Intervista (2) a Annamaria De Pietro

hokusai-peonies-and-butterfa cura di Ennio Abate

Nell’accostare «Rettangoli in cerca di un pi greco» (ma anche il tuo «Si vuo’ ‘o ciardino») mi è parso di cogliere una tua particolare predilezione (forse dovuta a studi o viaggi o contatti, non so) con la cultura francese tra Seicento e Settecento. Mi sbaglio?

Eccoti un pignolesco resoconto dei miei rapporti con la Francia. A scuola ho studiato il francese; poi, esame di francese all’università. Da questi studi nacquero grandi amori soprattutto per certe parti di quella letteratura, in particolare per Ronsard, scoperto al ginnasio, sempre amato da lontano, e poi, in anni abbastanza recenti, tradotto con passione (più di quattrocento testi, dei quali un giorno o l’altro dovrei ben fare qualcosa. Alcuni li ha pubblicati Claudia Azzola nella sua rivista «Traduzionetradizione»). E poi «La princesse de Clèves», uno dei libri più belli che io abbia letto, e la narrativa dell’Ottocento, e la Yourcenar, e la poesia di Otto e Novecento. E poi Voltaire , ma solo le opere narrative, e Diderot , idem, e Sade, e poi all’indietro Chrétien de Troyes, meravigliosissimo, e la tardiva scoperta di Brantôme, e così via. Come vedi si esce, in avanti e all’indietro, dai due secoli che tu indichi. Un interesse sparso, disorganico, polverizzato lungo i tempi e i luoghi. Naturalmente chissà quanti nomi ho dimenticato, ma certo non te li devo dire tutti.

Viaggi, anche; due lunghi viaggi quasi esaustivi della grande Francia, molti anni fa. Viaggi stancanti e meravigliosi, amatissimi ancora nel ricordo, retaggio d’immagini fulminanti, felici. Nel libro ve ne sono non poche tracce.

Ciò detto, non posso non aggiungere tuttavia che, nonostante questi amori francesi, la cultura che più mi sento consonante, quasi familiare, abitante nella mia stessa casa, è quella inglese. Al punto che dico che tutti i film inglesi mi piacciono, anche quelli brutti. Ma del resto nella mente-cuore c’è spazio, molto spazio. Chissà, forse un giorno di questi m’innamorerò della Repubblica di Andorra (esiste ancora?).

Sbagliata, dunque, la mia impressione…Allora ti propongo altre domande:
1. È accettabile  parlare di una dialettica versi/prosa in questa tua ultima raccolta? Perché, a naso, a me pare che i versi puntino ad un calcolato classicismo o manierismo e la prosa, invece, s’abbandoni a un realismo più confidenziale, pur conservando un tono sempre alto e di una ricercatezza lessicale che  quasi  (mi) intidimidisce…
2. La scelta formale e unitaria delle quartine, un lessico ultraletterario e raro (per niente “sporcato” dai linguaggi “bassi” e “quotidiani” del secondo Novecento) e una sintassi non molto complessa, che rafforza un certo dire apodittico, fanno pensare – sorriderai! – a un distacco da gran signora, a uno spirito aristocratico e d’intelligenza raffinata. (Perciò nella mia prima domanda pensavo all’influenza della cultura francese tra Seicento e Settecento). Ora, o ancora sbaglio; oppure nella tua scrittura davvero c’è adesione ad una poetica – mi pare dichiarata in La veste (pag. 84) – che, con approssimazione, si potrebbe chiamare classicista/manierista? Questa mia ipotesi pare confermata dal fatto che i tanti spunti tratti dalla vita quotidiana, amicale o addirittura casalinga (e talvolta da una residua memoria popolare) siano immersi, appunto, in un linguaggio prezioso o addirittura squisito.

Francamente non so bene se sia possibile parlare di «una dialettica versi/prosa» o di versi che «puntino ad un calcolato classicismo/manierismo» e di una prosa che «s’abbandoni a un realismo più confidenziale».

Dico che non lo so bene perché né l’uno né l’altro registro nacquero (nascono) da un’intenzione proditoria, calcolata, da un voler dare a Cesare quel che è di Cesare … con quel che segue. Nel mio organigramma mentale non c’è né Cesare né dio (o Dio, per stare nella postulata antinomia), e neppure, di conseguenza, c’è qualcosa che spetti all’uno e qualcosa di diverso che spetti all’altro. Quello che posso dire, stando alla cronaca, che è probabilmente il criterio più semplice e onesto, è che le glosse alle quartine sono state volute e scritte in una fase molto successiva. In questa fase successiva, avendo deciso di formare un libro solo di quartine (e quello presente dovrebbe essere la prima puntata di tre), obbedii ad una sollecitazione, anzi ad un’esigenza, che mi era nata nell’allestimento di «Magdeburgo in Ratisbona», il libro precedente, quando mi piacque moltissimo scrivere, in calce ad un certo numero di testi, delle note; non parlo delle note bibliografiche relative ai destinatari dei testi, ma delle note di commento e ragionamento, poche, ma, poiché tanto mi divertii a scriverle, sufficienti a diventare modello formante nella struttura del libro quartinesco. Formando il quale, nella scrittura delle glosse, di seguito, a valanga, sentii fortemente una libertà assoluta: Dico quello che mi pare, prossimo o distante che sia dalla lettera della quartina relativa, seguendo come un gatto che segue una mosca ogni filo d’aria, ogni associazione, ogni ricordo, ogni pensiero, ogni paradosso; e se il lettore non riuscirà a cogliere il nesso, e molto spesso non ci riuscirà, non ha la minima importanza. Forse, se è vero che nel mio procedere scrittorio c’è dell’aristocratico, forse sta più in questo che nella forma e nel lessico tanto legati alla tradizione. Ma, se proprio dobbiamo insistere nella categoria dell’aristocratico, potrei dire che è un aristocratico “familiare”, spontaneo, accogliente. In altri termini, non lo faccio apposta; mi viene così. E mi viene così intervallato e screziato di segmenti colloquiali e “realistici”, comici a volte, perché, ripeto, una è la lingua, e insieme la parlano Cesare, dio, Dio, di qualunque cosa parlino. Io, scriba curiosa, prendo nota.

