Cos’è la poesia? Se volessimo andare più a fondo…

lezioni sulla poesia

Questa è la quarta e ultima lezione rielaborata dagli incontri sulla poesia che ho condotto a Saronno su invito dell’Associazione “L’isola che non c’è” nel novembre 2014. Le prime tre si rileggono qui, qui e qui. [E.A.]

Ho accennato già alla risposta che ha dato Fortini alla domanda: che cos’è la poesia  nella lezione 2. Vorrei ora confrontarla con le risposte alla stessa domanda di Lorenzo Renzi e di Czesław Miłosz [1].

Lorenzo Renzi sostiene che la poesia è finzione, gioco, ma aggiunge subito dopo che tale evasione nell’immaginario da una condizione storica ostile all’individuo è estremamente seria e importanti per l’uomo. E cita Freud:

«L’occupazione preferita e più intensa del bambino è il gioco. Forse si può dire che il bambino impegnato nel gioco si comporta come un poeta: in quanto si costruisce un suo proprio mondo. O, meglio, dà a suo piacere un proprio assetto alle cose del suo mondo. Avremmo torto se pensassimo che il bambino non prenda sul serio un tale mondo; egli prende anzi sul serio il suo gioco e vi impegna notevoli importi d’affetto. Il contrario del gioco non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale […]. Anche il poeta fa quello che fa il bambino giocando: egli crea un mondo di fantasia, che prende molto sul serio; che, cioè, carica di forti importi affettivi, pur distinguendolo nettamente dalla realtà» (p. 48).

Va detto che oggi, almeno nei paesi investiti dalle trasformazioni postindustriali, dove la società dello spettacolo s’è affermata anche nella vita quotidiana e la finzione prevale sulla realtà, che ha invece perduto ed evidenza, questa concezione della poesia come gioco è accettata senza scandalo e pochi la contestano. In passato, invece, suscitava forti diffidenze. Lorenzo Renzi, oltre a ricordare la condanna della poesia e dell’arte da parte di Platone, riporta da i saggi di Peter Zumthor [2] un detto d’epoca medievale che esprime in termini estremi tale diffidenza per la poesia-finzione: «la prosa dice la verità, i versi mentono» (p. 52). Noi oggi sappiamo che scrivere in versi non impedisce di per sé di dire il vero (o delle verità); e che, d’altra parte, si può mentire anche in prosa. E’ però innegabile – sostiene Renzi – che oggi troviamo del tutto naturale che la poesia si abbandoni più della prosa all’immaginazione, che più facilmente illuda (e menta) e però – appoggiandoci o meno sull’autorità di Freud, per il quale l’ingannarsi, l’ingannare o il fingere  non solo sono  una caratteristica della psiche umana,  ma procurano piacere – lasciamo perdere la condanna di Platone e rifiutiamo di pensare che l’inganno o la finzione siano in sé un male.

Resta tuttavia un problema almeno per alcuni poeti e lettori che ancora si chiedono: la finzione (o il gioco) da sì piacere ma avvicina in ogni caso alla verità o ci abitua ad accettare la menzogna rendendo quest’ultima indistinguibile dalla verità?  Era un problema che stava a cuore, ad esempio, ad un poeta come Brecht. (Cfr. Sulle difficoltà di dire la verità: qui). E che, invece – va ricordato –Nietzsche aveva abolito e svilito [3].
Non è facile dire qualcosa di definitivo su questo dilemma. Si può rispondere  alla maniera di Nietzsche.  O anche, come fa Renzi,  alla maniera di Freud. Personalmente trovo molta poesia-finzione o poesia-gioco banale, ma sono interessato agli esempi di poesia che, proprio attraverso la o grazie alla finzione (e diciamolo pure alla menzogna più spudorata),  fanno intravvedere in modi obliqui qualcosa di più vero del mondo, di noi, della vita, della morte. E quindi, pur appartenendo alla schiera di quanti non hanno rinunciato alla ricerca della verità (o di più verità) e non ritenendo la poesia la via maestra  per avvicinarsi alla verità (o alla realtà), ci penso due volte  prima di sbarazzarmi di uno strumento in effetti ambiguo, che può sia farci scivolare nella menzogna, nell’insensato e nella follia sia aprirci il varco a una comprensione di un qualcosa “in più” o di più vero o persino essenziale (rispetto all’esistente, all’abituale, al noto).

