Palmira

palmira 2

di Piergiorgio Siena

Una strada che taglia il deserto
dritta, infinita, nera,
ai lati terre arse, di cera
e sparse tende di beduini.
Intorno giocano bambini
e donne su un braciere di rame
cuociono tonde pile di pane.
Tra gli sparuti arbusti
un cane rincorre una ragazza scalza
e un vento caldo che rapido s’aggira
crea un vortice che serpeggia, s’alza,
li avvolge, li scuote e si disperde.
Poi, dallo sfondo vedo avanzare una macchia verde
un sospirato sogno nell’umida calura.
E d’improvviso ti inonda l’emozione
delle mille colonne, di rosate mura
pulite come in una scena di cartone.
Sono le pietre splendenti di Palmira.

1.

Nota dell’autore

Ciao Ennio,
sono molto colpito da ciò che sta succedendo a Palmira. Quando facevo i miei viaggi ero solito riproporre l’emozione provata scrivendo dei brevi commenti a ricordo del viaggio in una forma che pur non essendo poesia (non sono un poeta), non è nemmeno prosa ma semplicemente qualcosa che esprimeva quella mia emozione. Palmira è un sogno, ti porta all’età degli dei, ti mostra la bellezza e la grandiosità del pensiero umano espresso in pietre stupende. (Un’emozione simile me la diede il Nemrut Dagi), e pensare che possa essere distrutta mi fa veramente star male.

Ti mando quel mio breve “ricordo” . Se lo ritieni adeguato puoi metterlo sul sito di Poliscritture Con grande stima e simpatia,

Giorgio

2. Nota di E. A.

Non sono un viaggiatore, non ho mai visitato Palmira né altri luoghi che contengono meraviglie del mondo. Diffido dello sguardo da turista. Più ancora diffido della retorica sui patrimoni dell’umanità stabiliti dall’Unesco. So che in Siria c’è una guerra terribile da anni, della quale ci arrivano  poche e indecifrabili notizie. So che su questa guerra, come su altre, non ci emozioniamo più di tanto e, quel che è peggio, non ragioniamo più di tanto. E tuttavia  pubblico  volentieri questo “ricordo” di Palmira inviatomi da Piergiorgio Siena. E per aprire una discussione, aggiungo alla sua emozione una riflessione di S.Freud, raccolta oggi  casualmente visitando un blog, e rimando anche ad una lettura di un saggio di Raffaele Alberto Ventura, Magnifici bersagli. Sul destino dell’opera d’arte nel tempo della guerra totale, apparso il 9 marzo 2015 su LE PAROLE E LE COSE.[E. A.]3. S. Freud

 Sfiorisci bel fiore

“Non molto tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso e di un poeta già famoso nonostante la sua giovine età, feci una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato o potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato.
Sappiamo che da un simile precipitare nella transitorietà di tutto ciò che è perfetto possono derivare due diversi moti dell’animo. L’uno porta al doloroso tedio del mondo del giovane poeta, l’altro alla rivolta contro l’apparente dato di fatto. No! è impossibile che tutte queste meraviglie della natura e dell’arte, del mondo della nostra sensibilità e del mondo esterno, debbano veramente finire nel nulla. (…)
Ma questa esigenza di eternità è troppo chiaramente un risultato del nostro desiderio per poter pretendere ad un valore di realtà: ciò che è doloroso può pur essere vero. Io non sapevo decidermi a contestare la caducità del tutto e nemmeno a strappare un’eccezione per ciò che è bello e perfetto. Contestai perciò al poeta pessimista che la caducità del bello comporti un suo svilimento.
Al contrario, un aumento di valore! Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento ne aumenta la preziosità. Era incomprensibile, dissi, che il pensiero della caducità del bello dovesse turbare la nostra gioia al riguardo. Quanto alla bellezza della natura, essa ritorna, dopo la distruzione dell’inverno, nell’anno nuovo, e questo ritorno, in rapporto alla durata della nostra vita, lo si può dire un ritorno eterno. Nel corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata le aggiunge un nuovo incanto. (…)
Potrà venire un tempo in cui i quadri e le statue che oggi ammiriamo saranno caduti in pezzi, o una razza umana dopo di noi che non comprenderà più le opere dei nostri poeti e dei nostri pensatori, o addirittura un’epoca geologica in cui ogni cosa vivente sulla terra sarà scomparsa: il valore di tutta questa bellezza e perfezione è determinato soltanto dal suo significato per la nostra sensibilità viva, non ha quindi bisogno di sopravviverle e per questo è indipendente dalla durata temporale assoluta.
Mi pareva che queste considerazioni fossero incontestabili, ma mi accorsi che non avevo fatto alcuna impressione né sul poeta né sull’amico. Questo insuccesso mi condusse a ritenere che un forte fattore affettivo intervenisse a turbare il loro giudizio (…) L’idea che quella bellezza fosse effimera faceva presentire ai due esseri sensibili il lutto per la sua fine, e poiché l’anima rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso, essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della sua caducità.
Per lo psicologo il lutto è un grande enigma, uno di quei fenomeni che non si possono spiegare ma ai quali si riconducono altre cose oscure. Noi ci rappresentiamo di possedere una certa quantità di capacità d’amare – che chiamiamo libido – la quale agli inizi dello sviluppo è rivolta al proprio Io. In seguito, ma in realtà molto presto, la libido si distoglie dall’Io per rivolgersi agli oggetti, che noi in tal modo, per così dire, accogliamo nel nostro Io. Se gli oggetti sono distrutti o vanno perduti per noi, la nostra capacità di amare (la libido) ritorna libera. Può prendersi altri oggetti come sostituti o tornare temporaneamente all’Io. Ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso non lo comprendiamo.”

(Sigmund Freud – da «Caducità», in “Saggi sull’arte, la letteratura, il linguaggio” -Da http://francosenia.blogspot.it/2015/05/sfiorisci-bel-fiore.html)

4.
Magnifici bersagli. Sul destino dell’opera d’arte nel tempo della guerra totale
di Raffaele Alberto Ventura > qui
 

 

26 pensieri su “Palmira

  1. La “poesia” di Piergiorgio Siena mi piace, pur nella sua evidente struttura di appunti messi in fila e in sequenza (tre sequenze).

    Il giovane poeta menzionato da Freud mi fa pensare a Leopardi, che sullo stesso argomento ha detto cose ben più radicali e profonde di quelle di Freud. In particolare, del brano di Freud riportato, mi sembra piuttosto inadeguata l’osservazione sulla libido e sul lutto [«Se gli oggetti sono distrutti o vanno perduti per noi, la nostra capacità di amare (la libido) ritorna libera. Può prendersi altri oggetti come sostituti o tornare temporaneamente all’Io. Ma perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso non lo comprendiamo»].
    La libido torna libera? L’esperienza, la ragione, l’analisi della coscienza ci dicono che non torna affatto libera, ma che il processo di liberazione è difficile, a volte impossibile. Forse il lutto è proprio questo processo di liberazione, che a volta dura poco (ma allora c’è da dubitare sulla verità e intensità dell’amore), a volta dura molto, a volte non termina mai. Il lutto, in realtà, è sempre un processo di “ristrutturazione” del proprio io, della propria esistenza, in modo che si possa continuare anche nell’assenza delle persone e delle cose amate perdute. Non sempre, per età e per proprie caratteristiche, si ha l’elasticità sufficiente per affrontare questa “ristrutturazione”. Allora può diventare più facile, e talvolta anche più piacevole, sostituire l’assenza con la “presenza dell’assenza”, con un ricordo che è attivo, che è più di un semplice ricordo; una presenza che riempie, ma che può anche ossessionare.

    Sul corso (e ricorso) del farsi e del distruggersi di tutto, ho scritto tempo
    tempo fa questi (quasi) versi intitolati «Primo gennaio», con riferimento simbolico al ciclo degli anni. Mi sembra che c’entri qualcosa con l’argomento (si allude al distacco e alla fuoriuscita dal tempo, come punto di vista per osservare il tempo, per esserci dentro e insieme fuori).