E’ vero poi che la sintassi delle quartine spesso è scarsamente complessa, ed è vero che questo può essere segnale, non so se causa o effetto, e non m’interessa saperlo, di un tono apodittico, rigido forse, a naso dritto. Del resto nelle glosse al primo e all’ultimo testo (che esprimono un po’ la ragione, la giustificazione, la storia del libro) dico proprio questo, e parlo di quartina come quasi aforisma, aggiungerei quasi brandina di Procuste dove in poco spazio, e contato, bisogna farci stare tutto. Il che se da una parte genera sintesi ed ellissi, dall’altra, contraddittoriamente, genera una qualche forma di chiarezza; come dire, una chiarezza liofilizzata e sparagnina. Ma poi, come si è detto, a distanza di anni arriveranno le glosse, un buon numero delle quali scritte col gatto in braccio (e queste sono cose delle quali la musa tiene conto fortemente), e allora al diavolo la chiarezza, al diavolo il risparmio, e pure al diavolo la sintesi e l’ellissi e il naso dritto. La vita è breve; tagliamola a fette, ma in diagonale, ne vengono di più. Grazie dell’«intelligenza raffinata», più il già nominato «spirito aristocratico», à la françoise. Da quanto precede, compreso il gatto in braccio, penso di poter concludere (si fa per dire) che la mia ‘poetica’, che scrivo fra apici come ho fatto nella glossa al testo cui ti riferisci, La veste, la scrivo fra apici perché, a dispetto dell’apodittico e del classicistico e del manieristico (mio dio, che non sia manierato!), cerco sinceramente di non prendermi sul serio, a botte di termini tecnici e citazioni e cultismi di pensiero “professionistico” (il gergo intellettuale); io dico che non ho fatto il seminario: a un certo punto mi sono messa a scrivere, e l’ho fatto, sul mio onore di gentiluomo, secondo una mia indefettibile spontaneità. Si chiama “poetica”, va bene, e chiamiamola così, ma io forse preferisco chiamarla pratica, laboratorio, officina: unici attrezzi un quaderno e una bic. Ti giuro che in quello che sto dicendo non c’è neppure un briciolo di civetteria al finto ribasso. E’ proprio così.

 Ti credo, ti credo…Ma ora, partendo dalla tua dichiarata volontà di costruire una «epitome del cosmo» (pag. 7), vorrei capire in che rapporto sta tale intento rispetto all’idea del «giardino-mondo» (pag. 70) dell’altra tua raccolta, «Si vuo’ o’ ciardino». Non è riduttivo parlare di un “cosmo personale”, cioè un qualcosa di più affettivo e, quindi, meno altero, che si fa notare specie – come ho detto – nei blocchi in prosa, dove la pratica che chiami «parlatorio confidenziale ove qualcuno parli a qualcuno» (p. 7) è in evidenza?
Preciso che questa mia impressione pare confermata dalla “semina”, abbondante ed eruditissima, di simpatici “capricci” e disinvolte uscite (ad esempio: «Il veleno sicuramente è verde. Non so perché; forse dovrei saperlo, ma non lo so», p. 17), di svelamenti di gusti e manie (ad esempio: «lo smeraldo è la mia pietra preferita e smeraldini sono gli occhi dei gatti, le mie creature preferite», p. 17) ma pure dal riferirti ai più vari immaginari (letterario, pittorico, cinematografico). Il tutto, tra l’altro,  mi fa pensare ad una sorta di autobiografia mascherata e condotta per cenni…

 “Epitome del cosmo” / “giardino-mondo”. Va detto che fin dal mio primo libro, «Il nodo nell’inventario», uscito nel ’97, ho sempre avuto l’impressione di avere il compito di fare appunto un inventario del mondo, fino al limite puramente logico di una esaustività completa. Questo dato se vuoi un tantino nevrotico, questa somatizzazione, una delle tante, continuando a scrivere e soprattutto ad allestire, e cioè strutturare libri mi si è rivelato come il nodo di fatto e di diritto della scrittura: in un certo senso una identità fra l’atto dello scrivere e quello che viene scritto, una totalità, un’immanenza che non pone la scrittura come qualcosa di altro, successivo, secondo, rispetto ai dati di partenza (la cosiddetta “realtà”), ma, in qualche maniera, come una sua sostituzione, o intima e organica metamorfosi, che, nello stesso tempo, è e non è quello da cui si parte (come nella fossilizzazione, come nella transustanziazione delle specie eucaristiche). Io so, essendo assolutamente estranea a qualsivoglia tipo di oppiaceo, che il mondo c’è prima che qualcuno ne scriva, ma, essendo mia esigenza primaria delimitare i campi, sono convinta che l’atto della scrittura, applicando i suoi codici, le sue forme, istituisce in statuto totalizzante un mondo, il mondo, che è appunto quello della scrittura. E niente potrà più raddrizzare il remo spezzato nell’acqua che la rifrazione sprofonda da un mezzo all’altro. Se il barcaiolo lo tirerà su dal fiume e il remo tornerà dritto, ebbene quello è canottaggio, non scrittura. La scrittura è feroce; impone al mondo il suo patrimonio genetico, ne fa altra cosa, ne fa questa cosa, ma, d’altra parte, sa benissimo che tutto ciò non è che carta, e che, mentre la bic corre sulla pagina, subito, qui, a meno della distanza di questo corridoio, si continua a vivere, si continua a morire. E la poesia non salva la vita. D’altro genere sono i suoi refusi, diversamente sono correggibili le sue bozze. Per quanto riguarda in particolare «Rettangoli», la mania dell’ «epitome del cosmo» è confermata e inverata dalla struttura modulare del libro, e di moduli piccoli, agili, epigrammatici: si potrebbe andare avanti all’infinito, non c’è sponda, non c’è barriera. Del resto il «ciardino» non ha muro, e tutto è «ciardino». Non mi pare «riduttivo parlare di un ‘cosmo personale’», perché non ravviso una differenza fra il «cosmo», quello grande, macro per dirlo alla maniera colta, e il, o un, «cosmo personale», il nominato micro. Unico e uno è il cosmo in cui viviamo, assiepato di immaginari e voci e sussurri e grida: di volta in volta ne tagliamo una fetta, ora di qua, ora di là, ma sempre in diagonale, dicevo prima, perché ne vengono di più. E (sia lode al truismo, il falso ingenuo machiavellico) ricchezza è meglio che povertà. Inoltre, il «parlatorio confidenziale», attraversato da «capricci», accoglie un pressoché infinito numero di posti a sedere. Ogni ospite, nessuno escluso, è tu.

