziamenti, con la disoccupazione, con la disperazione? Certo non i lavoratori, non i piccoli imprenditori che si uccidono, non i giovani che lo cercano invano… Allora chi e che cosa? Il Potere? La Finanza? la Globalizzazione? L’Europa è come un grande gioco del Monopoli, dove chi ha più soldi compra, a prescindere se una azienda è in attivo o meno, e quando ha comprato crea gli esuberi. Che colpa ha un lavoratore se la sua fabbrica decide di trasferirsi e produrre all’estero? L’economia è malata, ma è una malattia in malafede e purtroppo in questo campo i potenziali medici sono mercanti e come tali fanno orecchie da mercanti…In questo contesto l’expo è una bella maschera, ma non riesce a nascondere la situazione reale del Paese.

  5. La spaccatura tra quelli del -prendi la spugna-, oppure -vai a lavorare lavati-, fin dall’-allora vai in Russia- di 50 anni fa, è sempre la stessa, mi pare, quello che manca è la politica.
    E’ concorde anche l’analisi che fa Ida Dominijanni ne Il trucco, Ediesse, 2014: “sullo sfondo lungo della rivoluzione conservatrice che scatta in Italia a chiusura del ‘decennio dei movimenti’ … Quella destabilizzazione e quella rivoluzione domandavano, soprattutto nel campo della sinistra che ne era stato maggiormente investito, una reinvenzione della politica che è mancata”.
    Ma la lettura che fa ID della ‘congiuntura Sessantotto-femminismo’ prende una strada precisa: la “separazione delle donne dagli uomini … fu … un taglio , che poneva l’urgenza di un ripensamento radicale dello statuto della politica. L’irruzione del corpo e della parola femminile nella sfera pubblica non comportava un’aggiunta del dominio sessuale alla mappa dei poteri, delle donne al fronte degli oppressi e della parità di genere al catalogo dei diritti: domandava un salto di razionalità nella concezione del soggetto, del legame sociale, delle forme della mediazione simbolica”.
    Qui per politica si intende qualcosa che non si identifica col ‘progetto politico’ richiamato da EA e questo si dovrebbe discutere! Proprio la ragazza del video, e anche un’altra di un altro video http://video.corriere.it/attivsta-centro-sociale-a-milano-c-ero-comprendo-chi-ha-devastato-tutto/8e843d60-f19a-11e4-a8c9-e054974d005e, mostrano una forza specificamente femminile di scollamento e opposizione, che interroga.
    Continua ID (pp 172-173-174) “lo ‘scollamento tra dimensione materiale e dimensione simbolica’ che da allora, soprattutto a sinistra, affligge la politica ha una causa specifica nella mancata risposta al taglio femminista … riportando il discorso della differenza all’ossessione della parità … il paradigma della libertà al paradigma dell’oppressione … mentre l’asse ereditario della politica maschile si riaggiusta attorno a un giovane leader che fa della rottamazione di qualunque genealogia politica, paterna e materna, nonché della rottura di qualunque patto fraterno, il suo punto di forza, e aggiunge ‘paritariamente’ le donne a questa impresa”.
    Il libro di ID, credo di averlo un po’ fatto intendere, affronta il tema della politica di destra e di sinistra con una radicalità di cui non si può fare a meno. Per pensare un ‘punto di fusione tra pacifismo attivo e violenza non gratuita o mediatica’ occorre interrogare anche quelle presenze femminili che non si pongono affatto come figuranti dei maschi.

  6. Siete sicuri che i Black bloc esistano? Cosa si é fatto per il trionfo della “Democrazia”, ragnatela strategia della tensione compresa , all inclusive, l’abbiamo già dimenticato?

  7. Caro Ennio,
    la tua analisi è sbagliata in radice. In poche righe riesci a raggiungere vette di terribile, involontaria comicità. “Ci vorrebbe un Lenin” – dici – e ti inchiodi così da solo a un passato remoto e fallimentare. In verità fu proprio dagli errori teorici e pratici del piccolo borghese russo Vladimir Il’ič Ul’janov che vennero gettati i semi di tutte le tragedie del marxismo non marxiano che hanno funestato il Novecento. Non sapere o non riconoscere questa realtà storica è responsabilità grave per tutti, ancor più per gli intellettuali, maxime per un intellettuale e artista del tuo livello.
    “Non rompete con le lamentele per le vetrine rotte e le auto bruciate” – dici -. Ma non era lo stesso Marx ad ammonire gli operai a non distruggere nulla, tanto meno le loro fabbriche? Vladimir Il’ič Ul’janov, nella furia di voler imporre il socialismo ad una società feudale, dimenticò la saggia, prudente lezione marxiana. E tu sembri stare ancor oggi sulla stessa sciagurata linea del russo.
    Nel tuo breve scritto c’è però qualcosa di buono: evochi le antiche parabole evangeliche e parli di “trave” e “pagliuzza”. Ecco, ricominciamo da noi stessi. E togliamo subito di mezzo la trave del leninismo!
    Un caro saluto.
    Paolo

  8. Insomma, per Paolo Ottaviani basterebbe collocarsi prima del Lenin di Che fare? (1905, se non ricordo male) per … tornare al vangelo!
    Certo, chi più di me (in questo sito) si muove su scenari millenari?
    Ma oggi, oggi, o si torna a papa Francesco benemerito, con annessi e connessi però, o si pensa a un altro mondo diverso, chè quello di duemila anni ormai lo conosciamo bene, nei particolari e nelle linee generali, direi.

    1. Mi sembra una giostra che gira follemente (expo), tutti si sono seduti con l’idea di divertirsi , di non pensare , di sospendere per un po’ le brutte faccende della disoccupazione e della corruzione, costi quel che costi.
      Ora la giostra non riesce a fermarsi, alcuni vomitano ,altri terrorizzati svengono altri ancora stramazzano al suolo nel tentativo di fermarsi.
      La politica interviene con parole fantastiche descrive l’importanza e la bellezza di questo Luna Park, la sua intenzione umanitaria , il divertimento assicurato. Continuano a girare, ormai hanno pagato il biglietto.
      Io resto allibita , tristemente meravigliata, perché sulla giostra ora non voglio salire, ma prima di Natale c’era un biglietto in offerta e l’ho acquistato.

  9. In sintesi:
    1) La violenza è legittima solo a scopo di autodifesa, cioè per salvare la pelle, in una situazione di pericolo immediato. In tutti gli altri casi è gratuita, è puro esercizio del peggior potere, quello della forza bruta. Chi ne fa uso si qualifica, già solo per questo, e non può meritare nessun apprezzamento né giustificazione. Casomai “compassione” e “comprensione” se è un gesto di rabbia istintivo e spontaneo, anche se del tutto controproducente.
    2) Il mezzo non giustifica il fine. Anzi: il mezzo è il fine. Chi vuole giustificare la violenza collettiva e terroristica con fini rivoluzionari per la costruzione di un futuro paradisiaco, non costruirà altro che una società violenta, dove la violenza sarà l’unico potere che conta. Ma non hanno insegnato niente le tante rivoluzioni finite nel peggiore dei modi: terrore, dittatura, oppressione, sangue, fame ecc.? E i tanti “idealisti” alla Lenin che hanno massacrato milioni di persone scrivendo ordini di fucilazione da cui appare un macabro gusto sadico?
    3) La storia ha largamente verificato la legge dell’eterogenesi dei fini. La politica non ottiene mai ciò che dice di volere ottenere, se ciò che vuole ottenere non lo mette in pratica da subito, in una prassi di vita rivoluzionaria (vita giorno per giorno, rivoluzione nel vivere giorno per giorno, non incoerenza quotidiana in attesa del momento x che dovrebbe fare il miracolo di annientare tutte le contraddizioni personali e collettive). La lotta contro il potere per mezzo del peggiore dei poteri, cioè della violenza collettiva un po’ a casaccio dei “blocchi neri”, porta come solo e certo risultato il rafforzamento del potere e dell’uso della violenza “legale”, porta al peggioramento delle condizioni di vita quotidiana di tutti, soprattutto dei ceti più deboli.
    4) Ma i blocconeristi se ne fregano, perché non sono affatto dei disgraziati arrabbiati, ma criminali di professione, più vicini ai militanti di “Arancia meccanica” che ai proletari delle periferie, ai disoccupati ecc.
    5) La vena di cultura romantica che ha già portato, nel passato, a stupide confusioni e simpatie fra criminalità, ribellione e rivoluzione, è una tipica vena della cultura borghese, di quella borghesia per cui la vita è sempre un gioco e mai davvero una cosa seria, a volte tragica; borghesia da salotto. La cultura proletaria autentica (non quella della “ligera”) si è sempre tenuta alla larga da queste pericolose simpatie.
    6) In effetti, poi, se si va a vedere le singole biografie dei blocconeristi, come degli autonomi e dei brigatisti di qualche decennio fa, si scopre che molti sono figli di papà nel senso più letterale e che spaccare tutto è per loro un puro divertimento slegato da qualunque progetto politico. I figli di papà hanno questa arroganza perché sanno che, se vengono presi e condannati, magari anche a qualche anno di prigione, se la cavano sempre e comunque. I semplici “coglioni” che li seguono (così si è letteralmente definito un blocconerista che, catturato, ha detto di essersi solo divertito non pensando che fosse una cosa grave e che non faceva parte di nessun gruppo politico; aggiungendo poi che si era pentito della coglioneria commessa) fanno solo la parte di carne da manovra.
    6) Ho un ricordo molto vivo di diversi studenti delle mie classi di liceo degli anni Settanta, alcuni finiti sulle cronache giudiziarie per avere sparato come militanti di gruppi armati. I figli di papà se la sono cavata e, anche dopo il carcere, hanno trovato un’ottima collocazione di lavoro e hanno fatto carriera. I figli di proletari che li hanno seguiti, invece, sono affondati, fra droga e scazzo gratuito, senza mai avere nessun aiuto dai loro ex leader che li hanno trascinati in quelle situazioni.
    7) Non ho mai trovato, fra i compagni, dico mai, un’autentica coerenza rivoluzionaria. Quella che un famoso predicatore cattolico francese della prima metà dell’Ottocento chiedeva ai francesi, dicendo loro: «Se volete migliorare la Francia, cominciate col migliorare voi stessi». La rivoluzione ha invece bisogno di una grande coerenza e di un grande senso etico e di rispetto per gli altri e per ciò che le società hanno costruito. Il puro odio e la pura violenza non portano da nessuna parte, se non al disastro e al rafforzamento del potere di governo, perché da sempre, e chi conosce un po’ di storia dovrebbe saperlo, le situazioni di “emergenza” sono servite per giustificare il rafforzamento dei poteri di governo.
    8) Oggi, poi, anche per chi non conosce Gandhi o il saggio «Disobbedienza civile» di Henry David Thoreau, la violenza ha perso di credito e di fascino ed è, giustamente dalla maggioranza, considerata la nicchia degli antisociali, di quelli, cioè, che non solo sono nemici della società attuale, sulla base di un giudizio che la condanna come ingiusta, ma di qualunque tipo di società, perché si avverte che la violenza dei blocconeristi e di altri analoghi protagonisti dello spacco non porta a nessuna forma di comunità possibile, perché è solo distruttiva e disgregativa, esercizio di odio senza alternativa e prospettiva.
    9) Per chi vuole costruire un progetto politico, dunque, la prima cosa da fare è prendere le distanze dall’uso della violenza, dal gioco al massacro, dalla rabbia senza idee e senza coerenza, dalla distruzione di ciò che capita a tiro. Nessuna complicità può essere possibile, nemmeno a livello di complicità morale e di semplice di simpatia.

    1. A proposito di violenza ore 20 di oggi notiziola del TG:
      “Altri 40 morti nel Mar Mediterraneo”
      “All’expo 1000 pizze al giorno”

      STOP?

  10. Sul punto 6, Aguzzi, non tutti.
    Il resto dei punti: li rileggerò.
    Ricordi – va detto – che sia Gandhi sia Ernesto Che Guevara – due esempi molto diversi di portare avanti una idea (nei modi) sono stati uccisi, così come M. Luther King e Malcom X.
    Per quanto riguarda i blocconeristi, è possibile mai che le organizzazioni degli altri e diversi manifestanti non pensino ad un modo – che c’è – ed è il più semplice possibile, perché i bb. rimangano da soli nelle prossime manifestazioni, che potrebbero esserci ancora, e su temi importanti – e pacifiche -? Di modo che il resto dei milanesi – o altri – neanche per un momento confondano gli uni e gli-le altre?

  11. Una volta, diciamo a Milano nella borghesia degli anni ’60, certe affermazioni di LA avevano una legittimità: crescita economica, mobilità sociale, partecipazione politica attiva, una chiesa aperta, ed ecco che la violenza diventava priva di senso.
    Ma oggi? Io sono anziana e al sicuro (tranne che dall’età) ma vedo ugualmente il nostro paese in vendita nel mercato liberista in cui tutti si presentano come uguali contraenti, alla faccia dell’articolo 3 della costituzione, secondo comma. (Si veda per esempio la riforma delle banche popolari…) E credo che negli altri paesi chiunque sappia vedere lo stesso quadro.
    Per dire che la violenza non è una parola astratta dal significato generico, ma una scelta personale e/o collettiva con motivazioni. Giuste o sbagliate, vero, ma per chi, in quale visione di lotta?
    La politica dovrebbe essere in grado di mediare le ragioni che spingono a ricorrere a quella violenza, ma non è in grado di farlo.
    Come chiede Anna Cascella, perché non si è in grado di fermarli? Anna Cascella chiede che fermino i bb le altre organizzazioni dei manifestanti, io chiedo perché non li fermano prima, dato che l’intelligence li conosce di sicuro. Per poter fare una stretta legislativa sull’ordine pubblico? Per giustificare questo governo fascinoso e scollegato dalla partecipazione politica?
    Con le geremiadi e i diktat moralistici si può contenere, come in una pentola a pressione, ma poi bisogna anche spegnere il fuoco.

  12. Se i bb sono conosciuti dall’intelligence, come lei crede che sia, Cristiana Fischer, essi non possono essere fermati “preventivamente” prima di ogni manifestazione. Non credo che ci sia una qualche disposizione di legge che permetta un fermo preventivo, tanto più di persone, siano esse bb, mai prima fermate o arrestate. Questo per quanto riguarda i bb italiani. Per i bb che arrivano da altri paesi, il responsabile delll’ordine pubblico di Milano ha dichiarato che non è possibile fermarli alle frontiere. Come può esserci un dispiegamento di polizia capillare, ad ogni manifestazione annunciata? Che fermi i bb in transito? Se i bb esistono davvero – Ro si poneva e poneva la domanda, anzi ha scritto “siete sicuri che i bb esistano?” -, e comunque sono molte le , manifestazioni in cui sotto quella dicitura appaiono, molte delle prossime siano non cortei ma sit in – non si metta e non mettetevi a ridere, vi prego -, tutti seduti in una grande piazza milanese o altrove -, e chi si alza per sfasciare è un bb. Quel “veleno” che auspicava Mayoor, per altro, le organizzazioni dei manifestanti devono trovarlo al loro interno, e capace di neutralizzare i velenosissimi morsi – da qualsiasi parte vengano – alle istanze. Le organizzazioni hanno preso o no coscienza che quasi ogni volta nei giorni dopo una manifestazione in tutti i media – o quasi – non proprio in tutti – si scrive e si parla solo dei bb, delle auto bruciate, dello sfascio, e che poi – e con tutto il completo rispetto per l’iniziativa e per Milano -, si scrive e si parla solo, o quasi, dei ventimila scesi in strada per ripulire la città dallo sfascio? Se sì, se ne sono consapevoli, esse devono trovare, inventare altri modi di manifestare. Che siano sit in, che sia altro: basterebbe organizzare quattro grandi manifestazioni tutte pronte e su temi interessanti per i bb, e, poi, farli ritrovare da soli… Possibile che non sia venuto in mente questo potentissimo veleno? Che certo non risolverebbe le realtà (lavoro, casa, scuola, riforme, globalizzazione, esuberi, licenziamenti, inquinamento, ambiente, e ancora e ancora – non dico”immigrazione”, perché realtà tale di morti e di guerre, che non può eessere solo enunciata -) ma chiarirebbe molto dei bb e sui bb. Alla terza o quarta volta che essi si ritrovassero da soli, ma già alla prima, vestiti neri, maschere a gas…Forse, da soli, giacché pare che arrivino vestiti come gli/le altre, non si travestirebbero e sfascerebbero normalmente vestiti, per confondere ma se si ritrovassero da soli…

  13. Riprendo alcune frasi di Cristiana Fischer che toccano temi trattati anche da altri:
    1) Fischer scrive: «Si veda per esempio la riforma delle banche popolari».
    Non capisco bene in che senso lo dica, io ci vedo, in questa riforma che ritengo sbagliata e illegittima, un’invasiva e abusiva intrusione del governo e del potere politico più in generale nella gestione, e a danno di essa, di forme di organizzazione di proprietà privata. Le banche popolari sono un residuo di una gestione di capitali privati, costituiti a scopi di solidarietà e di promozione dell’artigianato e piccola impresa, sempre più raro nel panorama economico. La riforma toglie loro questo carattere e le obbliga ad adottare i criteri propri del capitale finanziario quotato in borsa e delle società per azioni. Ad esempio i soci delle banche popolari non votano sulla base delle azioni possedute, ma per testa (voto capitario, cioè senza tener conto della differente quota azionaria), e tutti i voti sono uguali; inoltre i soci non possono possedere quote superiori allo 0,5% del capitale complessivo; e infine i soci sono in genere clienti della banca. Di conseguenza le banche popolari hanno una struttura mutualistica e cooperativa. La riforma distrugge questa base, le trasforma in società per azioni nelle quali un’azionista può essere anche estraneo alla clientela e investire solo per trarne profitto e arrivare ad ottenerne il controllo possedendo la quota azionaria di maggioranza o comunque determinante.
    Perché il governo Renzi, del Pd, fa questa riforma decisamente contraria agli interessi popolari? Non lo so, non ne capisco il senso, salvo che il senso non stia in queste conseguenze: a) lo Stato ci guadagna fiscalmente e in termini di potere di controllo, rafforzando così l’invasività Statale nei confronti della libertà privata; b) i politici al potere hanno in questo modo ulteriore spazio per manovre clientelari e elettorali (si pensi solo al piazzamento di propri uomini nel consigli di controllo della banche).
    Se questo è vero, ne viene confermato il mio giudizio sul governo Renzi, che non si distacca di una virgola dai metodi di accentramento del potere, di rapina, di clientelismo ecc. Politica contro il bene comune, non per il bene comune.
    Tuttavia spaccare le vetrine e incendiare le banche come simbolo del capitalismo e del potere non aiuta certo le banche popolari né nessuna esigenza e realtà dei cittadini in senso lato e dei ceti più deboli in specifico. Inoltre il «potere» contro cui dicono di lottare gli anarchici violenti di tutte le correnti, mi sembra una ipostatizzazione metafisica (si eleva a principio assoluto un fatto relativo), e fra l’altro tralascia del tutto la considerazione che in qualunque tipo di comunità organizzata (anche nelle più spinte utopie anarchiche, siano esse narrate in forma di progetto politico o di romanzo fantasociale) esiste comunque un potere ed esiste anche qualcosa di analogo alle banche. Per quanti libri abbia letto e per quanti «sperimenti mentali» abbia fatto, io non sono mai riuscito a vedere descritta, o immaginarmela per conto mio, una società organizzata in modo moderno in cui non vi sia comunque un problema di gestione del potere e uno di gestione della produzione e della distribuzione dei beni, che faccia a meno di «agenzie» di scambio fra crediti e beni, cioè di forme «bancarie» di raccolta, deposito e distribuzione di «ricchezza», qualunque forma materiale questa abbia.
    Si potrebbe pertanto stabilire una lontana complicità, in funzione contraria al cosiddetto bene comune e più concretamente contraria agli interessi della maggioranza della popolazione, fra il governo e gli anarchici, ma in nessun modo accreditare la violenza anarchica (di questi anarchici blocconeristi) come violenza contro il potere, come violenza rivoluzionaria e via dicendo.
    2) Fischer scrive: «Per dire che la violenza non è una parola astratta dal significato generico, ma una scelta personale e/o collettiva con motivazioni. Giuste o sbagliate, vero, ma per chi, in quale visione di lotta?».
    Certo, la violenza non è una parola astratta e presuppone delle scelte personali (anche quelle collettive si sciolgono in quelle personali di chi forma il collettivo), le quali hanno delle motivazioni. Ma proprio le motivazioni (soprattutto quelle di chi spacca per semplice divertimento) non sono accettabili e quindi vanno condannate, isolate, represse ogni volta che passano dall’idea al fatto.
    3) Fischer scrive: « La politica dovrebbe essere in grado di mediare le ragioni che spingono a ricorrere a quella violenza, ma non è in grado di farlo».
    Non è in grado di farlo per almeno tre motivi: a) Perché farlo comporta delle conseguenze che possono risultare contrarie agli interessi elettorali, per cui a volte la “politica” (ma anche questo è un termine astratto e sarebbe preferibile parlare di classe politica al potere) preferisce non farlo. b) Perché farlo comporta prendere delle decisioni forti, sia in senso riformistico per diminuire il livello conflittuale in seno alla società, sia in senso giudiziario per la repressione dei comportamenti illegali non mediabili. Ciò richiede una classe politica forte e sicura, bene orientata alla soluzione dei problemi, mentre la classe politica italiana è più orientata alla propria sopravvivenza e alla gestione dei propri interessi e delle clientele di riferimento. c) Una percentuale di conflitto è inevitabile e non tutto è mediabile; ci sarà sempre un certo livello di violenza dovuto a comportamenti considerati non accettabili (criminali, psicotici ecc.) e per i quali la società ha la necessità di adottare forme di difesa. Ogni sistema giuridico le prevede (anche i sistemi giuridici più primitivi basati sulle consuetudini non scritte), ma non sempre le istituzioni adibite all’applicazione sono in grado di farlo, o per mancanza di volontà, o di forza, o per lacune nelle leggi che permettono infinite scappatoie.
    4) Fischer scrive: «Come chiede Anna Cascella, perché non si è in grado di fermarli? Anna Cascella chiede che fermino i bb le altre organizzazioni dei manifestanti, io chiedo perché non li fermano prima, dato che l’intelligence li conosce di sicuro. Per poter fare una stretta legislativa sull’ordine pubblico? Per giustificare questo governo fascinoso e scollegato dalla partecipazione politica?».
    I motivi sono diversi e i più importanti mi sembrano:
    a) Le società democratiche, per quanto, come quella italiana, a “democrazia ridotta”, sono molto più vulnerabili delle società chiuse a regime dittatoriale, dove i governi fanno uso disinvolto del monopolio legale della violenza.
    b) I violenti, spesso professionisti (almeno i leader) con avvocati al seguito, hanno affinato la loro tattica e la loro strategia e usano in modo raffinato sia le regole (militari) della guerriglia sia le crepe esistenti nell’azione di prevenzione e repressione, approfittando di ogni spazio possibile.
    c) La magistratura, la polizia, la pubblica amministrazione (prefetture) e il ceto politico spesso preferiscono «non fare» piuttosto che «fare», quando il fare può avere conseguenze negative per la loro carriera. In sostanza preferiscono non assumersi responsabilità per non rischiare di pagarne le conseguenze. Nell’incertezza legislativa si preferisce applicare le leggi nel modo meno impegnativo, anche quando ciò provoca sicuramente danni all’incolumità delle cose e delle persone. Ciò non riguarda solo la violenza di piazza, ma tanti altri aspetti e problemi, come ad esempio la prevenzione dei tanti femminicidi, che quasi sempre è nulla, perché – risponde la magistratura – non si può arrestare uno per un crimine che non ha commesso, ma che forse potrebbe commettere. L’applicazione in misura larga del principio legittimo e sacrosanto di garanzia giuridica, in mancanza di altre forme di intervento preventivo e repressivo, fa il gioco di chi intende commettere un reato.
    Ne è un tipico esempio, per tornare alla violenza di piazza, quello dei black blok fermati il giorno prima in possesso di maschere, bastoni e altro, e rilasciati subito. Infatti il possesso di bastoni può comportare al massimo l’accusa di possesso di armi improprie, che non prevede l’arresto o il fermo o il carcere preventivo, ma solo una denuncia. Il magistrato che decidesse, assumendosi la responsabilità di una interpretazione estensiva e forte della legge, il fermo di 48 ore degli individui trovati in possesso di bastoni, rischierebbe di essere a sua volta denunciato per abuso di potere e non potrebbe in nessun modo dimostrare, il giorno prima, il nesso fra bastoni – manifestazione – violenza di piazza. Si potrebbero adottare altri provvedimenti, come l’allontanamento coatto dalla città con l’accompagnamento fisico in altro luogo indicato dall’individuo denunciato, ma ciò richiede decisioni coraggiose e disponibilità di uomini e mezzi in grande quantità, per cui di fatto non se ne fa niente.
    Nel momento in cui la manifestazione violenta di svolge, subentrano altri fattori, di carattere eminentemente politico. A Milano, ad esempio, si è adottata, da parte del governo, ministero dell’Interno, prefettura e capo della polizia, la strategia e tattica del contenimento, dando per scontato un certo livello di vetrine sfondate e macchine bruciate e accettando il fatto, pur di evitare la tattica del respingimento e dello scontro frontale che avrebbe potuto portare a qualche morto o ferito grave. In sostanza il governo ha deliberatamente scelto di sopportare i danni della violenza distruttiva, dando l’ordine alla polizia di non reagire e non intervenire né operare arresti in flagranza di reato, piuttosto che rischiare le ricadute politiche di dover giustificare morti o feriti nello scontro fra polizia e blocchi neri. La scelta può essere considerata saggia, oppure troppo debole e perdente, a secondo dei punti di vista. Ma certamente il governo non si è sentito talmente forte da contrastare di petto le violenze previste, preferendo contenerle e promettere subito che tutti i danni saranno risarciti.
    d) Infine, altro motivo, è che gli spacca vetrine trovano una certa complicità, magari solo passiva, all’interno dei cortei pacifici, di fatto “asfaltandoli”, come si usa dire. I cortei pacifici sono formati da persone con orientamenti politici e sociali molto diversi e mentre una parte è decisamente contraria alla violenza, altri, pur non compiendo atti violenti, in cuor loro approvano o giustificano la violenza e magari ci provano gusto a guardarla. In questo modo costituiscono la classica quinta colonna che permette ai black blok di mescolarsi, apparire e scomparire, sfuggendo quasi sempre alla cattura (e anche all’individuazione tramite le riprese video) da parte della polizia.
    5) La conseguenza di questa situazione sull’opinione pubblica è documentata dalle lettere che arrivano alle redazioni dei giornali e dai colloqui di strada e al bar: la richiesta di un’azione più energica, di leggi speciali, come ai “tempi delle BR”. In questo modo la violenza provoca, come suo unico risultato, il restringersi degli spazi di libertà, ottenendo il contrario di ciò che dice di volere ottenere. A meno che non voglia e non cerchi, secondo l’assurda massima politica già spesso praticata del «tanto peggio tanto meglio», proprio l’aggravarsi della situazione, illudendosi (e anche di questo la storia dei movimenti rivoluzionari ci offre tanti esempi) che questo favorisca il diffondersi delle adesioni a favore della rivoluzione. Naturalmente avviene sempre il contrario, soprattutto quando non si capisce a quale progetto rivoluzionario ci si riferisca e si vede solo l’uso cieco della violenza.
    6) Proprio per questo, gli autentici movimenti rivoluzionari (compresi quelli leninisti) hanno sempre esercitato un controllo sull’uso della violenza punendo drasticamente i militanti indisciplinati. Qualunque sia il giudizio sul merito di questi movimenti, è certo che non hanno mai approvato l’uso caotico e casuale della violenza, sforzandosi piuttosto di inquadrarla organizzativamente e scatenarla solo al momento giudicato opportuno. La stessa anarchia storica ha fatto un uso disciplinato della violenza e mirato o all’uccisione di sovrani e potenti uomini politici, o ad atti esemplari, come bruciare gli elenchi della leva militare, gli atti di proprietà degli archivi comunali ecc., che potessero venire giustificati agli occhi del popolo e approvati dagli operai e contadini. Quando ci sono stati attentati terroristici di altra natura, come ad esempio, a Milano, la bomba fatta esplodere al teatro Kursaal Diana (23 marzo 1921, 21 morti, 80 feriti) o quella della strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969), o non sono stati commessi dagli anarchici, falsamente accusati, oppure gli anarchici colpevoli sono stati smentiti dal movimento e il gesto è stato condannato come atto individuale e negativo.
    7) Per ultimo, la teorica del diritto di ribellione, elaborata fra Cinquecento e Settecento da vari autori, fra cui Locke a confronto con la seconda rivoluzione inglese, afferma il diritto del popolo di ribellarsi contro il governo tirannico o comunque considerato tale, ma prevede anche una serie di circostanze per definire la legittimità e l’opportunità della ribellione. In parole povere, la ribellione in forma violenta è legittima e opportuna (i due concetti non si sovrappongono, perché la rivoluzione può essere legittima ma non opportuna, opportuna ma non legittima; per cui è necessario che ci siano entrambi i requisiti) quando è: a) l’estrema e unica possibilità di evitare il male maggiore che si patisce sotto la tirannia; b) quando le possibilità di vittoria siano concrete; c) quando il bene che ci si prefigge di ottenere dalla rivoluzione supera il male (il danno) che la rivoluzione stessa provoca; d) quando il peso della tirannia non è altrimenti sopportabile e prorogabile.
    In sostanza la rivoluzione è legittima e opportuna quando è un atto di legittima difesa, ultimo e unico possibile, e condiviso dalla maggior parte della popolazione. Detto altrimenti, la rivoluzione è legittima quando mira a restituire ai cittadini i diritti usurpati dal potere illegittimo della tirannia e quando le conseguenze della rivoluzione stessa non siano peggiori della sopportazione della tirannia.
    8) Da questo punto di vista l’unica “rivoluzione” certamente legittima che si è avuta in Italia è quella compresa nel complesso dei fatti della Resistenza 1943-1945, in particolare negli aspetti che hanno mirato a restituire agli italiani i loro diritti politici e civili.