    PRIMO GENNAIO
    Fratto come un’acqua senza pozzo,
    luce di sole nella notte piena,
    buio di notte in pieno mezzogiorno.
    Giro, ci giro attorno,
    percorro il ghirigoro.
    Ecco, intravvedo il labirinto d’oro
    con gli strani animali di contorno.
    E in questo mitologico sogno
    perdersi è meglio che trovarsi,
    disfarsi più saggio che farsi,
    e pazienza se il farsi e il disfarsi è un eterno bisogno.
    Un correre parallelo lungo il muro di cinta
    dove la vita nostra è racchiusa e dipinta,
    mentre di altri mondi, di altri universi
    e di mill’altre dimensioni trovate e perse,
    non riusciamo a percorrere un solo millimetro
    perché l’eterno pensiero senza tempo corre
    e senza spazio arriva dove chissà chi chissà come,
    dove chissà quando deve arrivare.
    Ma arrivi pure se deve arrivare
    e qui o altrove arrivi. L’attendo al varco,
    io, l’attendo. E la speranza vana,
    l’inutile toccasana dell’allegria della fiera
    diventerà nel mio arco
    corda tesa che lega, corda che stringe
    l’alba e la sera, che la speranza costringe
    e manifesta, non più vana o funesta,
    non più inutile attesa. Oltre l’ansa
    lenta d’ogni tempo, oltre ogni costanza
    e misura dell’eterna distanza,
    oltre ogni luce e oltre ogni buio,
    permane la mia osservanza. E ciò che il tempo
    consuma risorge e risorgendo è pronto
    per un eterno consumo che non distrugge.
    Qui ed ora. Questo è l’augurio.
    Che tutta in te l’osservanza, la forza e il coraggio
    di non perdere ciò che si perde, sempre sia.
    Non perdere ciò che perdere è bello
    e bello è poi ritrovare e così via per sempre.

  2. Giusto portare l’attenzione su Palmira anche solo attraverso “l’emozione provata scrivendo dei brevi commenti a ricordo del viaggio” che Piergiorgio Siena ha fatto in quei luoghi.
    Rigorosissimi e inappuntabili i primi cinque capoversi di Sigmund Freud che Ennio Abate opportunamente pone a commento. Poi però la chiaroveggente lucidità del fondatore della psicanalisi sembra appannarsi: …”ma mi accorsi che non avevo fatto alcuna impressione né sul poeta né sull’amico”… Calma e pazienza professor Freud! Non si può pretendere di vedere immediatamente impresse nell’animo altrui le impronte di un così profondo e lungimirante ragionare. Molto più bello e naturale sarebbe stato continuare a passeggiare lasciando che le parole dette facessero, secondo i loro tempi, il loro lavoro. E così le oscurità dei lutti e della libido sarebbero cadute giustamente nel vuoto.

  3. …noi umani ci affezioniamo davvero a tutto, persino a delle immagini ricorrenti…se nel percorso dalla metro a casa, scomparisse la scuola elementare, legata a ricordi poichè mia figlia bambina l’ha frequentata, un “piccolo” vuoto si verrebbe a creare dentro di me, così penso se scomparisse Palmira, a parte che sarà stata sede di re e di sultani, a parte la delusione dei cultori d’arte e dei turisti, mancherebbe anche ai beduini delle tende, ai bambini che vi giocano attorno, alle donne che cuociono il pane…Gli occhi di ogni nuova generazione reinventano le opere d’arte, così credo che le piramidi non sono più dei faraoni d’Egitto…Ma a parte come siamo, trovo molto vero quello che dice Freud: la caducità della bellezza ne esalta la rarità quindi ancora la bellezza (intendo anche quella degli affetti, ma qui mi ritrovo con quanto dice nella sua bella poesia Luciano Aguzzi, la rielaborazione de lutto è complicata…). Ammiro molto lo spirito con cui viene realizzato il mandala orientale, un cerchio di sabbie a disegni geometrici coloratissimi, che poi viene esposto al vento perchè venga distrutto…anche il granito delle piramidi non resisterà al vento del tempo, o alla ferocia degli uomini…tanto più noi

  4. Sì, ma un conto è la caducità delle cose e un altro è distruggerle. Noi europei siamo portati a interrogarci sulle nostre colpe prima ancora di reagire, chissà se per condizionamenti religiosi o per antica filosofia. Nel mentre questi pazzi dell’isis decidono per noi, per ciascuno di noi, quel che vale o non vale niente…

  5. La distruzione intenzionale di simboli culturali si accompagna agli stupri etnici (in Bosnia) alla schiavitù delle donne yazide, all’impedire la scolarità femminile da parte dei talebani, al rapimento delle studentesse di boko haram: si tratta di ripulire una terra dai suoi abitanti, nell’identità storica e generativa.
    E’ un tratto costante delle guerre di conquista: durante l’assedio di Montecassino il generale francese Juin concesse ai soldati marocchini e algerini libertà di stupro e saccheggio.
    R. A. Ventura nel saggio su Le parole e le cose attacca l’astrattezza delle posizioni ONU sulla tutela dei beni culturali: la pretesa di tenere i monumenti fuori dalla guerra in nome dell’universalità e atemporalita dell’arte rivela le pretese proprietarie occidentali sul campo dell’arte stessa.
    Ventura schernisce questa idea “neutrale” dell’arte-patrimonio dell’umanità, quello che non gli riesce di scoprire, in tale neutralità, è il nesso tutto sessuato tra storia e gens, tra passato e generazione, tra protezione di monumenti e di donne, tra distruzione di cultura e stupri.
    Quanto alla riflessione di Freud, sia la caducità della bellezza sia il lutto (come conservazione del passato) si collegano a un “incomprensibile” dolore per il distacco della libido dai suoi oggetti. In quegli anni la separazione tra mondo privato-femminile e mondo pubblico-maschile veniva erosa, basta pensare a Una stanza tutta per sè, del 1929.
    Lutto per la perdita di un mondo oscuro e affettivo in cui radicare l’inconscio, produttore di arte e bellezza? Può ben darsi.

  6. Ciao Ennio
    Certo, Palmira è luogo della storia, dell’arte e della memoria e anche luogo di morte e sofferenza per migliaia di persone. Si tratta di due piani diversi, due mondi che vanno considerati contemporaneamente e il sentimento verso l’uno non preclude la considerazione verso l’altro.
    Palmira, come ogni luogo antico, come ogni pietra del passato non è solo un banale luogo turistico, ma è un simbolo e segna un passaggio dell’evoluzione umana. Distruggere antichi reperti storici ha la stessa valenza della distruzione di libri o biblioteche, equivale alla cancellazione di un elemento che contrassegna l’evoluzione della cultura e uno sfregio alla civiltà umana. E non lo dico perché a Palmira più o meno direttamente è collegata la nostra civiltà (così mi dicevano proprio dei ragazzi siriani con i quali avevo discusso. Una considerazione, del resto, assolutamente vera). Lo dico anche per un semplice oggetto dell’artigianato Inuit.
    E’ vero, dietro ogni tappa puoi vedere dittature, guerre, violenze, sofferenze ed è giusto considerare le une e le altre, ma la vita è entrambe le cose. Al di fuori di una considerazione complessiva tutto diventa incomprensibile, inutile e superfluo e porta al Qohelet biblico: tutto è vanità. C’è del vero ovviamente ma, come dice Calvino, nel profondo dell’inferno occorre cercare ciò che inferno non è.
    Quanto dice Freud è anche vero, tra persone e cose si crea spesso un legame affettivo, una libido che non ha basi razionali ma è un derivato della nostra natura umana e poiché siamo “umani” sentiamo il disagio della rottura di un legame esistente.
    Anche Ventura fa considerazioni che paiono provenire da un robot dove ogni aspetto è soppesato e valutato in termini razionali: i patrimoni artistici e culturali sono un segno dell’esercizio di un potere? Il museo del mondo è un lungo corridoio silenzioso? Mah, mi lascia perplesso. Personalmente confronto ogni luogo visto o semplicemente studiato con il mio bagaglio culturale che sarà anche limitato ma mi consente di apprezzare molte cose del mondo.
    Con stima
    Giorgio

    1. “Si tratta di due piani diversi, due mondi che vanno considerati contemporaneamente e il sentimento verso l’uno non preclude la considerazione verso l’altro.[…]E’ vero, dietro ogni tappa puoi vedere dittature, guerre, violenze, sofferenze ed è giusto considerare le une e le altre, ma la vita è entrambe le cose. Al di fuori di una considerazione complessiva tutto diventa incomprensibile, inutile e superfluo e porta al Qohelet biblico: tutto è vanità.” (Giorgio)

      Non lo dico per provocazione, ma non sono mai riuscito a capire come si fa a considerare “contemporaneamente” i due piani diversi o i due mondi (diciamo in questo caso Palmira come bellezza e Palmira come strage o morte) se essi sono in conflitto tra loro. Si può trascurare questo conflitto? Lo si può ridimensionare? O assolutizzare arrivando a Qohelet?
      Una volta c’era la dialettica che pareva potesse raggiungere una rasserenante “considerazione complessiva” capace di tenere conto sia del conflitto sia di una sua definitiva risoluzione. Ma oggi?