Sull’ambivalenza della poesia molto rifletté Fortini analizzando la questione da un punto di vista hegelo-marxista. Si soffermò soprattutto sugli atteggiamenti diversi e conflittuali nei confronti della poesia di due tipi di lettori: i formalisti e i contenutisti. La poesia – diceva – avendo  «a che fare con un universo ideologico e storico», è facilmente riconosciuta e legittimata dai signori (i dominanti) e respinta invece dai servi (i dominati), che non se ne accontentano, perché chiedono «messaggi e non forme» (comunicazione e non arte).  Credo che queste due spinte – quella dei signori e quella dei servi di hegeliana memoria – combacino con le posizioni di quelli che, nel detto medievale riportato da Zumthor e ripreso da Renzi, miravano – gli uni – alla poesia come finzione e libera immaginazione e  – gli altri – alla verità espressa per loro esclusivamente nella prosa. Per Fortini, dunque, la poesia ha una doppia valenza: può liberare ma anche  illudere. E perciò egli dava ascolto alle ragioni degli «amici della poesia» (almeno di quelli che vedono la poesia come finzione e gioco che può portare a un di più di verità), ma non dimenticava le ragioni o i bisogni espressi dai «nemici» della poesia. (Nemici in apparenza, si dovrebbe dire, perché secondo Fortini, i servi, respingendo la poesia-forma o la poesia-gioco o la poesia-finzione aspirerebbero a una realizzazione piena di quella promessa di felicità (e di verità) che la poesia lascia intravvedere o anticipa, appunto, solo nella forma).  Queste vedute così divaricate dipendono  per Fortini dal processo storico: l’uso letterario o poetico del linguaggio fin dai tempi antichi è stato possibile solo grazie agli otia, a «una sospensione dell’immediatezza (non si scrivono poesie mentre c’è una guerra in corso)». Chi fa propria, consapevole o meno, la posizione signorile accetterà questa precondizione del fare poesia come ovvia, naturale, insuperabile, tacendo o deridendo e svalorizzando la pressione “serviel” o “barbarica” degli esclusi. C’è però anche chi sa che la poesia «non può fare a meno della pesantezza del mondo sensibile, conflitti e strutture ideologiche comprese» e, pur ammettendo che «rispetto a quei conflitti, l’opera, che ne è intimamente attraversata, si colloca sempre in modo sghembo o ambiguo» (E. Zinato), evita sia un puritano rifiuto della poesia (perché finzione o menzogna o attività “inutile”) sia la sua apologia orgogliosa.

Dopo quanto detto, tornando a Lorenzo Renzi, correggerei dunque quella che mi pare la sua apertura indiscriminata alla poesia finzione o gioco (o se si vuole al solo piacere del testo), avvertendo che Fortini concordava sul fatto che gioco o finzione della poesia sono cose estremamente serie. Anzi egli arrivava perfino a dire che la poesia, nei tempi lunghi, può avere anche effetti reali:

« Spesso – dice Adorno – ciò che apparentemente sembra il più lontano, il più remoto dall’appello all’azione e all’immediatezza, ha la funzione di mostrare l’insostenibilità del mondo che ci sta intorno, la stessa funzione che ha il bicchiere di grappa dato al soldato che deve uscire dalla trincea per affrontare il fuoco nemico. Certo aveva ragione quel grande scrittore e poeta cinese che negli anni Trenta circa diceva che una canzone battagliera anche di pessima qualità, come possono essere gli inni patriottici, serve benissimo per incitare gli animi, per commuoverli, ma che per battere il nemico – Lu Xun parlava degli ufficiali di artiglieria – è meglio usare i cannoni. E tuttavia esistono opere poetiche apparentemente lontanissime dall’impegno che hanno avuto la funzione di indirizzare gli animi ad azioni generose, a scelte moralmente ricche come è il caso per esempio della poesia di Leopardi, cosa che il nostro De Sanctis aveva visto benissimo.»