 Il tuo linguaggio poetico, che a prima vista appare d’altri tempi, mi pare un modo originale di arginare l’invasione del linguaggio mass mediatico. E, siccome in queste settimane sto leggendo di Milosz «La testimonianza della poesia», trovo – cito da lui – che non aver abbandonato  «costumi e tradizioni, ossia [..] tutto ciò che si sviluppa a poco a poco, organicamente nel corso dei secoli» (p. 25) – comprese, dunque, poesia e scrittura – sia più apprezzabile di quanto pensassi in passato. Era questo del resto il discorso che faceva Fortini di fronte all’aggressivo avanguardismo che furoreggiò nei lontani anni Sessanta. Mi dici cosa ne pensi?

Nel raccontare il modo di formazione delle glosse alle quartine pronunciavo prima la parola magica “libertà”. Eccola che torna, scapigliata magistra nella scelta del linguaggio poetico. Scelta che, e ancora torno a quanto già detto, non è una scelta programmatica, surciliosa e una volta per tutte, ma è un gesto che di attimo in attimo, nell’attimo in cui un grafo scorre sul foglio dalla musa Bic, e solo in quell’attimo, pesca una parola, un sintagma, una maiuscola o una minuscola e così via elencando, dal repertorio immenso e antico per ininterrotta stratificazione del vocabolario e della grammatica, nei quali il mondo sta acquattato in bell’ordine, un ordine che tuttavia non è suo, del mondo, ma è del codice della metamorfosi. E questo (riprendo la tua citazione da Milosz) non tocca solo la scrittura, ma tutto quanto è storia umana, tutto quanto per passi inventò e conobbe, sempre diversamente, ma sempre da un medesimo ceppo, che è il fare, l’accorgersi di farlo, e il non dimenticarlo.

Aggiungo che libertà è anche e senza dubbio, e qui sì c’è del programmatico, l’affrancamento dall’usurato linguaggio dell’uso, il linguaggio imposto dai manipolatori del linguaggio, da chi inculca un linguaggio che non sceglie niente, che non proclama significati umani, e usato da chi lo usa passivamente, quanto più possibile omologato, indigente, ripetuto all’infinito in sequenze brevi e formulari, sempre uguali, mute.

E (Ma) non dimentichiamo che il linguaggio poetico, comunque, infrange ogni nesso logico, causa ed effetto, non contraddizione, terzo escluso, tutti gli altri. Sa lui cosa deve dire, e come dirlo.

Sono fermamente convinta che accogliere nel proprio linguaggio espressivo il portato della tradizione, accanto al nuovo e attuale, non sia che ricchezza (mi ripeto). E io non so bene, anzi non so per niente, a quale data si dovrebbe collocare la fine della “tradizione”, e l’inizio di – che cosa?; come si chiama?; è meglio di quello che c’era prima?, perché?. Tutti i libri stanno sugli scaffali della medesima biblioteca, l’Iliade e l’ultimo uscito, stamattina.

Quanto all’aggressivo avanguardismo furoreggiante negli anni Sessanta penso che come ogni “momento”, ogni sviluppo fitto ed esclusivo ed escludente di un’idea meriti una storicistica indulgenza. Fu così anche del petrarchismo. Tutto, a mio parere, va inserito e giustificato alla luce della storia.

 E già che ci siamo con Milosz, chiedo la tua opinione su un’altra sua affermazione, che a me verrebbe da accostare al discorso sulla dialettica verso/ prosa che ho creduto di trovare in «Rettangoli»:

«ogni poeta , nel momento in cui scrive, compie una scelta tra le norme del linguaggio poetico e la fedeltà al reale. Se cancella una parola e la sostituisce con un’altra perché così il verso nel suo insieme acquista compattezza, segue la pratica dei classici. Se invece cancella una parola perché non restituisce adeguatamente un particolare osservato, allora propende per il realismo. Le due operazioni, tuttavia, non possono essere nettamente separate, sono interconnesse. Ma c’è di più. Nel corso di questo incessante conflitto tra i due principi, il poeta scopre un segreto: che si può essere più fedeli alle cose solo se sono disposte in un ordine gerarchico. In caso contrario, come accade spesso nella prosa-poesia dei nostri giorni, troviamo solo un “cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole”, un insieme di frammenti perfettamente equivalenti, che fanno pensare a una qualche riluttanza da parte del poeta a compiere una scelta» (Milosz, p. 100).

 Non penso che una scelta linguistica che si prefigga una maggiore aderenza al “reale”, una resa dirò descrittiva, chiarificante, per ciò stesso ottenga un maggiore accosto al “reale”medesimo. Penso infatti che fra lo scritto e il “reale” (che puntigliosamente chiudo fra virgolette perché non si permetta di tracimare) esista istitutivamente una distanza incolmabile. Perché sono due cose diverse; perché, come ci dicevano le nostre brave maestre, non si possono sommare le mele con le pere. Quindi anche una scrittura che utilizzi un linguaggio attuale, dimesso, non culto e prezioso, non potrà mai tracimare in senso inverso dall’esterno all’interno delle sullodate virgolette, che sono paratia stagna e irrefragabile. La scrittura è, sempre, qualunque linguaggio utilizzi, un’astrazione rispetto ai suoi punti di partenza, congiunturali, fermi. Si muove alitando, respirando respiri suoi sopra quel campo opaco, lo traslittera, gl’impone i suoi geni, i suoi protocolli di coerenza, le sue sequenze di crisi e interruzione, i suoi impossibili, i suoi nessi illogici, le sue ellissi, i suoi salti (scriptura facit saltus). Poligoni simili forse, ma non sovrapponibili.