      1. No, non si può e non si deve trascurare il conflitto, ma è un fatto che questa è, pare a me, una norma generale che appartiene alla vita. Occorre giungere ad una “supersimmetria”, come direbbe un fisico, che tutto ricomprende, poiché il bene ed il male, la verità e la menzogna sono legate tra loro come facce di una stessa medaglia. L’universo è nato da una rottura tra particelle che sono positive e negative, se fai una cattedrale di marmo distruggi una montagna, un eroe osannato, altrove è vituperato . Quale pesi userà Dio per la sua bilancia?
        Giorgio

  7. OSSERVAZIONI SU PALMIRA.
    1.
    Nell’anno 39 a.c la Biblioteca di Alessandria d’Egitto, la più grande dell’ antichità e che raccolse nel momento del proprio maggior splendore circa 700.000 volumi fu incendiata durante l’assedio posto a tale città da Giulio Cesare.
    La Biblioteca fu definitivamente distrutta intorno al 390 d.c, pare in esecuzione di un Decreto di Teodosio I ostile alla cultura paganeggiante che essa rappresentava.
    Nell’anno 726 d.c l’imperatore Leone III l’Isaurico ordinò la distruzione di tutte le immagini riproducenti la presunte fattezze antropomorfiche della divinità ( Movimento degli
    Iconoclasti )
    Durante i bombardamenti degli anglo-americani su Dresda furono distrutti preziosi dipinti contenuti nella Gemaldegalerie dello Staatliche Kunstsammlungen di tale città.
    Il primo e il terzo episodio ricordati possono essere in un certo senso assimilati da un tratto comune: l’affermata ineluttabilità di certe distruzioni con l’evento guerra.
    Il secondo si presenta come la conseguenza di una decisione che ha ad oggetto proprio la distruzione di opere d’arte e. dunque, sotto questo aspetto assimilabile alla distruzioni già operate dal Califfato Isis e, paventate, per quanto riguarda il sito di Palmira.
    Gli esempi dell’uno e dell’altro tipo si possono moltiplicare.
    Siamo dunque di fronte ad una sostanziale indifferenza che – in certe circostanze e date determinate condizioni – l’uomo creatore di indubbie bellezze artistiche e di tante memorie culturali dimostra verso le proprie creature lodate, osannate e protette.
    Ovviamente interessa esaminare i casi in cui la distruzione delle opere è voluta in modo diretto e consapevole e l’indifferenza si trasforma in intenzionalità.

    2.
    Gli esempi citati e gli altri che si possono formulare hanno un tratto comune. La distruzione si rivolge non verso “ la natura oggettivamente considerata “ ma verso “ manufatti “ dell’uomo, ma non dell’uomo in generale quanto piuttosto di quell’ uomo individuato come autore di quel manufatto. La distruzione di tali manufatti è la “ prosecuzione “ del processo di distruzione che un soggetto persegue verso in altro soggetto ( l’autore del manufatto ). Il distruttore in sostanza non vuole che resti traccia di colui che intende distruggere. Il distruttore non persegue il suo progetto “ senza ragione “, anzi trova sempre una giustificazione, quale che sia.
    Possono essere individuati con facilità progetti di distruzione di “ manufatti “ a prescindere da eventi bellici. Un Memoriale dei Libri bruciati ( dalla Germania nazista ) si trova nelle Bebelplatz a Berlino ed accanto vi è incisa la sentenza di Heine: “ Quando i libri vengono bruciati alla fine vengono bruciate le persone “.
    Questo detto memorabile descrive “ rovesciandolo “ il verso del nostro discorso che era partito dalla violenza sulle persone per arrivare alla violenza sui “ prodotti “ di esse, ma non ne rovescia il non poi tanto occulto fondamento che è – sempre – il disconoscimento dell’altro fino alle estreme conseguenze.
    Rientra “ tra le conseguenze “ estreme anche la distruzione dei libri, dei quadri, delle sculture, dei “ manufatti “ del nemico da sterminare? Non vi è in questa ulteriore ( o preparatoria secondo i casi ) fase un “ eccesso di barbarie “ , una assolutamente macabra mancanza di
    “ funzione “ della distruzione rispetto all’ eliminazione dell’avversario?
    Un libro, una statua, un colonnato, un’usanza culturale ostacolano la marcia degli eserciti ?
    E’ una domanda che di fronte alla deliberata distruzione dei libri, delle biblioteche, delle opere d’arte dobbiamo porci. E ciascuno risponda secondo le proprie idee e assumendosene la relative responsabilità.

    3.
    C’è un’altra domanda da porre. Perché mostriamo una così intensa preoccupazione per le sorti di Palmira e di altri simili creazioni e non per la sorte dei bambini di Palmira e delle altre località colpite dalla guerra?
    Vi è da parte nostra una sorta di cecità verso soggetti che appaiono “ innocenti “ rispetto all’evento scatenante i processi di distruzione. Ammesso in ipotesi che una certa guerra sia giusta e che sia giusto fare cessare la originaria causa di essa con la neutralizzazione totale o parziale dell’avversario ( lascio volutamente da parte la selva di problemi chge questa ipotesi solleva: ma non me li nascondo ), mi chiedo se non via sia – entro questo quadro terribile – un “ qualche innocente “. Il pensiero va ai malati negli ospedali, ai vecchi incapèaci di combattere, ai bambini. E mi chiedo se quella nostra cecità, che ho segnalato, non sia il risultato dell’oscura convinzione che “ la guerra toglie a tutti l’innocenza “ . Convinzione che alcune modalità delle guerre attuali sembra tragicamente convalidare. Anche su questo si apre un campo sterminato di riflessione. Ma – raggiunta in ipotesi l’amarissima conclusione che la guerra non conosce innocenti – non resta da osservare come gli oggetti splendenti che abbiamo saputo creare ( noi come i nostri temporanei avversari ) non hanno nè mente per concepire una strategia bellica né mani per lanciare una bomba ? E allora come “ si giustifica “ la distruzione dei libri, dei quadri, delle sculture, dei templi …..? Non c’è in questo furore – da qualunque parte venga – una sorta di negazione radicale della stessa umanità che – proprio nel momento in cui crea bellezza e cultura – si riconosce comunità disperatamente in lotta, tutta insieme, contro LA MALVAGITA’ di altri da noi? Questo atto sarebbe – per così dire – un atto non contro i vivi ma contro i morti e dunque empietà estrema.