Concludo proponendo questa poesia di Czesław Milosz  del 1957:

Ars Poetica

Ho sempre aspirato a una forma più capace,
che non fosse né troppo poesia né troppo prosa
e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,
né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni.
Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre,
ferma nella luce, sferzando la coda sui fianchi.
Perciò giustamente si dice che la poesia è dettata da un daimon,
benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo.
È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,
se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza.
Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni
che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,
e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?
Perché ciò che è morboso è oggi apprezzato,
qualcuno può pensare che io stia solo scherzando
o abbia trovato un altro modo ancora
per lodare l’Arte servendomi dell’ironia.
C’è stato un tempo in cui si leggevano solo libri saggi
che ci aiutavano a sopportare il dolore e l’infelicità.
Ciò tuttavia non è lo stesso che sfogliare mille
opere provenienti direttamente da una clinica psichiatrica.
Eppure il mondo è diverso da come ci sembra
e noi siamo diversi dal nostro farneticare.
La gente conserva quindi una silenziosa onestà,
conquistando così la stima di parenti e vicini.
L’utilità della poesia sta nel ricordarci
quanto sia difficile rimanere la stessa persona,
perché la nostra casa è aperta, la porta senza chiave
e ospiti invisibili entrano ed escono.
Ciò di cui parlo non è, d’accordo, poesia,
perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,
spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza
che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.

(Czesław Miłosz, Poesie,  Adelphi, Milano, 1983, traduzione di Pietro Marchesani)

Verso per verso vi si trovano riassunti egregiamente i problemi a cui ho accennato in questa relazione:1] Per notizie sul poeta e saggista polacco vedi:

1. Ho sempre aspirato a una forma più capace: il problema della forma;
2. che non fosse né troppo poesia né troppo prosa: distinzione (relativa e mai totale) della poesia dalla prosa (o, se vogliamo, del campo della finzione da quello della ricerca della verità; e quindi necessità di non spezzare questo loro rapporto ambivalente);
3. e permettesse di comprendersi senza esporre nessuno,/ né l’autore né il lettore, a sofferenze insigni: legame insolubile con la comunicazione;
4. Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:/ sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse: ma questo qualcosa va innanzitutto accertato, perché non sempre viene fuori e anche la sua “indecenza” (allusione ai legami della poesia con l’inconscio e prima ancora con la magia e la religione) va interrogata;
5. la poesia è dettata da un daimon,/ benché sia esagerato sostenere che debba trattarsi di un angelo: Milosz è guardingo verso la poesia a differenza di chi l’esalta come via principale di accesso al mistero ( orfismo);
6. È difficile comprendere da dove venga quest’orgoglio dei poeti,/ se sovente si vergognano che appaia la loro debolezza: un orgoglio che copre una debolezza, dunque? Per il fatto che non è certo se la poesia li avvicini alla verità o alla realta (o a Dio)? Ma a me viene da pensare che la vergogna la provino anche di fronte ai politici (intendo i grandi politici, quelli rivoluzionari), perché certi poeti (penso a un Mandel’štam) colgono una verità che i politici in genere respingono  e che  i poeti  pensano ma non riescono a praticare;
7. Quale uomo ragionevole vuole essere dominio dei demoni /che si comportano in lui come in casa propria, parlano molte lingue,/e quasi non contenti di rubargli le labbra e la mano /
cercano per proprio comodo di cambiarne il destino?
: qui viene indicato l’aspetto rischioso della poesia rispetto alla più rassicurante conoscenza razionale;
8. qualcuno può pensare che io stia solo scherzando: la poesia essendo finzione…;
9. Eppure il mondo è diverso da come ci sembra: ecco la ragion d’essere della poesia, che aiuta ad andare oltre le apparenze in modi rischiosi (almeno quanto le scienze);
10. L’utilità della poesia sta nel ricordarci /quanto sia difficile rimanere la stessa persona: “l’io è un altro”, “l’io non è padrone in casa propria”, ecc.;
11. perché è lecito scrivere versi di rado e controvoglia,/spinti da una costrizione insopportabile e solo con la speranza/che spiriti buoni, non maligni, facciano di noi il loro strumento.: ritorna la cautela guardinga verso la poesia, ma anche l’accettazione della sfida.