Ma penso anch’io che tutte le posture della mente, le più apparentemente semplici come le più complicate e lambiccate, coesistano e cooperino nella costruzione di un testo (tessuto, non giustapposizione di frammenti). A mio parere cercare di separarle vuol dire uccidere il testo, e la propria libertà espressiva.

Per finire vorrei che ti sbizzarrissi ad aggiungere altre osservazioni o ricordi ad almeno alcune affermazioni che, incuriosito, ho colto a volo perché rivelatrici di gusti o piccole manie, che solo la poesia sa sottrarre alla patologia della nostra vita quotidiana. Te ne faccio un piccolo elenco: «lo smeraldo è la mia pietra preferita, e smeraldini sono gli occhi dei gatti, le mie creature preferite» (p. 17); «Vorrei poterle [le striscette biancastre di colla indurita.. .delle costole dei libri in brossura] mordere e mangiare come caramelle gommose» (p. 19); «Mi affascinano i giochi da tavolo» (p. 23); «Non amo le lacrime» (p. 25); «Le galline mi terrorizzano» (p. 31); «Gli strumenti di misurazione mi piacciono» (p. 38); l’attenzione agli oggetti, come «La gomma», «La benda», «Le pinzette», «Il timbro» (p. 76); «Una delle mie pratiche maniacali è osservare via via con naso aguzzo la calata del livello del liquido in bottiglie e flaconi» (p. 83); «Praticamente detesto ogni tipo di attività ginnico-atletico-sportiva» (87); «Sono decenni che non sgrano i piselli» (p.115); «Non ho mai osato spegnere una candela con due dita bagnate» (p. 119).

 Mi fa piacere che tu abbia fermato la tua attenzione su queste impazienti dichiarazioni di vita, lampi, ma che si uniscono, credo, a rivelare un’identità, fra amori e fobie, ricordi e bubbole, giochi di sincerità. Chiedendomi commenti e sviluppi a questi frammenti di glosse m’inviti a nozze. E allora vediamo.

«lo smeraldo è la mia pietra preferita, e smeraldini sono gli occhi dei gatti, le mie creature preferite». Il periodo poi continua così: «e smeraldine sono le lucertole, le prede preferite dai gatti, che crudelmente ne tranciano la coda, e, … preferibilmente, in cauda venenum. Come dicono quelli compiacendosi, tout se tient».

Qui mi è piaciuto sgranare, spennellare il verde lungo una sequenza fluida di analogie, privilegiatamente animaliste, come una danza colorata. E altrettanto mi è piaciuto chiudere bisbeticamente con uno sberleffo al parlar forbito, ma quanto monotono: quelle quattro o cinque frasette da gente colta a gente colta che francamente, nel loro ripetersi prevedibilissimo, m’infastidiscono assai. Simile bisbeticheria in altra glossa riservo a “poièin”.

 «Vorrei poterle [le striscette biancastre di colla indurita… delle costole dei libri in brossura] mordere e mangiare come caramelle gommose». Il testo prosegue: «sottratta la spolverata di zucchero, ai gusti di frutta, freschi, citrini». Materia liscia e pastosa, senza grinze, ermeticamente sensuale. Al mangiare, a quel prurito leggero e ingordo nelle gengive si riporta, si rapporta, tutto quello che piace, quello che si ama. E il libro è un oggetto in sé amato e sensuale, e ghiotto, fatto di cose calde, salde, oneste.

 «Mi affascinano i giochi da tavolo». E in nessuno sono brava. E’ come un amore non corrisposto. Mi affascinano perché, proprio come un libro, questo libro a mio dire (vedi sopra), sono un’«epitome del cosmo», giardini chiusi dentro la norma ferrea ma giocabile di un protocollo, la norma, la regola che si declinano in norme e regole, ferme e invariabili da lontano ma da vicino discutibili ad ogni passo infinitamente. Sono logica, misura, ma sono anche azzardo e batticuore. Gelidi occhi di Medusa, possono ridurti sul lastrico se permetti loro di uscire dal recinto delle forme ed entrare nella tua vita. Forse questo è dicibile di tutto quello che affascina? Forse un solo passo, e molto breve, sta fra l’affascinante e il perturbante?

 «Non amo le lacrime». Ma non sono cattiva, no, non credo. E’ solo che l’esibizione del dolore mi sembra distraente; mi sembra che sposti il gioco da tavolo (vedi capoverso precedente) dalla caverna del dentro, che ne è luogo e consumazione, alle strade che vanno in troppi luoghi, alle stanze piene di troppi mobili e soprammobili, e a quella gente, tanta, alla quale questo dolore non interessa assolutamente niente, o quanto basta per la confettatura. Piangere nel costato; tutt’al più in bagno.

«Le galline mi terrorizzano». Ho poco da aggiungere. Dico esaurientemente nella glossa quello che ho da dire al riguardo. Posso aggiungere che tale sentimento si estende a quasi tutti i pennuti, eccezion fatta per le anatre (in parte, basta che non veda le zampe) e i pinguini, perché hanno una compattezza morbida da mammifero, e anche da Brancusi.

 «Gli strumenti di misurazione mi piacciono». Vale in parte quello che ho detto riguardo ai giochi da tavolo. E anche qui l’afffascinante trascorre nel perturbante in virtù di quel principio d’indeterminazione di Heisenberg secondo il quale lo strumento di misura modifica il misurato. Non c’è tregua dunque, non c’è pace. Ogni baldanza che pretenda d’inchiodare un’oggettività indiscutibile è destinata allo scacco (matto, in tutti i sensi).