    1. Sì, certo, estrema malvagità. Una guerra porta morte, dolore, miseria, ed è giusto e comprensibile la commiserazione, ma la distruzione di simboli di una civiltà equivale a cercare di annientare quella stessa civiltà, uccidere una madre. Si vuole azzerare la possibilità metaforica che ci sia riproduzione e discendenza. In tal senso furono distrutte Troia, Cartagine, Gerusalemme. Nel caso specifico, Palmira è nostra madre, siamo noi, legati come siamo alla sua storia totalmente ricompresa nella nostra.
      Giorgio

  8. Chiedo esplicitamente a Giorgio Mannacio: davvero non riesce a vedere che i suoi soggetti grammaticali sono soggetti neutri-universali, e che gli oggetti grammaticali del suo discorso sono oggetti sessuati?
    La frase “un ‘qualche innocente’. Il pensiero va ai malati negli ospedali, ai vecchi incapaci di combattere, ai bambini” non dovrebbe essere scomposta in malati (e malate)-vecchi (e vecchie)-bambini (e bambine) ma non funziona quando sono donne da stuprare?
    Non sto chiedendo la simmetria di sessuare ogni soggetto a prescindere, ma invece di individuare la specificità di un soggetto sessuato da offendere.
    E ancora: la “sorta di negazione radicale della stessa umanità”: quella negazione radicale non ha due significati diversi quando si uccidono i maschi e si stuprano le femmine?
    E la “comunità disperatamente in lotta, tutta insieme” lo è allo stesso modo disperato tra uomini combattenti e donne relegate in casa a fare figli per continuare la schiatta degli uomini combattenti?
    Davvero crede Giorgio Mannacio che i due sessi siano però un unico concetto al neutro universale maschile?

  9. Cara Cristina Fischer, c’ è una parola sola del mio testo che ti faccia pensare che esso sotto sotto contenga una discriminazione a ragione del sesso ? Il mio testo aveva un oggetto specifico: la distruzione dei monumenti ed opera d’arte in determinati contesi socio. culturali. Nulla di più o di meno. Nelle discussioni e nell’elaborazione di un pensiero cerco di attenermi al ” tema ” scelto o imposto, senza divagazioni, o meglio ramificazioni, che sono naturali nel pensiero e nell’esperienza. E’ chiaro che ” tutto si lega “,ma è chiaro anche che la discussione deve avere dei confini. Cerco anche, per onestà intellettuale, di non affrontare temi sui quali non ho o non ho ancora elaborato un mio accettabile punto di vista, allorquando l’esame di tali ramificazioni non sia essenziale allo specifico tema che tratto. Dunque i miei silenzi non debbono essere interpretati come ” giudizi impliciti di valore” su un problema piuttostio che su un altro. Chi tace – è noto – non dice nulla e dunque non può essere accusatoi di dare giudizi su cose che non ha trattato. Un cordialissimo saluto. Gioirgio M.

    1. Gentilissimo Giorgio Mannacio, avevo già fatto osservare (27/5 alle 10.29) come, insieme ai monumenti di un popolo (identità storica) si proceda a distruggerne l’identità genetica attraverso la riduzione in schiavitù sessuale delle donne.
      Evidentemente mettere in chiaro quel nesso appare di poco rilievo, e si preferisce continuare in ragionamenti spettrali su pietre e simboli, in armonia con la *frattura tra apparenza e essere* di cui dà conto Agamben-Platone nel recente SCRAP BOOK.
      Cordialmente, mi arrendo

  10. …”La guerra toglie a tutti l’innocenza”, il che mi sembra vero, quanto terribile. Le guerre di conquista, imperialiste… pochi ai vertici le decidono, ma poi tutto e tutti ne sono coinvolti e, di conseguenza, “colpevoli”: uomini che combattono, loro malgrado, bambini, donne, malati, pietre…Difficile fare una gerarchia di chi paga il prezzo più alto; la sofferenza accomuna gli innocenti. I bambini forse perchè gli è stata data la vita per essere poi in breve tolta, le donne dagli stupri e rapimenti sottomesse ai vincitori, malete-i in quanto la guerra è un chirurgo impietoso, ma anche gli uomini, se costretti a combattere, in termini di numero elevatissimo di vite umane…Che poi la guerra è da sempre più un esercizio degli uomini è vero, ma molti preferirebbero fare i contadini, gli artigiani…perciò, secondo me, al di sopra del genere sta il potere e chi lo esercita…

    1. Infatti, cara Annamaria (nella consolidata frattura tra mondo pubblico e mondo privato) chi lo esercita?

  11. @ Aguzzi

    Non contrapporrei Freud a Leopardi. Né considererei così rassicurante il suo discorso sulla libido che torna libera. Specie se teniamo conto dell’insieme della sua riflessione (e non solo di questo appunto) e dei suoi ultimi sviluppi (la teorizzazione di una pulsione di morte originaria e ben più imponente di quella erotica).
    Mi piacerebbe leggere in termini più politici la tua affermazione: «Non sempre, per età e per proprie caratteristiche, si ha l’elasticità sufficiente per affrontare questa “ristrutturazione”. Allora può diventare più facile, e talvolta anche più piacevole, sostituire l’assenza con la “presenza dell’assenza”, con un ricordo che è attivo, che è più di un semplice ricordo; una presenza che riempie, ma che può anche ossessionare», riferendola proprio alla storia da cui veniamo. Ad es., il concetto di “presenza dell’assenza” (del comunismo? della pace? della libertà-fraternità-uguaglianza?) può chiarire qualcosa in più nei nostri attuali e confusi discorsi?

    P.s.
    In «Primo gennaio» sento un bel po’ di fatalismo. Quel «correre parallelo lungo il muro di cinta/
    dove la vita nostra è racchiusa e dipinta» ci è imposto o – rassegnati – ce lo imponiamo noi stessi come unica mossa ormai possibile?

    @ Ottaviani

    Non credo che Freud (ripeto: almeno il vecchio) pretendesse di «vedere immediatamente impresse nell’animo altrui» il frutto delle sue ricerche.

    @ Locatelli

    «anche il granito delle piramidi non resisterà al vento del tempo, o alla ferocia degli uomini». E la ferocia degli uomini resisterà per sempre?

    @ mayoor

    Mi viene in mente l’idea di Schumpeter della “distruzione creatrice” (o “distruzione creativa”). Lui la riferiva al drastico processo selettivo che contraddistingue la vita delle aziende capitalistiche, per il quale molte spariscono, altre ne nascono, e altre si rafforzano. Che quel «pazzi dell’Isis» abbiano messo su una di queste aziende?

    @ Giorgio

    « Occorre giungere ad una “supersimmetria”, come direbbe un fisico, che tutto ricomprende, poiché il bene ed il male, la verità e la menzogna sono legate tra loro come facce di una stessa medaglia. L’universo è nato da una rottura tra particelle che sono positive e negative, se fai una cattedrale di marmo distruggi una montagna, un eroe osannato, altrove è vituperato . Quale pesi userà Dio per la sua bilancia?».
    Però una cosa sono gli atti di pensiero del fisico, altra la via di chi deve scegliere politicamente cosa fare non dall’esterno o al di sopra, ma *dentro il conflitto* (dentro la storia). Anche se tirarsi fuori dal conflitto o dalla storia con un atto (consapevolmente temporaneo) di pensiero o d’immaginazione potrebbe servire a intervenirvi con più chiarezza. Insomma la politica non è riducibile alla fisica, non può muoversi in una dimensione contemplativa, non può solo analizzare e osservare …

    @ Fischer

    Cara Cristiana,
    volevo inviarti in privato queste note critiche, ma poi, visto che riguardano una differente valutazione del ruolo che svolge il pensiero femminista nell’attuale crisi (per te fondamentale e innovativo, per me e forse altri/e parziale e subordinato) ritengo sia giusto parlarne da subito pubblicamente. Semmai riprendendo la questione in prossime occasioni e meno occasionalmente. E scusandomi per eventuali forzature o travisamenti.