    1. NB. Ho usato le citazioni dell’intervento di Cristiana Fischer solo per comodità di organizzazione ed esposizione del mio intervento (appoggiandomi su quell’elenco di problemi già costruito), ma senza nessuna intenzione polemica, come mi sembra evidente e come qui voglio precisare a scanso di equivoci.

  14. …ritornando al Primo Maggio a Milano, pur non approvando l’azione violenta dei black bloc per varie ragioni, non credo opportuno neanche osannare l’intervento della popolazione a voler ripulire e riaggiustare tutto, come a coprire velocemente una ferita che non rispecchia neanche minimamente quella profondissima presente nella nostra società e nell’umanità in genere…Una ferita che è opera di una violenza massiccia e sistematica nei nostri confronti…Spesso noi vediamo solo quella evidente, ma trascuriamo quella mascherata o occulta.
    Che i giovani non lavorino per decenni-arrivano all’età dei baby pensionati senza un lavoro- non è come assassinare cervelli validi e braccia robuste? …Per estendere lo sguardo, i migranti che affrontano la violenza del mare, di barconi inadeguati e stracolmi, con i precedenti di morte ben noti, chissà da quali violenze ancora peggiori cercano riparo…Siamo sopraffatti dalla violenza, ma è soprattutto da quella che proviene dall’alto…Infine penso alla minaccia di una violenza occulta e totale che è rappresentata dalla presenza intorno a noi di centinaia di armi nucleari che prima o poi entreranno in azione -è quanto suggerisce Franco Nova in un post precedente, sulla base di sue ricerche scientifiche-…Anch’io sono pacifista, ma il monito secondo me va rivolto soprattutto in alto. Scusate, l’esempio, ma è come grattarsi per il morbillo, quando in incubazione abbiamo già la peste…Qualcuno può suggerirne l’antidoto?…

  15. È però un bene, Aguzzi, che lei sia passato dal punto 1 del 5 maggio – “La violenza è legittima solo a scopo di autodifesa cioè per salvare la pelle, in una situazione di pericolo immediato. In tutti gli altri casi è gratuita, è peggiore esercizio del peggior potere, quello della forza bruta” -, che mi aveva molto preoccupato, trovando l’esposizione poco precisata, poco esatta, e foriera di passati, presenti, e futuri equivoci, al punto 8 del 6 maggio. Fatta salva la Resistenza italiana 1943-1945 dal punto 1 del 5 maggio – “solo a scopo di autodifesa cioè per salvare la pelle”, e arrivando “ai diritti politici e civili” che “i fatti delle Resistenza – quell’unica “rivoluzione” – (in Italia) -“legittima” – dal punto di vista del punto 7 – quei diritti politici e civili – che una grandissima parte degli Italiani e da molti e molti decenni vuole “asfaltati” – non sono stati certo i neroblocchisti di cittadinanza straniera ad avere votato in passate elezioni, o nelle ultime né le frange violente dell’ultima manifestazione possono avere determinato situazioni dell’oggi politico, e dell’appena trascorso -, quei diritti politici e civili come preservarli dall’asfalto, che è ovunque? Preservarli e salvarli dalla piantumazione continua (continua) in ogni territorio – grazie per il suo lucidissimo discorso sulle Banche Popolari – di quanto asfalta, distrugge, e, di quei territori, cambia i connotati?
    Su altro e di storia personale: per favore, al mio primo cognome – che non ė affato stato il primo – potreste far seguire, se dovesse ancora capitare , per brevità, almeno la L. puntata? Almeno lei, Cristiana Fischer: è il cognome di mia madre.
    E, ancora sui diritti politici e civili: non ci manca nient’altro che la piantumazione di “leggi speciali”, per fermare i bb. A quel punto anche una/un manifestante che avesse comprato uno sfilatino per la cena, e con quello in busta partecipasse ai cortei, potrebbe rischiare di trovarsi in possesso di “arma impropria”. E giacché è il cibo il tema principale dell’Expò milanese, perché le organizzazioni non hanno dato una parola d’ordine “tutti i manifestanti contro l’Expò, in piazza brandendo e bene in alto del pane”? Una catena di panini per strada. Dico questo solo per dire che se non si troveranno altri modi di manifestazione, il motto “cambieró l’Italia” potrebbe diventare “legge speciale”.

  16. Sono interamente d’accordo con l’ultimo intervento di Luciano Aguzzi. Aggiungo solo qualche nota, per me importante.

    1 Sulla riforma della popolari, oltre agli interessi probabilmente perseguiti dal governo Renzi che LA spiega, aggiungo anche quelli delle banche estere che potranno “mettere le mani, così, su un’altra, ancor più importante quota del risparmio italiano, uno degli ultimi presidi della sovranità nazionale” http://massimomucchetti.it/blog/ora-blindiamo-le-popolari-spa/ Il sostegno della finanza a Renzi è noto, dalla cena di sostegno a Milano un paio d’anni fa.

    2 Magistrati, ministro dell’interno, forze di polizia hanno preferito il contenimento al prendersi la responsabilità di misure preventive. (Questo comporterebbe “prendere delle decisioni forti, sia in senso riformistico per diminuire il livello conflittuale in seno alla società, sia in senso giudiziario per la repressione dei comportamenti illegali non mediabili. Ciò richiede una classe politica forte e sicura, bene orientata alla soluzione dei problemi, mentre la classe politica italiana” ecc. )
    In più, rinunciare a una efficace prevenzione (ci sapeva che c’erano 2-3000 bb in Lombardia da parecchi giorni, e i bb devono mangiare e dormire, quindi era possibile trovarli e fermarli, o rispedirli fuori, prendendosi qualche responsabilità, certamente) avere cioè rinunciato a farlo, ha consentito di trarre un’utilità da quello che poi sarebbe avvenuto: già si parla di nuove normative, sospensione temporanea degli accordi di Schengen alle frontiere, un daspo per le manifestazioni. Ma queste nuove norme varranno per tutti, non solo per i bb!

    3 Sulla violenza. Mi limito a considerare l’aspetto della scelta personale di praticarla o no. Rimando all’intervista video che ho segnalato ieri alle 10.54. La ragazza dice “comprendo” quello che hanno fatto i violenti. Del resto “non si può pretendere che ci costringono a una vita di merda e poi non vederne le conseguenze” (il parlato ha una sintassi sbrigativa). La ragazza potrebbe bene essere considerata parte della quinta colonna. Il fatto è, però, che le motivazioni presentate dalla ragazza per la sua “comprensione” sono reali, effettuali e ragionevoli. Come si fa a non comprendere, noi, la sua rabbia? Compresa la rabbia che manifesta per il castello di idiozie che è stato costruito sul loro essere figli di papà, siamo tutti figli di papà, dice lei, senza prospettive né speranze.
    Intendo dire che la scelta della violenza si può anche comprendere (senza approvarla) ma purtroppo, di nuovo, solo la politica potrebbe risolvere il problema.

    1. Ma no, gentile Cristiana Fischer, se dovesse capitare ancora, basterà una L. puntata. Diversa cosa sono le pubblicazioni – riviste ad esempio -, da quando, nel 2002, nel ventennale della morte di mia madre, pubblicando un libretto di poesie, decisi che come omaggio a lei, e ricordo, avrei, da allora in poi, usato il doppio cognome. Per altro è stato il mio, il secondo cognome, fino ai miei 17 anni, e dunque.

      1. @ Anna Cascella L.
        In realtà credevo che Luciani fosse il cognome assunto col matrimonio, e siccome per me non lo uso mai, così ho automaticamente trascurato il secondo cognome anche per lei. Ma lei racconta di avere usato fino ai 17 anni il cognome di sua madre: quello proprio della mamma, o quello avuto dalla madre con il matrimonio? Non è solo curiosità la mia, in effetti si collega al tema genealogia femminile. Credo che lei abbia in qualche modo alluso al testo di Diotima L’ombra della madre, in cui le autrici aggiungono al cognome paterno quello materno. E’ questo il suo caso? Ma non voglio essere indiscreta.

  17. Solo per Cristiana Fischer: No, gentile Cristiana Fischer -, molto più semplicemente: padre mancante. Quindi il cognome di mia madre – e quindi di suo padre, mio nonno, e di tutta la famiglia materna – la nonna (Anna Del Bene Luciani) e delle quattro sorelle di mia madre -. Poi mia madre sposò – avevo allora 17 anni (nata nel 1941) – Tommaso Cascella – morto nel 1968 -, da cui il cognome, in istituto giuridico di affiliazione. Istituto che ora non esiste più, cosa che ho scoperto frequentando Internet – mai avuto prima di due anni fa un computer… -. In fondo abituata ad una ridda di cognomi – sposata nel 1967, poi divorziata -, che dire? Mia madre era ancora viva nel 1980 – anno di una mia prima pubblicazione in antologia con altri autori -, e sarebbe stata veramente inopportuna da parte mia una storia sui cognomi. Inoltre a quel tempo, già di fatto separata, avevo ancora il cognome del matrimonio. Con la pubblicazione, poi del 1990, tra separazione, e altro -, avevo la mente troppo ingombra, probabilmente, per pensare, in quel momento, al cognome, o cognomi, e così nel 1995. Nel 2002, con un’altra pubblicazione, e nel ventennale della morte di mia madre, decisione irrevocabile: in pubblico – nelle pubblicazioni, intendo dire – il doppio cognome. Per cui se si salta, nelle riviste, o in recensioni, il cognome di mia madre, la dimenticanza mi irrita e mi dispiace. Mi irrita terribilmente e mi dispiace enormemente. D’altro canto il mio “Luoghi (1977-1982)” – anche se trovò edizione decenni dopo, aveva già allora, come dedica “a mia madre per forza e naturalmente” – una chiara genealogia femminile – ma fin troppe righe, ora, su un blog e le ho qui scritte solo per rispondere a lei. Una L. puntata mi basta. Diversa cosa dal 2002, in riviste… In libri poi, completamente impensabile… La saluto con una breve poesia da “Luoghi (1977-1982)”: mamma era una brunetta/con gli occhi azzurri/stretta. S’è liberata/dalla morte in fretta./Aveva un viso/un po’ da contadina/e un po’ da Butterfly/alla banchina./Nei mesi che la luna/era più bassa si vestiva/con una stoffa arancio:/io non ero che figlia/di Menina.

  18. Gentile signora Anna Cascella L., la ringrazio davvero per la storia che ha voluto offrire a me e a tutti nel blog. L’incrocio di vite a lei presenti, che si intrecciano con i nomi tra cui lei si impegna a fare ordine, ci mettono (lei, me e chi altro vuole farlo) nella necessità di riordinare una materia per tutti, una materia della genealogia, che non va più avanti, in base all’ordine patriarcale.
    La ringrazio ancora

  19. Sono d’accordo con la segnalazione da parte di Ennio di questo evento di attualità per portarci a fare delle riflessioni.
    Concordo anche con la sua sottolineatura dell’assenza di un progetto politico. Ma mi sembra ‘meno attuale’ quando fa le seguenti considerazioni:
    a) *Ci vorrebbe un Lenin capace di pensarne uno riassumibile in una parola d’ordine semplice e chiara, trovando il punto di fusione – fosse pure temporaneo – tra pacifismo attivo e violenza non gratuita o mediatica.….*.
    b) * Tutti sono indignati per la pagliuzza che i black blok hanno infilato nell’occhio dell’opulenta Milano e nessuno più vede la trave che ha conficcato l’ Expo nei nostri*.
    c) * Das Kapital fornisce Milano di nuovi grattacieli e di nuove miserie periferiche, l’Expo multicolore e i giovani del “blocco nero”*.

    Mi sentirei di fare queste considerazioni:
    Lenin (come anche Marx) partivano dall’analisi della società di quel momento facendo, a volte, anche delle proiezioni indebite. Che però ci stavano, tenendo conto del periodo storico. Pensare ad una parola d’ordine che trovi il punto di fusione *tra pacifismo attivo e violenza non gratuita o mediatica* significa più anteporre un bisogno (o un sogno) ad una analisi della realtà di oggi, analisi che deve essere ancora fatta. Chi lo può sapere se, rispetto ad una analisi in fieri, l’oggetto verterà proprio su forme *pacifismo* e *violenza* e non magari su altri aspetti, pur sempre di dominio, ma esplicitati in altro modo, più subdolo e che non vediamo.
    Se continuiamo ad attestarci sul *Das Kapital*, dimenticando che oggi si stanno combattendo tra loro molti Capitalismi, e sul sottolineare (ancora!) che esso produce condensazione di ricchezze e estensione di miserie (Expo multicolore e L’Aquila ancora in macerie) non stiamo dicendo nessuna novità.
    E’ chiaro che, a fronte di questa ‘rigidità’ concettuale, poi passano le stronzate di Renzi come se fossero parole d’ordine rivoluzionarie:
    “Basta con il capitalismo di relazione (ma che cacchio vuole dire!? Sa di che cosa sta parlando?), servono dinamismo e trasparenza”.
    E che si permette – buttandola in ridere – di citare la battuta di Chesterton sulla democrazia (“la democrazia è il governo dei maleducati”) tagliando l’erba sotto i piedi a chi, più seriamente, sosteneva che la democrazia era la maschera dietro la quale si celavano le forme dittatoriali della borghesia. Questo è il disastro culturale! E qui non ci sono i b.b. a farlo ma persone vestite in ‘giacca e cravatta’!
    E che da Renzi possono essere fatti attacchi alla Costituzione (“la più bella del mondo”! Benigni dove sei?) col placet di Napolitano prima e il silenzio di Mattarella poi. Dove l’Italia non solo non è più una Repubblica fondata sul lavoro bensì sul Jobs act (vale a dire che ti assumo sì a tempo indeterminato ma ti posso licenziare quando voglio), ma non è più nemmeno una Repubblica!.
    Ma ciò che mi ha maggiormente stupito – e ha una sua significatività non da poco – è la notizia dei milanesi che, tirandosi su le maniche, hanno ripulito la città dagli scempi. Come a Genova dopo l’alluvione.
    Appunto, come si fa dopo un evento ‘naturale’: bene che sia stato fatto, ma se incominciamo a trattare questi eventi come eventi ‘naturali’ non siamo molto lontani dal principio di sottomissione felice di Houellebecq.

    R.S.

  20. @ Rita Simonitto
    Ah no, aver voluto pulire la propria città, SIA PURE ORGANIZZATI IN LARGHE INTESE, è comunque “eversivo” nei confronti di una politica che ha calato le mutande di fronte a giochi e giochetti tra violenza e diritti. Dopo le spugne, si riprenderanno i voti (lo spero, lo spero, lo spero).

    1. …e sai le risate che si fanno quelli dei servizi, di fronte a tutte/i coloro che la pensano come te, nel cui libro paga, da sempre, gli strumenti eversivi per controllare e disperdere qualsiasi resistente, divergente, dissidente (intendo riferirmi a quelli che fanno sul serio, non agli ex-sessantottini figli del dio usa che li ha creati, con tutto il movimento marketing dei diritti a seguito) . Mi confermi anche tu, Cristiana e non Cristina ( dio ce ne liberi se ci si permette qui dentro un refuso sulla mitica identità data dal proprio nome) tanto come Ennio tirando fuori altri argomenti e pure Lenin dal catafalco, che ci meritiamo tutto ciò che ci governa con l’inganno, di fronte al quale i fasci o i nazi erano dilettanti , feroci, ma chiari . Nel presentare il loro ordine e pulizia, non avevano bisogno di autobombardarsi, per convincere (e manovrare) le masse alla rimozione di danni o macerie. Questi attuali, invece, piu ferocemente di quelli di prima ( ma come loro senza nemmeno bisogno di essere votati) è da settanta che truccano la strada, anzi meglio che truccano la piazza così amata tanto dai “fascist”i che dai “comunisti”…rimango pertanto nella speranza che nessuno piu si presenti in nessuna cabina e tanto piu in nessun ” movimento “, prima o poi , ma sempre prima, pre-profilato per essere controllato con le buone o con le cattive, ma comunqe fatto fuori perchè trionfi sempre questa grande e imbattibile democrazia. Insomma, ottenere la massa beota che pulisce danni pre-ordinati e comandati dallo Stato stesso, e per giunta valorizzarla come hai fatto tu ( e purtroppo come hanno fatto e faranno per l’eternità milioni di tuoi simili) è da utili idioti come il voto che speri possano riprendersi i tuoi simili(per darlo a chi poi lo sai solo tu…al prossimo Tsipras /Pisapia? cosa ha avuto il suo governo di diverso dalla nauseabonda Moratti? nulla, tranne il padre del primo che si rivolta giustamente nella tomba rispetto al secondo che su un piano ideale e reale non sarebbe stato tradito nemmeno se la moratti fosse stata di sel o votata per il partito comunista dei lavoratori)

    1. Resto dell’idea che Renzi sia un anti-Grillo creato a balla posta per rimediare a un cedimento della collettività, diciamo a uno spiacevole imprevisto.
      E quindi secondo te, Ro, anche i black blok servirebbero a dare una mano a Renzi. Sarebbe una faccenda locale ma piuttosto seria. Quindi non è come penso io che Renzi abbia lo stesso padrone che ha Berlusconi: la mafia, ma starebbe dall’altra parte della stessa medaglia….

      1. Renzi é un servo o un burattino, un front office rispetto a chi detta l agenda degli “eventi” , stratagemmi compresi.Grillo un canalizzatore di pseudo dissenso, un altro burattino comodo al reality compreso approccio “revival poetico” qui sotto….é sai le risate dei soliti segreti

        1. …trame così oscure, sconvolgenti e feroci passano sia sopra la coscienza morale- non si è avuto scrupoli a far fuori le persone di Aldo Moro e dei membri della scorta- sia sopra l’etica politica- non era per il così detto bene comune-…e dai mass media tutta un’altra versione… Come possiamo non sospettare che anche oggi noi siamo vittime di tante macchinazioni, quasi insondabili, finché qualcuno non si decide a parlare? In genere siamo solo testimoni dei disastri che ne conseguono…

  21. SEGNALAZIONE

    Dateci
    di Marco Belpoliti
    http://www.doppiozero.com/materiali/editoriale/dateci

    Stralcio:
    Riguardando nel web le immagini della distruzione nelle strade di Milano mi è tornata in mente una poesia di Primo Levi che trascrivo:

    Dateci

    Dateci qualche cosa da distruggere,
    Una corolla, un angolo di silenzio,
    Un compagno di fede, un magistrato,
    Una cabina telefonica,
    Un giornalista, un rinnegato,
    Un tifoso dell’altra squadra,
    Un lampione, un tombino, una panchina.
    Dateci qualcosa da sfregiare
    Un intonaco, la Gioconda,
    Un parafango, una pietra tombale.
    Dateci qualche cosa da stuprare,
    Una ragazza timida,
    Un’aiuola, noi stessi.
    Non disprezzateci: siamo araldi e profeti.
    Dateci qualcosa che bruci, offenda, tagli, sfondi, sporchi.
    Che ci faccia sentire che esistiamo,
    Dateci un manganello o una Nagant,
    Dateci una siringa o una Suzuki.
    Commiserateci.

  22. “Poliscritture” ha una sua linea per cui non scarta alcun commento: giacché mi pare di avere capito, giacché mi sembra probabile che la persona in appello virtuale “ro”, nel commento del 7 maggio ore 15.09 , scrivendo di “[…] compreso approccio “revival poetico” qui sotto….” si stesse riferendo ai versi di Primo Levi, “compresi” nella Segnalazione, su “Poliscritture”, di un articolo di Marco Belpoliti sull’on line “Doppiozero”, e non avendo letto altro “revival poetico” tra quel commento e quello di Emilia Banfi ai versi di Levi, immagino che il commento fosse riferito al “revival poetico” dei versi di Levi che Belpoliti ha inserito nel suo articolo su quanto accaduto a
    Milano, nei giorni scorsi.
    Se così fosse – e se ho capito male mi scuso e se avessi capito bene pazienza per “e sai le risate dei soliti segreti” – e per qualsiasi altra risata -, trovo francamente orribile quella parte di commento.

    1. …una linea tale per cui io posso sentire questo o altri tuoi commenti, precisazioni di cognome compresi, come qualcosa di orribile, sia di orribilmente virtuale che di orribilmente reale, poichè il primo piano esiste ben prima di ciò che è venuto dopo, con la tecnologia, senza separazione alcuna, perché è l’uomo ( leggi donna o uomo ) che è nato per lo più virtuale fin dall’inizio. Poi, con gli strumenti/mezzi via via concessi e controllati dal Potere, ha amplificato la possibilità di essere uno, due, tre, centomila, miliardi prendendosi per il culo l’altro, facendogli credere però di essere a, e poi facendo in pratica il contrario di a…..

  23. mi si perdoni l’irriverenza, ma lo slogan “Nessuno tocchi Milano” mi viene da anagrammarlo “nessuno mi tocchi l’ano”: giusto un modo per mettere le mani avanti e per ribadire, con la pulizia, la scorrettezza di tutto ciò che è sconcio, inopportuno, contrario alla morale corrente. Insomma, uno “scandalo” e come tutti gli scandali destinato a suscitare la reazione dei benpensanti che pensano solo a come reprimere gli istinti umani (salvo poi ritrovarsi in crisi economica irreversibile, proprio perché hanno finito per condannare le pulsioni che motivano ad arricchirsi). In tutto questo il panorama non è confortante: o la città bella linda e pulita, che fa affari con l’Expo distruggendo completamente il tessuto della Milano popolare; o i black block che spaccano le vetrine, forse per ribadire che di quel tessuto non è rimasto più nulla; o, infine, l’ipocrisia dei leghisti e dei neo-fascisti (che sono 4 gatti) che non si capisce bene se stanno da una parte o dall’altra e trovano con ciò anche la scusa per non ripulire

  24. AH NO, PER FAVORE, LENIN NON ERA UN BLACK BLOC!

    Noi seppelliamo quest’oggi
    l’uomo più terrestre
    che sulla terra abbia camminato,
    un uomo terrestre non come quelli
    che vedono soltanto il loro passo,
    ma un uomo terrestre
    che ha visto il segreto del mondo
    e ciò che il tempo nasconde

    (Vladimir Majakovskij, Vladimir Il’itch Lenin, poema composto tra l’aprile e l’ottobre del 1924)

    @ Cascella

    «Il mondo italiano – di sinistra -, che la mia generazione ha conosciuto, e vissuto, è finito per sempre, e da anni» (Cascella)

    Eh, sì ma è il suo fantasma che ci perseguita e lo si vede anche in questi commenti.

    @ Mayoor

    «Il veleno nelle istituzioni c’è e si chiama Movimento 5 stelle, purché non si fermi al reddito di cittadinanza e dica sempre in quale ampia prospettiva ci si dovrebbe muovere» (Mayoor)

    Sarà «veleno», Lucio, ma non si distingue troppo da altri veleni.

    «Non basta essere contro, bisogna dire anche perché e per cosa si fa» (Mayoor)

    Ma è su questo che c’è grande confusione. Basti ancora vedere – non lo dico per snobismo – i commenti di questo post del tutto dissonanti tra loro. (Ho parlato “a titolo personale” proprio prevedendo che nessuno sarebbe stato d’accordo con quanto scrivevo…).

    @ Locatelli

    «un atto di protesta, per giunta non apprezzato dalla popolazione…forse perché, come dice Mayoor, non sufficientemente preparato e motivato, affidato, nel suo manifestarsi più appariscente, ai black block». (Locatelli)

    Non credo si tratti di preparazione “insufficiente”. È che il dissenso – in questa occasione anti-Expo ma anche in altre occasioni e da tempo – è *al momento* sfrangiato, impossibile da tenere assieme. Tra i black bloc e gli altri partecipanti non c’è, al di là del minimo denominatore comune del dichiararsi «no Expo», quasi nulla di politicamente (e praticamente) in comune.

    @ Statuti

    «Chi l’ha mutilato? Chi lo ha soppiantato con i licenziamenti, con la disoccupazione, con la disperazione? Certo non i lavoratori, non i piccoli imprenditori che si uccidono, non i giovani che lo cercano invano… Allora chi e che cosa? Il Potere? La Finanza? la Globalizzazione?» (Statuti)

    Attenzione, Paolo. Temo che lo schema popolo (disoccupati, lavoratori, piccoli imprenditori, giovani)/élite (Potere, Finanza) sia ottocentesco e romantico; e impedisca di vedere quanto gli attori decisivi che operano oggi sul campo ( o fuori campo) siano altri. Si muovono poi diversamente da come ci aspetteremmo (o sarebbe logico aspettarsi). Quali sono poi? E qui anche annaspiamo…

    @ Fischer

    Sì, «quello che manca è la politica».
    Sì, ci vorrebbe «una reinvenzione della politica». Sì, «la “separazione delle donne dagli uomini … fu … un taglio , che poneva l’urgenza di un ripensamento radicale dello statuto della politica».
    Sì, «L’irruzione del corpo e della parola femminile nella sfera pubblica non comportava un’aggiunta del dominio sessuale alla mappa dei poteri, delle donne al fronte degli oppressi e della parità di genere al catalogo dei diritti».
    Sì, «domandava un salto di razionalità nella concezione del soggetto, del legame sociale, delle forme della mediazione simbolica».
    Sì, «qui per politica si intende qualcosa che non si identifica col ‘progetto politico’ richiamato da EA».
    Ma come non avvedersi che anche il femminismo è precipitato assieme a politica della sinistra e ipotesi comunista nell’imbuto della sconfitta o una sua parte s’è adattata o compromessa col “sistema”?
    Insistere a pensarlo come l’unico isolotto non inghiottito dalla marea a me pare errore. Proporlo come utopia? Ma è utopia “debole” che quasi si confonde o è intercambiabile con quella di «papa Francesco benemerito» (che però ha una Chiesa alle spalle che il femminismo residuo non ha…)

    P.s.