L’attenzione agli oggetti. Mi piace guardare, e niente, per quanto piccolo, per quanto modesto, è indegno di essere guardato. Aspettando l’autobus conto le stecche della ringhiera di un balcone di fronte e i fiori sul vestito di una signora, per non parlare della classificazione delle targhe delle automobili a) parcheggiate, b) in transito (non si confondano i due gruppi). Gli oggetti possono essere visti singolarmente, come doni, o torte in mezzo a un tavolo, e possono essere inseriti in un inventario, secondo l’uno o l’altro criterio di catalogazione. Ma forse le due procedure non sono così diverse fra loro: l’una scivola e scappa subito nell’altra, perché l’inventario è insieme sistema e voci. E’ la complessità della vita, credo.

 «Una delle mie pratiche maniacali è osservare via via con naso aguzzo la calata del livello del liquido in bottiglie e flaconi». Si può ricondurre alla voce precedente, aggiunta la specificità del fascino delle materie fluide, che prendono forma dal contenitore, e che calando cedono via via il passo a un’altra sostanza fluida e apparentemente senza peso, l’aria sgusciata come una lucertola sotto il tappo. In Ho sposato una strega, quel delizioso film di tanti anni fa, sotto il tappo stava chiuso in vuoto d’aria uno stregone.

 «Praticamente detesto ogni tipo di attività ginnico-atletico-sportiva». Qui la mia bisbeticheria raggiunge vertici stellari. Farei lo sgambetto a quelli che succinti corrono dieci volte attorno a un isolato; ruberei il borsone con scritte bluastre alle mie coetanee che vanno in palestra sperando chissà che; se avessi avuto un figlio, e quello avesse mostrato passione per qualunque tipo di sport, non avrei potuto certo contrastarlo per democrazia e illuminismo genitoriale, ma francamente ne sarei stata molto addolorata, come se si fosse ritirato nella Trappa.

 «Sono decenni che non sgrano piselli». Ma era divertente, e molto piacevole, sentire la fresca rotondità verde (torna indietro alle verdità animaliste). E poi è un’operazione che nel ricordo è legata alla mia mamma amatissima: cose fatte insieme, ridendo, chiacchierando, felici di stare insieme nella stessa stanza a fare una cosa qualunque. Il sacro si annida in ogni luogo. Morto chi ha dovuto morire, si dissacri l’ortaggio in una lattina.

 «Non ho mai osato spegnere una candela con due dita bagnate». E’ una cosa che mi fa proprio schifo. E poi non può essere vero che non fa male, la piuma, la foglia, il gagliardetto flamboyant, mentre muore.

 Grazie della conversazione, Ennio, «parlatorio confidenziale in cui qualcuno parli a qualcuno».

 Grazie soprattutto a te e al tuo libro.

 

APPENDICE: DA ” RETTANGOLI IN CERCA DI UN PI GRECO”

Rettangoli De Pietro

 

 

*

La perfettissima madre

Da lei accompagna i cani chiusi fuori,
i gatti che alla porta
aspettano, alla figlia dei suoi amori,
al suo sguardo che ascolta
fole di volpi, di rane racconta,
leggende di castori.

Così era mia madre, Carla occhi di nebbia.

*

Di spalle

Rapido è il giro del sole. In istanti
pochi si sposta sul tavolo la linea d’ombra
in progresso che anticipa gli esitanti
progressi di tramonto contro l’ora che sgombra.

È mia abitudine seguire sul campo di gioco del tavolo della cucina, che è molto
accostato alla finestra, progrediente e regrediente con il ciclo delle stagioni la linea
di sole e d’ombra, la sua carriera di conquista e perdita a cadenza lentissima del
territorio strategico del tavolo di cucina. È come giocare coi soldatini, Washington,
Kutuzov, Napoleone nel loro quartier generale; i maschi lo fanno da piccoli, le
femmine da grandi.

*

Il velo

Amante e amato nebbia traslucente
disgiunge, e quella cosa non è cosa,
né corpo. Come il velo di una sposa
resta alle spalle, muda di serpente.

Solo un messaggero in ritardo, un sonnifero frainteso spezzano irreparabilmente
il giovane arco dell’amore di Romeo e Giulietta? Non credo. Se andate in gita
domenicale nella bella Verona guardate quanto è distante il selciato della corte
dal balcone, guardate come non esiste il rampicante che fu scala al funambolo,
guardate come l’aria d’Adige soffia foschia. Guardate.

*

La schermante

Aspetta il tempo, come se non fosse
tempo quello che passa nei ritardi
– così un nastro nel lino. E se la tosse
che scoppia nelle canne i suoi petardi
non fosse il suo respiro, ma percosse
di tamburi a una festa fra stendardi.

Scherzare sopra la mia tosse è quasi obbligatoria pratica di fumatrice.
Scherzare sopra il tempo è pratica quasi obbligatoria.
Scherzare
– schermare.

*

Tecnofagia

La casta madre senza fame becca
la curvatura esatta delle uova
voltata senza grinza e senza pecca.
La tavola è la paglia della cova.

Le galline mi terrorizzano. Credo fermamente che siano l’incarnazione di
Satana che, protruse in parto immondo due luride zampe a croste di serpente
scabbioso, se ne va urlando stupido e cattivo e dà di becco nelle ferite delle
compagne di pollaio e in tutte le porcate catarrose che il suo occhio feroce trova in
terra; né si astiene dalla sua propria figliolanza, sbranando crudo dentro l’ipotesi
perfetta di dio il saporoso tuorlo di sé stesso.
Dico questo anche a nome di tutti i gatti neri del creato.

*

La quinta aperta

Ma tu che nei cassoni hai chiuso il vento,
non metterti paura se i pavoni,
se il vetro, se le spade, se i cicloni,
se dai coperchi aperti scappa il vento.