    Nei tuoi commenti su Palmira sento qualcosa di stonato e un tono da “missionaria”, di una che – diciamo così – deve mettere il “prezzemolo del femminismo” in tutte le vivande che gli altri stanno cucinando o mangiando.
    Si parla della caducità della bellezza e della libido in Freud; e tu devi sottolineare che «in quegli anni la separazione tra mondo privato-femminile e mondo pubblico-maschile veniva erosa». Si parla di Palmira, Ventura critica l’ «idea “neutrale” dell’arte-patrimonio dell’umanità», per la sua astrattezza; e tu a rimproverargli che in quella neutralità non è capace di scoprire «il nesso tutto sessuato tra storia e gens, tra passato e generazione, tra protezione di monumenti e di donne, tra distruzione di cultura e stupri». Si parla ancora di Palmira e Mannacio fa un rispettabile discorso umanista e universalista sulla «affermata ineluttabilità di certe distruzioni con l’evento guerra», sottolinea «il non poi tanto occulto fondamento che è – sempre – il disconoscimento dell’altro fino alle estreme conseguenze»; e tu a fargli notare che il suo discorso fa solo riferimento alla «sorte dei bambini di Palmira e delle altre località colpite dalla guerra» o « ai malati negli ospedali, ai vecchi incapaci di combattere» e non alle donne.…
    Ma così appari (almeno ai miei occhi) quella che vuole mettere il riflettore esclusivamente sulle vittime donne. Può – questo è il problema che pongo – il pensiero femminista diventare monomania, non guardare in faccia l’interlocutore concreto, non tener conto del contesto in cui il discorso anche se non è “sessuato” dell’altro (di Mannacio nel caso) si sta svolgendo e magari del risultato tutto sommato accettabile che raggiunge?
    A me, in questo caso, pare del tutto fuori luogo che tu lo critichi per la sua grammatica pre-femminista («davvero non riesce a vedere che i suoi soggetti grammaticali sono soggetti neutri-universali, e che gli oggetti grammaticali del suo discorso sono oggetti sessuati?»). Perché mi chiedo: cosa aggiungerebbe di più al rammarico o alla disperazione per la distruzione di cose e persone il fatto di individuare o precisare che tal cadavere è quello di una donna e non di un uomo adulto o di un bambino o di un vecchio? O che una donna, prima di essere uccisa, sia stata anche stuprata?
    C’è, insomma, qualcosa di scolastico (intendendo per scolastico una visione ristretta a un discorso che si fa appunto in una scuola, tra persone che adottano determinati linguaggi e concetti lì d’uso corrente) nel rimproverare a Mannacio ( ma potrei essere anche io o qualcun altro/a..) che «il pensiero va ai malati negli ospedali, ai vecchi incapaci di combattere, ai bambini”» e, invece, bisognerebbe precisare che si tratta di «malati (e malate)-vecchi (e vecchie)-bambini (e bambine)».
    Aggiungi: «Non sto chiedendo la simmetria di sessuare ogni soggetto a prescindere, ma invece di individuare la specificità di un soggetto sessuato da offendere». Sembra d’intendere che la violenza contro un “soggetto sessuato”, cioè una donna sia più grave della violenza su vecchi e bambini o altro “soggetto”. Che abbia cioè una sua specificità, che lo distingua dalle altre violenze. (E da qui, credo, si è arrivati di recente ma sempre in circoli ristretti al termine di *femminicidio*…). Non lo nego. Ma mi chiedo: in tutte le situazioni questa specificità va in primo piano o deve essere, dunque, messa in primo piano? E perché? È davvero decisivo sapere quante donne siano state uccise nel bombardamento su Desdra o in quello atomico su Hiroshima e Nagasaki rispetto ai morti bambini, vecchi, ecc.? Ci sarebbero davvero «due significati diversi quando si uccidono i maschi e si stuprano le femmine»? Ma per chi? Certo per le femministe di Via Dogana. Ma, fuori dal quel contesto, che io non esito a chiamare – specialmente oggi – di scolastica femminista ( come ci furono contesti di scolastica marxista o cattolica, ecc.), a me pare una forzatura che distorce il discorso più comune e diretto che va fatto sulla violenza nella storia. Lo segmenta, lo accademizza, lo rende asfittico.
    Insomma, per me non è scontato che il linguaggio neutro o universale (cioè che non definisce la persona per sesso o per differenza culturali, religiose, ecc) *in ogni caso, in ogni circostanza* sarebbe subdolo e confermerebbe esclusivamente il primato di un «universale maschile». (E lo stesso mi sentirei di dire per il linguaggio razionale-illuministico, pur sapendo quanto esso mantenga il suo contrassegno storico “borghese” e, al momento in cui venne elaborato, non considerava l’estrema varietà antropologica e storica del genere umano…).
    Per cui a me pare del tutto corretta la risposta che ti ha dato Mannacio: «Cerco anche, per onestà intellettuale, di non affrontare temi sui quali non ho o non ho ancora elaborato un mio accettabile punto di vista, allorquando l’esame di tali ramificazioni non sia essenziale allo specifico tema che tratto. Dunque i miei silenzi non debbono essere interpretati come ” giudizi impliciti di valore”».
    In questo contesto, in questo post, tirare fuori la questione della differenza sessuale applicandola alle vittime della guerra o delle violenze dell’ISIS non ha l’importanza decisiva che tu sembri conferirle. Sì, in questo contesto «« mettere in chiaro quel nesso appare di poco rilievo». E ha ragione Annamaria Locatelli a dire che le guerre «pochi ai vertici le decidono, ma poi tutto e tutti ne sono coinvolti e, di conseguenza, “colpevoli”: uomini che combattono, loro malgrado, bambini, donne, malati, pietre…Difficile fare una gerarchia di chi paga il prezzo più alto». E sarebbe anche il caso di chiedersi che senso abbia farla. Anche perché, quando ci sono le guerre, le donne non le troviamo solo tra le vittime.

    1. Caro Ennio, è scorretto il tuo modo di riportare citazioni da Mannacio, come se io rifiutassi quei suoi argomenti. Un esempio: “e tu a fargli notare che il suo discorso fa solo riferimento alla «sorte dei bambini di Palmira e delle altre località colpite dalla guerra» o « ai malati negli ospedali, ai vecchi incapaci di combattere» e non alle donne.…”
      Ma non gli ho fatto notare nulla del genere!
      Né penso che le donne siano più vittime degli uomini, dei vecchi e delle vecchie, dei bambini e delle bambine.
      Non faccio una gara al ribasso su chi soffre di più o è più oppresso!!!
      La traduzione del femminismo in una questione di parità, e quindi di non raggiungimento della stessa, è il vero equivoco, e non è casuale, SUL femminismo.
      Credevo di avere indicato, a partire da Platone, che la cultura occidentale si fonda sulla “frattura originaria” (così la chiama Agamben) tra il mondo-di-tutti, e il mondo-non-detto, tra la politica e la casa, tra la Morte (dagli spartani a Heidegger) e la nascita.
      E’ questo che richiamo, in un modo che ti infastidisce, ma solo perché questo nostro mondo, di cui tu stesso vedi con impotenza il non-senso, può forse riparar-si se esce dall’essere il mondo dell’uno. Mondo uno di cui tu sei un buon testimone, dato che non sai o non vuoi “leggere” (ma anche leggere quello che dicono molte donne nel mondo, ma tu continui a considerare il femm una minoranza già esaurita e screditabile) che i paradossi e le contraddizioni in cui viviamo continuano proprio in grazia dell’unico Soggetto che opera e interpreta.
      Ma adesso non pretendere da me chissà che chiarimenti convincenti sulle affermazioni che faccio, come se potessi riassumere in pillole quasi cinquantanni di riflessione! Una corretta informazione è un dovere, per tutti noi.
      Ti chiedo solo di non sparare sull’obiettivo sbagliato attaccandoci sopra la mia faccia.