Concludo accennando ancora alla questione della forma e dell’informe. Ai suoi tempi Adorno aveva ancora una piena fiducia nel valore della forma in arte e in poesia. Quando – egli sosteneva – essa, indipendentemente dal contenuto (che dunque può essere sia ordinario che straordinario, sia – in termini politici – reazionario che rivoluzionario),raggiunge una alta qualità (cioè una coerenza fra le sue parti, ma anche una tensione tra loro), l’artista o il poeta nega o stravolge il quotidiano, ciò che si ripete o che viene accettato senza pensarci, per abitudine. Va, insomma, oltre il «linguaggio logorato e della vita inautentica» (147), quello dei mass media per intenderci oggi. Fortini aveva rivisto questa riflessione di Adorno in un saggio, «Sui confini della poesia» (Saggi ialiani 2, pagg. 323-4). E dubitando del fatto che la poesia fosse davvero eversiva rispetto alla vita in autentica, aveva concluso che la forma non riesce mai a negare e a sovvertire questa quotidianità (capitalistica) e al massimo si contrappone ad essa soltanto come un «grido» (Schrei), il «grido dell’arte». Nella sua visione la poesia resta perciò qualcosa di ambiguo e contraddittorio e non può essere un valore assoluto. Non approva chi nell’estetica, nella poesia o in un «eccesso permanente di attenzione sociale agli eventi letterari, poetici e artistici»(320) cerca una redenzione o salvezza o evasione (dalla storia, dal capitalismo..). Prima o poi questo sforzo «incontra delle frontiere», incontra quello che respinge proprio per farsi poesia, forma: il contesto appunto, il contesto storico-ideologico, che «sempre più chiede di entrare [ nella sua immediatezza]in rapporto col testo», di non restarne fuori.

Mentre per Adorno la totalità (l’integrità umana) è perduta per sempre e non più riconquistabile nella vita sociale, Fortini con Lukàcs vuole ancora credere che gli uomini abbiano «la capacità di “formare” non più solo opere d’arte ma la vita medesima»; e sono quindi capaci di andare «oltre l’uso della vita cui ci costringe il lavoro alienato» (325). E se questa prospettiva ( che era del socialismo) fallisse (o fosse già fallita)? Allora Fortini ammetteva che avrebbe avuto ragione il pessimista Adorno; e che l’arte e la poesia resterebbero soltanto «grido» e non il primo possibile gradino verso una vita formalizzata dalla volontà umana. Resterebbe come la religione «il cuore di un mondo senza cuore», «il sabato di un villaggio senza domenica», la «prova di una ripetuta sconfitta umana» (325). E termino proprio con un dubbio: oggi siamo forse a questo punto?

[1] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Czes%C5%82aw_Mi%C5%82osz

[2] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Peter_Zumthor

[3] «L’aforisma 344 di “Noi senza paura”, il quinto libro della Gaia scienza aggiunto nel 1887, analizza il problema della verità, un tema che attraversa tutto il pensiero di Nietzsche, e che nell’ultima fase del suo pensiero trova una risposta particolarmente dura, nichilistica: la verità potrebbe essere “un donchisciottismo, una piccola stravagante bizzarria”, ma anche qualcosa di ben più pericoloso, un principio ostile alla vita, “un’occulta volontà di morte”. Nietzsche individua nella verità un antivitalismo di fondo, che gli deriva da un presupposto metafisico: la fede platonica in un altro mondo; tale tema è sviluppato anche in Genealogia della morale, in particolare nella terza dissertazione (“Che significano gli ideali ascetici?”)».