Disse il vento alla foglia: “Non sono io che ti porto, è la tua vela fragile, la sua
tela leggera. E il luogo in cui ti fermerai non sarà fatto di vento, sarà una casa
piccola, la tua piccola casa di cenere”.
Rispose al vento la foglia: “Vieni con me, qualunque sia il tuo fare e il tuo non
fare, perché cadendo io non mi faccia male. E pensa tu alla cenere: io non potrò
più farlo. Falla volare, portala, di casa in casa in ogni strada, fino all’estrema
cortesia di una soglia”.

*

La fisica della caduta dei gravi,
ovvero
La creazione progressiva di dio

Ti prende come cadi telo teso
fra i pali che drizzarono maestranze
al soldo del gran re delle distanze,
delle altezze, dei termini, e del peso.

Quando a decine si precipitarono giù a capofitto dalle Twin Towers legione
di dèi minori di tutti i miti e di tutti i riti si precipitò, con una certa calma, a
squadernare per ciascun cadente, tirando ai quattro angoli, teli ben tesi di tutte
le stoffe e di tutti i colori. Ma prevaleva il pizzo ad ago color del tempo (ricordi
Pelle d’asino?), e così per le belle scalee dell’aria planavano a capofitto i
paramenti sacri, le pianete, le gualdrappe, i tappeti volanti, fini e leggeri, ciascuno
treccia e frangia dell’aria, giù agli accampamenti nomadi degli stracciai.

*

Rio de la Plata

La morte argento impallidisce il fiume
(dalle terre coi sacchi porta argento).
Il fiume il mare impallidisce dentro,
argento d’aria che svuota le schiume.

Il ciclo dell’acqua è ricolmo, è rigonfio di cose solide che ininterrottamente gli
nascono, gli muoiono dentro. La più vecchia è l’argento, suo mirifico avatar
pesante, suo agghiacciato paredro.

*

L’astrologia,
ovvero
Le case scambiate

Tu non saresti più quell’astro grande
che non si vede, ma che splende certo
in altra zona di un cielo coperto
se tu, non io, ponessi le domande.

Dio non esiste, a mio parere; ne ho una certezza indiziaria, per quel che vale.
Ma esiste la parola dio, e allora ecco che subitamente si apre tutto il teatro della
storia di dio, e della sua antropologia comparata, adiuvanti tutte le presenze
e figure del cosmo; e quali presenze e figure meglio degli astri, bellezza estrema
e lontana, saranno a scambio gli attrezzisti, i mascherati servi di scena?

*

Dell’addensare

Tutta si volta al denso la manteca
da fuoco e forza per sparse materie
dentro una norma dura, alta temperie
vittoria sopra la pausa che spreca.

Manteca è una di quelle parole spagnole – come ventana, madrugada,
tienda de ultramarinos, che pare vadano a cavallo, cappello piumato, in un
vento di vaste pianure.
Dirle, scriverle, è entusiasmante, con la gratitudine di chi sia stato ammesso ad
un verdadero diwan d’Occidente dove è la riva dell’Oceano Mare.

*

Ombre cinesi

Vòltati. Di qua cresce bene l’ombra.
Non troppo sole, non troppa acqua,
l’innaffiatoio è di zinco verde e lacca
cinese, di Shangai, con chiodi d’ambra.

Mi piace poco la forma cinese, forse anche perché ormai irreparabilmente
banalizzata dalla cineseria, da quella nobile delle belle porcellane e terraglie
settecentesche all’esecranda paccottiglia per turisti stanziali. Pure vedo anch’io
che un suo fascino ce l’ha; ad ogni modo qui, per non deflettere troppo dal mio
dichiarato gusto dominante, non lo tengo per me, e ne faccio esortazione e dono,
a chi lo vuole, cineseria di cortesia.

*

La granata

Non maggiore di un astro, non minore
di un ovetto di ghiaia, ma di quel calmo
giusto circuito che sta dentro il palmo
di una mano è la granata dell’amore.

Millantato equilibrio. Dalla coppa da champagne al vulcano Etna tutte le
misure sono ammesse.

*

Aerostatica dei fluidi

Una zanzara centifolia irrompe la spina
contro la spina del sangue e calma le scale
montanti per la minuta furia elicoidale
dalla cannula infusa da una ciliegia corvina.

Questa zanzara alchimista e molto paludata mi fa più paura di quanto
normalmente dovrebbe una zanzara. Una volta colpivano solo di notte. Ora, da
qualche anno avendo esteso l’attività alle ore diurne, hanno perso buona parte
della loro aura gotica e corvina; a questa mia zanzara di passo e di quartina
l’ho reintegrata io, in omaggio all’aura e al buon tempo antico. E, couturière
tassidermista, l’ho abbigliata centifolia, mostro natural-artificiale da margraviale
wunderkammer.

*

Autocombustione

Lacca bruciata. Luna è una caldaia
cava, rame brunito, che bollente
raggrinza e strina la placca lucente
tutta che gira, compaia o scompaia.

Quando la luna è gialla caramellata ha un buon sapore dolce e appena appena
di bruciaticcio. Allora la grande stella che sempre l’accompagna girandole attorno
da una parte e dall’altra (non so se sia Espero-Lucifero, ma diciamo che lo è
perché così ci piace) quasi non la riconosce, tanto cambiata dal comune candore
condiviso, e quasi non si azzarda a dirle – luna.

* I testi sono ripresi da: https://antoniobux.wordpress.com/2015/01/19/annamaria-de-pietro-rettangoli-in-cerca-di-un-pi-greco-il-primo-libro-delle-quartine-marco-saya-edizioni-milano-2014/

rettangolo De Pietro

* Aggiungo La veste varie volte richiamata durante l’intervista:

La veste

Non vada cinta della veste sciatta
buona articolazione d’ossi e vene –
ne segua augusta veste le serene
corrispondenze per misura esatta.