    2. @ Ennio Abate
      Concordo su un punto, che forse è importante, sono intervenuta troppo, su tutto. Ma non per rivendicare una superiorità di sofferenza femminile, bensì per attraversare una corrente solo maschile.
      Ventura scrive un saggio sull’idea occidentale di arte patrimonio dell’umanità da un punto di vista generale e astratto come quello che rimprovera all’ONU. Anch’egli parla di popoli, di stati, di trattati, di guerre, di terrorismo, di strategie: non c’è un solo attore e un solo pensiero che non sia maschile.
      Sul fatto che Freud abbia fondato la sua psicoanalisi sullo sviluppo del bambino, be’, due idee come la castrazione simbolica e l’invidia del pene che cosa rappresentano?
      Importa distinguere fra stupri e decapitazioni? Le uccisioni sono tutte uguali? Monumenti e stragi sono concetti neutri, e non sociali ove ci sono donne e uomini? Non ci dà una maggiore capacità di analisi, saper distinguere?
      E’ insensato il lavoro del disfieri? Se Annamaria Locatelli scrive (mi riferisco alla tua citazione nella risposta che fai a me) di un coinvolgimento di tutti negli orrori delle guerre, di fronte a cui si erge un altrettanto generico Potere, che accresciuta conoscenza offre? che possibilità di cambiamento? Ma se si capisce che l’origine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo è lo sfruttamento dell’uomo sulla donna, sul mondo della vita sempre a disposizione e mai riconosciuto, non si dà in mano una leva?
      Se io riuscissi a far riflettere qualcuno, o te, sul proprio posizionamento, quando pensano e scrivono: chi sono io che parlo? un uomo bianco occidentale in una cultura che è nata dal fra-uomini e ancora poggia sul fra-uomini. Quello che sto dicendo vale anche per le donne? o è quello che secondo me dovrebbe valere per le donne?
      Se io riuscissi a far riflettere qualcuno, o te, sul suo essere solo umanità-uomo e non umanità-donna, allora sarebbe valsa la pena di imperversare e litigare.

      Infine riporto una lunga citazione di una donna che dice queste cose molto meglio di me (e vi è un accenno che può rispondere alla tua puntura sulle donne che non sono solo tra le vittime).
      “E’ necessario ripensare libertà, umanità, convivenza, etica, politica, ossia tutte le tematiche ‘grandi’, andando oltre l’ordine ontologico bipartito sul quale si è fondata per secoli la nostra cultura occidentale. Si tratta, dunque, di riflettere muovendo da quella parte del genere umano che sono le donne. Definite e pertanto confinate nell’ordine della dipendenza, fattesi mute hanno consentito a una libertà illusoria quale malintesa contrapposizione alla dipendenza. (…)
      … ancora oggi non possiamo mai sapere con certezza se un pensatore nel dire ‘l’essere umano’, include anche me, donna, o te, africano, indiana, bambino e bambina che soffri di un disturbo mentale. Questa imprecisione del pensiero deriva dall’aver originariamente identificato i mondi esperienziali maschili, borghesi, bianchi con la presunta generalità: un’identificazione che non è mai stata scardinata. Forse non ne abbiamo ancora valutato le conseguenze in tutta la loro portata, certo è che non possono essere affrontate con la superficiale retorica della parità e men che meno ignorandole.

      L’antica Grecia, nel momento in cui ha stabilito la gerarchia tra sfere superiori, libere, e inferiori, dipendenti, ha posto le fondamenta per un’interpretazione illusoria della libertà, che tuttora ci accompagna producendo effetti distruttivi nelle grandi crisi di cui ci occupiamo oggi, soprattutto in quelle ambientali e finanziarie. Ancora oggi, per libertà si intende principalmente la *non dipendenza*. Siamo soliti distogliere lo sguardo dalla fattiva persistenza, in *ogni* persona dell’essere corpi dipendenti e bisognosi: possiamo farlo perchè intere categorie di persone, tra cui le donne, si definiscono essenzialmente in quanto funzionali alla libertà di coloro che, viceversa, sembrano vivere nel mondo per se stessi, in piena indipendenza.” Ina Pretorius, Penelope a Davos, Libreria delle Donne di Milano, 2011.

      @ Annamaria Locatelli
      Sulla parità ho già detto, e comunque sottoscrivo le parole di Ina Pretorius.
      E no, non credo a peculiarità femminili in grado di rivoluzionare il mondo, la donna non è “per natura estranea all’idea di potere che porta alla morte”, non sono più buone o sagge, ma è il potere come si è costituito che le ha escluse.
      Usciamo però da tremila anni di patriarcato in cui siamo state relegate alla cura della vita, e perciò qualche competenza intanto la abbiamo accumulata.
      Ma abbiamo anche raggiunto la conoscenza che questo “ordine simbolico bipartito” ha portato a una situazione di crisi e di distruzione generalizzata non più tollerabile, e che nella separazione tra il mondo superiore e quello inferiore, al servizio del primo, è la radice del mostruoso disordine.

  12. …mi sento rivolgere due domande…
    Da Ennio: e la ferocia degli uomini resisterà per sempre? Nella mia speranza è no, un giorno forse ci evolveremo davvero nel senso dell’umano…Ma non ho alcuna prova, anzi se devo giudicare dagli apici di ferocia che l’uomo ha manifestato il secolo scorso, con l’impiego anche di armi di distruzione di massa, mi sembra che la Storia umana registri una involuzione…Soprattutto mi manca ogni chiarezza sulle possibili tappe per una inversione di rotta, a meno che anche noi non ci limitiamo ad aspettare, come l’uomo in ansia, chissà quale aiutante esterno… Ho letto l’intervento di Luca Chiarei, e devo dire che il suo suggerimento di parlare con i giovani mi sembra buono, come anche quello di altri a sentire la voce dei migranti…insomma rimescolare le carte, per avere più punti di vista: il destino del pianeta terra dovrebbe stare a cuore a tutti…
    Da Cristiana: (nella consolidata frattura tra mondo pubblico e mondo privato) chi lo esercita (il potere)?…Quindi questo sarebbe il punto centrale? E la tua risposta mi sembra scontata: l’uomo in quanto viviamo o proveniamo da una società patriarcale…A proposito di una donna che ha lottato per uscire dalla sfera del privato per poter accedere ad un riconoscimento pubblico, tu, Cristiana, hai citato, se non sbaglio, Virginia Woolf la scrittrice che con “Una stanza tutta pere sè” ha rivenditato il diritto delle donne a scrivere senza ricorrere a pseudonimi maschili, avendo cose da dire…Per cominciare lei, ma poi molte altre hanno proseguito lo stesso cammino e , sulla strada della parità dei diritti, si è mosso il movimento femminista negli anni settanta…Fin qua i fatti, ma, stando a quello che mi sembra di aver capito dai tuoi discorsi (corregimi, se sbaglio), credo che tu ti riferisca ad altro: a una o più peculiarità femminili in grado di rivoluzionare il mondo (l’esercizio consolidato tra le donne al rispetto e alla cura dei corpi, quindi alla vita e alla nascita…), di portarlo lontano da quella ferocia di cui si parlava prima. Cioè la donna sarebbe, per natura, estranea all’idea di potere che porta, invece, alla morte…A parte che non è sempre così. Secondo Lea Melandri entrambe le parti devono compiere uno sforzo per ricostruirsi interiormente, uscendo dai ruoli “di potere”prefissati…tuttavia, in origine un’idea buona che, se attuata ed estesa a tutto il genere umano forse ci unirebbe nella direzione giusta…Importante, però, è non scavarci intorno degli inutili fossati, quando poi i nemici comuni stanno da un’altra parte e non vedono l’ora di vedrci eliminare così tra noi…

  13. Come tu dici, Ennio: “…la politica non è riducibile alla fisica, non può muoversi in una dimensione contemplativa, non può solo analizzare e osservare” . Giustissimo, ma allora dovremmo partecipare. Come? Mi pare che la tua impostazione apparentemente giusta e pratica sia il realtà alquanto teorica. Qualsiasi intervento comporta una valutazione, un giudizio e….un’azione conseguente. Ma se non dipende da noi che facciamo? Inserirsi nel grande gioco delle guerre medio orientali è impossibile e inutile ; sarebbe come voler arbitrare la lotta tra il mare e la terra. Io non so giudicare, posso solo cercare di comprendere il più possibile, con tutte le perplessità e le angosce che ci accompagneranno “sinché il sole risplenderà sulle sciagure umane” .