    Da Roberto Finelli:
    «Né si capirebbe, ad es., granché della genesi del pensiero della differenza di genere, malgrado la favola autopoietica che spesso il femminismo s’è voluto raccontare con la celebrazione di non si sa quale scarto ontologico tra donna e uomo, e dunque di un inizio ex nihilo, se non la si riconducesse a tale fondazione culturale e politica, prefemminista, che, a muovere dalle Università, si diffuse con una rapidità certo imprevista, attraverso la gioventù, prima studentesca, poi operaia – in Italia bisognerebbe specificare gioventù operaia d’immigrazione ed estrazione meridionale – nel gridare e nel pretendere il diritto generalizzato di tutti a percorrere una propria vicenda personale di vita, al fine di una coincidenza, non autoritaria, con il proprio più ineguagliabile sé».

    @ Ottaviani

    Ogni volta che nomino (ancora) Lenin, mi trovo di fronte a reazioni di *codardo oltraggio* o ad esorcismi.
    No, non faccio il comico e neppure involontariamente. Sono i miei interlocutori (ex compagni di solito) ad aver sostituito i libri di storia e i ragionamenti che la storia richiede con i bignamini di «Repubblica». Preferiscono sventolarmi sotto il naso un presente definitivamente renziano (che per loro sembra puzzare in modo tutto sommato sopportabile) pur di non affacciarsi più su quel «passato remoto e fallimentare». Al quale sono inchiodati loro, che lo trattano come un tabù, non io che tento ancora di ragionarci. Ed è per questo che ancora oggi ritengo quella che tu chiami la sua «furia di voler imporre il socialismo ad una società feudale» più accettabile del tradimento della socialdemocrazia che, usando come paravento quel Marx che ammoniva, come tu scrivi, «gli operai a non distruggere nulla», le fabbriche e milioni di vite umane le fecero distruggere dalla Prima guerra mondiale approvandola.
    Sì, ho scritto:« “Non rompete con le lamentele per le vetrine rotte e le auto bruciate”» perché vedo che troppi democratici si strappano le vesti davanti alla piccola sciagura dei black bloc e fingono di non vedere quella grande. La trave è Renzi & C. non il leninismo (oggi inesistente).

    @ Aguzzi

    «Ma non hanno insegnato niente le tante rivoluzioni finite nel peggiore dei modi: terrore, dittatura, oppressione, sangue, fame ecc.? E i tanti “idealisti” alla Lenin che hanno massacrato milioni di persone scrivendo ordini di fucilazione da cui appare un macabro gusto sadico?» (Aguzzi).

    Un’altra volta col sadismo? Vedi che ti avevo risposto (e forse non hai notato il commento che ti avevo lasciato…https://www.poliscritture.it/2014/12/16/islam-in-decadenza/#comment-18296
    Riporto almeno uno stralcio:

    «La repulsione in lui si fa avanti, quando va a pescare dai residui di quella “memoria delle (“nostre”) rivoluzioni” che la sinistra (liberale, socialista, comunista) ha in passato in vario modo avallato. Certo, attingendo lì, si dovrebbe rifiutare l’«aspetto religioso» che da moderni abbiamo imparato a “laicizzare”. Ma è oggi evidente che, col passar del tempo, le rivoluzioni moderne, quelle entrate nell’immaginario “eurocentrico” (la Francese del 1789, la sovietica del ’17 e, perché, no, l’Americana del 1775 e magari la Cinese o la Cubana) hanno mostrato di più il lato in ombra (il sangue, i massacri, la “violenza della storia”). E – parliamoci chiaro – per il ceto medio ( sia pur in via d’impoverimento), cui apparteniamo, questo lato in ombra della storia, negli ultimi tempi enormemente enfatizzato dai vari revisionismi storici e “libri neri del comunismo”, è diventato quasi insopportabile. Dopotutto siamo rimasti abbastanza lontani (se si eccettuano gli anni Settanta del Novecento) dalla diretta conoscenza dei rudi rapporti di violenza che le classi dirigenti hanno continuano ad esercitare. E ci siamo attaccati – illusione o irrinunciabile ideale? – a un’ideologia ambiguamente pacifista con la quale speriamo di esorcizzare, evitare o magari ridurre il costo degli errori e degli orrori che nella storia continuano ad essere programmati e attuati appunto dai dominatori, che ci trascinano ad approvare sia pur indirettamente (alle elezioni) le loro avventure di guerra.
    Perciò, proprio dal modo negativo e liquidatorio con il quale Luciano presenta le “nostre” rivoluzioni, che a rigore dovrebbero far parte della “nostra” cultura e, secondo la sua impostazione, dovrebbero essere difese, si capisce che ci siamo disfatti o ci hanno espropriato di un patrimonio culturale che forse, se conservato e difeso, avrebbe potuto farci vedere le cose d’oggi in modo più lucido, senza assoggettarci né alle visioni dei nostri dominatori eurocentrici o statunitocentrici né a quelle dei loro oppositori islamici. (Ridimensionando, ad es. l’aspetto religioso che, anche solo da un elementare punto di vista marxista, apparirebbe maschera di ben altri conflitti).
    Luciano queste “nostre” rivoluzioni le liquida in maniera davvero sbrigativa. E malgrado il termine non gli piaccia, in fondo “progressista”. Perché per lui il “dopo rivoluzione” sarebbe comunque meglio della rivoluzione. Sarebbe, con le sue parole, «quel che di buono è comunque maturato in secoli di storia che ci hanno dato una specifica fisionomia culturale». ( È su questo “buono” che m’interrogherei di più…).
    Afferma, infatti, che «tutta una tradizione storiografica «progressista» […]non ha ancora fatto i conti con la storia e non ha realizzato che i crimini di massa e il vero e proprio genocidio, come quello vandeano, non hanno proprio nulla di progressivo».
    Ora la storia ci mostra che quasi tutti gli Stati ( compresi gli Stati Uniti) sono sorti da massacri più o meno atroci e ampi. Che non possono essere giustificati. Che non sono progressivi. Ma si possono ridurre le rivoluzione ai soli massacri o ai crimini di massa ? Certo, ci sono stati «i crimini di massa di Lenin, Trockij e Stalin, i quali, fra l’altro, hanno massacrato anche migliaia e migliaia di socialisti e di anarchici, non solo «borghesi» e capitalisti». E che dire delle due Guerre mondiali? E dei massacri che continuano ad avvenire? Temo che mai riusciremo ad impedirli. Eppure abbastanza sgradevole mi pare svilire persino la figura di un leader rivoluzionario come Che Guevara: «dalle testimonianze sembra che Che Guevara abbia personalmente eseguito diverse condanne, sparando un colpo alla nuca dei malcapitati, con gusto sadico».
    Verrebbe da obiettare alla sottolineatura psicologista: i partigiani della Resistenza, di cui oggi si ricelebrano per la settantesima volta le imprese, ne erano esenti? Me lo trovi Luciano un leader che non ha, ordinando un attacco militare o una guerra, sulla coscienza dei massacri.
    Ecco perché quando arriva alla lezione da trarre dalla sua “ breve storia delle rivoluzioni” non potendo più fissare in faccia il volto orrido della storia avendo in mente il progetto per cui si combatteva, lo esorcizza rifugiandosi in un un kantismo alquanto contraddittorio con il realismo storico sostenuto all’inizio del suo intervento.
    Si condanni pure il fanatismo (che poi non è diffuso solo nel mondo islamico, eh!). Ma quante condanne hanno fatto finora i Papi e i capi di stato democratici? A cosa sono servite? E noi che contiamo nulla rispetto ai Papi che possiamo fare?»

    P.s.
    I black bloc sono figli di papà? E i figli di papà degli anni settanta «se la sono cavata e, anche dopo il carcere, hanno trovato un’ottima collocazione di lavoro e hanno fatto carriera. I figli di proletari che li hanno seguiti, invece, sono affondati, fra droga e scazzo gratuito, senza mai avere nessun aiuto dai loro ex leader che li hanno trascinati in quelle situazioni»?

    Lascio la parola a Marco Belpoliti, che almeno sente il “ribollio della pentola”:
    «Si tratta di una minoranza? Probabilmente sì, ma il problema della violenza assurda, inutile, distruttiva, perdente, incombe sulla nostra società. Ogni tanto esplode e si manifesta all’improvviso. Il compito degli intellettuali (e Galli Della Loggia è uno di loro) sarebbe quello di leggere questi segni. Non solo quello positivo della maggioranza, che ha cercato di rimediare ai guasti dei distruttori del giorno prima, ma delle minoranze che fungono da sintomi del disagio fortissimo che cova tra i giovani, provocato da disoccupazione, mancanza di lavoro, lavori sottopagati, e porta alla fuga dei migliori all’estero, mentre gli altri meno fortunati, meno ricchi, meno capaci di decisioni, restano a marcire nel limbo. L’articolo di Galli Della Loggia è il segno di una cecità verso quello che accade nei sottopassi della società italiana. Un Presidente del Consiglio quarantenne che parla della minoranza dei distruttori come dei “figli di papà col Rolex” non è un buon segnale. La sua frase andrebbe letta a sua volta come un sintomo di un’insofferenza e di un’incapacità a capire le tensioni che vivono nella società, nei suoi margini.»

    [http://www.doppiozero.com/materiali/editoriale/dateci]

    @ Simonitto

    Se uno scrive «Ci vorrebbe un Lenin capace di pensarne uno riassumibile in una parola d’ordine semplice e chiara, trovando il punto di fusione – fosse pure temporaneo – tra pacifismo attivo e violenza non gratuita o mediatica.…», è evidente che oggi esprime solo un desiderio e non una proposta politica. La mia non è una riproposizione del leninismo, come temuto da Ottaviani. Di fronte allla piattezza politica del dibattito sui “fatti di Milano” di questi giorni e all’aut aut imposto dalla stampa e dalla TV (stare con i black bloc “violenti” o con i manifestanti antiExpo “pacifici” e “mastrolindo”) mi è venuto di pensare ad vero politico (rivoluzionario) che è stato capace almeno per un attimo di tenere assieme in un progetto politico le due spinte che sempre si ripresentano e si ripresenteranno nella storia sociale e politica.
    Pacifismo e violenza mi paiono purtroppo bivi obbligati. Non credo si possa evitare la scelta (teorica e, in particolari situazioni, pratica). E non capisco come le analisi « magari su altri aspetti, pur sempre di dominio, ma esplicitati in altro modo, più subdolo e che non vediamo», se diventassero progetto politico praticabile, potrebbero esimerci dall’affrontare questo problema o aggirarlo.
    Io resto sempre stupito ogni volta che se ne discute dalla facilità con cui i miei interlocutori esorcizzano la violenza possibile che un noi politicamente organizzato su un progetto condivisibile dovrebbe esercitare *inevitabilmente*. Né Cristo né Gandhi hanno risolto questo problema. E trovo sospetta la nobiltà d’animo di chi accetta che la violenza la esercitino sistematicamente e subdolamente i potenti (con le loro polizie, i servizi segreti, le guerre, etc.) riservandosi il ruolo dei critici che la disprezzano. Ma se il loro benessere e la loro tranquillità (poca o molta) dipende da quell’accettazione?

    Scrivendo « Das Kapital fornisce Milano di nuovi grattacieli e di nuove miserie periferiche, l’Expo multicolore e i giovani del “blocco nero”», ho indicato cn un termine riassuntivo e generico “qualcosa di nemico”. Va bene. Ma se i capitalismi fossero vari non capisco cosa cambiarebbe nella sostanza. Restano o no forme di potere (economico, sociale, politico, culturale) dannosi per buona parte dei viventi o no? E non è che le “stronzate” di Renzi passano perché noi abbiamo una «rigidità concettuale» vedendo un capitalismo invece di vari capitalismi? E’ che non troviamo risposte convincenti né se si pensa che Das Kapital sia ancora uno né se si pensa che siano vari.

    @ ro

    Una volta (cito a mente, non ritrovando più lo scritto) Fortini, parlando di Michele Ranchetti, esclamò: ” Ranchetti ci vuol mettere paura, ma noi abbiamo già paura”…
    Ecco, ai tuoi commenti e ai video che proponi mi viene di dire la stessa cosa. Lungi dall’aprire gli occhi e indurre a pensare e a trovare qualche forma di maggiore resistenza inducono – spero involontariamente – al disarmo e allo stordimento. Insinui altro veleno dove già ce n’è in abbondanza.
    A Franco Nova ho scritto che forse sbaglio a vedere nichilismo nei suoi racconti. Nei tuoi commenti invece il nichilismo è certo. Sembri godere nel mostrare l’Hotel Abgrund (Abisso) ai quei fessi dei tuoi interlocutori. Come se tu stessi in altro mondo rispetto al loro. Il mondo è sempre più orrendo di come gli altri – poveretti – suppongono. E tu lo sai, mentre gli altri si illudono. E tu ridacchi. Il Leviatano ci domina e ci sorveglia anche quando dormiamo. L’unica che verrebbe preservata da questo dominio assoluto sei tu? Ma anche Cassandra condivise la servitù dei Troiani, dai!…

    1. Ennio penso che tu abbia un certo abbonamento sul piano dello stravolgimento del pensiero di chi non si allinea a tutta una serie di ritualità da sacerdote intellettuale, o da paraculo adepto a diventare tale, e quanto più si disallinea, prendi un timbro e lo marchi a fuoco , nel mio caso come assolutamente nichilista, cosa che anch’essa fa ridere, ovviamente in questo caso non in segreto. Hai così stravolto il mio pensiero che in altre occasioni, più personali, relative a offese alla tua persona, più di una persona è dovuta intervenire a segnalarti che non ti stavo offendendo io, anzi, stavo prendendo le tue parti e tu quindi stavi pertanto partendo per le tue solite tangenti da picchiatore, intellettuale s’intende.

    2. Sì, sì, sì… ma poi no, caro EA, non insisto a pensare il femminismo come l’unico isolotto non inghiottito dalla marea, probabilmente invece hai colto se lo avvicini a una utopia debole, non come quella di papa Francesco, ma come è stata una modificazione umana realizzata dal cristianesimo duemila anni fa, adagiata poi o costretta nella storia con strappi e modificazioni. Il femminismo non è una ridotta, ma la consapevolezza che l’unismo è ormai desertificato e miserabile.
      Quanto a Finelli, con lo scarto ontologico e l’inizio ex nihilo (e l’utopistica fondazione nei movimenti di soggettivazione giovanile di quegli anni), non ha capito un benemerito niente (per dire come uso l’aggettivo in senso eufemistico).
      Come Franco Nova, prometto anch’io approfondimenti e scritture, ma intanto, si faccia mente locale all’Angela di Ederle, altra faccia di Negrura, alla sua capacità originaria di ri-generare.

      1. Ad Ennio Abate –
        Spigolando qua e là, tra tragedie e comicità:

        Vladimir Majakovskij, sei anni dopo aver scritto il suo poema agiografico, morì suicida. Tutta colpa del perfido Stalin? Nulla di errato nel pensiero e nell’opera di chi aveva preceduto il terribile dittatore? Non è possibile nemmeno ipotizzare che, come peraltro accadeva in quegli anni a quasi tutti i “futuristi” anche fuori dalla Russia, il poeta avesse preso un grosso abbaglio sull’”uomo terrestre che ha visto il segreto del mondo” e oscuramente cominciava ad accorgersene?

        “Non faccio il comico e neppure involontariamente”. Sta di fatto però che “involontariamente” si può fare di tutto, anche il comico.

        Non conosco personalmente gli “interlocutori” di Abate e non so delle loro letture, che non mi permetto di giudicare. Parlo solo per me. Non mi sono mai “affacciato” su nulla né mi ritengo prigioniero di alcun “tabù”. Mi sono invece macerato su centinaia di testi. E’ da questo lunghissimo lavorio che ho tratto la conclusione che tutto quel mondo che ha avuto inizio con Lenin è stato tragico e fallimentare.

        Ennio Abate, che certo non fa il comico di professione, non si accorge però che nella sua replica sposa la mia tesi. E’ infatti costretto a contrapporre tragedia a tragedia. Quella della “costruzione del socialismo” con lo sterminio di intere popolazioni europee e asiatiche e quella della carneficina della prima guerra mondiale.

        Onestamente io non riesco a scegliere tra l’una e l’altra tragedia. Ma da entrambe ho imparato la lezione capitiniana (che fu anche di Marx) della non-violenza.

        Ennio Abate invece, comico involontario, preferisce restare un tragico consapevole.

  25. A Ennio Abate:
    Ho letto e tenuto conto del tuo post e credo di avervi risposto, sia pure indirettamente per evitare un dialogo personale, nei miei due post successivi. Ho precisato dettagliatamente una serie di questioni, fra cui le condizioni minime necessarie perché una rivoluzione sia legittima e opportuna. Non ho fatto del pacifismo astratto e tanto meno assoluto. Ho poi aggiunto che la Resistenza è stata l’unica rivoluzione legittima e opportuna che si sia avuta in Italia. In nessun caso, in nessuno dei miei scritti comunque editi ho mai giustificato i massacri e in genere le guerre, non solo quelli delle rivoluzioni, ma anche e soprattutto quelli degli Stati. Per cui non puoi contrappormi i massacri di vario tipo diversi dalle rivoluzioni, come se io li avessi approvati.
    Ciò che io respingo è la mentalità, il comportamento, le istituzioni della violenza, non solo in relazione alla storia recente, ma alla storia di tutti i secoli. Ad esempio trovo scandaloso che ancora oggi nei libri di testo delle scuole elementari, medie, superiori e per i corsi universitari, siano considerati in positivo, come grandi uomini, criminali su scala industriale come Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone e tanti altri. Oggi siamo ancora immersi in una cultura di guerra, tanto immersi da non rendercene sempre conto, e a una guerra ci viene spontaneo rispondere con un’altra guerra, con conseguenze sempre e solo negative, per i popoli (certo ci sono poi dei gruppi sociali che magari ci guadagnano e ne sono contenti, ma non mi sembra che io abbia mai preso le difese di questi gruppi).
    Trovo scandaloso che tanti intellettuali e docenti universitari, che si dicono antifascisti e antinazisti, scrivano poi dei libri sostanzialmente agiografici su Alessandro Magno o Giulio Cesare o Carlo Magno o Napoleone o Garibaldi o Lenin o Che Guevara e tanti altri che, nel rispettivo tempo storico e nelle condizioni in cui hanno operato, non si sono comportati meglio dei fascisti e dei nazisti. Rinunciando così alla pretesa numero uno degli intellettuali: l’esercizio disinteressato della critica. Per diventare propagandisti di una particolare cultura, di solito quella vincente; altre volte di quella perdente in generale ma vincente all’interno del settore (o nicchia) in cui si opera e al quale ci si riferisce e dal quale ci si aspettano gratificazioni.
    Il tuo difendere Lenin, sia pure in modo parziale, è un segno della cultura di guerra in cui siamo immersi e dell’incapacità di pensare a una coerente politica che persegua la pace, innanzitutto, e poi tutto il resto che un popolo, nei suoi ceti di maggioranza, estranei ai ristretti gruppi privilegiati, auspica per sé. Senza utopie e senza nichilismi, con il realismo e la pazienza necessari.
    È anche un segno di un pensiero di fondo, che Hegel colloca, come astuzia della «ragione», all’interno della strategia dello «Spirito», che porta a dire, ad esempio: «sì, Napoleone era un delinquente, tuttavia è stato un veicolo, in parte magari involontario, del progresso». Ragionamento che ho letto e sentito diverse volte, non solo a proposito di Napoleone, ma anche di Alessandro magno o di Lenin e di altri. Ebbene, io non credo a questa hegeliana «astuzia della ragione», né credo che la Francia uscita dal periodo napoleonico, la Francia del 1815, fosse più progredita di quella del 1789. E soprattutto non credo, a differenza di Hegel e dei rivoluzionari in generale, che sia giusto perseguire il progresso, anche ammesso che ci sia in casi del genere, ammazzando migliaia o milioni di persone.
    In questo blog più volte, implicitamente ed esplicitamente, si è affermato il principio del rispetto delle opinioni diverse. Ebbene, rivoluzionari alla Robespierre e alla Lenin hanno forse rispettato l’opinione dei loro avversari? Puoi rispondere che non l’hanno fatto nemmeno Giorgio Washington e Abramo Lincoln, non l’hanno fatto Cavour e Mazzini e Garibaldi ecc. Sì, è vero, non l’hanno fatto, e per questo io non approvo il loro operato. Come non approvo, assolutamente, il genocidio dei nativi d’America, né gli atti di terrorismo che i libri di storia chiamano azioni patriottiche del Risorgimento. Come l’America è stata conquistata è ancora presente, negativamente, in quel che oggi è l’America, perché le conseguenze funeste del crimine collettivo durano secoli e secoli. Come è presente nell’Italia di oggi il modo come è stata «unificata», con i suoi echi ancora vivi e ancora pesantemente negativi (e ancora taciuti dagli storici che vogliono fare carriera accademica, che trovano più comodo sintonizzarsi con l’uso strumentale della storia del Risorgimento fatto da Ciampi e da Napolitano, cioè con la retorica propagandistica e non con l’analisi storica vera e propria).
    Quando si studierà la storia non più dal punto di vista della ragion di Stato, o di partito, o di questa o quella ideologia particolare, ma dal punto di vista dei diritti di tutti (compresi, anzi soprattutto, dei vinti) a essere lasciati in pace a vivere come meglio credono, con la «civiltà» che si sono dati, si comprenderà meglio sia le ragioni di Elsa Morante quando affermava che la storia è un crimine che dura da diecimila anni, sia il fatto che, senza regredire in un nichilistico ritorno alla natura (errore in cui cadeva la Morante), l’alternativa c’è, esiste, e consiste nel valorizzare ciò che nella storia è auspicabile (pace, libertà, cultura, sviluppo scientifico, ampiamento dei diritti ecc.) ed espellere man mano che è possibile ciò che è negativo (violenza, sopraffazione, restrizione delle libertà e dei diritti ecc.).

  26. SEGNALAZIONE.
    Violenza e non violenza. Come ne parlavano i nostri antenati (1)

    Foglio di discussioni *
    I, l, marzo 1949

    AVVIO DI DISCUSSIONE n. l Violenza e non violenza

    Argomento. Si vuole studiare la situazione di chi, pur nutrendo simpatie per
    la dottrina della non-violenza assoluta, riconosce la necessità di trasformare i
    rapporti fra gli uomini e vede inevitabile l’intervento della violenza in tale tra-
    sformazione.

    Problema n. I
    Critica alla teoria della non violenza.

    Eliminare la violenza dal proprio comportamento personale vuol dire eli-
    minare una violenza come sentimento individuale. Non si tocca così la vio-
    lenza come rapporto di altri con altri, né come rapporti di altri con me. La vio-
    lenza come rapporto è un fatto intersoggettivo; deve essere affrontato con
    misure intersoggettive.

    Problema n. 2
    Critica alle apologie della violenza.

    Distinguiamo due motivi possibili di tali apologie:
    a) si ritengono soddisfacenti gli attuali rapporti umani e se ne esalta l’a-
    spetto violento: in tal caso si è fuori dell’ argomento preso in esame;
    b) si esalta la violenza come trasformatrice dei rapporti umani: in tal caso
    si esalta *una certa* violenza contro *un’altra* violenza. La forma di apologia del-
    la violenza scompare, se si conviene di chiamare *violenza* appunto ciò che si
    intende eliminare dai rapporti umani. Di qui si giunge al:

    Problema n. 3
    Teoria formale della violenza.

    Definizione (formale) di violenza: Si chiama violenza quell’aspetto dei rap-
    porti umani che si considera da eliminare, in base al proprio ideale etico.
    Non si può escludere che l’aspetto da eliminare si trovi in tutti i rapporti
    umani: ciò dipende dalla struttura d’insieme dei rapporti in un dato momen-
    to storico, che è Li società. In tal caso per eliminare la violenza, cioè per tra-
    sformare la società, sarà indispensabile ricorrere alla violenza.

    Si deve studiare in quali casi la violenza si elide da se stessa e in quali si
    moltiplica e si perpetua.

    Problema n. 4
    Cercare di dare un contenuto a questa teoria formale.

    Proposta di definizione (sostanziale) di violenza: si chiama violenza un
    rapporto interumano diretto ad annullare il senso della spontaneità indivi-
    duale (da un punto di vista soggettivo) ed a impedire l’attuarsi di qualche pos-
    sibilità individuale (da un punto di vista oggettivo).
    Condizione perché una struttura sociale porti in tutti i suoi rapporti la vio-
    lenza: che la società non sia in grado di garantire l’attuarsi di tutte le possibi-
    lità individuali dei suoi componenti (proposta di soluzione).
    In una società così fatta non si può distinguere violenza da non violenza,
    ma solo rapporti in cui la violenza si perpetua o si elide.

    *A partire dal primo fascicolo del 1950 la rivista si chiamerà solo “Discussioni” [N.d.c.].

    [Da
    “Discussioni”
    1949-1953

    Edizione integrale
    Con una premessa di Renato Solmi , Quodilibet, Macerata 1999

    Quarta di copertina:

    Su un foglio ciclostilato destinato a pochi lettori, un gruppo di amici dibatte i
    temi che il periodo storico mette all’ordine del giorno: la bomba atomica e la
    non-violenza, il socialismo e l’Urss, l’etica e la politica, il materialismo e l’e-
    stetica, la scienza e la storia. N asce così, alla fine degli anni ’40, tra “ricostru-
    zione” e “guerra fredda”, una rivista che oltre a far da palestra per giovani intel-
    lettuali accomunati dalla ricerca della verità – tra loro Delfino Insolera,
    Roberto Guiducci, Renato Solmi, Luciano Amodio, Cesare Cases, Franco
    Fortini, Claudio Pavone – costituisce l’incunabolo di una serie di riviste, da
    “Ragionamenti” fino a “Quaderni piacentini”, che avrà per caratteristica la
    libertà di giudizio e l’atteggiamento critico nei confronti delle ortodossie.
    La riproposizione integrale di “Discussioni”, preceduta da uno scritto intro-
    duttivo di Renato Solmi che ritrae nitidamente le figure dei collaboratori, e
    arricchita da un’appendice di testimonianze, restituisce un dialogo appassiona-
    to tra intellettuali indipendenti e documenta un esempio valido ancora oggi di
    capacità di coniugare la riflessione filosofica e la ricerca etica con l’analisi della
    contemporaneità.