Credo che questa sia una ‘dichiarazione di poetica’.

*

Annamaria De Pietro è nata a Napoli, dove ha vissuto fino all’adolescenza, da padre napoletano e madre lombarda. Vive da tempo a Milano. Ha cominciato a scrivere non occasionalmente, ma sempre, in età matura. La sua prima pubblicazione in versi risale al 1997: Il nodo nell’inventario (Dominioni Editore, Como 1997). Sono seguiti Dubbi a Flora (Edizioni La Copia, Siena 2000), La madrevite (Manni, Lecce 2000), Venti fusioni a cera persa (Manni, Lecce 2002). Nel 2005 pubblica un libro in napoletano, Si vuo’ ‘o ciardino (Book Editore, 2005), col quale paga il suo tributo alla città d’origine, poco amata, mai più visitata. Nell’ottobre del 2012 esce Magdeburgo in Ratisbona (Milanocosa Edizioni, Milano, 2012). Rettangoli in cerca di un Pi Greco – Il primo libro delle quartine (Marco Saya Edizioni, 2015) è la sua ultima pubblicazione.

15 pensieri su “Intervista (2) a Annamaria De Pietro

  1. Quartine estreme quasi haiku italiani:
    gioca l’esordio con le dieci dita
    e traccia i grafemi della vita
    fra presenti incuranti del domani.

    Sorpreso e ilare, attento qui rimani
    catturato da molle calamita,
    musica e rima fan nuova fiorita
    nella perizia antica d’artigiani.

    Ondeggia il cuore fra l’essere e il fare
    nel battere e levare del suo metro,
    talvolta scherza o ironico nasconde

    ciò che altrimenti il verso fa brillare.
    Che sia scoperto il senso o che stia dietro
    coglilo nelle sue danze gioconde.

  2. L’immagine posta a commento, in parte smentita dalle cineserie di Ombre cinesi, trova ragione d’essere se pensiamo alla procedura dell’I Ching: prima il responso, la poesia, poi il commento, altra poesia. Ma la cosa che apprezzo particolarmente è l’autosufficienza dell’autrice che così facendo vanifica la necessità di ulteriori e dotti commentari. A questa scelta s’affianca bene l’iniziativa di Ennio a chiedere all’autore di farsi artefice di ogni cosa lo riguardi, vincendo il pudore di apparire vanitoso se non ingenuo, cosa a cui sembra averci abituato certa critica che si giustifica sostenendo che l’artista si è già ben espresso nella sua opera. A parer mio è così che gli artisti hanno progressivamente perso coraggio e hanno finito con porsi in sudditanza, al punto di dare per scontato che le proprie fatiche debbano essere precedute da l’introduzione di un’estraneo, sia pure esso un genio. Se vai a teatro o vedere un film a nessuno viene in mente che debba servire una presentazione; a meno che si pensi che il pubblico sia composto sempre e soltanto da allocchi, cosa in parte vera per quel che riguarda il mercato delle arti visive dove il collezionista (allocco) si muove per interesse solo se il costo va oltre i diecimila euro almeno.
    Le poesie di Annamaria Di Pietro mi sono piaciute molto. Intrattiene piacevolmente la sua brillante intelligenza, il modo e la capacità di osservare, senza sentimentalismi e per nulla moraleggiante; che un po’ mi fa pensare alla Szymborska, a quel tipo di testa voglio dire, che sorridendo non sfugge e rimedia come può a dolori e sofferenze.

  3. …mi piace davvero molto la poesia-prosa di Annamaria De Pietro, imbrigliata e sciolta nello stesso tempo…e non ha lei bisogno di gerarchie, poiché dal suo punto di vista “tuot se tien” e sa entrare all’apice di tutto quanto esplora e vive. Può presentarsi vaporosa, turgida e persino ilare: nella poesia “Tecnofagia” alle demoniache galline fanno fronte schiere di gatti neri, immagino con tanto di gobbe ( in realtà tragica, gli animali sono serissimi, ma alla lettura la reazione immediata è una risata liberatoria)… Vede anche le cose capovolte, scompone le forme, è innovatrice e dissacrante…
    Scusa la domanda: ce l’hai anche con le oche? Giusto per saperlo, in quanto l’oca…telli

  4. Ogni poesia è un colpo di lancia, e ogni commento anche lo è. Ogni parola è un nuovo elemento, non è referente, è nuova realtà “quella cosa non è cosa,/né corpo”, è schermo, che i gatti neri impersonano, è trasparenza e consistenza in variazioni di leggi fisiche, i luoghi e la materia sono fissati solo da immagini-parole, queste sì “augusta veste”, ma essi luoghi, astri storie e sentimenti, sono solo, in sintesi, finezza pensante.

  5. Ringrazio caldamente e assai Luciano Aguzzi, Mayoor, Annamaria Locatelli, Cristiana Fischer delle loro lusinghiere note ai miei “Rettangoli”.

    Ad Annamaria Locatelli rispondo circa lo scottante quesito dell’oca. Verso la quale le mie sensazioni sono ambivalenti: in parte colei partecipa della piacevolezza dell’anatra, in parte, e questo è un problema, partecipa con il suo lungo collo flessibile della spiacevolezza ancestrale del serpente, della superbia minacciosa del cigno. E’ inoltre bestia aggressiva e mordace.
    Ma – quando paranomasticamente si acquatta come fra canne fluviali nel cognome di Annamaria Locatelli (nel nome mi ritrovo io), ecco che l’ambivalenza scompare, e via il serpente, e via il cigno. Resta l’anatra, placida canoa.