(da http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaN/nietzsche56yhhhhhhhhasvmn.htm)

 

37 pensieri su “Cos’è la poesia? Se volessimo andare più a fondo…

    1. Poesia più…a fondo

      Lungo cammino
      orme su orme altre.
      Menzogne a diventare verità
      verità a diventare menzogne.
      Di poesia restano binari
      da pulire abbandonati
      verso paesi già conosciuti.
      Hanno fatto crescere
      malsani sogni
      abbandonate le fonti
      costruiscono azzardi di parole
      inventano risate di metafore
      rompono linee certi della nuova
      sorprendente realtà.
      Ma sono orme su orme altre.
      Menzogne a diventare verità
      verità a diventare menzogne.
      Sempre.

      Emi

    2. @ Di Poce

      La poesia NON E’ vita.
      La vita NON E’ poesia.

      Si cercano invano.
      A vicenda si cercano.

      Come qui:

      magritte per di poce

      Ed è meglio così.

  1. …secondo me, con la poesia si rinnova se non proprio la speranza, almeno la speranza del ritorno della speranza…esperienza abbastanza comune oggi è il senso di smarrimento: come ritrovarsi in una terra di frontiera ed aver dimenticato la propria lingua, il nome, le origini, aver perso gli amici, ignorare la meta del cammino…E può capitare di gridare “aiuto” e i demoni magari arrivano a darti una voce: di dolore, di rabbia, di stupore, di paura o anche di ombra, di menzogna…Scintillii di realtà di verità che illuminano e riscaldano ancora per un tratto il cammino, prima che ritorni il buio il freddo e di nuovo lo smarrimento…

  2. La poesia non è finzione. Se c’è una cosa al mondo che può essere detta vera, in poesia la si può trovare.
    La questione a mio avviso non sta tra poesia e fantasia, ma tra verità detta oppure taciuta.
    I poeti non tacciono, e questo li rende scomodi. Forse quel che dicono non modifica le sorti della società, non incide ( ma sarebbe da dimostrare: le indagini sociologiche che si basano sul venduto non possono considerare qualcosa che sta al di fuori del mercato), ma i poeti dicono della verità: la cercano, la trovano, la dicono. Sono scomodi anche sul personale: parlateci con un poeta, uno qualsiasi, e vedrete che, se non è tramortito da intellettualismo, non vi consentirà di dire scemenze.
    Invece è la scemenza che viene lodata, la verità taciuta, e finanche la menzogna. Ma si tratta di codici di comportamento, maschere necessarie, direbbe Jung, buone per tutti ma non per i poeti. Sono disposto ad affermare con assoluta certezza che non una sola poesia, da che mondo e mondo, sia mai stata scritta senza verità. Se ami scrivere, ma la verità non ti interessa, allora datti alla prosa, al romanzo. Inventa personaggi, luoghi, omicidi, fantascienza, fantasy… non ci sono limiti alla fantasia, del romanzo!

      1. 15 giugno 2015: Mayoor, nel suo commento del 14 giugno, rispondeva ad Annamaria Locatelli e a quanto A.L. scriveva.
        Caro Ennio,
        quando gli orologi di Internet impazziscono e invertono date e commenti, Internet, mezzo potentissimo, inverte date, commenti, risposte…
        Ho diligentemente scritto dopo Mayoor e, ora, il commento di Mayoor resta lì in aria.
        Ma ce ne sarà uno prossimo e così…

    1. @ Mayoor

      “ma i poeti dicono della verità: la cercano, la trovano, la dicono”

      Non sempre la cercano.
      Non sempre la trovano.
      Non sempre la dicono.
      Non sempre c’è.
      Non sempre passa di lì.
      Non sempre – indicata – è proprio lei.
      Non sempre è quella che serve in quel momento.

          1. La disonestà del poeta è sempre a portata di verso, basta un attimo. Dici che per un bel verso si venderebbero l’anima? e quanto coraggio ci vuole per rinunciarci, nel caso non c’entrasse nulla? Se cede, cede l’uomo/la donna, crolla la persona e addio! così si diventa maestri marchette. ..