  27. SEGNALAZIONE.
    Violenza e non violenza. Come ne parlavano i nostri antenati (2)

    RISPOSTA [DI ROBERTO GUIDUCCI] ALLA DISCUSSIONE n. I Violenza e non violenza

    Seguendo l’invito dell’amico Delfino Insolera […] rispondo
    all’argomento per chiarire, sotto forma di traccia, la mia posizione accennata
    nel foglio n. 2.
    Feuerbach per la prima volta, sebbene in forma ancora romantica, pone nei
    Principi della filosofia dell’avvenire il problema del rapporto inteso come realtà
    ed insieme criterio di valutazione dell’uomo. Egli afferma: “L’amore è il crite-
    rio dell’essere e con ciò della verità e della realtà”. “Non essere alcuna cosa e non
    amare alcuna cosa sono tutt’uno” (paragrafo 35) e più oltre: “L’uomo singolo,
    considerato in sé stesso, non racchiude l’essenza dell’uomo in sé, né in quanto
    essere morale, né in quanto essere pensante”. “Tale essenza è contenuta soltan-
    to nell’unità dell’uomo con l’uomo” (paragrafo 59). Feuerbach considera dun-
    ~ que il rapporto non più come attributo accidentale del singolo individuo o come
    proiezione metafisica nel senso della partecipazione dell’individuo in Dio, ad
    un’anima universale, ad una Idea, ma come “essenza” dell’uomo, concepito però
    come appartenente alla specie umana sul piano naturale e non ancora ad una
    realtà sociale umana.
    La concezione feuerbachiana è ancora sul piano del sentimento: da una
    parte c’è l’amore, che è l’essere ed il bene, dall’altra c’è l’odio, la violenza, che
    sono il non-essere ed il male.
    Non è possibile capire come si muovano queste forze, che fuori della sto-
    ria sono puramente astratte, e perché e come si può avere un criterio obbiet-
    tivo di valutazione.
    Marx sviluppa e chiarisce il problema sul piano della concretezza storico-
    pratica scoprendo che “l’essenza” umana non è l’astrazione della specie imrna-
    nente nel singolo individuo, ma nella sua realtà è l’insieme dei rapporti socia-
    li strutturati nei rapporti economici. L’individuo deve essere colto nell’interno
    del rapporto come termine di esso ed in esso valutato.
    Tale valutazione dell’individuo è quindi dipendente dai risultati effettivi
    del rapporto che egli sa stabilire orizzontalmente con gli altri uomini, pre-
    scindendo quindi da ogni morale delle intenzioni.
    È necessario di conseguenza un metodo valutativo del rapporto sociale.
    Infatti, se tutti i rapporti sono sociali, non tutti sono socialmente positivi. Ma
    questa valutazione è possibile.’ solo cogliendo la vita storica dei rapporti ed il
    loro sviluppo.
    Opportunamente il Lefebvre scrive: “L’homme ne pouvait se développer qu’à
    travers des contradictions; dònc, l’humain ne pouvait se former qu’à travers
    l’inhumain, d’abord mèlé à lui pour ensuite s’en discerner à travers un conflit et
    le dominer par la résolution de ce conflit” (La philosophie marxiste, p. 38).
    Ora se l’inumano non è la violenza, essa lo caratterizza peculiarmente,
    quanto l’umano è caratterizzato dall’ accordo e dalla solidarietà. Se riteniamo
    negativo l’inumano, il positivo è l’umano. L’umano e l’inumano non sono
    però nulla “in sé”, essi hanno senso e sostanza come modi del rapporto. Ne
    viene di conseguenza che concretamente si deve parlare di “rapporti umani”
    e “rapporti inumani”, intendendo per rapporto umano o di solidarietà il posi-
    tivo e per rapporto inumano o violento il negativo.
    Ma i rapporti umani e inumani non sono statici; i rapporti umani si for-
    mano dialetticamente in antitesi a quelli inumani e questi ultimi, in questo
    senso, si possono definire i “non-rapporti umani”.
    Il rapporto umano è dunque il risultato di una lotta, di un conflitto dia-
    lettico nel quale esso deve essere costruito risolvendo sul piano sociale-eco-
    nomico ogni lotta di classe ed ogni forma di dominio e sul piano etico conse-
    I guente ogni forma di chiusura e di individualismo. Ci si può chiedere ora se,
    I nel senso di questo conflitto, per costruire rapporti umani, chi lotta, agendo,
    si trovi di fatto in un rapporto violento e quindi inumano. In realtà il rivolu-
    zionario agendo continua a subire un rapporto inumano con l’avversario,
    come lo subiva non agendo e tale rapporto negativo e diminuente perdurerà
    finché egli non se ne sia liberato, costringendo anche l’avversario a liberarse-
    ne. Ma questa non è né inumanità, né violenza.
    Non si deve confondere l’atto rivoluzionario costruttivo con il modo tra-
    dizionale di definirlo “in sé” quale “violenza”.
    Violenza è il resistere, l’opporsi alla solidarietà, il rifiutare la costruzione
    del rapporto umano per interessi particolari ed egoistici.
    Anche nel caso più grave, il rivoluzionario quando uccide elimina un rap-
    porto violento che egli e gli altri uomini subivano, riuscendo a stabilire, in
    una diversa struttura sociale, effettivi rapporti umani. Il suo avversario ucci-
    dendo conserva invece il rapporto violento, lo rafforza e lo perpetua.
    Per gli uomini dunque il costruire rapporti umani non è che liberarsi dal-
    la loro stessa alienazione.

    Roberto Guiducci

  28. SEGNALAZIONE.
    Violenza e non violenza. Come ne parlavano i nostri antenati (3)

    RISPOSTA [DI CLAUDIO PAVONE] ALLA DISCUSSIONE n. I Violenza e non violenza

    A
    Punto di partenza: La società attuale si regge sul dominio di una classe
    sull’altra, cioè su rapporti permanenti di violenza.
    B
    Critica della non violenza: La teoria della assoluta non-violenza riposa
    su una concezione individualista-illuminista della società e del mondo. Per
    sostenere la non-violenza assoluta occorre infatti partire dal presupposto di
    individui, in sé stessi completi, che, solo se abbandonati allo spontaneo svi-
    luppo della loro natura, creano la loro vita in maniera che possa veramente
    dirsi libera.
    Violenza viene allora ad essere tutto ciò che contrasta con questo libero
    sviluppo dell’individuo così isolatamente considerato. Violenza è perciò tut-
    ta la civiltà, tutta l’educazione, tutta la storia. (Rousseau, anarchici). È facile
    invece mostrare come l’individuo che si sviluppa obbedendo solo alla propria
    intima natura, al di fuori di ogni influsso esterno, è una ipotesi astratta ed
    irreale; l’individuo concreto vive incardinato in determinati rapporti sociali
    (storici). Se poi dal piano storico ci si volesse spostare su quello naturalistico,
    altrettanto facile sarebbe mostrare come la natura è tutt’altro che il regno del-
    la non-violenza (il pesce grande che mangia il piccolo, ecc.). Conseguenza
    sociale della non-violenza sarebbe infine la pratica del “lasciar fare alla natu-
    ra”, rinuncia cioè ad ogni intervento attivo degli uomini nei confronti della
    società, cioè degli altri uomini.
    C
    Il problema della non-violenza si riduce pertanto a questo: esistono dei
    limiti all’intervento attivo degli uomini per modificare i rapporti umani? E
    questi limiti, se esistono, riguardano il fine o i mezzi? È chiaro che, se accet-
    tiamo l’esistenza di tali limiti, potremo convenire nel chiamare violenza il loro
    indebito superamento.
    Ma quali sarebbero questi limiti? Questo è il problema veramente grave da
    affrontare. Si potrebbe rispondere che esiste una sfera di libertà individuale
    che inerisce all’uomo in quanto tale e che è pertanto assolutamente inviolabi-
    le: violenza sarebbe allora penetrazione, con qualsiasi mezzo attuata, in que-
    sta sfera, anche se si tratta del più bieco reazionario. La risposta ha ancora
    troppo di giusnaturalismo e conduce di nuovo ad una separazione, che sap-
    piamo astratta e irreale, fra individuo e società, senza pensare poi alle sue con-
    seguenze di “freno” all’azione rivoluzionaria. D’altra parte, la prassi totalita-
    ria o borghese di cui abbiamo fatto o facciamo giornalmente esperienza ci
    trattiene dal riconoscere senz’altro la legittimità di ogni intrusione nella nostra
    coscienza da parte degli “altri”, anche se “gli altri” si ritengono investiti del-
    la rappresentanza degli interessi collettivi. Il problema si riporta in definitiva
    a quello della libertà, se appunto della libertà ci sforziamo di avere non un
    concetto illuministico, ma storicistico e dialettico. La difficoltà di costruire
    una soddisfacente teoria, o addirittura una soddisfacente precettistica, della
    non-violenza coincide con quella di dare una soddisfacente definizione della
    libertà e dei mezzi che vanno usati per farla trionfare (cfr. la “libertà libera-
    trice” dei tempi del Pil [1]: in nome di essa ci ritenevamo senz’altro in diritto di
    compiere quelli che comunemente sono chiamati atti violenti; […].
    E potremmo, come già accennato, giungere fino alla questione del fine e dei
    mezzi (dove “violenza” sarebbe ogni mezzo non conforme al fine della libertà:
    e pertanto l’uccisione di Mussolini non sarebbe “violenza giusta” ma sempli-
    cemente “non-violenza”). Come conclusione provvisoria avanzerei questa:
    finché il problema rimane impostato nei termini violenza non-violenza è inso-
    lubile, perché presuppone la possibilità, che sappiamo inesistente, di definire
    concretamente quale è la sfera[2] di libertà e di spontaneità che spetta al singo-
    lo in quanto tale.
    Si tratta allora di vedere la cosa da un altro punto di vista ed esaminare
    quali sono i limiti e le condizioni alle quali un’azione, individuale e colletti-
    va, deve sottostare per essere storicamente efficace. Potremo allora chiamare
    “violenta” quell’azione che si inserisce nei rapporti fra gli uomini senza tener
    conto di queste condizioni e provoca quindi lutti e sofferenze inutili (ma l’e-
    spressione si presterebbe comunque ad equivoci).
    D
    Mi sono allontanato dallo schema proposto dall’ estensore. Rispetto ad
    esso osserverò brevemente:
    1) D’accordo sulla insufficienza del superamento della violenza come sen-
    timento individuale, che è il punto massimo cui possono arrivare le odierne
    associazioni di non-violenti, di resistenti alla guerra ecc.
    2) D’accordo anche alla critica alle apologie della violenza.
    3) Non tanto d’accordo sulla definizione formale della violenza: mi sem-
    bra abbia ragione Renato Solmi nel considerarla troppo ampia e generica.
    4) Sarei d’accordo sulla definizione sostanziale della violenza se non aves-
    si il sospetto che essa non sfugge all’antinomia propria della impostazione
    illuministica e giusnaturalistica prima criticata: cosa sono la “spontaneità indi-
    viduale” e le “possibilità individuali”? Di quali individui si tratta, viventi in
    quale società? Come è possibile cogliere la spontaneità se non con una astra-
    zione o con una “robinsonata”? Né vale dire che ciò che conta è che il singo-
    lo sia in grado di fare ciò che di fatto vuole fare: l’uomo servile vuole spesso
    di fatto compiere atti servili, ma noi sappiamo che questo suo desiderio è già
    il frutto di una violenza esercitata su di lui dall’ esterno.
    Torniamo perciò al problema, tutt’altro che chiarito, del rapporto indivi-
    duo-società. È strano tuttavia che l’estensore, dopo avere insistito tanto sul
    concetto di “rapporto” (senza peraltro definirlo), finisca nel suo tentativo di
    definizione “sostanziale” col porsi essenzialmente da un punto di vista indi-
    vidualistico.

    Claudio Pavone

    [1] Partito italiano del lavoro. Piccola formazione politica di cui Delfino Insolera e Claudio Pavone
    fecero parte nel periodo •della Resistenza. Cfr. a questo proposito ciò che scrive l’autore di questo
    intervento in Una guerra civile, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, a pp. 176 sgg. e altrove; ed anche la testimonianza di Delfino Insolera in Come spiegare il mondo, Bologna, Zanichelli, 1997, pp. 472 sgg.
    [N.d.c.].

    [2] L’originale dà “forza”, ma si tratta, ci sembra, con ogni evidenza, di un errore di battitura
    [N.d.c.].

  29. SEGNALAZIONE.
    Violenza e non violenza. Come ne parlavano i nostri antenati (4)

    Riassunto delle discussioni finora svolte sul tema n. I
    Violenza e non violenza

    Il numero delle risposte finora pervenuteci non è eccessivamente elevato
    (dieci in tutto, da otto diversi interlocutori), ma forse tale da permettere un pri-
    mo provvisorio “bilancio”.
    […]
    A priori pare che le risposte si possano suddividere in tre categorie, a secon-
    da che concordino con la impostazione generale del problema formulata nel-
    l’argomento, o che ne discordino optando per la violenza (concepita come ine-
    vitabile e corradicata alla vita) o per la non violenza assoluta. Ma appena si ana-
    lizzano concretamente gli scritti pervenuti, ci si accorge che I) nessuno ha pre-
    so posizione a favore’ della non violenza assoluta; 2) nessuno si è fatto
    sostenitore della violenza per la violenza; 3) nessuno, d’altra parte, si è dichia-
    rato favorevole in teoria alla non violenza, ma consapevole, in pratica, della
    necessità della violenza per trasformare l’insieme dei rapporti umani.
    Anche Francioni [intervento non scannerizzato] ha ritenuto opportuno
    precisare che considerava la non violenza assoluta come la proiezione di un desiderio.
    Che significa ciò? Come definire un tale “quarto escluso”? La spiegazio-
    ne è semplice. La maggioranza degli interlocutori ha creduto di ravvisare un
    errore metodico, una contraddizione iniziale nell’impostazione stessa dell’ar-
    gomento, errore determinato da un uso ambiguo, bivalente e forse pluriva-
    lente, del termine violenza. Questa obbiezione è stata espressa con chiarezza
    da Bontadini [intervento non scannerizzato]:
    non si può nello stesso tempo simpatizzare per la non violen-
    za e accettare praticamente la violenza perché “nel primo caso siamo su un
    piano in cui la violenza viene considerata quasi categoria del principio del
    male, e quindi, in termini più ampi, assimilabile al concetto di ingiustizia o, di
    conseguenza, al positivo giustizia; nel secondo caso viene ad assumere un
    significato più caratteristicamente strumentale di ‘azione o rapporto violento’,
    quindi assimilabile al concetto di forza strumentale e come tale riconosciuto
    storicamente valido ed avente la sua eventuale legittimazione solo nella con-
    cezione di giusto od ingiusto, in un altro criterio di giudizio”. La contraddi-
    zione è osservata anche dal D’Eramo [intervento non scannerizzato]:
    “La parola violenza è adoperata nel senso comune quando si dice che per
    trasformare la società sarà indispensabile ricorrere alla violenza,
    mentre la definizione formale tende ad identificare,
    assolutamente, la violenza con il male”. È evidente che se la violenza viene
    concepita come tutt’uno con l’ingiustizia ed il male sociale non resta possibi-
    le se non una radicale condanna di ogni sua forma, mentre se viene concepi-
    ta come strumento in funzione di un fine, il giudizio della sua legittimità od
    illegittimità è trasferito e rinviato ad un criterio ulteriore. Bontadini propen-
    de naturalmente per la seconda parte dell’alternativa. Una critica analoga è
    rivolta da Solmi [intervento non scannerizzato] all’estensore dell’avvio.
    Egli ritiene inutile e anche dannosa una definizione “formale” del termine violenza
    e propone invece una messa a fuoco “fenomenologica” dei diversi significati
    che al termine si possono attribuire e sono di fatto attribuiti.
    Solo così sarà possibile evitare l’ambiguità implicita nell’uso di un concetto
    che copre significati distinti e incompatibili.
    La critica di Solmi e quella di Bontadini sono sostanzialmente vicine ma tut-
    tavia mosse da differenti posizioni metodologiche. Mentre Bontadini fa dipen-
    dere il suo giudizio sul singolo atto di violenza dall’inquadramento storico in
    cui questo si situa, dal fine a cui tende e che concretamente promuove od osta-
    cola, Solmi tende invece a distinguere sul piano di una fenomenologia extra-
    storica vari tipi e forme astratte di violenza, la cui qualità positiva o negativa
    e la cui eliminabilità o ineliminabilità dovrebbe risultare dalla loro specifica
    struttura e relazione reciproca.
    Movendo da un altro punto di vista Pavone rimprovera all’estensore del-
    l’avvio di oscillare continuamente da una concezione della violenza come attri-
    buto di un rapporto alla concezione giusnaturalistica, di cui la prima dovreb-
    be costituire un superamento, della violenza come violazione della sfera
    individuale di libertà o spontaneità. Buona parte delle contraddizioni ed
    incoerenze che traspaiono nell’impostazione dell’avvio derivano da questa
    fondamentale incertezza.
    Anche Bontadini è d’accordo con Pavone quando scrive che “la defini-
    zione di violenza come un tipo di azione tendente a comprimere con la for-
    za certe aspirazioni di un individuo” presuppone implicitamente “queste aspi-
    razioni come lecite, anzi come giusnaturalisticamente valide, diritti
    dell’uomo”.
    E Pavone si meraviglia” che l’estensore dopo aver insistito tanto sul con-
    cetto di rapporto (senza peraltro definirlo) finisca nel suo tentativo di defini-
    zione sostanziale col porsi essenzialmente da un punto di vista individualisti-
    co”. Sull’importanza e la novità del concetto di rapporto come strutturalmente
    collegato al concetto di violenza (nel senso che la violenza non può che ine-
    rire ad un rapporto, mentre resta da decidere se inerisca ad ogni rapporto)
    richiama l’attenzione anche il Solmi.
    Una proposta di soluzione del problema della violenza vista come agget-
    tivo strutturale e storico del rapporto intersoggettivo è tracciata dal Guiducci
    nei suoi due interventi. Un atto non è violento o non violento in sé, o secon-
    do una prefissata fenomenologia, ma relativamente al suo fine, fine, beninte-
    so, non nel senso di “intenzione”, ma in quello di sfondo concreto, conse-
    guenza e risultato reale dell’atto. “In realtà il rivoluzionario agendo continua
    a subire un rapporto inumano con l’avversario, come lo subiva non agendo,
    e tale rapporto negativo e diminuente perdurerà finché egli non se ne sia libe-
    rato, costringendo anche l’avversario a liberarsene. Ma questa non è né inu-
    manità né violenza”. Si tratta quindi, secondo il “Guiducci, di capovolgere ad
    un certo punto la direzione dei rapporti, di fatto, inumani (e quindi violenti)
    costruendo dialetticamente rapporti umani (e quindi non violenti). “Anche
    nel caso più grave, il rivoluzionario quando uccide elimina un rapporto vio-
    lento che egli e gli altri uomini subivano, riuscendo a stabilire, in una diversa
    struttura sociale, effettivi rapporti umani. Il suo avversario uccidendo con-
    serva invece il rapporto violento, lo rafforza e lo perpetua”. Così lo stesso
    atto assume un senso diverso, anzi opposto, secondo la sua finalità intrinseca
    e la sua direzione storica.
    C’è, diceva lo stesso avvio di discussione, una violenza che si perpetua
    ed una che si elide; beninteso, premetteva, in “una struttura sociale che por-
    ti in tutti i suoi rapporti la violenza”. Bontadini e Guiducci presuppongono
    implicitamente che tale è la struttura sociale in cui viviamo. Se domani ne
    esisterà un’ altra in cui la non violenza sarà divenuta possibile, è una que-
    stione non direttamente affrontata dagli interlocutori, ma almeno Guiducci
    ed Amodio[intervento non scannerizzato] sembrano sottintendere una soluzione
    in senso affermativo.
    Guiducci infatti scrive: “avvenuto questo (eliminati cioè i rapporti violenti
    e costruiti quelli umani) il rapporto umano sarà l’unico fatto intersoggetti-
    vo come manifestazione libera e cosciente di tutti gli individui nel campo
    della solidarietà sociale” e l’Amodio conclude: “Diventa così possibile la
    liquidazione della violenza”. Non è chiaro però se per l’hegeliano-marxista
    Amodio la liquidazione della violenza consista nella sua effettiva scompar-
    sa o semplicemente nella sua “mediazione”. Il dubbio è suscitato da affer-
    mazioni che precedono immediatamente quella citata: “Obbiettivamente la
    vita è lotta fra individui: la redenzione si realizza tuttavia attraverso la
    obbiettivazione progressiva della violenza nella società. In essa la violenza si
    astrattizza e si media: diventa diritto. Lo stato è il piano di questa catarsi dei
    rapporti umani. Non solo il luogo, ma la risultante. La sua realtà ideale è
    l’assunzione su di sé di tutta la violenza del mondo, la sua trasformazione in
    legalità”. Se la liquidazione della violenza consistesse nella sua mediazione
    ad opera dello Stato, in tal caso la violenza sarebbe perennemente “liquida-
    ta” (o perennemente risolidificata). Amodio appare così a mezza strada fra
    i teorici della violenza “che si elide” e i teorici della violenza come ingre-
    diente necessario della dialettica sociale. Restano da esaminare gli interven-
    ti di Francioni e d’Eramo. Il primo condivide sostanzialmente la posizione
    dell’argomento, insistendo sulla necessaria “violenza dell’ideale etico” e defi-
    nisce come una aspirazione limite la non violenza assoluta. Il secondo ritie-
    ne che “l’amore comporti necessariamente la violenza”, e che sia possibile e
    lecito “fare bene agli altri indipendentemente dalla loro volontà”. L’uno e
    l’altro si fanno apologeti della violenza “strumentale” in un senso però piut-
    tosto moralistico ch’e storicistico; ciò che giustifica la violenza, pare, non è
    tanto la sua efficacia storica o il suo finale *aboutissement* [risultato]
    alla non violenza,quanto il suo impiego in nome ed a servizio di un ideale etico
    o di un superiore amore umano.
    Per concludere vorremmo additare quelli che sembrano a questo punto i
    problemi aperti, sui quali potrebbe proseguire la discussione:
    I) Critica ed approfondimento del concetto di violenza come rapporto,
    traendone tutte le conseguenze e liberandolo da eventuali residui giusnatura-
    listici.
    2) Vedere se la violenza inerisca ad ogni rapporto, o se sia un “accidente”,
    e quale, del rapporto.
    3) Riprendere in esame la violenza nel contesto della storia, e vedere se la
    violenza storicamente “giustificata” cessa di essere violenza per diventare atto
    costruttivo.
    4) Infine, vedere se si debba e si possa progettare un rapporto umano libe-
    rato dalla violenza.

    La redazione

    *Nota
    Non ho potuto scannerizzare tutti gli interventi dei redattori di “Discussioni”. Ho scelto i due che mi sono parsi più significativi. Dal riassunto della redazione di “Discussioni” si capiscono bene anche le posizioni degli altri da me non scannerizzati (l’ho segnalato tra parentesi quadre). In ogni caso rimando gli interessati al volume della Quodlibet. [E. A.]

  30. Ennio, Ennio ed altre/i, bollerai anche il professor La Grassa ? Mi sa che é passato di qua per ispirarsi sul suo nuovo pezzo di oggi…e, comunque, anche se non fosse passato di qua , ti ha e in parte vi ha, sistemato alla grandissima. Visto che lo citi ogni due per tre, prova adesso a proporlo, analizzando con tutti i tuoi attrezzi da palestra e magari demolirlo pure a botte di etichette “nichilista”….se non lo fai, corri il rischio di due pesi e due misure, e tu non sei così, giusto ? Tu sei alla continua libera ricerca della Storia, vero?

    1. @ ro

      ULTIMA INVOCAZIONE QUASI DISPERATA
      CON UNA MINIMA VARIAZIONE
      RISPETTO ALL’ORIGINALE
      E POI, SE INSISTI, TI CANCELLO I COMMENTI

      Regina reginella quanti passi devo fare
      per arrivare al tuo cervello
      con la fede e con l’anello
      o con la punta del coltello?

      [Da Wikipedia.
      Regina reginella è un classico gioco d’infanzia ricreativo di gruppo, più che altro praticato spontaneamente dai bambini e di rado proposto dagli educatori, a causa della prevalenza della componente di arbitrarietà, rispetto alla certezza di regole che caratterizza altri giochi, una caratteristica in genere considerata di scarso valore educativo].

  31. Aggiungo ai discorsi dei nostri antenati una osservazione di logica del discorso.
    Quando Luciano Aguzzi scrive, e Ottaviani sottoscrive,
    “È anche un segno di un pensiero di fondo, che Hegel colloca, come astuzia della «ragione», all’interno della strategia dello «Spirito», che porta a dire, ad esempio: «sì, Napoleone era un delinquente, tuttavia è stato un veicolo, in parte magari involontario, del progresso». Ragionamento che ho letto e sentito diverse volte, non solo a proposito di Napoleone, ma anche di Alessandro magno o di Lenin e di altri. Ebbene, io non credo a questa hegeliana «astuzia della ragione», né credo che la Francia uscita dal periodo napoleonico, la Francia del 1815, fosse più progredita di quella del 1789. E soprattutto non credo, a differenza di Hegel e dei rivoluzionari in generale, che sia giusto perseguire il progresso, anche ammesso che ci sia in casi del genere, ammazzando migliaia o milioni di persone”
    e poco dopo:
    “Quando si studierà la storia non più dal punto di vista della ragion di Stato, o di partito, o di questa o quella ideologia particolare, ma dal punto di vista dei diritti di tutti (compresi, anzi soprattutto, dei vinti) a essere lasciati in pace a vivere come meglio credono, con la «civiltà» che si sono dati, si comprenderà meglio sia le ragioni di Elsa Morante quando affermava che la storia è un crimine che dura da diecimila anni, sia il fatto che, senza regredire in un nichilistico ritorno alla natura (errore in cui cadeva la Morante), l’alternativa c’è, esiste, e consiste nel valorizzare ciò che nella storia è auspicabile (pace, libertà, cultura, sviluppo scientifico, ampiamento dei diritti ecc.) ed espellere man mano che è possibile ciò che è negativo (violenza, sopraffazione, restrizione delle libertà e dei diritti ecc.)”
    non si accorge (si accorgono) del rischio di cadere in contraddizione?
    L’alternativa che consiste in valorizzare ciò che è auspicabile, pace cultura libertà sviluppo scientifico ampliamento dei diritti, è un portato di quella astuzia della ragione esecrata in precedenza. Non siamo in un atollo del Pacifico, per cui si possa vivere in pace (proprio Feuerbach appuntava la crudeltà della vita delle popolazioni primitive!), e nemmeno con cultura e ampliamento dei diritti. Tutto ciò che abbiamo è un portato, almeno negli ultimi cinque secoli, del capitalismo, dello sfruttamento di classe, delle guerre feroci. Anche i monaci benedettini nell’alto medioevo si servivano di manodopera servile, per non parlare della oppressione interna alle pacifiche e beate comunità, consiglierei a tutti di leggersi, fra gli altri, il Diario della beata Veronica Giuliani, per affrontare almeno la non libertà, anzi la vera repressione delle donne in quelle oasi di pace.
    La pace può essere aristocratica? elitaria? separata? sprezzante?
    Pare che anche Gesù sapesse di essere venuto a portare la guerra: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione (Lc 12,51)”. E Dante scrive di certe facce di pietra “de li altrui danni/ più lieta assai che di ventura mia”.
    Un po’ di materialismo, santiddio, siamo anche bestie, con la ragione ci vogliamo migliori, ma non santi, astratti cioè.
    D’accordo, la concretezza delle opzioni politiche non manca a Aguzzi, gli chiedo solo di incarnarla, questa concretezza, in logica e dialettica umane.
    (Altrimenti bisogna essere coerenti, e praticare veramente la strada di Simone Weil, con il suo progetto di un corpo di infermiere di prima linea: accogliere la violenza senza rispondere, di modo che si estingua.)

  32. Sa, Aguzzi, che il Governo boliviano, o l’Esercito boliviano, o la CIA – o tutti insieme – dettero ordine ad un medico di amputare le mani (tutte e due) a Ernesto Che Guevara morto, per – pare -, rendere conto a se stessi, e al mondo, che la persona uccisa fosse proprio Guevara, dalle impronte digitali (dove poi e chi aveva preso mai le impronte digitali di Guevara?). Ha visto le foto delle mani amputate? Mi riesce difficile credere che Guevara abbia fatto amputare le mani di chicchessia, vivo o morto. Che abbia ucciso sì. Stava facendo una Rivoluzione e non da solo. Con l’Esercito Rebelde, a Cuba. E con i contadini, di montagna, e di pianura. (Non mi riferisco al suo essere andato in Bolivia). Lei pensa che Batista…
    Non elencherei, come lei fa, Guevara accanto a Napoleone. Anche mettere insieme Garibaldi e Napoleone mi sembra azzardato.
    Se L’Unità d’Italia sia stato un errore, non so, e davvero si può affermarlo completamente?
    Le mie, solo due piccole notazioni, in margine.
    (Conosco bene o abbastanza la Storia degli Stati Uniti d’America. Frequenza di seminari, decenni fa. I due crimini fondanti di quella Storia: due, non uno. Verso i nativi d’America, e verso i neri d’Africa).
    Ma mi fermo a due piccole notazioni, in margine.