  14. IL NUOVO SOL DELL’AVVENIRE E’ DONNA?
    A margine del post su Palmira

    @ Fischer

    Cara Cristiana,
    dovresti ringraziarmi perché finora sono stato, assieme ad Annamaria Locatelli, l’unico di Poliscritture ad affrontare di petto la questione del femminismo che tu riproponi, invece di sfuggirla tacendo o aggirandola più o meno elegantemente. ( Non mi riferisco a Mannacio!).
    Ho tentato di segnalarti perché ritengo stonato il modo come l’hai “ficcata” in questo post su Palmira. E anche di dirti che c’è un problema non da poco che andrebbe apporfondito in un post a parte: il discorso femminista – oggi più di ieri (quando ancora esisteva un movimento femminista abbastanza visibile e in dialettica con altri movimenti anch’essi più o meno visibili) è diventato una *scolastica* e non passa, non convince più così facilmente, come tu sembri ancora credere.
    So di essere fastidioso a ricordarlo, ma non credo di dire queste cose per ostilità preconcetta, attaccamento al principio della parità uomo/donna o a una mentalità patriarcale e maschilista. No, ritengo che, se si sbagliava Brecht a considerare il comunismo una cosa semplice («È ragionevole, chiunque lo capisce. È facile.»), tu ripeti lo stesso errore col femminismo.
    Più tento di farti delle osservazioni/obiezioni (certo, alcune benevoli e altre malignette, ma nelle mie intenzioni maieutiche), più t’incaponisci nel gergo femminista [1] o mi ripeti (o mi fai ripetere da femministe che direbbero “meglio di te”) delle verità, che sinceramente a me oggi paiono soltanto dogmi. Invitandomi per giunta a “riflettere”, come si fa con uno studente riottoso (ma sono over 70!).
    Come non capire che i tuoi sono discorsi da filosofe e che qui – su Poliscritture – non siamo in un dipartimento di filosofia; e perciò come minimo andrebbero *mediati*? Si tratta di un altro contesto. Che ti dovrebbe sfidare a dire in modi piani i tuoi (legittimi) pensieri femministi, ma anche a misurarne forza e debolezza nel confronto con chi li avversasse o non li intendesse. (Invece di cavartela con un invito al dovere di «una corretta informazione»).
    Se quattro filosofe hanno capito che «l’origine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo è lo sfruttamento dell’uomo sulla donna, sul mondo della vita sempre a disposizione e mai riconosciuto», non è automatico che diano «una leva» per farlo capire anche a milioni di donne ( e di uomini). E non è detto che le “resistenze” a capirlo o a convincersene non dica anche qualcosa sui limiti di queste teorizzazioni.
    Io credo che i bisogni richiamati dal pensiero femminista negli anni Settanta o ora dal post- femminismo siano veri e non eludibili. E perciò non sparo affatto sull’obiettivo sbagliato attaccandoci sopra la tua faccia, ma metto in discussione la loro rappresentazione teorica, che trovo, come ti ho detto in altre occasioni, insufficiente e sempre più indebolita. Perché molte rappresentanti del postfemminismo secondo me si sono adagiate negli interstizi e sulle cattedre concesse dalle lobby capitalistiche in via di globalizzazione. Proprio come com’è accaduto a tanti pensatori e politici “post-comunisti” che hanno abbracciato il “progresso” dell’odiato liberismo.
    Considero il femminismo novecentesco una ramificazione del pensiero socialista e comunista. Rinsecchitasi però – questa è la mia tesi. Ma perché è il grande albero del pensiero illuminista socialista e comunista che s’è rinsecchito. E non si può far finta che il femminismo non sia un aspetto di quella crisi e tirar dritto come se nulla fosse. A meno di non pensare, come mi è parso di capire da alcune roboanti dichiarazioni di famose femministe, che, fallite le rivoluzioni socialiste e comuniste, non ci sia da preoccuparsi granché perché i nuovo sol dell’avvenire è Donna e sta già sorgendo.

    P.s.

    [1]
    Un esempio di gergalità. Dici: «E’ insensato il lavoro del disfieri? ». E cos’è questo ‘disfieri’? Può darsi che io solo lo ignori, ma per capire ho dovuto cercare sul Web: «… Anni fa, guardando l’Arena di Verona e avendo in mente il Colosseo di Roma, ho avuto un’illuminazione da cui sono arrivata a inventare l’arte del disfieri, ricalcata su un’arte manuale femminile che nell’infanzia ho visto esercitare da donne anziane e io stessa, bambina, mi ci sono esercitata, intendo l’arte di disfare le maglie, quelle che non si portavano più per motivi di usura o altro, da cui si ricavavano gomitoli di lana destinati a nuovi manufatti.
    (http://www.giudiziouniversale.it/articolo/politica/smontiamo-litalia)

    [2]
    Mi dici: «è scorretto il tuo modo di riportare citazioni da Mannacio, come se io rifiutassi quei suoi argomenti. Un esempio: “e tu a fargli notare che il suo discorso fa solo riferimento alla «sorte dei bambini di Palmira e delle altre località colpite dalla guerra» o « ai malati negli ospedali, ai vecchi incapaci di combattere» e non alle donne.…” Ma non gli ho fatto notare nulla del genere!»
    Beh, basta rileggerti:
    « La frase “un ‘qualche innocente’. Il pensiero va ai malati negli ospedali, ai vecchi incapaci di combattere, ai bambini” non dovrebbe essere scomposta in malati (e malate)-vecchi (e vecchie)-bambini (e bambine) ma non funziona quando sono donne da stuprare?
    Non sto chiedendo la simmetria di sessuare ogni soggetto a prescindere, ma invece di individuare la specificità di un soggetto sessuato da offendere.»( Fischer)

    3.
    Dici che non vuoi « rivendicare una superiorità di sofferenza femminile», ma questo viene da pensare da quell’insistente sottolineatura della differenza uomini/donne, quando, ad es., scrivi: «E la “comunità disperatamente in lotta, tutta insieme” lo è allo stesso modo disperato tra uomini combattenti e donne relegate in casa a fare figli per continuare la schiatta degli uomini combattenti? Davvero crede Giorgio Mannacio che i due sessi siano però un unico concetto al neutro universale maschile?»( Fischer)

  15. Dis-fieri è una bella parola. Per dimostrarlo mi fermo prima su *fieri* che si traduce divenire, accadere, essere fatto. Collegato con fui e futuro, esprime movimento in continuità, processo, poi è anche accadere, poi diventa il passivo del verbo fare, quindi essere fatto, prodotto. Da una permanenza NEL tempo, all’intervenire DEL tempo, all’atto di creazione: nei due sensi, il “Fiat lux!” della creazione attiva, e il “Verbum caro factum est” del Figlio.
    Allora direi che disfieri, parola antica che si trova nei testi religiosi medievali e poi avanti, può intendere disfare e riprendere l’opera di creazione.
    Certo lo sfondo storico-religioso della parola non piacerà a tutti! Ma è un lavoro piuttosto diffuso risalire agli incroci tra categorie teologiche e politiche, e non è solamente un lavoro da filosofi, basta scorrere tanti studi di marxisti per accorgersene. E’ il pensiero politico dell’occidente che si è accomodato in quel “simbolico”, sono la democrazia, i diritti, lo stato che vengono pensati con l’aiuto di categorie pensate, ancora prima, dentro la religione.
    A parte il mio piacere di indagare sulle parole occorre dire che l’uso di disfieri da parte di Luisa Muraro ha avuto successo, perchè ha scritto libri che sono stati tradotti, e molti articoli, che spesso riproducono interventi in incontri e convegni in giro per l’Europa e non solo. Disfieri come disfare la maglia e recuperare un gomitolo, come recuperare oggetti dal crollo delle Torri Gemelle da reinserire in casa propria, ma anche scomporre figure e immagini nella critica d’arte, o come disfare leggi sbagliate (per esempio le donne hanno battagliato contro la legge sulla procreazione assistita). La parola si sta riproducendo con velocità, anche perchè può restare uguale in inglese spagnolo e tedesco, lingue in cui si sono fatte traduzioni di quei libri e articoli. (L M dice poi che con disfieri traduce la parola “undoing” usata da J. Butler, Undoing gender, New York 2004, anzi critica la traduzione in italiano La disfatta del genere, Meltemi 2006. Butler è una filosofa e una politica.)
    Insomma mi pare chiaro che disfieri sta assumendo tra le femministe un significato politico preciso e importante.