  3. Dalla poesia di Milosz:
    “Nell’essenza stessa della poesia c’è qualcosa di indecente:
    sorge da noi qualcosa che non sapevamo ci fosse,
    sbattiamo quindi gli occhi come se fosse sbalzata fuori una tigre”
    Il daimon di cui si parla, che altro può essere se non verità? Perché la verità dovrebbe essere sempre angelica?

  4. Sempre Milosz:
    “Eppure il mondo è diverso da come ci sembra
    e noi siamo diversi dal nostro farneticare.
    La gente conserva quindi una silenziosa onestà,
    conquistando così la stima di parenti e vicini.”

    Il mondo si tenga pure la propria silenziosa onestà, e i poeti perdano la stima di parenti e vicini. Appunto come dicevo dianzi.

  5. Sono sinceramente dispiaciuto di non aver seguito fin dall’inizio l’ottimo lavoro di E.A sulla poesia. Si, sono davvero lezioni di ottimo livello e poiché nella mia scala di valutazione fare poesia e parlarne hanno pari dignità il rammarico cresce. Ma il tempo a volte è davvero tiranno.Intervengo alla fine con rapidissime osservazioni che prendono lo spunto dalla posizione di Fortini e Brecht . In particolare da un’affermazione del primo. E.A riferisce l’opinione di F. secondo cui non si fa poesia in tempo di guerra.
    Tale affermazione è sbagliata da due punti di vista. Essa si scontra senza alcuna possibile confutazione con quello che è avvenuto nei secoli. In essa vedo un eccesso di ideologismo che conduce a semplificazioni di scarso valore. Ma essa contiene anche – ed è forse l’errore più serio – un totale fraintendimento del rapporto spazio-tempo / poesia. E’ banalmente inconfutabile che non si può scrivere alcunché mentre si fugge da un luogo sottoposto ad un bombardamento,ma non è questo il luogo-tempo in cui nasce una certa poesia, Essa è stata concepita prima o dopo le bombe e nella memoria ( utero del poeta ) ha tratto tutti i nutrimenti per diventare creatura ( compreso tra di essi anche la guerra … e dunque in tempo di guerra e “ per il tempo di guerra “ ).
    Condivido invece senza riserve l’affermazione di F.e B secondo i quali è possibile ( deve essere possibile ) sia la costruzione di una poesia sia la costruzione di un mondo ragionevolmente condiviso.A ben guardare le due cose stanno assieme , e come ! Tale nesso spiega alcune cose di non poco momento.
    In primo luogo spiega come la poesia – come costruzione – non può fare a meno di una forma che è l’aspetto esterno della condivisione. Come nei rapporti umani esistono modalità esterne di rapporto così nella poesia deve esistere la modalità visibile del costruire qualcosa.
    In secondo luogo spiega perché la poesia continua ad esistere nonostante le profezie della sua inutilità/scomparsa. Essa è “ un aspetto della vita “ , una costruzione, vissuta come necessaria,
    di quella rete di rapporti in cui la vita si manifesta.
    In terzo luogo solo condizionamenti storicamente reali hanno fatto della poesia – in tempi andati – un “ proprium “ dei dominanti. Ma – appunto – nei tempi andati. I condizionamenti successivi sono stati di altro tipo e con altri effetti.
    Si spiega, infine, come un certo grado di comprensibilità è necessario. Vi sono codici attraverso i quali si condivide un rapporto e dunque vi deve essere un codice attraverso il quale la poesia viene condivisa.
    Qui si aprono altri fronti di ricerca che Poliscritture ha esplorato in parte e sui quali al momento non è necessario ritornare.
    Giorgio Mannacio.