  33. SEGNALAZIONE.
    Violenza e non violenza. Come ne parlavano i nostri antenati (5)

    VIOLENZA E NON VIOLENZA
    di Franco Fortini

    Negli anni scorsi siamo stati non molti a chiederei e a chiede-
    re di non accettare il rifiuto della memoria, che ci veniva ri-
    volto e proposto dalla cultura dell’ultimo decennio. Ma la me-
    moria non è ricordo di fatti, di episodi e neanche documenta-
    zione di clima, di temperie, di contesti come ho sentito anco-
    ra oggi da molti ripetere; memoria è soprattutto giudizio sto-
    rico ed è giudizio storico quello che fa capire ciò che abbiamo
    davanti e non soltanto quello che abbiamo alle spalle. Quando
    sento i discorsi di molti che vorrebbero che si tornasse soprat-
    tutto a rammentare che cosa accadeva, e come le cose erano
    accadute dieci o quindici anni fa e quando ci si chiede di farlo
    perché possa illuminare meglio i giudizi dei giudici e perché
    aiuti a giudicare noi stessi, io, perché non dirlo, mi sento av-
    vilito e spaventato e misuro la rovina che la cultura reaziona-
    ria ha provocato in questi anni intorno e dentro di noi.
    Accettare di ricostruire i contesti psicologici e politici, certo
    si può e si deve, ma è un tipo di ricostruzione che oggi si desti-
    na alle aule dei tribunali per quelle che si chiamano, ad esem-
    pio, le circostanze aggravanti o attenuanti. Mi guardo bene
    dal negarne l’utilità o persino la necessità; ma questo vuol di-
    re, in definitiva, accettare oggi il terreno scelto da chi detiene
    il potere cioè, nel nostro caso, il terreno giudiziario. Noi non
    possiamo, non dobbiamo, negarlo o respingerlo, ma dobbia-
    mo conoscerne i limiti perché altro, ben altro, è il giudizio
    storico e politico che dobbiamo dare.
    Analogamente,ascolto un po’ avvilito e un po’ spaventato
    molti giovani che accettano di porre le questioni e i giudizi in
    termini di moralità, o parlano di gradi dell’autodifesa, o di ag-
    gressione, o di risposta alla violenza, o di violenze di grado A,
    di grado B o di grado C, quasi che le differenze consistessero
    nella intensità con la quale viene vibrato un colpo sulla testa
    dell’avversario. È come se da dieci anni nessuno avesse più ri-
    flettuto seriamente sul luogo che la violenza occupa nella sto-
    ria e nella vita umana. Quale è stato studiato e teorizzato dai
    maestri stessi della nostra cultura moderna, conservatori o ri-
    voluzionari che fossero, da Machiavelli a Freud: è come se or-
    mai fosse stata accettata l’idiota e inaccettabile equiparazione
    , di democrazia e di non violenza.
    Ridotti a questo livello puerile di riflessione, incapaci di capi-
    re quali processi contraddittori, e perché non dirlo (usiamo
    una parola demonizzata) dialettici, passino fra comportamen-
    to etico, comportamento giuridico e comportamento politico;
    desiderosi solo di sottrarci alla tragicità dell’azione che sem-
    pre, anche quando non è violenta, comporta un rapporto di
    potere, di subordinazione, di manipolazione, in definitiva un
    rapporto di forza, noi ci consegnamo altrimenti prigionieri ai
    sofismi infami di chi il potere lo esercita davvero, di chi non
    fa violenza perché *è* violenza.
    Torno a dire che non saremo capaci di giudizio storico fino a
    quando non avremo compiute alcune scelte fondamentali che
    non sono solo di programmi, ma di strumenti per realizzarli.
    Nel periodo che va dal’ 63 al ’73 si erano determinate nel no-
    stro paese le condizioni perché una gran parte degli italiani
    politicamente attivi uscisse dai termini politici stabiliti dalle
    organizzazioni sindacali e politiche della sinistra storica, do-
    minanti già nel ventennio successivo alla fine della guerra. La
    classe politica dominante, quindi anche buona parte della clas-
    se politica della sinistra storica, ha combattuto quella realtà
    con tutti i mezzi, legali e illegali: dal terrorismo di stato allo
    sfruttamento di quello di altra origine, dalla provocazione ai
    normali metodi polizieschi italiani e imperiali e ai normali
    metodi politici. Ciò nonostante la spinta fu così forte da de-
    terminare alcune fondamentali vittorie civili e da accettare di
    confluire nel ’76 in un voto di fiducia delle giovani generazio-
    ni al maggiore partito della sinistra storica.
    La risposta è stata per un verso il terrorismo senza disegno
    politico, la degenerazione intellettuale e morale, la diffusione
    del cinismo e della droga, la politica di unità nazionale, la legi-
    slazione speciale, le stragi, i poteri occulti. A questo punto,
    chi condivida anche solo per sommi capi questo schema non
    può accettare di limitare il discorso a questa o quella puntua-
    lizzazione storica. Capire indietro vuol dire capire avanti,
    avere dei reali progetti politici, avere la pazienza di spiegarli;
    mi rifiuto di rispondere a chi mi chieda di dare una valutazio-
    ne morale di questo o di quel comportamento, perché l’ese-
    crazione non è un giudizio né politico, né morale, è un atto di
    propaganda.
    A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo,
    di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia me-
    desima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità
    di tutti. E, nel medesimo tempo e non in contraddizione con
    questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di
    Lenin «che quando decine di milioni di uomini vengono man-
    dati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o
    quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad
    un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una gene-
    razione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare
    quei massacri e di distruggere quei banditi».
    Questa è la situazione tragica dell’ esistenza umana: essere uo-
    mini significa *questo*. Chi non vuoI vedere, chi vuole conso-
    larsi credendo che il pane che mangia non è sottratto a chi
    muore di fame, in questo caso lo faccia pure. Nessuna violen-
    za è giustificata, mai, ma ogni violenza può essere inevitabile;
    credo che quanto dico stia scritto anche nel cuore della tradi-
    zione cristiana. Il patto sociale che ci sottopone alla legge non
    fa che trasferire altrove, che scaricare altrove i conflitti che
    noi regoliamo secondo i fatti costituzionali e i codici. Li tra-
    sferisce altrove là dove la legge non è uguale per tutti perché è
    legge o di salario o di privilegio.
    Se dunque cosi è, i nostri discorsi varranno solo se, oltre ad
    avere ragione, avremo la forza per farla valere; questa forza
    non sta nei muscoli né nelle armi, è la forza del progetto, del-
    l’impegno e della milizia politica. Ora, un’altra generazione è
    venuta in questi anni, un’altra Europa prende sempre maggio-
    re coscienza della distruzione delle ragioni elementari di vita
    che è stata e che viene compiuta dalla cultura della massifica-
    zione e insieme del privilegio, dalla disoccupazione, dalla in-
    sensatezza, dal permissivismo e dalla mercificazione. Un’altra
    generazione ancora giovane sta diventando adulta e presto
    vecchia e presto finita. ;
    Si può supporre che in forme contraddittorie e cifrate questa
    nuova Europa ancora poco visibile stia prendendo volto. I no-
    stri cani da guardia sanno bene quello che fanno, sanno che
    debbono prevenire, prevenire provocando, vogliono, – guar-
    date la Germania e forse la Gran Bretagna – vogliono che il
    dissenso e la contestazione che si va generando oggi, si scopra
    e si consegni alle schedature, alle bastonature e ai ghetti. Noi
    non dobbiamo qui ed ora deplorare la violenza a parole e
    neanche accettare di farne qui e ora dibattito teorico o filoso-
    fico.
    Oggi dobbiamo con durezza rifiutarci a qualsiasi comporta-
    mento violento perché la squadra dei provocatori vuole sol-
    tanto che il nostro linguaggio ripeta in modo monotomo,
    «fascismo, antifascismo,» quello dei padri, dei nonni e dei
    bisnonni. In Germania, cosi mi è occorso di leggere nei giorni
    scorsi, le perpetue e vistosamente adolescenziali dissidenze
    estremizzanti sono accuratamente schedate dalla polizia e
    qualcosa di simile mi risulta succede anche qui, fra noi. Però
    credo all’intelligenza e alla preveggenza dei nostri agenti di
    polizia, credo alle capacità tecniche degli strumenti di repres-
    sione nazionali, europei o sovranazionali; credo comunque
    che sia meglio per tutti sopravvalutarle.
    Quando un paese ha tre milioni di disoccupati e una cosi ma-
    nifesta volontà politica di farla finita con lo stato sociale, se
    pur è mai esistito, è lecito supporre che si possano determina-
    re delle tensioni e delle frizioni. Ebbene, sino a quando non
    siamo in condizioni di avere organizzazione e progetto con
    senso tendenziale e disegno dell’avvenire, non Cl si illuda che
    questo possa nascere da sé da qualche ginnastica che ripeta
    quello che è già fallito venti, quindici e dieci anni fa. Il mio
    consiglio quindi, valga quello che valga, è di una massima in-
    transigenza con se stessi per quanto è della lettura del pas-
    sato e della conoscenza del presente, come anche per quanto
    è della distruzione dell’illusione che le Costituzioni e i Par-
    lamenti fondino convivenze armoniose e giuste che non sono
    mai esistite.
    Ma nel medesimo tempo e proprio per le stesse ragioni, il
    mio intervento si conclude col rifiuto di abbandonare
    ora e nell’immediato futuro il terreno della legalità repubbli-
    cana, di cedere alla provocazione da qualunque parte venga.
    La nostra morale non è quella di Renzo Tramaglino, è quella
    di chi ha nelle orecchie le urla degli innocenti torturati nei
    processi degli untori. Dunque noi non deprechiamo i tumulti,
    deprechiamo i tumulti inutili; ci sono forme di disobbedienza
    all’ingiustizia che noi dobbiamo imparare ad usare e a pratica-
    re non perché si sia, o almeno non perché io sia un non-vio-
    lento per principio metafisico o religioso, ma proprio perché
    non vogliamo subire la violenza che è pronta a colpirci.

    1985

    (Da F. Fortini, Non solo oggi, Editori Riuniti, Roma 1991)

  34. …mi prende molto tutto questo lungo discorso sulla “violenza” , ma riesco solo a spigolare qua e là qualche considerazione o a avanzare degli interrogativi…Una considerazione generale, non più che un balbettio: se vivessimo in una società vagamente giusta, l’ultima cosa da farsi sarebbe il ricorso alla violenza come metodo di risoluzione dei problemi, perché penso che essa sia la negazione stessa della vita, per le degenerazioni in crescendo che sfociano in bagni di sangue e crudeltà inenarrabili…Detto ciò, in società o situazioni crudelmente ingiuste e dove il tempo gioca a favore di un radicalizzarsi ed espandersi dell’ingiustizia e della violenza , penso che il ricorso alla violenza, che solo in questi casi non sarebbe tale, sia una modalità necessaria… Esempi nella Storia sono stati da voi ampiamente riferiti, anche se raramente vincenti…Ora, secondo me, due tipi di violenza tiranneggiano le popolazioni oggi: quella delle mafie e quella degli intrighi e interessi legati al potere economico e politico, qualche volta mascherato da una religione…Tra loro molte connessioni. Nei luoghi di mafia il clima che si viene a creare per le persone è di costante paura; per generazioni si vive sotto un giogo violento di delitti, estorsioni e minacce di modo che il coraggio di non sottomettersi può chiamarsi solo eroismo se rimane di pochi, perciò molto importanti le iniziative, come quella di G. Lucini con la sua antologia “L’impoetico mafioso”, in grado di estendere la coscienza alla ribellione a molti…Quando invece si trattasse di violenza che proviene dallo Stato allora, penso, le cose si complicano ulteriormente…Se si trattasse di una dittatura feroce o una colonia, a determinare guerre e povertà, le uniche difese, penso, resterebbero la lotta o la fuga…Se si trattasse di “democrazie” asservite ai potenti (vedi anche la nostra), allora la modalità di difesa dovrà passare attraverso il pensiero, che non si sviluppa così facilmente perché, colti da un sonno ipnotico, siamo quelli che con spugne e detersivi ripuliamo la nostra città… ricattati dall’amore per le cose e le persone, siamo tante Madri Coraggio” convinte che la guerra ci risparmierà e magari ci farà arricchire…

  35. TARDA COMICITA’

    @ Fischer

    «Il femminismo non è una ridotta, ma la consapevolezza che l’unismo è ormai desertificato e miserabile».(Fisher)

    Non sottovaluto, ma – ripeto – il femminismo è stato *sconfitto*, insieme alle spinte del movimento ’68-’69. (Vedi lo scritto di Fortini selezionato ad “antenati (4)”: «[…] nel periodo che va dal ’63 al ’73 si erano determinate nel nostro paese le condizioni perché una gran parte degli italiani politicamente attivi uscisse dai termini politici stabiliti dalle organizzazioni sindacali e politiche della sinistra storica, dominanti già nel ventennio [dal dopoguerra agli anni 60 (ndA)]. La classe politica dominante, quindi anche buona parte della sinistra storica, ha combattuto quella realtà con tutti i mezzi, legali ed illegali; dal terrorismo di stato allo sfruttamento di quello di altra origine, dalla provocazione ai normali metodi politici»).
    Ciò che sussiste è cenere (vita catacombale, se vogliamo). Oppure è soltanto il guscio esterno, travisato e compromesso col “sistema”.
    Finelli, che tra l’altro cita proprio il passo appena sopra di Fortini, non avrà capito niente, come tu dici. Io ci andrei piano con le liquidazioni. E rifletterei sui punti condivisibili, Ad esempio il seguente:
    «La conclusione dei movimenti di rivolta degli anni ’60 e ’70 infatti è stata non solo quella di una sconfitta definitiva, almeno per un lu periodo storico, di quanto concernesse l’attesa di un nuovo ordine economico e sociale. Ma è stata anche quella di una realizzazione e diffusione di massa, solo di segno rovesciato […]. E’ cioè la storia, per dirla con un vecchio termine gramsciano, di una «rivoluzione passiva», ossia di una rivoluzione-restaurazione, che vede assumere e realizzare da parte delle classi dominanti – dunque con un paradossale rovesciamento di senso e di destinazione – l’esigenza di cambiamento di movimenti giunti all’esaurimento della loro iniziativa storica». (http://www.consecutio.org/2014/11/un-parricidio-compiuto-il-confronto-finale-tra-marx-e-hegel/

    @ Ottaviani

    Non mi piace il tuo tono sarcastico, sbrigativo e personalizzato, ma rispondo ancora alle tue obiezioni.

    «Vladimir Majakovskij, sei anni dopo aver scritto il suo poema agiografico, morì suicida. Tutta colpa del perfido Stalin? Nulla di errato nel pensiero e nell’opera di chi aveva preceduto il terribile dittatore? Non è possibile nemmeno ipotizzare che, come peraltro accadeva in quegli anni a quasi tutti i “futuristi” anche fuori dalla Russia, il poeta avesse preso un grosso abbaglio sull’”uomo terrestre che ha visto il segreto del mondo” e oscuramente cominciava ad accorgersene?» (Ottaviani)

    Certamente, il suicidio del poeta (o “suicidio indotto” o omicidio mascherato da suicidio, secondo varie interpretazioni rimaste in sordina) è un gesto simbolico che impone il ripensamento sia dell’adesione di Majakovskij alla rivoluzione, sia di quella sua apologia alla morte di Lenin sia degli elementi tragici che accompagnano sempre le rivoluzioni. Ma sia ripensamento rigoroso e non scioccherello. Sì può anche arrivare a concludere che «tutto quel mondo che ha avuto inizio con Lenin è stato tragico e fallimentare». Non sei il solo a sostenerlo. Ma è il tuo modo di parlare di una tragedia che non va. I vinti hanno le loro ragioni e non si può sbeffeggiarli a piacimento.
    E poi mi sembra errato, moralistico e approssimativo lasciare intendere che, insomma, quella tragedia sarebbe stata evitabile se solo ci si fosse attenuti alla linea del marxismo socialdemocratico avversato da Lenin.
    Inoltre come si fa ad assimilare Marx a Capitini? Come puoi parlare della «lezione capitiniana (che fu anche di Marx) della non-violenza»? Non mi risulta che Marx fosse per la non violenza, visto che sosteneva la dittatura del proletariato. E persino nei bignami di storia viene riportato il suo detto: “La violenza è la levatrice di ogni società antica, gravida di una nuova società” (XXIV capitolo del I libro del Capitale).)

    Quanto alla mia replica, non è che sono stato «costretto a contrapporre tragedia a tragedia». Semplicemente rifiuto la tua liquidazione della Rivoluzione russa e di Lenin come fossero aborti della storia. Tra le due tragedie (Prima guerra mondiale e fallimento della Rivoluzione russa) vedo un nesso. La rivoluzione (che tra l’altro, quando Lenin la pensò alla sua vigilia, non doveva essere solo russa) fu la risposta alla Grande guerra. Tu, invece, la presenti quasi come un capriccioso esperimento «del piccolo borghese russo Vladimir Il’ič Ul’janov» (un antenato dei “figli di papà” anche lui?) accecato dalla «furia di voler imporre il socialismo ad una società feudale».
    Fortini, a differenza di te e Aguzzi, queste differenze, *tragiche* sì, le aveva capito e perciò scriveva:
    «A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo, di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin «che quando decine di milioni di uomini vengono mandati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, ne tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi. Questa è la situazione tragica dell’ esistenza umana: essere uomini significa *questo*».
    Comico anche lui?

    Se non si ragiona su quel contesto storico, è facile fare il gioco delle tre tavolette ed equiparare fenomeni diversi ( nazismo e comunismo ad es.), leader diversi (Napoleone, Lenin, Stalin, ecc.), tragedie diverse («“costruzione del socialismo” con lo sterminio di intere popolazioni europee e asiatiche e […] carneficina della prima guerra mondiale»).
    Non ci si può ridurre alla “aritmetica dei morti” secondo l’esempio del «Libro nero del comunismo». Non si possono esorcizzare con questi mezzucci le tragedie che nella storia si ripetono, malgrado i nostri desideri di pace. Il vero nodo è questo e si ripresenterà.

    @ Aguzzi

    «Non ho fatto del pacifismo astratto e tanto meno assoluto. Ho poi aggiunto che la Resistenza è stata l’unica rivoluzione legittima e opportuna che si sia avuta in Italia. In nessun caso, in nessuno dei miei scritti comunque editi ho mai giustificato i massacri e in genere le guerre, non solo quelli delle rivoluzioni, ma anche e soprattutto quelli degli Stati. Per cui non puoi contrappormi i massacri di vario tipo diversi dalle rivoluzioni, come se io li avessi approvati» (Aguzzi).

    «Ciò che io respingo è la mentalità, il comportamento, le istituzioni della violenza, non solo in relazione alla storia recente, ma alla storia di tutti i secoli. » (Aguzzi)

    «Ebbene, rivoluzionari alla Robespierre e alla Lenin hanno forse rispettato l’opinione dei loro avversari? Puoi rispondere che non l’hanno fatto nemmeno Giorgio Washington e Abramo Lincoln, non l’hanno fatto Cavour e Mazzini e Garibaldi ecc. Sì, è vero, non l’hanno fatto, e per questo io non approvo il loro operato» (Aguzzi).

    E potrei continuare con altre tue citazioni da tutti i tuoi interventi. Il loro errore, a mio parere, sta nel fatto che mirano ossessivamente a riaffermare la propria personale integrità morale e la propria soggettiva disapprovazione della violenza. Non in assoluto, dici, e certo salvi la Resistenza. (Ma se la Resistenza avesse potuto continuare, se non fosse stata condizionata e bloccata dai “liberatori”, se avesse portato a fondo la pulizia dei resti del fascismo, ben riciclatisi poi nella repubblica? ).
    Il problema non è provare a se stessi o agli altri di non essere un violento, di non provar piacere a esercitare la violenza, riconfermare ad ogni passo che la si rifiuta. Centinaia di migliaia di intellettuali e gente comune la pensano in questo modo. Si controllano la loro coscienza, la trovano pulita, tornano a dormire tranquilli. Tanto alla violenza ci pensano gli altri.
    Il problema non è morale e soggettivo. O non è soltanto su questo piano, comunque secondario o preliminare. E’ politico ed intersoggettivo, come evidenziato dagli interventi dei nostri antenati, i redattori di «Discussioni». E, se non vogliamo cancellare la soggettività, dobbiamo realisticamente ammettere un inquietante intreccio, inestricabile per ora, di morale e politica, nel quale le esigenze della seconda prevalgono di gran lunga sulla prima.

    Verrà il giorno in cui, come tu dici, «si studierà la storia non più dal punto di vista della ragion di Stato, o di partito, o di questa o quella ideologia particolare, ma dal punto di vista dei diritti di tutti (compresi, anzi soprattutto, dei vinti) a essere lasciati in pace a vivere come meglio credono, con la «civiltà» che si sono dati [e] si comprenderà meglio […]le ragioni di Elsa Morante quando affermava che la storia è un crimine che dura da diecimila anni»?
    Per poterlo però vedere quel giorno (ammesso che lo si vedrà mai), bisognerebbe uscire da questa storia. E non sappiamo come uscirne. E se si possa veramente uscirne. Questo il problema irrisolto, aggravatosi dopo il fallimento del socialismo. Non certo quello di capire (l’abbiamo capito da secoli…) che sarebbe meglio una storia o società che rispettasse i diritti di tutti.

    Penso, infine, che né io né voi due miei interlocutori antagonisti né i tanti che tentano di riflettere su queste cose ci siamo mai trovati di fronte ai problemi che hanno dovuto affrontare concretamente Napoleone o Garibaldi o Lenin o Stalin. Non possiamo però abolire quei problemi e appellarci ai nostri buoni sentimenti o desideri. Abbiamo il dovere di pensarli anche dalla nostra collocazione irrilevante politicamente, di pensare cioè che cosa avremmo fatto noi al loro posto.
    (Mi è arrivata proprio ora una mail in cui viene proposto questo slogan: «Fermiamo la guerra. Scriviamo a Papa Francesco». Vi sembra una cosa seria?)

    @ nostri antenati

    Cari antenati di «Discussioni»,
    vi ho riletto con un certo piacere. Tra voi mi sono sentito a casa, perché ho trovato la vostra “comicità” molto simile alla mia. Sarò un attardato, ma preferisco la vostra compagnia.

    1. Ad Ennio Abate

      “Non mi piace il tuo tono sarcastico, sbrigativo e personalizzato.”

      Chiedo subito scusa per il tono e sarcastico e per la sbrigatività. E’ stata un’ingiusta reazione al sarcasmo di chi aveva parlato di “bignamini”, alluso vigliaccamente a un inesistente servilismo (il “codardo oltraggio” si connette direttamente al “servo encomio”) e, in modo davvero rude e spiccio, aveva liquidato come “tradimento” – categoria questa incredibilmente primitiva e apolitica – la complessa questione della socialdemocrazia.
      (Passando dal tragico al tragicomico: Alfano sarebbe un traditore di Berlusconi? Civati un traditore di Renzi? Ma che razza di ragionar politico è mai questo?) Torniamo al tragico.
      Chiedo scusa perché sono caduto nella trappola della violenza verbale tesami da Ennio Abate e ho risposto con altrettanta violenza verbale. Ma non avrei dovuto. La pratica della non-violenza esige infatti anche un attentissimo, perennemente pacato uso delle parole.
      Non devo chiedere scusa invece per aver risposto in modo “personalizzato”. Qualsivoglia teoria o dibattito che non trovi il suo centro nella singola “persona” è destinato ineluttabilmente a fallire. E’ proprio nel significato più intimo e profondo di quell’aggettivo che, scagliatomi contro come accusa grave e forse infamante, va invece in frantumi tutto l’armamentario ideologico di Ennio Abate, comprese tutte le sue piccole bibbie fortiniane.

      Karl Marx e Aldo Capitini ebbero concezioni della società e della storia assai diverse tra loro. Questo lo sanno anche coloro che, magari con fatica e sacrificio, hanno studiato solo sui bignami. E in ogni caso c’è Ennio Abate a ricordarcelo. Ciò che però Abate non menziona, perché evidentemente per lui del tutto è insignificante e per me invece è “costitutivo”, è il fatto Karl e Aldo furono entrambi “persone” assai miti, che non uccisero alcuno e non ordirono massacri di alcun genere, marcando così la loro differenza abissale dai grandi criminali della storia evocati in questo dibattito da Luciano Aguzzi. Li univa, Karl ed Aldo e tanti e tanti altri in tempi storici e in forme ovviamente diverse, una stessa “personale” mitezza d’animo, questa sì levatrice di una possibile nuova storia. La mitezza non è solo una dote naturale soggettiva, ma un lungo, faticosissimo esercizio su se stessi con fortissimi risvolti oggettivi ed intersoggettivi che possono cambiare davvero il mondo. Ma se si parla di coloro che, nel corso dei secoli, hanno praticato, pagando sempre di persona, l’antico insegnamento socratico – clamorosamente assente da questo dibattito – secondo il quale il male e la violenza è meglio subirli che praticarli, allora si rischia, quando non l’indifferenza, l’accusa abatiana di “fare il gioco delle tre carte”. Che tristezza il tuo “leninismo” ancora oggi così pesantemente esistente, caro Ennio!

      Accolgo infine la giusta osservazione critica che muove la gentilissima Cristiana Fischer e che lei stessa risolve con l’aiuto di Simone Weil: “accogliere la violenza senza rispondere, di modo che si estingua”. Altra strada, davvero, non c’è.

      1. …Simone Weil, citata da Cristiana Fischer, afferma : “accogliere la violenza senza rispondere, di modo che si estingua”…penso davvero che a volte sia giusto procedere così per interrompere una catena in crescendo di manifestazioni violente, ma questo quando i rapporti tra le persone sono o tendono ad essere paritari e non si corrono rischi mortali…ma se penso a situazioni di estrema crudeltà impari nel confronto per mezzi e armi, quando per ‘”aver accolta la violenza”, essa non si è fermata se non alle stragi, ai genocidi, credo che le persone per non diventare vittime abbiano il buon diritto d ricorrere alla violenza…
        Ma è solo un esempio, la situazione di violenza sulle genti oggi è sfumata e complessa e trovare difese più difficile forse…
        Davanti alla minaccia atomica o nucleare, che facciamo : aspettiamo che si estingua? Eppure è così…siamo molto miti

  36. @ Ennio Abate
    Si tratta di intendersi sui termini che si usano, femminismo, sconfitta, rivoluzione passiva.
    1 Femminismo, per Finelli: “la favola autopoietica che spesso il femminismo s’è voluto raccontare con la celebrazione di non si sa quale scarto ontologico tra donna e uomo”.
    2 Sconfitta, ancora per Finelli: “sconfitta definitiva … di quanto concernesse l’attesa di un nuovo ordine economico e sociale” (anche se, a dire il vero, per quanto riguarda la politica paritaria sarebbe una sconfitta, diciamo così, solo a metà). Ma in realtà, per Finelli, questa sconfitta si è rovesciata in una
    3 Rivoluzione passiva, ossia “rivoluzione-restaurazione, che vede assumere e realizzare da parte delle classi dominanti … l’esigenza di cambiamento di movimenti giunti all’*esaurimento* della loro iniziativa storica”.
    Finelli pensa, solo!, ai noti movimenti politici degli anni 70 e 80, e vi assimila il femminismo, però non lo conosce, sbaglia target, e quindi sbaglia qualificandolo sconfitto definitivamente e appropriato dalle classi dominanti con segno rovesciato.
    Cito alcune frasi, perché brevi e chiare, da un testo di Natalia Milan pubblicato in http://www.libreriadelledonne.it/sulla-polemica-seguita-allintervista-di-giovanna-pezzuoli-a-luisa-muraro-noi-femministe-distanti-dalle-donne/
    Sul femminismo Natalia Milan inizia citando Irene Chias: “Quello che del pensiero della differenza rischia di arrivare a chi non lo studia nella sua complessità … è proprio il suo utilizzo strumentale per il ritorno a un’idea di ‘natura’ costrittiva e inequivocabile e di un determinismo biologico”. Argomenta poi: “Corpi politici scomodi definisco sia le donne che affermano con forza e danno conto del pensiero della differenza sessuale, sia le femministe che parlano di post-porno e sessualità, perché altrettanto indigeribili sono, per la mentalità e l’ordine patriarcale, il loro protagonismo politico e intellettuale e la loro ricerca di libertà. … Un’attenzione politica che invece ci dobbiamo è riconoscere le differenze tra femministe e, dove necessario, esprimere e agire il conflitto, riconoscendo però, pur nel conflitto, che queste femministe e attiviste … quando cercano di affermare la loro libertà , contribuiscono alla mia e quella di tutte e tutti. … Il pensiero della differenza sessuale così legge e disvela la realtà della società e della cultura, svelando insieme possibilità trasformative del reale. … Centrale è per il pensiero della differenza questo spazio della politica e del pensiero, non la natura o la biologia.”
    Spiega poi che “è un dato di fatto che tra gruppi politici in generale, e anche tra gruppi di femministe, a volte non vi siano contatti … la politica delle donne in Italia si è molto sviluppata sulle relazioni tra singole e gruppi e non c’è mai stato un femminismo di stato con sedi e incontri ufficiali in cui obbligatoriamente confrontarsi (per fortuna!). … Le relazioni, in più, richiedono tempo e dunque a volte non è possibile seguire le attività e le proposte … la politica dei partiti e dei notabili giramondo e gira-convegni dovrebbe imparare da questo senso del limite: non si può andare a tutti i convegni e a tutti gli incontri, somministrare il proprio intervento e andare via subito senza ascoltare. … E il fatto di poter non essere in relazione fa anch’esso parte della libertà ed è una libertà per cui lottare.”
    Mi sembra che l’intervento di Natalia Milan dia conto di una realtà molteplice, vivace, diffusa, consapevole. Altre notizie sulla realtà internazionale del femminismo si possono trovare nel libro “Il trucco” di Ida Dominijanni, Ediesse 2014.
    Non capisco quindi come si possano applicare le definizioni di Finelli sul femminismo a… le reali femministe, né come si possano usare disinvoltamente quelle espressioni liquidatorie “sconfitta definitiva”, “rivoluzione passiva”. Su cui (riv. pass.) peraltro c’è una grande discussione negli USA, e in Italia sul penultimo DWF e nel libro di Ida Dominijanni, e di cui si dà conto qui http://www.libreriadelledonne.it/la-differenza-sessuale-ce-e-dentro-di-noi/.