    Hai riportato bene la citazione dal mio commento: “non sto chiedendo la simmetria di sessuare ogni soggetto a prescindere” aggiungendo “ma invece di individuare la specificità di un soggetto sessuato da offendere”.
    Proprio a questa aggiunta però ribatti “a me pare una forzatura che distorce il discorso più comune e diretto che va fatto sulla violenza nella storia”. Mi colpisce quel comune e diretto, c’era un tempo in cui si sospettava del valore di un ragionamento se si presentava come comune e diretto, e anche dell’espressione, liscia e nuda, violenza nella storia, si chiedeva infatti: violenza di chi? su chi? Capisci che faccio mio il sospetto sulla brillante e compatta opacità del senso comune, rispetto alla realtà contraddittoria e frammentata in cui effettivamente ci si trova a vivere e che è da comprendere. Filosofia anche questa? O politica?

    Qui si arriva al *sol dell’avvenire*. Tra il rassegnato e l’ironico scrivi “è il grande albero del pensiero illuminista socialista e comunista che s’è rinsecchito. E non si può far finta che il femminismo non sia un aspetto di quella crisi e tirar dritto come se nulla fosse.”
    Al contrario io credo che nella nostra cultura sia avvenuta una rottura, che è stata chiamata fine del patriarcato (per altre solo l’inizio della fine). Questo è un taglio avvenuto sul piano simbolico: il sol dell’avvenire, che vuoi, c’è ancora se molte persone lo hanno visto e continuano a vederlo dentro di sè.
    Il patriarcato è finito per certe, molte, donne, molte hanno iniziato a vivere e pensare liberamente non accettando più di pensare se stesse come il patriarcato (in religione, politica, filosofia, scienza) ci ha pensate. Da una parte questo ha originato luoghi, scritti, fatti piccoli e grandi, e non si può ignorare. Dall’altra parte però la libertà è anche una cosa precaria.
    La questione che poni di nessun altro intervento sui miei commenti oltre a te e Annamaria Locatelli si può spiegare anche con il fatto che per molte il femminismo avrebbe già vinto e quindi non ce ne sarebbe più bisogno! Moltissime studentesse, e brave, magistrate, mediche, avvocate, giudici, persino un bel po’ di politiche.
    Però… se fosse davvero così definitivo tu non scriveresti “molte rappresentanti del postfemminismo secondo me si sono adagiate negli interstizi e sulle cattedre concesse dalle lobby capitalistiche in via di globalizzazione”. E altri hanno simili espressioni liquidatorie.

    Ho cercato a volte di segnalare, sul tuo sito, che la pacifica neutralità di certi discorsi celava una differenza reale di esperienza per donne e uomini. Per esempio, nelle migrazioni guerre e stragi dei nostri giorni, l’esperienza per i due sessi è diversa, ugualmente tragica ma diversa.
    E’ rilevante notarlo? Per me sì, le donne migranti che arrivano incinte perchè sono state violentate dicono qualcosa sulla intenzionale distruzione di identità per queste popolazioni. La riduzione in schiavitù degli yazidi è schiavitù sessuale per le donne, di lavoro per gli uomini. Attraverso le scelte operate sulle donne si frammenta un popolo. Attraverso il sesso si umilia, oltre che opprimere, e non sto sottolineando un plus di sofferenza, ma la politicità della cosa, distruzione di identità spirituale oltre che fisica. Questo avviene da parte di una cultura tradizionale molto connotata come maschile e patriarcale. Per questo è doppiamente importante segnalarlo.
    Ma non ho prodotto molti risultati, ti ho invitato a informarti meglio e mi ricordi che hai più di 70 anni, io invece ne ho presto 70 ma vengo sgridata come se ne avessi 16. Mi ritrovo in un budello, un cul de sac, perchè non c’è uscita possibile da una opposizione tra femminismo vero-falso, vivo-morto, rinsecchito-scolastico.

  16. Ho atteso qualche giorno per vedere se altri/e intendessero intervenire sul tema del femminismo odierno, affacciatosi in questo post su Palmira e che ha visto divergenti opinioni tra me e Cristiana Fischer.
    Prolungare un dialogo tra sordi e nell’assenza di segnali da parte di altri/e per me non ha senso. Quindi non replico all’ultimo commento di Cristiana. Confermo però la disponibilità di Poliscritture a riaffrontare la questione in maniera meno occasionale di questa.

  17. SEGNALAZIONE

    La distruzione del tempio di Baal a Palmira. Lettura geopolitica

    Geopolitica e arte nella crisi sistemica. Usano la narrazione del fondamentalismo islamico per distruggere le basi mitopoietiche della civiltà umana [Piotr]

    http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=123145&typeb=0&la-distruzione-del-tempio-di-baal-a-palmira-lettura-geopolitica

    Uno stralcio:

    Il semicolto medio di sinistra si chiederà infatti un po’ accigliato: “La fa facile, questo francese. Ma dove li pendiamo i soldi per i musei?”. A parte che il budget per i musei (e per la cultura) è già ora ridicolo, proporrò un piccolo quesito aritmetico. L’ultimo “salvataggio” della Grecia prevede 86 miliardi di euro. Di questi 79 serviranno per pagare i precedenti interessi e a ricapitalizzare le banche così che possano continuare nelle loro speculazioni “levantine” in combutta con le teutoniche banche tedesche. Domanda: quanti miliardi rimangono? Ne rimangono 7, che non andranno al welfare, ai trasporti, alla sanità, all’istruzione e alla cultura (che sono cose che devono essere privatizzate – anche da noi!). Andranno alle aziende in credito con lo Stato.
    I soldi ci sono, a palate. Il quantitative easing di Draghi è di un trilione di euro. Ma andrà alla finanza, per tenere in piedi il suo castello di carte. La ricchezza reale prodotta dalle nazioni e quella da esse ereditata deve essere spremuta senza ritegno e senza pietà per lo stesso scopo.
    Ma il semicolto medio di sinistra crede alla narrazione “siamo senza soldi”.
    Il semicolto medio di sinistra crede anche alle lacrime da coccodrillo del PD per l’assassinio di Khaled al-Asaad. Ma se sono tanto addolorati da ricordare l’archeologo siriano in tutte le feste dell’Unità, perché l’allora segretario del PD, Bersani, faceva comizi per la libertà della Siria assieme a un jihadista beccato poi dal New York Times nel primo nucleo siriano dell’Isis mentre uccideva a sangue freddo prigionieri e oggi è indagato per terrorismo internazionale dalla Procura di Milano?
    Il semicolto medio di sinistra pensa che sia stato un “errore”, che Bersani non sapesse. Come? Il segretario del maggiore partito italiano, più volte al governo, non sapeva? E come mai persone molto più normali lo sapevano?
    La categoria di “errore” è usata dai semicolti e anche dai colti di sinistra, per non fare i conti con la realtà, per poter continuare a votare PD, in base a motivi ideologici, cioè totalmente campati per aria.
    Il semicolto di sinistra crede che gli Usa e l’Occidente siano contro l’Isis, che gli faccia orrore. Perché allora il senatore McCain faceva riunioni con al-Baghdadi, lo sceicco dell’Isis? Errava? Nemmeno per sogno. Ha ribadito alla televisione americana che continua a tenere contatti con quei tagliagole.
    Perché fino a un mese fa la Nato passava all’Isis informazioni satellitari per combattere Assad? Dico “fino a un mese fa” perché pare (pare) che queste informazioni la Nato da un mese le passi solo al Fronte al-Nusra, cioè ad al-Qaida, che sarebbero i “ribelli moderati”.
    La collaborazione sta finendo, o per lo meno riducendosi? Mah! Forse si sta solo spostando di luogo. Che ci fa un nucleo dell’Isis in Ucraina? E sì, perché mentre promette fiamme su Roma, l’Isis in Europa c’è di già. E’ in Kosovo, dove apre madrase, ed è in Ucraina dove a quanto pare ha già formato un “governo in esilio della Crimea”.

  18. PALMIRA 2015

    Mura sbriciolate, colonne abbattute,
    capitelli usati a sostegno di teste mozzate.
    S’affaccia un mondo nuovo, in gran parte ignoto,
    una nuova arte, una diversa armonia:
    una corsa inesorabile al nulla, un ritorno al vuoto.
    Palmira, percossa dalle tristi avanguardie dell’entropia.

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