    1. @ Mannacio

      «E. A. riferisce l’opinione di F.[Fortini] secondo cui non si fa poesia in tempo di guerra.
      Tale affermazione è sbagliata da due punti di vista. Essa si scontra senza alcuna possibile confutazione con quello che è avvenuto nei secoli. In essa vedo un eccesso di ideologismo che conduce a semplificazioni di scarso valore. Ma essa contiene anche – ed è forse l’errore più serio – un totale fraintendimento del rapporto spazio-tempo / poesia. E’ banalmente inconfutabile che non si può scrivere alcunché mentre si fugge da un luogo sottoposto ad un bombardamento,ma non è questo il luogo-tempo in cui nasce una certa poesia. Essa è stata concepita prima o dopo le bombe e nella memoria ( utero del poeta ) ha tratto tutti i nutrimenti per diventare creatura ( compreso tra di essi anche la guerra … e dunque in tempo di guerra e “ per il tempo di guerra “ )»(Mannacio)

      Prendere in castagna Fortini è un simpatico sport. C’è qui un « totale fraintendimento del rapporto spazio-tempo / poesia»? Non so, non era questo però il centro del suo discorso. Fortini accettava la banale ma «inconfutabile» constatazione che, se sei coinvolto in una guerra, non hai tempo per pensare alla poesia, perché hai altri pensieri e altri compiti («per battere il nemico – Lu Xun parlava degli ufficiali di artiglieria – è meglio usare i cannoni»). Quindi relativizzava il valore della poesia, che per alcuni sarebbe invece assoluto, astorico, arrivando persino a credere che, scrivendo una poesia contro la guerra, si contribuisca a fermarla. No, come abbiamo visto pure noi, né le poesie scritte da tanti né i movimenti pacifisti hanno fermato le guerre “umanitarie” statuninitensi, europee, italiane. A me pare che, come Lu Xun, Fortini tenesse i piedi per terra: se stiamo dentro una guerra (o se stiamo dentro una crisi) dobbiamo darci da fare con gli strumenti necessari per fronteggiarla. E allora trascuriamo la poesia? Sì, la subordiniamo ai compiti più urgenti. Senza dimenticarla. Anche perché « esistono opere poetiche apparentemente lontanissime dall’impegno che hanno avuto la funzione di indirizzare gli animi ad azioni generose». Fortini ha in mente Leopardi in versione De Sanctis. Ma possiamo pensare al Dante conservato nella memoria di Primo Levi o di Mandel’štam ristretti nei lager. [1]

      [1]
      « Commuove la testimonianza dei compagni del lager, dove Mandel’stam fu internato nel 1938. In questo spicchio di arcipelago Gulag si diffuse la leggenda di un poeta che non accettava di farsi ridurre a bestia e “consolava i detenuti cantando o recitando con il melodioso timbro di voce descritto da Lidija Ginzburg le sue traduzioni di Petrarca, vicino al fuoco…”. La poesia dantesca penetrò come una lama di luce anche in un altro tristo carcere: il lager. Quello di Primo Levi; e sarà la struggente rievocazione memoriale del canto di Ulisse, narrata in Se questo è un uomo. La “scienza degli addii” è la presa di coscienza che non esiste scrittura tessuta sulla gioia, perché la gioia parla una lingua povera e manchevole. Lo sapeva Mandel’stam e lo sapeva Dante. Si inizia a scrivere imparando la lingua del dolore e della perdita; guardando le cose da lontano, trafitti da una puntura malinconica. Cercando di assottigliare il peso di orfanità che ci abita. Cavando dall’esistenza una ‘scienza’ che nel poeta è ammaestramento del cuore in lotta contro l’aridità.» ( da ” Conversazione su Dante” di Osip Mandel’štam, di Davide Pugnana
      http://recensione.blogspot.it/2012/03/conversazione-su-dante-di-osip.html)

      1. Un poeta resta poeta anche in guerra. La sua poesia potrà non essere letta o capita , ma resterà nel tempo a conferma che la poesia può essere più forte di tutti i tempi.
        Se così non fosse , non avrebbe nessun senso essere poeti o comunque artisti.

        1. @ Banfi

          Oh, sì! Un poeta è al servizio permanente della Poesia. Anche quando dorme.
          Anche quando va in gabinetto. E’ poeta “in perpetuo” o “in aeternum”. Proprio come un prete.
          Rimbaud ha fatto il poeta per alcuni anni della sua giovinezza e poi se n’è andato in Africa a commerciare schiavi.