    1. La donna , la femmina, quella vera,sincera, lotta, ovunque si trova: in famiglia,al lavoro, per strada. Sta di fatto che se è donna vera ha bisogno anche dell’uomo è qui il problema. Il bisogno dell’uomo è diverso dal desiderio della donna e l’uomo lo sa…ma l’uomo presta poca attenzione alla forza della donna, non la considera ed è proprio questa forza libera che oggi ha reso l’uomo decisamente confuso. Purtroppo non tutte le donne sono sincere quando lottano, ma la loro forza esiste comunque e in questi tempi gli errori sono considerati una grande attrattiva in tutti gli ambienti. Allora molte fanno finta che il femminismo non esista per attirare un certo tipo di società ai loro piedi e vi assicuro che donne così ce ne sono tantissime. Uomini svegliatevi
      ragionate con la testa e non con il…..!
      Scusate ma quando parlo di femminismo divento nervosa. Non ci credo più.

      1. Non esiste la donna, è un sogno degli uomini, invece esistono le donne. Sincere e vere? mah, ognuna fa i suoi conti, le altre per lo più sono in grado di “vedere”, come al poker.

  37. SEGNALAZIONE

    Violenza e non violenza. Come ne parlavano i nostri antenati (6)

    Tolstoj, gli anarchici e la violenza
    di Piero Brunello

    Stralci:

    TolstojTolstoj
     

    Lev Nikolaevic Tolstoj accennò all’anarchismo nel proprio diario per la prima volta nel gennaio 1889: «Gli anarchici hanno ragione in tutto, solo non nella violenza» (1). Lo scrittore aveva sessant’anni e, «deciso che scrivere capolavori narrativi è un peccato» (2), aveva lasciato da qualche anno alle spalle la letteratura per dedicarsi a temi politici e religiosi, spesso legati all’attualità.
    Per quanto avvertisse una forte sintonia con l’anarchismo, Tolstoj sentiva una distanza incolmabile sull’atteggiamento nei confronti della violenza e nei confronti del Cristo dei Vangeli
    […]
    Tolstoj vedeva discusse nel campo della politica due sole «vie d’uscita». La prima, propria di nichilisti e anarchici, consisteva «nello spezzare la violenza con la violenza, con il terrore, con le bombe e la dinamite, con il pugnale», e in questo modo «sconfiggere, fuori di noi, questa congiura dei governi contro i popoli». L’altra soluzione era quella delle riforme: trovare cioè «un accordo con il governo facendogli delle concessioni e, partecipando a esso, pian piano sgrovigliare la rete che lega il popolo e liberarlo». Entrambe, scrive Tolstoj nel suo diario, «sono false». Nel primo caso, la violenza rende più forte la reazione perché si aliena l’appoggio dell’opinione pubblica, l’unica forza su cui contare. Nell’altro, i governi «concedono solo ciò che non intacca la sostanza»: attirano «i dissidenti», li rendono inoffensivi, e alla fine li impiegano «al servizio degli obiettivi dei governi, cioè dell’oppressione e dello sfruttamento del popolo».
    La «via d’uscita» cui pensava Tolstoj era affidata alla coscienza dei singoli individui, e si basava sul rifiuto della violenza e della menzogna, sul pensiero indipendente e libero, e sulla non collaborazione con il governo. Si trattava di «combattere il governo con l’arma del pensiero, della parola, dell’esempio di vita, senza fare concessioni al governo, senza entrare nelle sue file, senza contribuire all’aumento della sua forza». Se c’è qualche possibilità di «sbrogliare questa situazione paurosa, lo è solo grazie agli sforzi dei singoli individui».
    […]
    Riflettendo sull’uccisione di Umberto I, Tolstoj prima di tutto nega ai difensori dei re il diritto di giudicare e di condannare l’omicidio. Re, imperatori e presidenti di repubbliche, scrive, «da sempre si dedicano specificamente all’assassinio, tanto d’averne fatto ormai la loro professione»; non per nulla «han sempre indosso le uniformi militari e gli strumenti dell’assassinio – le spade al fianco». Tra guerre ed esecuzioni capitali, i sovrani fanno ammazzare decine di migliaia, centinaia di migliaia, milioni di vittime – e tutto ciò viene considerato eroico. La parola «re» richiamava in Tolstoj termini come «menzogna» e «violenza». Nei suoi scritti politici degli anni Novanta, aveva mostrato come re e imperatori ingannavano i loro popoli scambiandosi visite, promuovendo manovre o parate militari, pronunciando brindisi patriottici e invocando il benessere e la pace – e tutto ciò mentre organizzano «preparativi di assassinio» (15). Ma guai a uccidere uno di loro. Invece di riconoscere di avere essi stessi per primi insegnato a uccidere, e invece di meravigliarsi «del fatto che tali assassinii siano tanti rari», «sono proprio costoro a sgomentarsi e a indignarsi se uno di loro viene assassinato». Se lo zar Alessandro II e re Umberto I non meritavano la morte, commenta Tolstoj, «tanto meno di loro l’avevano meritato le migliaia di russi che morirono a Plewna, o le migliaia di italiani periti in Abissinia».
    […]
    Uccidere i re «per migliorare la condizione della gente» è prima di tutto inutile: come tagliare la testa dell’idra, sapendo che ne rinasce sempre una di nuova. Morto un re, se ne fa un altro. È superficiale, osserva Tolstoj, pensare che uccidere un re sia «una via di salvezza dall’oppressione del popolo e dalle guerre che distruggono tante vite umane».
    Non è questione di caratteri o di temperamenti personali. L’oppressione e le guerre non sono dovute alle scelte di un sovrano o di un capo di governo, ma dipendono «da un sistema sociale nel quale tutti gli uomini son legati in tal modo gli uni agli altri, da esser tutti quanti in balìa di pochi o, più spesso, d’uno solo». Qualsiasi persona al posto di un re, educato allo stesso modo a portare armi e organizzare parate, farebbe lo stesso. Del resto i sovrani non vedono alternative, dal momento che ogni volta che escono in pubblico sono accolti con entusiasmo. L’imperatore Guglielmo potrebbe dire «che i soldati devono uccidere per sua volontà persino i loro padri – e tutti gli griderebbero urrà!», o dire «che il Vangelo bisogna imporlo con un pugno di ferro – e subito un altro urrà!»; e così lo zar Nicola II «propone un infantile, stupido e bugiardo progetto per una pace universale, e intanto dà disposizioni per un aumento degli eserciti, e tutt’intorno a lui non vi è più limite alle celebrazioni della sua saggezza e della sua virtù».
    Tolstoj ribadisce qui le sue idee sul potere, il quale si basa sulla passività e sull’obbedienza di quanti l’accettano, si sottomettono, lo legittimano, lo celebrano
    […]
    Già negli anni Novanta, Tolstoj aveva mostrato i sovrani come gente che faceva cose stupide, le quali diventavano importanti e misteriose solo per l’obbedienza del popolo. La folla vede «innalzare archi di trionfo», «passare della gente ornata di corone, di uniformi, di vesti sacerdotali», «accendere fuochi d’artificio, sparare il cannone, suonar le campane e la gente correr dietro alle musiche dei reggimenti», e risponde «con degli evviva o con un silenzio rispettoso». Guglielmo II aveva ordinato «un nuovo trono ornato di ornamenti speciali»; poi, «vestito di un’uniforme bianca, di una corazza, di calzoni attillati, di un berretto sormontato da un uccello, e portando sopra tutto ciò un mantello rosso», sedeva nel nuovo trono e i sudditi, invece di trovare la cosa ridicola, la ritenevano uno «spettacolo molto imponente» (19).
    Gli storici riportavano solo le azioni di uomini di Stato e di generali: per questo avevano una grande responsabilità nell’esaltare e nel far ritenere normale la violenza dei governi e dei sovrani. In Guerra e pace ci sono molte osservazioni ironiche su come gli storici spiegano gli avvenimenti (20). Attribuendo gli eventi collettivi al potere di pochi, essi tolgono ai singoli ogni capacità di influenzare la storia e quindi li assolvono da ogni responsabilità morale nella partecipazione ai massacri e alle guerre. Se gli individui non contano, non sono nemmeno responsabili (21). Ciascuno invece avrebbe dovuto provare gli scrupoli morali e i dubbi in cui si dibatte il principe Andrej: «Lo scopo della guerra è la strage. […] Ah anima mia, in questi ultimi tempi mi è diventato penoso vivere!» (22). Nel 1905 Tolstoj avrebbe scritto nel suo diario che la storia insegnata nelle scuole era «la descrizione delle vite schifose dei vari furfanteschi re, imperatori, dittatori, generali – cioè travisamento della verità» (23).
    Non occorre uccidere i re, conclude Tolstoj nell’articolo sul gesto di Bresci, «ma smettere di sostenere quel sistema sociale che li ha prodotti». Si cominci a dire le cose come stanno. Si dica che l’esercito è lo strumento dell’omicidio in massa chiamata guerra; si dica che la leva militare è un modo per preparare l’assassinio. Ci si rifiuti di pagare imposte destinate all’esercito; ci si rifiuti di prestare il servizio militare: «e subito si vanificherebbe da sé tutto quel potere degli imperatori, dei presidenti e dei re che tanto ci indigna, e per il quale adesso si continua ad assassinarli».
    Come negli altri scritti politici di Tolstoj, la conclusione è un appello: da un lato dire ai re che sono essi stessi degli assassini (Tolstoj riteneva che spiegandoglielo si potesse convincerli), e dall’altro lato «rifiutarsi di assassinare su loro comando», impedendo loro di fare guerre e di uccidere.
    […]

    ***
    MalatestaMalatesta

    La mattina in cui arrivò a Londra la notizia dell’uccisione di re Umberto, un anarchico piemontese invitò a casa sua due compagni con cui si trovava spesso a giocare a carte: il giovane pittore Carlo Carrà e Mario Tedeschi, scappato dall’Italia dopo i moti del 1898 e proprietario della pensione presso cui erano soliti trovarsi. L’anarchico piemontese – così racconta Carrà – «aveva attaccati con un filo di spago al soffitto tanti bustini di gesso raffiguranti i diversi capi di Stato d’Europa: e salito sul tavolo con un temperino tagliò la corda che sosteneva quello rappresentante il re d’Italia. Il gesso cadde a terra spezzandosi ed egli come ebbro gridò: ‘E uno!’». Per segnalare il loro totale disaccordo, Tedeschi e Carrà scrissero un manifesto che «affermava l’inviolabilità della vita umana, di quella dei re non meno di quella di qualsiasi mortale» e lo distribuirono tra la comunità italiana a Londra, anche nel ristorante dove si doveva tenere la commemorazione ufficiale del re alla presenza dell’ambasciatore d’Italia.
    Una sera in cui gli anarchici italiani si trovarono assieme, come spesso succedeva, in una birreria, Malatesta accusò Carrà e Tedeschi di aver tradito «la causa della libertà». Secondo Carrà, scoppiò «un putiferio indescrivibile che per un vero miracolo non degenerò in un tafferuglio». Malatesta conosceva Carrà perché lavoravano nello stesso ristorante: lui lavorava ad un impianto elettrico, mentre il giovane pittore faceva dei lavori di decorazione. In seguito, incontrandolo al lavoro, Malatesta si avvicinò e chiese scusa per il suo comportamento. Ma la divisione si approfondì. Carrà fece un ritratto di re Umberto e lo mise in palio come premio di una lotteria. L’epigrafe sotto il ritratto, dettata da Tedeschi, diceva: «ucciso per mano assassina». Il quadro fu vinto dal Circolo monarchico italiano. La pensione di Tedeschi fu presa a sassate
    […]
    Dopo aver stabilito «cause ed effetti» dell’uccisione di re Umberto, Malatesta usa lo stesso argomento di Tolstoj, paragonando l’indignazione per la morte di un re all’indifferenza per le innumerevoli uccisioni che accadono quotidianamente a causa di guerre o di incidenti sul lavoro, o nel corso di rivolte represse a fucilate. È giusto deplorare la morte di un uomo, e anche Umberto, oltre che re, era un uomo; la regina è rimasta vedova, «e poiché una regina è anch’essa una donna, noi simpatizziamo col suo dolore». Ma perché «tanto sfoggio di sentimentalismo» per un re ucciso, «quando migliaia e milioni di esseri umani muoiono di fame e di malaria» nell’indifferenza di chi potrebbe aiutarli? Tutte le sofferenze umane vanno deplorate, anche quelle di un re, ma «il nostro dolore», afferma Malatesta, è più sentito «quando si tratta di un minatore schiacciato da una frana mentre lavora, e di una vedova che resta a morir di fame coi suoi figlioletti».
    Malatesta dissente da Tolstoj sull’atteggiamento nei confronti della violenza. Entrambi ritengono che il sistema sociale si fonda sulla violenza messa a servizio di una piccola minoranza. Il militare, omicida di professione, è onorato, e più di tutti – continua Malatesta – è onorato il re, capo dei soldati. Il governo britannico brucia le fattorie dei Boeri; il sultano fa assassinare gli Armeni; il governo degli Stati Uniti massacra i Filippini; i lavoratori muoiono nelle miniere e nelle ferrovie; i governi mandano i soldati a fucilare i lavoratori. «Lunga è la lista dei massacri», commenta Malatesta nominando i luoghi degli eccidi compiuti dalla forza pubblica in Italia.
    Detto questo però, Malatesta sembra rispondere a Tolstoj, e si chiede: «Chi fa apparire la violenza come la sola via d’uscita dallo stato di cose attuale, come il solo mezzo per non subire eternamente la violenza altrui?». La violenza – risponde – è la rivolta «che di tanto in tanto scoppia». Ma colpevole non è chi si ribella. Finché gli oppressori e gli sfruttatori «si ostinano a godere dell’attuale ordine di cose ed a difenderlo colla forza», non c’è alternativa: «noi siamo nella necessità, siamo nel dovere di opporre la forza alla forza».
    […]

    Nell’ultima parte de La tragedia di Monza, Malatesta, continuando la sua polemica contro quanti esaltavano gli attentati e il terrorismo, ribadiva che la violenza era una necessità e non un mezzo. Gli anarchici erano dei liberatori e non dei giustizieri. Sarebbero ricorsi «all’ultimo espediente della forza fisica» cui «l’ostinata resistenza della borghesia» costringeva gli oppressi, ma non avrebbero mai fatto «vittime inutili, nemmeno tra i nemici», rimanendo «buoni e umani anche nel furore della battaglia». Nessuna rivoluzione liberatrice, ripeteva, poteva nascere dai massacri e dal terrore, da cui escono i tiranni.
    Malatesta andava dicendo da anni che un uomo sarebbe «un terribile egoista, se lasciasse opprimere gli altri senza tentare di difenderli». Terroristi e tolstojani gli sembravano avere un punto in comune: «Quelli non esiterebbero a distruggere mezza umanità pur di far trionfare l’idea; questi lascerebbero che tutta la umanità restasse sotto il peso delle più grandi sofferenze piuttosto che violare un principio». Quanto a lui, «io violerei tutti i principi del mondo pur di salvare un uomo»; e questo sarebbe stato l’unico modo per salvare i principi morali, che si riducono a questo: «il bene degli uomini, di tutti gli uomini»
    […]
    Come Tolstoj, Malatesta ritiene che invece di uccidere un re, è essenziale uccidere tutti i re «nel cuore e nella mente della gente», sradicando «la fede nel principio di autorità a cui presta culto tanta parte del popolo»; così si acquista «quella forza morale e materiale che occorre per ridurre al minimo la violenza necessaria ad abbattere il regime di violenza a cui oggi l’umanità soggiace». E ancora come Tolstoj, sa che la violenza provoca «reazioni a cui si è incapaci di resistere» ed è «sorgente di autorità». «Noi – dichiara – aborriamo dalla violenza per sentimento e per principio, e facciamo sempre il possibile per evitarla». Tuttavia, Malatesta rivendicava il diritto di praticarla sulla base della «necessità di resistere al male con mezzi idonei ed efficaci».
    Infine, mentre Tolstoj si appella al rifiuto individuale della menzogna e della sottomissione, compreso il rifiuto di prestare servizio militare, Malatesta auspica «libertà di propaganda e di organizzazione». Solo così le classi popolari avrebbero potuto «conquistare, sia pur gradualmente, la propria emancipazione per vie incruenti». Il governo italiano continuerà tuttavia a reprimere, commentava con amarezza: «e continuerà a raccogliere quello che semina».
    […]
    Ma l’obiettivo polemico di Labriola è la dottrina tolstojana. La non resistenza al male – scrive – è una illusione che scambia per «atto di libertà» quello che è «un atto di necessità». Chi è più debole soccombe necessariamente al più forte, e ha solo due possibilità: subire o ribellarsi con la forza. Dichiarare, come Tolstoj, che «la vita umana è sacra», sembrava a Labriola tipico di chi non sapeva accettare che guerra e violenza fanno parte della storia. «La vita umana – commenta – non è affatto più sacra di quella di uno scarafaggio o di un leone, perché la natura sperpera allegramente e con la stessa indifferenza la vita di tutte le sue creature».
    Labriola assimila Tolstoj al buddismo e alle teorie dei quaccheri, dottrine che a suo parere impediscono «l’azione» e per questo – aggiunge – sono molto apprezzate dal socialismo parlamentare. Riconosce che la non resistenza al male «è il più formidabile atto di accusa che si possa pronunziare contro l’iniquità in auge», ma ribadisce che è un modo per ritrarsi da una «reazione risoluta e consapevole», una «rinuncia alla resistenza». Nella rivoluzione russa del 1905 i seguaci di Tolstoj si erano trovati «accanto agli uomini della rivoluzione», ma, facendo questo, avevano rinnegato l’insegnamento del maestro. L’ideale poteva andare bene fin che duravano «l’incapacità o il desiderio di agire», ma quando «il processo naturale delle forze rivoluzionarie» riprendeva il suo corso, allora diventava inutile, superato dai fatti.
    Si trattava di una tesi piuttosto diffusa negli ambienti rivoluzionari del socialismo europeo. Qualche anno prima, in uno scritto dedicato a spiegare perché Tolstoj si era tenuto lontano dalla rivoluzione del 1905, Lenin aveva parlato di «contraddizioni […] stridenti». Da un lato le sue opere esprimevano «una critica implacabile dello sfruttamento capitalistico, la denuncia delle violenze governative, della farsa della giustizia e dell’amministrazione statale»; dall’altro riflettevano «l’immaturità del sognatore, l’inesperienza politica, la fiacchezza rivoluzionaria». Al realismo e alla «capacità di strappare tutte le maschere», si accompagnavano per contrasto «la predicazione di una delle cose più ignobili che possano esistere al mondo, la religione, e la volontà di sostituire ai preti funzionari statali i preti mossi da convincimenti morali, il culto cioè del pretismo più raffinato, e, quindi, anche più abietto». La dottrina della non resistenza al male, aveva concluso Lenin, era stata «una delle cause più profonde della disfatta della prima campagna rivoluzionaria» (43).
    A differenza di Lenin, Labriola dichiarava ammirazione per la dottrina morale di Tolstoj. Ma la storia e la politica – ribadiva – si svolgevano su un altro piano, quello della realtà, e chi si appellava ai valori della morale dimostrava di non saper accettare la realtà. All’epoca della guerra di Libia, Labriola aveva parlato di «svolgimento normale dell’evoluzione storica contemporanea» (44); un anno dopo, in un discorso alla Camera per sostenere l’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale, avrebbe dichiarato di porsi «sul terreno dei fatti»

    * Il saggio intero si legge qui: http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/index.php?nr=297&pag=38.htm

    A distanza di oltre un secolo dal regicidio di Gaetano Bresci è interessante mettere a confronto le opinioni di Errico Malatesta e di Leone Tolstoj.

  38. @ Ottaviani

    « Karl Marx e Aldo Capitini ebbero concezioni della società e della storia assai diverse tra loro. Questo lo sanno anche coloro che, magari con fatica e sacrificio, hanno studiato solo sui bignami. E in ogni caso c’è Ennio Abate a ricordarcelo. Ciò che però Abate non menziona, perché evidentemente per lui del tutto è insignificante e per me invece è “costitutivo”, è il fatto Karl e Aldo furono entrambi “persone” assai miti, che non uccisero alcuno e non ordirono massacri di alcun genere, marcando così la loro differenza abissale dai grandi criminali della storia evocati in questo dibattito da Luciano Aguzzi. Li univa, Karl ed Aldo e tanti e tanti altri in tempi storici e in forme ovviamente diverse, una stessa “personale” mitezza d’animo, questa sì levatrice di una possibile nuova storia» (Ottaviani).

    Discutere tra chi fa professione di non violenza e chi è convinto che la violenza non può/ non deve essere esorcizzata è arduo. Accantonando il sarcasmo, cerco di mettere meglio a fuoco quel che io penso. Ottaviani sbaglia a darmi del “leninista” e a parlare di un mio presunto ossequio a «bibbie fortiniane». Semplicemente difendo ancora oggi la grandezza politica di Lenin da chi lo mette nella compagnia dei “grandi criminali”. E respingo l’idea che la Rivoluzione russa e i suoi successivi tragici svolgimenti potevano essere evitati rimanendo nell’alveo della socialdemocrazia.
    Lo faccio non perché attardato leninista, ma per quel minimo di onesta intellettuale e rigore storico che mi fanno rifiutare la cancellazione qualunquistica di un certo passato imperversante dalla fine degli anni Settanta.
    Mi sento anche di ribadire che la socialdemocrazia tedesca (allora la più potente in Europa) tradì i suoi stessi princìpi votando a maggioranza in favore dei crediti di guerra e reprimendo poi i moti degli spartakisti fino ad assassinare Liebknecht e Luxemburg (15 genn. 1919). E se «la complessa questione della socialdemocrazia» mi dovesse sfuggire, mi si spieghi in cosa consista tale complessità (categoria spesso fumosa in politica, dove serve a giustificare quello che impongono i più forti). Nel frattempo mi tengo la “rozza” categoria del tradimento, che almeno alcuni cose le coglie con precisione.

    Sull’accostamento Marx/Capitini. Stiamo parlando di padri “spirituali” o di maestri, sulle cui spalle ci arrampichiamo sperando di capire meglio il mondo in cui viviamo. Imparare il possibile dall’uno o dall’altro e verificare se ancora funzioni è importante. Confondere le loro lezioni mi pare uno sbaglio.
    Chiunque legga, infatti, anche pochi testi di Marx e di Capitini o semplicemente s’informa sulle loro vite (lo si faccia sui bignami o su Wikipedia) non può non concludere che sulla questione della violenza (per non dire del resto) la pensavano in modi nettamente contrapposti.
    Tu invece in un primo commento hai scritto: «la lezione capitiniana (che fu anche di Marx) della non-violenza». Poi, senza mai entrare nel merito, hai detto: « Karl Marx e Aldo Capitini ebbero concezioni della società e della storia assai diverse tra loro». E ancora insisti ad accomunarli perché – sostieni – avrebbero avuto «una stessa “personale” mitezza d’animo» e perché «non uccisero alcuno» e ciò li distinguerebbe «dai grandi criminali della storia evocati in questo dibattito da Luciano Aguzzi».

    Ora a Marx (ma anche a Socrate che tu citi) non capitò di trovarsi in situazioni tali da dover decidere l’eliminazione o meno di persone. Cosa che invece capitò a Lenin, a Stalin, a Mao ( ma si potrebbe dire anche a Truman, quando fece sganciare la bomba su Hiroshima, arrivando giù giù ai nostri tempi, a Bush, a Obama). Chiediamoci allora: se Marx si fosse trovato a vivere nella Russia zarista avrebbe o no appoggiato il tentativo di rivoluzione di Lenin? Io penso di sì, se appoggiò, malgrado le sue riserve, la Comune di Parigi del 1871. E se, assieme ad altri, avesse preso il potere, lo avrebbe o no esercitato con la stessa durezza di un Robespierre o di un Lenin o no? Io credo di sì. (Non la stessa cosa si potrebbe dire di un Capitini, credo).
    Ammesso, dunque, che Marx fosse mite di carattere, come tu lo presenti, determinate circostanze della vita e della storia impongono, soprattutto a chi si ritrova in posti di comando, anche di ordinare massacri o uccisioni. Basta questo per dichiararli criminali o criminali nati (in proprio, per una sorta di personale inclinazione)? Se sì, allora sono criminali quasi tutti i capi di stato (come ben notava Tolstoj nello scritto che ho segnalato).

    La questione che il non violento o il pacifista rifiuta di approfondire recludendosi nella sfera morale è proprio questa: chiunque ha gestito o gestirà un consistente potere *non può non esercitare la violenza e decidere anche della morte dei nemici* (fare cioè quello che la morale comune considera il male). L’aut aut irrisolto che la storia ha posto e continua a porre è crudele e semplice e Manzoni nell’Adelchi lo aveva riassunto in quattro parole «fare torto o patirlo». Si può e spesso si deve scegliere o l’una o l’altra posizione. Altrimenti sceglieranno altri per te. Di fronte a questa *inevitabilità pratica della violenza* (se si vuol partecipare attivamente agli eventi storici) possiamo:
    – o strapparci le vesti e condannare in ogni caso il potere, limitandoci però a contrastarlo solo in parte minima. (Leggo in Wikipedia una notizia illuminante a conferma del limite dell’azione non violenta: Capitini ed altri vengono rinchiusi nel carcere fiorentino delle Murate e «dopo quattro mesi Capitini viene rilasciato, grazie alla sua fama di “religioso”. «Quale tremenda accusa contro la religione, se il potere ha più paura dei rivoluzionari che dei religiosi», commenterà più tardi»);
    – oppure «cercare i nostri eguali osare riconoscerli/ lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati/ con loro volere il bene fare con loro il male/ e il bene la realtà servire negare mutare» [1]. Proprio come fece un Lenin. E non certo per scopi bassi o privati, ma per raggiungere un fine o dei risultati che allora, nel vivo dell’azione, potevano, magari in parte, giustificare quello che, da un punto di vista morale, era fare il male.