  6. …grazie, grazie Annamaria De Petro: sentivo giusto il bisogno di galleggiare, quale placida canoa, fra canne fluviali…

    1. E non solo galleggiare! È di ieri mattina sul “Corriere della Sera” una notizia sulle anatre – (facciamo L’onatrelli?) -, deliziosa e pazza da Londra: accanto ad una pista ciclabile – si vede di sguincio una bicicletta -, è stata costruita una pista pedonale per anatre, che, bellissime, in fila, panciute, e pennute, se ne vanno a spasso. Se mi fosse possibile invierei la foto dal “Corsera”.
      In tanto disastro di ieri e di oggi di accadimenti – e di notizie lette -, l’unica che abbia portato un sorriso (ma ‘sti londinesi…).

  7. La gallina ti strizzò l’occhio
    aveva fatto il tuo uovo
    ma tu scambiasti l’uovo
    con un ghigno
    L’inferno delle galline
    è un paradiso incompreso

    L’anatra se ne sbatte
    nel lago a testa in giù
    mostra il pennuto culo
    a chi non sa come si fa
    la vita galleggiando
    galleggiando.

  8. Gentile AM De Pietro, ho letto con vivo interesse i suoi testi e l’intervista con E.A. Al giudizio di gusto – che si può esprimere nel banale “ mi piacciono “ – vorrei aggiungere qualche osservazione più specifica. Ma per completare il primo le dirò che i testi i preferiti sono: Il velo, Autocombustione, La vesta ( si, è una poetica ). Il tratto comune di essi – e nello stesso tempo quello che rappresenta la loro “quidditas “ ( direbbe Tomaso d’Aquino ) – si presenta , a mio giudizio, come rivisitazione di tre aspetti dell’esperienza poetica ( magari uno di più o uno di meno, ma non è questione di numeri ). Preferisco “ rivisitazione “ al malevolo
    “ recupero” che fa pensare ad un rovistare tra rottami o ruderi mentre lei, credo, va cercando – con determinazione, autonomia e originalità – tra i reperti di una qualche disconosciuta nobiltà.
    Faccio dei nomi, a caso: rima, comunicabilità, pensiero ( memoria, dunque ). Non ci sono approssimazioni nel suo modo di scrivere. Certo, è una scrittura che è facile accusare di
    “ manierismo “ ma – se si tolgono le etichette che sono slogan – il discorso diventa più complicato imponendo una sorta di verifica del mezzo al fine. Se c’è un’esperienza umana entro la quale il fine giustifica i mezzi, questa è – mi pare – la poesia che è “ una maniera un po’ particolare “ di esprimersi. La poesia si alimenta di ossimori che diventano realizzazioni concrete nel “ fare poesia “. Il piegarsi liberamente ad una disciplina ( ecco la moralità delle arti ) è uno di questi.
    Vorrei congedarmi parlandole di Andorra La Vella . La visitai moltissimi anni fa quando giravo in lungo e in largo per la Francia, anch’io preso e dalla sua cultura e dalla sua campagna. Non è un gran che, ma il “ viaggio verso… “ è delizioso. Dalla- per me suggestiva – cittadina di Foix ( a sud di Toulouse ) si sale in breve al Passo di Envalira. Sul pascolo alpino, di prima mattina, io – che non avevo mai “ avuto il coraggio “ di assistere ai due parti di mia moglie – ho visto nascere un vitellino. Non le pare un bell’ “ argomento “ per una sua poesia/pensiero. ? Con viva cordialità. Giorgio Mannacio.

  9. Grazie, semplicemente grazie: ad Annamaria De Pietro per la sua poesia e a Poliscritture perché dà spazio (non solo con questa bellissima intervista) ad un’autrice di tale, altissimo livello.

  10. Una nuova salva di caldissimi ringraziamenti, ad Anna Cascella Luciani, ad Emilia Banfi, a Giorgio Mannacio, ad Antonio Devicienti. Davvero grazie. E’ molto più di quanto potessi sperare.
    E poi mi piace assai che lungo questa squisita sequenza di commenti, senza volere, forse per uno di quei casi che rendono un po’ migliore il mondo si è declinato a piccoli passi un piccolo bestiario, a botta e risposta, preso e rilanciato, come per un segreto accordo. E così davanti agli occhi di chi legge sfilano gatti neri, galline, oche, anatre (che a Londra sfilano davvero sulla loro pista anatroccola), serpenti, cigni, e da ultimo un vitellino appena nato su un pascolo di Andorra. Ne sono incantata.
    Ai versi divertenti e luciferini di Emilia Banfi desidero rispondere, per tener vivo il bestiario, con due vecchi testi tratti dal mio penultimo libro (“Magdeburgo in Ratisbona”, Milanocosa Edizioni 2012), uno per le galline e uno per le anatre. Ma li dedico anche a tutti gli altri.

    Circumnavigazione di una gallina

    Vedi che incede a vela il galeone
    della rollante avventata gallina
    che senza scopo e rotta, e non sapendo
    da quale porto mosse, e quale il prima,
    e quale il dopo e la cala al suo viaggio,
    a scatti brevi guarda, e frigge, e scuote
    la scheggiata orifiamma, da coraggio
    senza pensiero in strida reincrudendo.
    Imita forse, alle volte, e alle ruote,
    l’incauto gran pavese del pavone?

    Il bilanciere

    Quando alla mezzanotte dell’ultimo del mese
    si passano le stanze a voltare i lunari
    di un giro equilibrista che alle lastre dei muri
    oppone rinnegando nel rovescio i contrari
    della sequenza a piombo, e nei muri la inchioda,
    e lo spazio del tempo preme e fa oscuro il volto
    che avanzò chiaramente tutto un tempo allo spazio
    – questo tu vedi uguale per passaggi sicuri
    quando in lago o fontana scarmigliando l’arazzo
    le anitre circensi sospendono alla coda
    il bilanciere grave del corpo capovolto.

  11. …ancora del bestiario, la lucertola

    Che i pennuti e i pelosi si azzuffino pure
    lei, lucente spilla del rugoso muretto,
    attizzava al sole l’attillata calzamaglia,
    sua verde lanternina,
    e beava defilata dal mondo chiassoso…
    Un nonnulla sulla vigile coda
    e lei, timida dinosaura,
    spariva nella preistoria

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