    In politica (nell’azione) le cose si presentano in modo diverso che sul piano della morale (o della riflessione). La dose di freddezza (non so se sia giusto parlare anche di sadismo) che i ruoli di potere comportano non sono però che in parte minima un dato congenito o personale o caratteriale. (Per cui basterebbe mettere un mite al posto di un aggressivo e il potere verrebbe esercitato in modo saggio). Nei conflitti reali – sia quelli per conservare un determinato assetto sociale (pensiamo all’Ancien Régime) sia quelli che tentano di costruirne un altro giudicato migliore (la Rivoluzione francese o quella del 1917) – si producono movimenti e emergono capi riconosciuti (di tali movimenti) pronti a fare scelte politiche che comportano anche la morte dei nemici (e a volte la loro stessa).

    Mi spiace per te che poco lo sopporti, ma devo ancora ricorrere a un brano di Fortini, che spiega bene come chi si ritrovi ai posti di comando – che di natura sia mite o meno – sia «stato selezionato ai suoi compiti da un sistema complesso». E che tale sistema – questo è fondamentale – non è mai riducibile al carattere personale di un individuo. ( Ricordate il cosiddetto “culto della personalità”?). Per cui il vero problema è proprio il “sistema”, la “macchina” (che non si sa oggi più se “rivoluzionabile” o meno).
    Ma ecco la citazione:

    «Quando il generale Schwarkopf ordina di sventrare diecimila iracheni non lo fa perché da piccolo la mamma gli negava il seno o il padre lo minacciava di busse; tanto più che egli è probabilmente un uomo di buon cuore, pronto magari ad adottare un orfano di quegli iracheni e amante della musica popolare, dell’Arkansas o della lirica trovadorica o dell’allevamento dei criceti. Lo fa perché non sarebbe a quel posto ove non fosse stato selezionato ai suoi compiti da un sistema complesso di cui fanno parte industriali, economisti, storici, psicologi, sociologi,uomini politici, insomma, tutta una cultura.
    Che poi quel complesso sistema abbia bisogno anche di truccare le proprie motivazioni ora evocando paure (e rassicurazioni) infantili («Il nemico è un orco sanguinario e pazzo e ognuno può contribuire a distruggerlo infilzando spilli in una sua effigie per poi tornare a mangiare il tacchino e la torta di mele con mamma, moglie e figli nel Giorno del Ringraziamento») ora fornendo argomenti solo apparentemente più realistici («vogliamo il petrolio») ma altrettanto menzogneri o parziali – tutto questo ci dimostra che «la pace» è una parola vuota e consolatoria se non si definisce bene a quale conflitto, a quale lotta o guerra si opponga. Si opponga, appunto. Negare un conflitto equivale a istituirne un altro».

    E Fortini prosegue appellandosi alla sua visione delle cose:

    ««La vita dell’uomo sulla terra è un servizio militare», «lo sono venuto a portare la spada»: Chi ha detto queste frasi è la medesima bocca che ha detto: «Beati coloro che si adoperano per la pace». Credo non ci sia nessuna contraddizione. La prima frase riconosce che la conflittualità (tra «bene» e «male», tra «giusto» e «ingiusto») e la sua sofferenza sono costitutive, come la sua gioia, dell’ essere umano e del suo fondamentale bisogno di conservazione e riproduzione, ossia di «lavoro». La seconda ci avverte che il latore di consapevolezza è anche latore di conflitti. La terza vuol dire che i facitori di pace sono coloro che, accrescendo la cerchia dei rapporti, dei temi o delle ragioni di non-conflitto, spostano la frontiera degli inevitabili e fecondi conflitti, inducendo sempre più ampie alleanze e sempre più precisamente definendo e chiamando per nome i nemici, trasforrnandoli prima in avversari, poi in collaboratori necessari e preziosi. Ogni individuo, ogni classe, ogni società è «pacifica» all’interno della cerchia del proprio «fuoco di bivacco», ma non può non avere sentinelle poste a difesa della fraternità e della solidarietà sempre minacciate da «dentro» come da «fuori» […]

    (F. Fortini, Parola chiave:conflitto, in Disobbedienze II, pagg. 167-169, manifesto libri, Roma 1996)

    Il punto di vista morale che rifiuta in toto la violenza (e quindi, se coerente, si dispone solo a patirla) considera dei criminali (vedi ancora Tolstoj, ma anche la posizione di Aguzzi e di Simone Weil) tutti quelli che invece esercitano la violenza, indipendentemente dal fine, che può essere quello di conservare un determinato assetto sociale o abbatterlo per sostituirlo con un altro giudicato migliore.
    Io penso, invece, che non tutti gli uomini che hanno esercitato o eserciteranno la violenza siano dei criminali. E che nessuno, a meno di non voler tornare a Lombroso, nasca col DNA del criminale. In ciascuno individuo (che sia per predisposizione mite o aggressivo) c’è una parte pronta alla violenza e una parte conciliante. “Grande criminale” diventa di solito chi è sconfitto (Hitler, Mussolini, Saddam, Osama Bin Laden). E lo è, tra l’altro, solo per quelli che l’hanno avversato e vinto. Non per quelli che hanno creduto in lui e nella causa di cui è diventato il simbolo. Considerare solo l’aspetto criminale di un Hitler o vedere in lui il Male assoluto, dimenticando che il male ha una sua *banalità*(Harendt), cioè è presente nella vita sociale e politica, è solo un modo di infamare un avversario politico; e, indirettamente, confermarsi con troppa facilità che la posizione da cui muoviamo è buona (o persino buona in assoluto). Una quota di criminalità (che poi andrebbe indagata meglio in cosa consista) è distribuita sempre in proporzioni diverse sia nel singolo sia nelle forze sociali e politiche in conflitto. E, comunque, il giudizio storico su Hitler o Stalin o altri non può fermarsi ad una aritmetica dei morti. È in base a queste mie perplessità che, nel precedente commento, ho posto un problema scomodo sul quale non vedo pronunciamenti: « Penso, infine, che né io né voi due miei interlocutori antagonisti né i tanti che tentano di riflettere su queste cose ci siamo mai trovati di fronte ai problemi che hanno dovuto affrontare concretamente Napoleone o Garibaldi o Lenin o Stalin. Non possiamo però abolire quei problemi e appellarci ai nostri buoni sentimenti o desideri. Abbiamo il dovere di pensarli anche dalla nostra collocazione irrilevante politicamente, di pensare cioè che cosa avremmo fatto noi al loro posto».

    È il problema che il non violento non si pone. E che fa bene a non porsi? Non so. Il dilemma violenza/non violenza è antichissimo e sempre aperto. Posso rispettare un Capitini, un Gandhi, una Weil; e valutare anche i risultati in parte positivi delle loro filosofie. Non riesco però ad accettare che la non violenza sia presentata come la panacea dei mali del mondo, come sembri fare quando scrivi: «la mitezza non è solo una dote naturale soggettiva, ma un lungo, faticosissimo esercizio su se stessi con fortissimi risvolti oggettivi ed intersoggettivi che possono cambiare davvero il mondo». (Che era poi anche la posizione del nostro Gianmario Lucini…). Io temo che sia la propaganda di un’illusione o una dubbia consolazione.

    A me in fondo preme tenere aperto l’aut aut e sottolineare che il dissenso politico tra noi non può spingere a pensare che i cosiddetti uomini miti (Cristo, Francesco, Socrate, ecc.) siano superiori ai cosiddetti uomini cattivi che hanno esercitato violenza. Semplicemente i primi si fermano al piano morale, lo ritengono principale e alla lunga più costruttivo. Gli altri oltrepassano quelle “colonne d’Ercole” con tutti i rischi. E tuttavia non risulta che i primi abbiano (finora) cambiato il mondo in meglio. E qui evito subito un altro equivoco.
    Va detto – ed io non esito a dirlo – che finora non ci sono riusciti neppure i “cattivi”, i rivoluzionari. Se la non violenza non è stata finora efficace, non posso certo dire che la violenza lo sia stata e abbia realizzato i lodevoli fini (il progresso, il comunismo) in nome dei quali è stata praticata.
    Questo sembrerebbe il punto da cui ripartire oggi per una riflessione. Evitando di fare un dogma sia della violenza che della non violenza. Né “bibbie fortiniane”, ma neppure capitiniane, insomma. Pur riconfermando la diversità delle due scommesse; e propendendo chi più per la violenza chi per la non violenza.
    Ed infine un ultimo appunto: possiamo parlare di violenza o di non violenza senza saper indicare il “noi” capace di praticare l’una o l’altra via?
    Questo sì che sarebbe comico…

    ****
    [1]

    Forse il tempo del sangue…

    di Franco Fortini

    Forse il tempo del sangue ritornerà.
    Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
    Padri che debbono essere derisi.
    Luoghi da profanare bestemmie da proferire
    incendi da fissare delitti da benedire.
    Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
    alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
    nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
    Al partito che bisogna prendere e fare.
    Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
    lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
    con loro volere il bene fare con loro il male
    e il bene la realtà servire negare mutare.
    (1958)

    1. Caro Ennio,
      ti ringrazio dell’attenzione. Le tue osservazioni e le tue dotte segnalazioni arricchiscono certamente il dibattito. Ma non mi sembra che schiodino nessuno dei due punti che, in sostanza, avevo posto. I grandi “criminali della storia” sono stati tutti “dona ferentes”. Nell’antichità portavano in dono la civiltà romana, in epoche più recenti quella cristiana (vedi le conquiste portoghesi e spagnole del Sud America), e poi i valori della rivoluzione francese e poi ancora il “socialismo”… solo per fare qualche esempio tra i tanti possibili. Ma i miei avi contadini semialfabeti avrebbero chiesto: il prezzemolo avuto in dono vale il capretto puntualmente sacrificato? E io aggiungo: è proprio necessario sacrificare il capretto? Non è possibile portare doni agli uomini senza ammazzare altri uomini? Tu ritieni che l’esercizio del potere obblighi, in determinati casi, a scelte omicide. Io non credo a questa ineluttabilità. Di volta in volta erano e sono invece possibili scelte diverse. E mi ostino anche a ritenere che di quei “doni” accompagnati da crimini si potrebbe fare a meno senza danni eccessivi e forse con qualche bel guadagno in più.
      Ti saluto con il “dono” di una poesia di Jorge Luis Borges.
      LOS JUSTOS
      Un hombre que cultiva un jardín, como quería Voltaire.
      El que agradece que en la tierra haya música.
      El que descubre con placer una etimología.
      Dos empleados que en un café del Sur juegan un silencioso ajedrez.
      El ceramista que premedita un color y una forma.
      Un tipógrafo que compone bien esta página, que tal vez no le agrada
      Una mujer y un hombre que leen los tercetos finales de cierto canto.
      El que acaricia a un animal dormido.
      El que justifica o quiere justificar un mal que le han hecho.
      El que agradece que en la tierra haya Stevenson.
      El que prefiere que los otros tengan razón.
      Esas personas, que se ignoran, están salvando el mundo.

      I GIUSTI
      Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
      Chi è contento che sulla terra esista la musica.
      Chi scopre con piacere una etimologia.
      Due impiegati che in un caffè del sud giocano in silenzio agli scacchi.
      Il ceramista che premedita un colore e una forma.
      Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
      Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
      Chi accarezza un animale addormentato.
      Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
      Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
      Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
      Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

      1. @ Ottaviani

        Mai pensato che le mie “dotte segnalazioni” possano schiodare convinzioni profonde tue o di qualsiasi altro/a interlocutore/trice. Servono solo a lasciare che un tarlo lavori nella mente di chi le legge (come lavorano nella mia le loro segnalazioni, dotte o meno).
        E perciò un’ultima raccolta or ora per caso, ma chissà perché in tema. Un saluto

        *
        Robespierre
        di Franco Fortini

        Cominciò presto a mutarsi in maschera o marionetta. Prima, il mostro. Il Terrore Bianco, con i suoi eccidi, ne fissò i lineamenti. Poi fu lo spettro, anche per i tardi eredi dei giacobini. «Robespierre s’aggira», «Der Robespierre geht um» era il ritornello dei proletari di Strasburgo, fine Ottocento. Lo schema, la caricatura dell’Incorruttibile, del gelido razionalista, dell’ideologo fanatico è già compiuta, negli anni dell’Impero. Chi capì, intorno alla fine del secondo decennio del secolo, quale straordinario dubbio Manzoni, scrivendo di morale cattolica, poneva ai Restauratori con il suo — calmo in apparenza e angosciato in profondo — giudizio su Robespierre? E la capacità di ridurre la storia a melodramma non è solo di un mezzo secolo di film, lungo tutte le sfumature dell’ignobile, fino a Wayda: è stata, ai nostri decenni, anche la lettura poetica, (traditrice della passione rivoluzionaria delle sue scene feroci) che si dà, a uso dei buoni sentimenti, di “La morte di Danton” di Georg Buchner, 1830. Almeno gli studenti neonazisti tedeschi che, intorno al 1950, ne impedirono una messa in scena avevano capito di che cosa si trattava. E da allora la maschera Danton, con la sua “sanguigna umanità”, come tuttora si scrive, fa coppia e antitesi simbolica, multiuso, con quella di Massimiliano, il represso, il sadico, il glaciale amante della virtù, dominato e sedotto dall’«atroce e teatrale» Saint-Just, come lo chiamò Chateaubriand (che non mancava, va detto, di senso degli aggettivi).
        Danton, la mano sul petto, urla alle armi dalla sua statua sul boulevard come La Marsigliese sull’Arc de Triomphe; Robespierre non ha, a Parigi, né pietra né parola. Allo Hotel de Noubise, c’è solo il foglio con la sua firma interrotta da una macchia color ruggine, il sangue del tentato suicidio, nella notte del 28 luglio 1794. In quella straordinaria lezione di anatomia ossea che è la storia della Rivoluzione, se si fosse attenti alla nozione disusata di contraddizione dialettica, si cercherebbe di far capire ai giovani perché gli operai e gli artigiani furono relativamente indifferenti alla caduta di Robespierre. Rileggo nel vecchio Mathiéz: «I termidoriani, prigionieri della reazione, saranno presto trascinati più lontano di quanto credevano e molti di loro si pentiranno nella loro vecchiaia di aver partecipato al 9 termidoro. Uccidendo Robespierre, essi avevano ucciso, per un secolo, la Repubblica democratica. Robespierre fu un esempio memorabile dei limiti della volontà umana alle prese con la resistenza delle cose».
        Apro i giornali, accendo la Tv. Quante facce di nostri piccoli termidoriani di una rivoluzione inesistente. E i comunisti che si vergognano di Lenin, ossequiosi ai distinguo delle anime belle liberali. Almeno, il vescovo dei Miserabili si inginocchiava davanti al vegliardo giacobino e “regicida”; almeno c’era un Hugo per immaginarlo e per scriverlo.
        Non ho da vergognarmi di avere appreso, con la emozione di un ragazzo piccolo borghese, negli anni del delitto Matteotti, a conoscere Robespierre dalle pagine di Michelet e dai versi del Carducci. Non solo il fulminante alternarsi ritmico di polisillabi rallentati e di monosillabi secanti, che dice una verità non solo lirica: «decapitare Immanuel Kant Iddio/ Massimiliano Robespierre il re». Ma l’altro passo, dove si dice come «quel che dall’avvenir salìa/ d’orror fremito udì Massimiliàn» che, come il falciatore «gli occhi ebbe al cielo e al lavor la man». Rida chi vuole. Quel fremito d’orrore non è solo per gli eccidi del Terrore ma per quelli degli eserciti dell’Impero ed i ripetuti assassinii, nello scorso come nel nostro secolo, delle Repubbliche democratiche.
        Robespierre cadde per i decreti di Ventoso (marzo 1794), ossia per il progetto di confisca dei beni dei nemici della rivoluzione e della loro distribuzione gratuita al proletariato rivoluzionario. Le “leggi agrarie” atterrirono ben più della ghigliottina. Era uno sguardo al di là di ogni realtà possibile. Saint-Just e Robespierre avanzavano come le kantiane «idee della ragione», nel vuoto. Dovevano cadere. Ma da quel punto sarebbero venute l’estate del 1848, la primavera del 1871, l’aprile e l’ottobre del 1917, le guerre di liberazione anticolonialista; e anche, nonostante tutto, l’oggi che ci ostiniamo a rimuovere. Ogni rivoluzione, prima di venir travolta, si accende per un attimo a illuminare le ragioni di quella ventura. Così fu con Lenin e con Mao. E forse accade ad ogni singola esistenza. A te che ora sorridi; e a me. Questo, e null’altro, mi dice il nome di Robespierre, se lo pronuncio.

        – Franco Fortini – ( da “L’Espresso”, gennaio 1989) –

  39. Parto da un particolare banale del discorso di Ennio Abate: che il male abbia una sua banalità, come sarebbe stato Eichmann secondo Hanna Arendt.
    Benjamin Murmelstein, l’ultimo decano del consiglio degli ebrei a Theresienstadt ( intervistato nel ’75 da C. Lanzmann, ora in L’ultimo degli ingiusti, Skira, 2014) la deride amaramente: era un demonio Eichmann, Murmelstein lo ha visto in opera dalla notte dei cristalli e fino al ’44. E Arendt lo ha fatto *accettare* come un grigio funzionario!
    Anche la discussione che si è svolta finora mi sembra galleggiare tra prese di posizione e sommatorie storiche, cosa avrebbe fatto Marx se si fosse trovato, ecc.
    Simone Weil voleva creare un corpo di infermiere di prima linea, ma la resistenza non glielo ha fatto fare. Lei ha assorbito il male in sé ragionandoci sopra, e il ragionamento in effetti *nelle sue opere* il male lo ha svuotato e così annullato.
    La non violenza non è solo un principio (come tale possibilmente contraddittorio) o un criterio regolativo astratto a cui attenersi. E’ una pratica storica, in precise circostanze, e può andare dalla morte per tubercolosi e sottoalimentazione, al non equivocare su criminali come Eichmann riducendolo a un insignificante omuncolo. Cosa vuol dire essere per la pace nel nostro paese oggi, qui si parrà la nobilitate del pacifismo, in questi limiti politicamente concreti.

    1. ANDIAMOCI PIANO CON I DEMONI!

      «era un demonio Eichmann, Murmelstein lo ha visto in opera dalla notte dei cristalli e fino al ’44. E Arendt lo ha fatto *accettare* come un grigio funzionario!» (Fischer)

      A me pare che la Arendt abbia dimostrato – cosa che sfugge a chi s’accorge del “demonio” solo se si presenta davvero *indemoniato* (cioè, ghignante, brutto, cattivo, spaventoso) – che invece esso è molto spesso incarnato proprio da grigi funzionari. Non ha affatto sminuito il lato criminale di Eichmann. Semmai ha dimostrato come esso, presente potenzialmente in tutti, é attivabile anche nella gente normale. Che continuerà ad agire e a fare il male *normalmente* (appunto da grigio funzionario che obbedisce solerte agli ordini ricevuti). Basta che venga inserita in un determinato sistema o macchina – esercito, stato, burocrazia. E torniamo a quanto detto da Fortini a proposito del generale Schwarkopf: «egli è probabilmente un uomo di buon cuore, pronto magari ad adottare un orfano di quegli iracheni e amante della musica popolare, dell’Arkansas o della lirica trovadorica o dell’allevamento dei criceti».

      1. Tocca precisare. Che Eichmann fosse un demonio lo dice Murmelstein, non so in che lingua lo abbia detto, comunque era a Roma dal dopoguerra. (Ma poi, perché avere paura del termine, forse perché indicherebbe un male “metafisico” e quindi poco concreto? Un rischio inesistente, secondo me.)
        Il fatto certo è che il tribunale non è riuscito a dimostrare che Eichmann avesse partecipato alla notte dei cristalli, mentre Murmelstein lo ha visto con uno scalpello in mano distruggere gli arredi nella sinagoga più grande di Vienna. (Adesso lasciamo perdere le controverse sulla figura di Murmelstein.) M. racconta anche degli inganni di Eichmann sull’emigrazione degli ebrei: questi furono obbligati a versare soldi su un fondo per poter partire ma i soldi Eichmann li incamerava. Altri racconti di M. sulla finzione degli insediamenti degli ebrei a est, e altre testimonianze sul comportamento di Eichmann a Theresiensdtadt. “… la figura di Eichmann al processo venne fuori in modo completamente sbagliato … la teoria della signora Arendt sulla banalità di Eichmann era ridicola! Lui… banale! Eichmann banale… il fatto che Eichmann fosse corrotto non fu mai… non fu mai messo in risalto.” (L’ultimo degli ingiusti, pag. 54.) Fu Eichmann, nella sua difesa, a farlo credere.
        Arendt ha voluto mostrare che chiunque, se inserito in un certo meccanismo, può compiere atti criminali pur essendo un grigio burocrate, questo è un ragionamento che confina con quelli a proposito di zona grigia. Anche il concetto di zona grigia richiede di essere precisato.
        La precisione è necessaria, perché un uomo feroce e di consapevoli iniziative criminali non è lo stesso di un opaco, o efficiente, o sdoppiato (come il generale Schwarzkopf) esecutore. Scrive Primo Levi nel Sommersi e salvati: “Se dipendesse da me, se fossi costretto a giudicare, assolverei a cuor leggero tutti coloro per cui il concorso nella colpa è stato minimo, e su cui la costrizione è stata massima.” All’altro margine, credo, starà chi ha avuto minima costrizione e massimo concorso in colpa. Secondo Murmelstein era questo il caso di Eichmann.

  40. SEGNALAZIONE

    Fortini su Capitini

    1.
    Valore religioso del negativo

    Aldo Capitini ha riunito in un volume i testi del suo lavoro di uomo
    sociale e religioso di questi ultimi anni, dai Cos ai Convegni per la Riforma
    Religiosa. Altra volta, in occasione di uno di questi convegni, ebbi modo di
    accennare ai limiti del suo generoso lavoro. Non a quelli, in questo momen-
    to, voglio pensare, ma alla ricchezza di motivi e di spunti che non andran-
    no perduti, anche se oggi sembrano fiochi; anche se molti di coloro che
    plaudivano a Capitini sotto il fascismo e negli anni immediatamente seguen-
    ti non gli perdonano la sua contiguità ai partiti della Sinistra e anche se tal-
    volta il suo modo di porre i problemi e di superare i dilemmi proiettandoli
    in un remoto futuro possa rischiare la facilitazione verbale.
    Mi limiterò a indicare lo scritto, inedito, introduttivo: «L’unità del mon-
    do e le sue giustificazioni interiori». Leggo: «Vi sono due modi di tendere alla
    gioia; uno è quello di scansare il più possibile il dolore; e le vie sono diverse,
    per esempio cercando di ignorare il dolore, il brutto, l’avverso, non occu-
    pandosi altro che di gioia, come i fanciulli; ponendo al culmine di tutto una
    fruizione armonica della vita, come è per il Goethe. L’altro modo è quello di
    valersi dei lati negativi per cogliere un valore; é questo è il modo particolar-
    mente religioso. La mia limitatezza e cioè la possibilità del dolore, dell’ erro-
    re, della morte, mi porta a cogliere i valori intimi, ma mi fa sentire anche la
    solidarietà con tutti gli altri ugualmente limitati». Che strana cosa, che que-
    ste parole occorra pur dirle! Che non facciano parte del sapere comune, del-
    l’impegno generale! Anche se non bastano (ancora legate, come mi paiono
    ad una esperienza soprattutto pisicologica) essa ci sono preziose.

    (1950)

    Da F. Fortini, Un giorno o l’altro, pagg. 92-93, Quodlibet, Macerata 2006)

    2.
    Mi avevano presentato a Capitini sotto i portici della Posta, a Firenze, all’inizio del
    la guerra. Ne rammento solo la figura modesta. Pareva di avvertire un intento di umiltà
    come di un colore smorto, sopratutto se si guardava ad altre figure – Calogero, Russo
    Pasquali – che avevano qualche, o anche grande, fascino per i giovani della nostra uni
    versità. Qualche anno dopo la guerra andai, insieme a Ruth, a visitarlo nella sua torre d
    Perugia. Ne uscii persuaso della verità di Capi tini, cioè di qualcosa che egli era e non sol
    tanto di quello che diceva. Non era affatto il fascino della umiltà; anzi, questa poteva
    persino spiacere, la sua Umbria era troppo mite, il canto dell’amore, laico o religioso
    poteva persino suonare falso. Era qualcosa di separato nella sua specificità, di intradu-
    cibile; quel che ci fa avvertiti di una presenza particolare che chiamiamo religiosità e che.
    non può non essere ambigua, come ogni stato sacerdotale e ogni presentimento o ricer-
    ca di santità. Il profeta vero e quello falso per questo sono così prossimi, da confonder-
    si talora nel medesimo tono di voce, nel medesimo gesto; e così l’artista vero e quelle
    falso, anzi, in assoluto, il vero e il falso.
    Rividi ancora Capitini quando organizzò la prima marcia per la pace, da Perugia ad
    Assisi, il24 settembre del 1961. Fu un evento molto bello. Era già ammalato, affaticato,
    frastornato dal travaglio organizzativo. In un libro del 1962, Fausto Amodei racconta del
    le strofette antimilitariste che venivo improvvisando e che il coro dei dieci o ventimila
    marciatori riprendeva da Santa Maria degli Angeli alla Basilica di Assisi. In una foto, sono
    con amici di allora, Luciano Amodio, Sergio Caprioglio, Renato Solrni. Porto un cartel-
    lo, confezionato per l’occasione: «Per favore non ammazzateci, sappiamo morire anche
    da soli». Le strofette («E se la patria chiama I lasciatela chiamare. I Oltre le alpi e il mar-
    I un’altra patria c’è»….) mi valsero una denuncia al Tribunale Militare di Torino; perché
    secondo la legge di allora, sebbene sotto tenente in congedo da quindici anni, ero ancor
    sottoposto al codice militare. Per un anno non potei avere il passaporto. Oggi si dice, di
    solito, «eh già, che tempi». Non è vero. Variano le forme della repressione, alla tolleran
    za verso innocue canzoncine corrisponde una rigida intolleranza – non tanto dei poteri
    ma della opinione – verso idee che si considerano colpevoli istigatrici di sovversione.

    (1950)

    Da F. Fortini, Un giorno o l’altro, pag. 95, Quodlibet, Macerata 2006)

  41. @ Ennio Abate – commento dell’8.5 ore 0.26

    *Ma se i capitalismi fossero vari non capisco cosa cambierebbe nella sostanza. Restano o no forme di potere (economico, sociale, politico, culturale) dannosi per buona parte dei viventi o no? E non è che le “stronzate” di Renzi passano perché noi abbiamo una «rigidità concettuale» vedendo un capitalismo invece di vari capitalismi? E’ che non troviamo risposte convincenti né se si pensa che Das Kapital sia ancora uno né se si pensa che siano vari.*

    Scorporo l’osservazione che mi ha fatto Ennio in tre punti:

    a) *Ma se i capitalismi fossero vari non capisco cosa cambierebbe nella sostanza. Restano o no forme di potere (economico, sociale, politico, culturale) dannosi per buona parte dei viventi o no?*

    Cambia, cambia.
    Nei vari ambiti (*economico, sociale, politico, culturale*), possono cambiare ‘sostanzialmente’ le ‘forme’ nell’esercizio del potere, così come cambiano le risposte ad esso passando da ‘conflittuali’ ad ‘asservite’ (o la scelta del male minore):
    – nell’ambito economico, oggi, al posto del ‘padrone con la frusta’ c’è il padrone ‘democratico’, magari iscritto al tuo stesso partito;
    – in quello sociale, l’aumento dell’indifferenziazione, non favorendo l’individuazione delle differenze, non permette di strutturare adeguatamente le difese;
    – in quello politico, i progetti politici sul piano delle proposte economiche sono indistinguibili tra loro – tranne alcune specificità che vengono giocate al fine della raccolta di consenso, non più di voti – e non c’è alcuna vera ‘opposizione’. In questo magma le forze di potere possono coagularsi in modo randomizzato e dominare senza sforzo alcuno;
    – infine, in quello culturale che è il più delicato di tutti e il più sensibile. Qui la gestione della ‘memoria storica’ è diventata appannaggio dei vincitori e si perpetua soltanto come ammasso mnemonico di date, di ricorrenze, il tutto espropriato dal senso della complessità e della conflittualità.
    Per questo, la dannosità non può essere misurata ‘in generale’ senza specificazione alcuna (i *viventi*).
    E nemmeno quantitativamente, come era più facile fare un tempo perché la conflittualità era più chiara e diretta verso un ‘nemico’ facilmente individuabile. Oggi il danno è molto più infido in quanto viene perpetrato qualitativamente (e perciò non misurabile nell’immediato) ed è quello che rende sempre più imprecisi i confini etici e morali, dove si è persa ogni assunzione di responsabilità e ciò pur all’interno di un sistema ‘capitalistico’ che dell’etica e della morale se ne è sempre fatto un baffo.
    Di tutto ciò è emblema lo slogan della “guerra umanitaria”, assunto anche da chi avrebbe dovuto contestarlo.
    Se per certi aspetti condivido la buona volontà dei milanesi che si sono dati da fare per pulire lo scempio causato dai sedicenti black blok, dall’altro si rischia, ancora una volta, di mascherare una realtà problematica attraverso una forma di generosità deresponsabilizzante. Come accade in certe dinamiche familiari dove i genitori ‘coprono’ i disastri dei figli.

    b) *E non è che le “stronzate” di Renzi passano perché noi abbiamo una «rigidità concettuale» vedendo un capitalismo invece di vari capitalismi *

    Sotto quale forma economico-politica (o capitalistica) potremmo identificare uno Stato il cui premier gioca non solo a bussolotti con gli articoli della Costituzione – che sembrava essere un baluardo intoccabile per i governi precedenti e oggi non lo è più -, ma fa il gioco delle tre carte mettendo in discussione diritti già acquisiti (non ultimo quello sulle pensioni che sarebbe troppo lungo esplicitare qui) e con il placet del Capo dello Stato?
    E’ solo un capitalismo ‘straccione’, come più volte è stata definita l’Italia?
    O si sta trasformando da un protettorato (che manterrebbe una certa autonomia per quanto riguarda gli affari interni, anche se è etero diretto per quanto concerne gli affari esteri e la difesa) ad una colonia in cui è esplicito il dominio economico sulle risorse, sul lavoro e sulle dinamiche commerciali? Vedi tutta la politica dei gasdotti!

    c) *E’ che non troviamo risposte convincenti né se si pensa che Das Kapital sia ancora uno né se si pensa che siano vari*.

    Non si tratta di avere risposte convincenti, anche perché il ‘convincimento’ è cugino stretto dell’ideologia.
    Si tratta piuttosto di affrontare una analisi che parta dall’osservazione della realtà e non soltanto dalle teorie pregresse sulla realtà (nel frattempo mutata), per quanto esse rimangano importanti punti di riferimento. Perché la realtà di oggi non è più quella analizzata da Marx e da Lenin, e nemmeno quella di ‘fabbrica’ con la quale ci siamo confrontati noi.

    @ Paolo Ottaviani
    * Accolgo infine la giusta osservazione critica che muove la gentilissima Cristiana Fischer e che lei stessa risolve con l’aiuto di Simone Weil: “accogliere la violenza senza rispondere, di modo che si estingua”. Altra strada, davvero, non c’è.*

    Sulla violenza.
    Se penso che, nominalmente, qualsiasi forma di governo (escludendo la tirannide), sia essa chiamata aristocrazia, timocrazia o democrazia, contiene sempre il suffisso kratos, potere, ci sarà ben una ragione.
    L’esercizio di potere si innesca inevitabilmente con teorizzazioni sulla giustizia, diritto e legalità che sono sì alle basi di una convivenza civile ma che rimangono comunque soggiogate dal sistema di chi governa.
    Perché, di fatto, ogni potere, nel suo esercizio di autorità qualora l’opinione non si confacesse al programma politico – per definizione volto ad avvantaggiare non la nazione intera ma particolari frange – utilizzerà varie forme di violenza, di violazione.

    A proposito delle ‘varie forme di violenza’ messe in atto dal potere, mi è venuta in mente la tragedia del “Prometeo incatenato” attribuita ad Eschilo. E’ il quadro di una repressione su una rivoluzione finita male e l’amaro destino del ribaltamento delle alleanze.
    Non voglio dare una lettura romantica dell’ eroe prometeico (alla Goethe o Schiller); dell’indomito eroe che, piuttosto che piegarsi, si lascia morire perché guidato dalla sete di conoscenza, ribelle ai condizionamenti della natura e bramoso di potenza. Ma una lettura piuttosto pragmatica, cercando di cogliere alcune dinamiche che non intervengono soltanto tra dominanti e dominati ma anche tra dominati (o alcune frange degli stessi): non c’è solo una violenza in verticale ma anche in orizzontale (o interclasse, si potrebbe dire). E anche di questo si deve tenere di conto.

    Questo è l’incipit della tragedia:

    <>

    La storia è nota. Il Titano Prometeo, presosi a cuore il destino crudele degli uomini, ruba a Zeus (la classe dominante) il fuoco per donarlo ai mortali. Prometeo è colto, scaltro e arguto ma è lui stesso un subalterno che si ribella alla sua condizione. Egli non può fare tutto da solo per cui si fa aiutare nell’impresa da altre divinità che avevano, per svariate ragioni, dei contenziosi con Zeus: Ermes, il Dio dell’astuzia e dell’inganno, e Efesto, il tecnico-metallurgico.
    Ma Zeus, scoperto il furto, per svelare il colpevole e per punirlo utilizza come suoi funzionari proprio coloro che avevano aiutato l’eroe nella sua opera ribelle, così che quello viene incatenato ad una rupe per l’eternità.
    Vediamo dunque l’estrema mobilità della violenza che viene veicolata da colui che ha il potere in quel momento:
    dove Prometeo si è servito di Efèsto per lo strumento della sua ribellione, ecco che Zeus sfrutta il doppio taglio della lama dirigendo stavolta lo strumento-Efèsto a danno del ribelle, con la forgia delle “catene adamantine”.
    Zeus (ovvero la classe dominante), si serve di:
    -Efèsto, cioè parte della classe subalterna che produce gli strumenti per mantenere l’ordine pubblico;
    –Ermes, l’ordine pubblico mantenuto attraverso l’investigazione, lo spionaggio. Ermes è chi cerca di ottenere segreti dal nemico per trovarne il punto debole e dunque un vantaggio nell’azione. E’ la spia che lavora silente per chi domina…
    A tutto ciò si affiancano due forze:
    – Kratos, il potere di disporre di una polizia politica interna che gestisce e/o reprime il dissenso.
    – Bia, l’ordine pubblico violento ed irrazionale, al “gusto manganello”; è la forza operante, violenta e silenziosa che consegue gli scopi di Zeus al tacito silenzio militare.

    Allora, tanto per porci alcune domande:
    – perché analoghe disposizioni di gestione e controllo dei black block date durante il G8 di Genova e durante la manifestazione anti EXPO ebbero esiti diversi?
    – quale immagine di potere ne doveva risultare?
    – a quale fine era vincolato l’uso (o il non uso) della violenza?
    – e questo ‘fine’ è un ‘fine manipolatorio’ per ottenere il consenso? Perché se lo è, diventa esso stesso una violenza. Solo che subdola.

    R.S.

  42. @ Simonitto

    Rita, scusa se insisto. Tutti gli aspetti che porti a riprova di una differenza *sostanziale* tra regime – diciamo – “mono-capitalistico” e regime “pluri-capitalistico” non mi paiono decisivi.
    Il cambiamento delle « forme’ nell’esercizio del potere»? Ma, appunto, si tratta di forme che mutano, non di sostanza. Il regime resta capitalistico. «Al posto del ‘padrone con la frusta’ c’è il padrone ‘democratico’, magari iscritto al tuo stesso partito»? Idem. Non ci sono fiumi di libri sul fatto che anche nel “socialismo reale”, pur essendo il potere politico ”socialista” (o per alcuni addirittura “comunista”), le condizioni di lavoro in fabbrica (allora le fabbriche c’erano) non miglioravano affatto? E per questo si dubitava della natura di quel “socialismo reale”, che appariva ad alcuni critici fin troppo simile al capitalismo dato per “superato” o “in via di superamento?
    E potremmo continuare, magari rileggendoci un po’ di testi seri ( sempre per evitare le semplificazioni qualunquistiche e stare coi piedi ben saldi nei vari contesti spaziali e temporali: Italia, Europa, Usa, Urss, Cina, ecc. E in quel dato periodo, ecc.). Anche perché a me pare positivo che, partendo da un dato di cronaca (black bloc a Milano etc.), si arrivi a riflettere su tutta la storia finita male da cui proveniamo o della quale, almeno in alcuni decenni della nostra vita, ci siamo sentiti partecipi.
    In fondo io temo che sia stato proprio il crollo (culturale) delle speranze nel socialismo a portarci in questo buco nero ancora indefinibile. E non vorrei che esagerassimo (masochisticamente) sulla pessima sorte che sta toccando a “noi” rispetto ai nostri *antenati*, di cui ho cercato di far risentire le parole. O ci lasciassimo prendere dalla nostalgia. Prima il nemico era più facilmente individuabile di oggi? Ma dai: sempre per una parte minoritaria degli oppositori.

    Concordo invece su un punto: «lo slogan della “guerra umanitaria”» è stato assunto anche da chi avrebbe dovuto contestarlo». Ecco, chiediamoci perché non la si è contestata più, mentre prima lo si faceva. Non mi pare che il deficit di opposizione alla guerra possa dipendere dal non essere più il capitalismo uno ma due o non so quanti. E non lo dico con sarcasmo. Il venir meno di una soggettività avrà pure legami profondi con i mutamenti nelle strutture mondiali del capitalismo ( o dei capitalismi, per considerare anche l’altra ipotesi), ma non dipende – suppongo, eh! – solo da quelli (e meccanicamente da quelli). Lo stesso passaggio dell’ Italia da protettorato a colonia non mi pare che c’entri coi due o tre capitalismi. Perché è stato possibile il disfacimento di una visione anticapitalistica nella mentalità comune (almeno di una certa porzione della popolazione di “sinistra”), l’adesione ai concetti, agli stili di vita, alla produzione culturale del campo prima sentito avversario (al liberalismo, per semplificare) a partire all’ingrosso dagli anni Ottanta?

    Ripeto: anche se si procedesse con un’analisi nuova della realtà e non restassimo ancorati a «teorie pregresse», non vedo la differenza tra fronteggiare un capitalismo o due o tre.
    A meno che – ma allora entriamo in un altro ordine di discorso – non avessimo più di fronte il capitalismo o dei capitalismi. (E, per quel che capisco, tutto il dibattito culturale su posmodernità, ipermodernità, transmodernità sembra alludere e allo stesso tempo smentire questo ipotetico passaggio “epocale”).
    Certo, capiamo che « la realtà di oggi non è più quella analizzata da Marx e da Lenin, e nemmeno quella di ‘fabbrica’ con la quale ci siamo confrontati noi». Ma è una fuoriuscita dal capitalismo verso altro sistema o modo di produzione?
    Insomma, per dire apertamente la mia perplessità (e la mia insoddisfazione), penso che il problema sia più nell’indebolimento dell’osservatore che nell’oggetto (il capitalismo) tanto mutato solo perché si sarebbe “moltiplicato”…

    Nell’ultima parte del mio commento rivolto a Ottaviani, infatti, mi sono chiesto: « possiamo parlare di violenza o di non violenza senza saper indicare il “noi” capace di praticare l’una o l’altra via?». Torno a dire anche qui che la definizione di questo “noi” mi pare fondamentale almeno quanto la definizione dell’ “oggetto” (capitalismo, capitalismi).
    Attendo volentieri critiche e correzioni a questi miei pensieri.

  43. Su una cosa concordo con l’incipit di Ennio: serve un progetto politico! eccome se servirebbe ma di certo non se ne vedono nel senso auspicato da questa discussione. Detto questo non capisco però come dalla “pagliuzza” del teppismo ribellista e del vandalismo fine a se stesso possa scaturirne uno capace di fermare la “trave” del potere capitalista, delle grandi opere, dello sfruttamento globale ecc. ecc. A meno che non si voglia ragionare, vista la situazione, nei termini del tanto meglio tanto peggio; se fosse così allora non parliamo di progetti politici.
    Affermando che manca un progetto politico cosa si auspica? un bella macchina ideologica coerente con se stessa da mettere in vetrina, oppure un progetto capace di acquisire un consenso rilevante nella società mediando con gli interessi che vi si contrappongono, le contraddizioni della violenza, dei compromessi in essa contenuti? Se invece del consenso non ce ne curiamo immaginiamo forse che ci sia un potere nascosto in qualche stanza da andare a “prendere” con qualsiasi mezzo (non per forza la violenza ma anche utopie di ore X nelle quali scattano universali consapevolezze…)? Io penso che senza un consenso significativo non si possano realizzare stabili cambiamenti e non comprendo come si possa pensare che la violenza generalizzata e diffusa vista il primo maggio possa contribuire a crearlo; come non penso che con gli anni ’70 in Italia la storia della sinistra si sia fermata e non è successo più niente di significativo da cui si possa attingere per ripartire con un progetto politico.
    D’altra parte i progetti politici di altro segno e direzione ci sono: se a “noi” manca è anche conseguenza di una opposizione frantumata, quasi orgogliosamente, incapace di trovare dei minimi comuni denominatori. Negare una valenza politica alla violenza di un certo tipo di manifestazioni non vuol dire tuttavia fare una speculazione morale sulla questione violenza/non-violenza. Il punto vero non è tanto assolutizzare una posizione o l’altra. Gandhi affermava che “La mia nonviolenza non ammette che si fugga dal pericolo e si lascino i propri cari privi di protezione. Tra la violenza e una fuga vile, posso soltanto preferire la violenza alla viltà. Non posso predicare la nonviolenza ad un codardo più di quanto non possa indurre un cieco a godere di visioni piacevoli” da “Teoria e Pratica della nonviolenza” Einaudi 1974. Il punto è l’azione e quali strumenti sono coerenti con i fini che si vogliono realizzare, quali strategie mettere in campo. Per me non servono veleni per fare tabula rasa, ma assumere il minor male della democrazia ed i suoi strumenti, nonostante le sue contraddizioni, in quanto preferibile comunque agli uomini soli al comando, alle oligarchie, alle avanguardie rivoluzionarie, di destra o sinistra che siano.
    Di quella manifestazione ho avuto un minimo di esperienza “diretta” in quanto vihanno partecipato entrambe le mie figlie (poco più di 40 anni in due…); e di questa loro scelta io sono contento. Primo perchè è sempre meglio scegliere accettando il rischio di sbagliare che l’indifferenza (Gramsci); secondo perchè credo che le ragioni per una critica radicale all’EXPO siano del tutto ragionevoli e condivisibili. Quel pomeriggio mi sono ovviamente preoccupato per quello che stava succedendo ma in fondo ero anche contento che la causa fosse di questo tipo e non altro.
    Volutamente non hanno in alcun modo partecipato agli incidenti, marciando in uno spezzone di corteo nel quale praticamente non si sono accorti di quello che stava succedendo, se non per le telefonate degli amici, sms ecc… In quella ampia parte di corteo, che è stato anche numericamente maggioritario, hanno continuato a manifestare le loro ragioni, che sono state mediaticamente oscurate dal contesto generale. Da qui il loro senso di delusione e frustrazione, e di tanti altri giovani come loro, per una esperienza che non ha in alcun modo centrato gli obiettivi prefissati a causa di fattori esterni. Già la sera la discussione che facevano tra loro era come organizzare manifestazioni pubbliche senza la presenza di quei soggetti (blocco nero, black block ecc. ecc.) che deviano l’attenzione dai contenuti e provocano la reazione, nel breve e medio periodo, del restringimento degli spazi democratici, non certo il loro allargamento. La manifestazione è stata anche questo, teniamone conto e cerchiamo di non spezzare su questo un dialogo possibile, anche se si muove su coordinate e modalità altre dagli schemi ideologici a cui siamo abituati.

    1. @ Chiarei

      «Io penso che senza un consenso significativo non si possano realizzare stabili cambiamenti e non comprendo come si possa pensare che la violenza generalizzata e diffusa vista il primo maggio possa contribuire a crearlo; come non penso che con gli anni ’70 in Italia la storia della sinistra si sia fermata e non è successo più niente di significativo da cui si possa attingere per ripartire con un progetto politico» (Chiarei)

      Caro Luca,
      la tua ragionevolezza democratica piacerebbe anche a me, ma ha un buco: crede di poter acquisire progressivamente « un consenso rilevante nella società mediando con gli interessi che vi si contrappongono». Ma quanto consenso è possibile accumulare con i soli mezzi *ragionevoli* in una società organizzata in modi gerarchici e spesso “irragionevoli” e in concorrenza con forze politiche che in maniera spregiudicata usano per conservarsi e dominare sia i mezzi ragionevoli che quelli irragionevoli (cioè violenti)?
      Qui vedo il limite insuperato di ogni impostazione ragionevolmente riformista. E tutta la storia (dalle mancate e ragionevoli riforme di Turgot alla storia dei partiti socialisti alla crescita e poi all’implosione del PCI) ce lo mostra senza possibili veli.
      Quando le spinte democratiche (ingenue, spontanee, ragionevoli, fiduciose, come vuoi…) oltrepassano una certa soglia, gli *altri* – quelli che possono decidere dalla “stanza dei bottoni” e – ripeto – possono usare, se intelligenti, sia la persuasione sia la violenza o, se stupidi, ricorrere soltanto alla seconda, che ha comunque una sua tremenda efficacia – mettono o fanno mettere le bombe a Piazza Fontana, infiltrano le loro spie o emissari nelle frange più “rivoluzionarie” per spingerle a passi avventati o nelle stesse segreterie dei partiti democratici e progressisti per neutralizzarne l’azione, ecc.
      Non si tratta allora di non curarsi del consenso. Ma di prendere atto che quel consenso non potrà mai superare la fatidica o mitica soglia del 51%. E che, anche se in una situazione astrattamente eccezionale la superasse, gli *altri* interverrebbero senza esitazione con le buone o con le cattive (compresi i complotti, gli atti terroristici, gli intrighi più machiavellici) per arrestare questa avanzata ragionevole. E ti pare giusto non prevederlo o premunirsi?
      Nessuno finora mi ha convinto a vedere le cose in modo diverso da questo. E tieni conto che non sono così miope o fanatico da non scorgere anche il limite (anch’esso evidenziato in numerose occasioni) della strategia contrapposta a quella riformista, cioè di quella rivoluzionaria.
      Ragionando però in teoria, la strategia riformista mi ha sempre meno convinta della pur rischiosa strategia rivoluzionaria (non certo applicabile sempre né a capoccia o sulla base di spinte emotive).
      Parlando allora da questo punto di vista filo-rivoluzionario (ma critico e che perciò non mi sento di presentare come “la soluzione” ma semplicemente come una scommessa rischiosa e in certi casi persino tragica, che solo in determinate occasioni può essere fatta e magari da pochi e presentarsi come un dovere storico), oggi posso solo mostrarti la “trave” della posizione filo-riformista (la tua) senza nascondere la “trave” di quella filo-rivoluzionaria (la mia).
      E allora preciso quanto segue:
      1. non ho esaltato né approvato il «teppismo ribellista» o il «vandalismo» dei black bloc, ma mi sono rammaricato dell’inesistenza, oggi assoluta, di un qualsiasi progetto politico di ampio respiro strategico; e perciò capace di prevedere e riuscire a far quadrare sia l’esigenza del consenso sia l’esigenza di contrastare la violenza con la violenza (come accaduto nelle passate vere rivoluzioni); tale progetto – aggiungo – non ha a che fare con la «bella macchina ideologica coerente con se stessa» cui tu caricaturalmente accenni; ma – ripeto per evitare ogni equivoco – non può o deve essere pensato solo in funzione del consenso, come sembri unilateralmente auspicare;
      2. considero la formula del «tanto meglio tanto peggio» un esorcisma per aggirare il rompicapo vero che ho proposto sopra e sul quale vorrei riflettessimo a fondo;
      3. la bella e condivisibile frase di Gandhi che riporti («Tra la violenza e una fuga vile, posso soltanto preferire la violenza alla viltà») andrebbe ricordata a moltissimi transfughi convertitisi senza uno straccio di riflessione da giovanili furori rivoluzionari a tranquille carriere riformistiche;
      4. No, nella situazione di confusione in cui ci troviamo oggi, «il punto [non] è l’azione e quali strumenti [siano] coerenti con i fini che si vogliono realizzare». A me pare che di azione neppure si possa parlare e che *il punto* sia di *ripensare tutto*. Poiché un fine, che non sia astrattamente generico (ad es. la libertà, la giustizia, ecc.), non è oggi proponibile né esiste un soggetto o dei soggetti capaci di proporlo o imporlo.
      5. Non sono più convinto che si debba «assumere il minor male della democrazia ed i suoi strumenti, nonostante le sue contraddizioni, in quanto preferibile comunque agli uomini soli al comando, alle oligarchie, alle avanguardie rivoluzionarie, di destra o sinistra che siano». La “democrazia” è «minor male» solo per una parte delle popolazioni occidentali. Per altre è il *male maggiore* perché gli ha portato guerre e distruzioni. Se dobbiamo *ripensare tutto*, non possiamo non ripensare anche la “democrazia”. Senza lasciarci spaventare dai fantasmi che i fautori del «minor male» (te compreso) subito ci sventolano sotto il naso. A nessuno piace affidarsi «agli uomini soli al comando» o, visti certi risutalti, alle «avanguardie» (sedicenti o effettivamente fornite di saperi a noi non concessi). Ma a me non piace che l’ideologia del «minor male» mi spinga a scartare a priori vie o vicoli inesplorati.
      6. L’esempio che fai delle tue figlie e dei tanti giovani o meno giovani che hanno partecipato tranquillamente alla manifestazione anti-Expo e che praticamente non si sono accorti dell’azione dei black bloc, che però c’è stata ed innegabilmente ha ottenuto il risultato di essere mediaticamente più visibile del corteo pacifico, cosa dovrebbe dimostrare? Che i partecipanti tranquilli e democratici sono un soggetto politico maturo e compiuto? Che basterebbe isolare «quei soggetti (blocco nero, black block ecc. ecc.) che deviano l’attenzione dai contenuti e provocano la reazione, nel breve e medio periodo, del restringimento degli spazi democratici, non certo il loro allargamento»?
      A mio parere quel corteo non era politicamente maturo. Pur sapendo che il black bloc sarebbero intervenuti, non si è posto il problema di allontanarli da sé, di impedire che entrassero nel corteo; né era in grado di praticare un’egemonia su queste frange politicamente ambigue. Questo non vuol dire che politicamente maturi siano stati di black bloc. Spero di essere stato chiaro.

  44. …i disastri maggiori della nostra società li vedo riflessi in particolare sui bambini, sui ragazzi…eppure nessun segno evidente di violenza nei loro confronti, anzi vengono blanditi da ogni sorta di canto delle sirene: video-giochi, iPad… ma poi si assiste a cambiamenti anche repentini del carattere, della personalità, sino alla malattia mentale, che oggi è sempre più frequente nell’nfanzia…i giovani che ce la fanno a sopravvivere ai bombardamenti e arrivano ad un titolo di studio (viene garantito praticamente a tutti, ma poi non è garanzia di niente, un inganno) si ritrovano troppo spesso disoccupati…in questo senso ci vorrebbe sì una rivoluzione…

    1. …certo, una grande rivoluzione fatta di insegnamenti, di nuove parole, di esempi concreti di una possibile vita diversa, critica e armoniosa, pacifica…

  45. @ Ennio Abate
    Caro Ennio,
    è tutto chiaro ma non mi convince lo stesso. Per quello che dici in premessa non posso che convenire con te che quando “ le spinte democratiche (ingenue, spontanee, ragionevoli, fiduciose, come vuoi…) oltrepassano una certa soglia, gli *altri* – quelli che possono decidere dalla “stanza dei bottoni” e – ripeto – possono usare, se intelligenti, sia la persuasione sia la violenza o, se stupidi, ricorrere soltanto alla seconda, che ha comunque una sua tremenda efficacia”. Il punto è che questa strategia del potere può essere vista come una ineluttabile malvagità dei poteri forti sulla quale non possiamo farci niente, oppure considerarla come conseguenza della strutturale debolezza di tanta sinistra radicale, che di questi aspetti non si cura. Io la vedo in quest’ultima maniera e per questo faccio fatica a digerire le lamentazioni che a volte si sprecano in queste discussioni su quanto “cattivi” siano gli “altri” e quanto “buoni” siamo “noi”.
    La questione del consenso al 51% per comela poni tu non è quello che intendevo: anch’io penso che non ci arriveremo mai ma semplicemente perché in questo paese la sinistra non è maggioranza; e prima ancora che nella politica non lo è culturalmente per tante ragioni che sarebbe lungo elencare. Siamo una componente rilevante ma strutturalmente non saremo mai maggioranza democraticamente votata (siamo sicuri che quello che vogliamo è una società mono-ideologica al cui interno ogni dialettica di idee e di forze sia superata?). Tornando al ragionamento di prima è vero che tutte le volte che la sinistra è avanzata in maniera rilevante scattano i complotti, le bombe, gli intrighi che dici tu. E non sono certo io a negare l’esigenza di una organizzazione politica che metta nel conto la difesa da tutto ciò. Quello che volevo sottolineare è che un progetto politico non può non porsi il problema di convincere gli altri alle proprie idee e proposte, in una logica che non sia solo quella dell’antagonismo.
    Il punto debole della tesi rivoluzionaria per me è il fatto che fa passare in ombra la dimensione della quotidianità delle persone, per le quali si “fa la rivoluzione”, che hanno bisogno del miglioramento delle proprie condizioni di vita si in termini assoluti ma anche parziali. Insomma, il cambiamento passa anche dall’uso della lima e non solo dello scalpello. Per quanto riguarda i punti che elenchi, seguendo la tua numerazione, questo è il mio pensiero:
    1. Cosa vuol dire in pratica? Che era necessario un efficiente servizio d’ordine della manifestazione capace di contenere quelle frange. Probabilmente si. Ma in mancanza di un progetto politico generale questa manifestazione non doveva tenersi? A quale violenza si deve rispondere con la violenza? Quella dei black bloc o della “società”?
    2. Non mi sembra di aggirarlo, lo affronto e ritenendo che in politica si debba, a volte, ragionare con la logica del male minore (che capisco tu non condivida affatto) rispetto ad una situazione data, credo che l’esorcismo risieda in chi pensa che, essendo impossibile un cambiamento “vero”, qualsiasi cosa che smuova lo status quo va bene.
    3. Ce ne sono anche altre più efficaci che dimostrano quanto l’antitesi violenza/nonviolenza non fosse la questione centrale del pensiero Gandhiano, ma la sua interpretazione occidentale
    6. Sfondi una porta aperta, certamente la maturità politica, almeno per come possiamo intenderla noi, non abbondava in tutto quel corteo. Volevo solo evidenziare che gli eventi delle auto bruciate ecc. ecc. hanno oscurato oggettivamente qualsiasi altro ragionamento e che pertanto anche solo strategicamente, oggi, l’uso della violenza non avvicina ad alcun risultato. E che questa consapevolezza era vissuta anche da molti giovani all’interno di quel corteo, con i quali dialogare potrebbe essere reciprocamente utile e magari anche necessario.

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