        2. Ungaretti ha scritto poesie sul fronte di guerra, su ogni pezzetto di carta che gli capitasse, fortunosamente, di trovarsi ad avere.

          1. Da una intervista ad Ungaretti, che si può ascoltare, riportata, su you tube. Scriveva poesie al fronte, in trincea, sugli involucri delle pallottole, sulle cartoline, nelle terribili trincee della prima guerra mondiale.

  6. …”…per Fortini, dunque, la poesia ha una doppia valenza: può liberare ma anche illudere” questa affermazione mi sembra davvero racchiudere tutto quanto si può pensare della poesia riguardo al suo rapporto con la realtà…o la verità o la vita, coprendo sia il piano oggettivo che quello soggettivo, ma sempre in riferimento alle più svariate modalità di essere dell’uomo…quindi senza trascurare nulla.
    Riguardo al rapporto tra poesia e vita “Si cercano invano./ A vicenda si cercano:”…una vicinanza-lontananza sconvolgente, ben chiarita attraverso l’immagine e commentata con “Ed è meglio così” da parte di Ennio A….I corpi sono avvicinati, l’uno-a probabilmente sente il battito del cuore dell’altra-o, pure il calore, ma i volti sono avvolti da veli, la tensione attrazione reciproca è evidente, ma l’essenza del loro essere diversi resta intatto…Qualche poeta si ribella a questa distinzione, in fondo nella stessa persona convivono chi vive e chi scrive poesie, possibile non conoscersi del tutto, non poter l’una interpretare sino in fondo l’altra? Di recente ho letto qualche poesia di G. Lucini e mi sembra, per esempio, che lui cerchi di accostare la poesia alla vita con grande impegno e coraggio, tuttavia penso anch’io che in ultima analisi sia impossibile, anzi “ed è meglio così” perchè quel velo garantisce protezione e rispetto reciproco…nonchè collaborazione…

  7. Da una mail del 20 maggio scorso ad una cara amica che ha un computer con stampante: Cara Gabriella, ti ho chiamato ieri pomeriggio, riproverò oggi. Grazie per la tua mail. Che dici: visto si stampi? Se puoi. Un abbraccio caro. Anna

    *** *** ***
    ci vuole una distanza
    per scrivere poesia –
    un passo indietro
    per saltarci dentro
    (ci vuole un’elegia) –
    uno sguardo discosto
    – tenerezza – sorriso –
    commozione – una
    tristezza operativa
    – sì – del fare! –
    una viva (comprensione)
    che salda la ferita –
    in fondo infine somiglia
    a zincature – addii
    ultimi sguardi – e poi via
    col fiato di chi dice “forse
    un giorno ci si vedrà ancora
    e poi – ma sì – saluti –
    al fondo di una lettera” –

    un colpo al cuore
    da poterlo dire –

    *** *** ***
    A.C.L.
    (non ho un computer. Ho battuto a macchina i versi che andavo scrivendo dal 1973 al 2013 . Poi un iPad, dal 2013, su cui scrivo e, una volta, chi sa, una stampante…).

  8. @Ennio
    Il fraintendimento che ho creduto di cogliere non è eliminato dalle tue osservazioni. Tu parli di una sorta di ” priorità ” che in certe circostanza occorre accordare all’azione politica ( o politico/ militare ) a scapito dell’attività poetica. In ciò vedo una contraddizione se si crede che “è possibile una poesia politica “. Se ciò è vero ( ed io penso di sì ) non ci sono priorità ma convivenze. E i fatti lo confermano. Altro concetto ancora è ” l efficacia ” cui accenna la banale massima cinese.
    Per quanto riguardsa la simultaneità tra scrivere una poesia e fuggire per non essere uccisi ho già detto.
    Non mi pare che tu sia alieno dal praticare sports analoghi al mio,modestissimo. Dicono che faccia bene alla salute mentale, soprattutto ad una certa età ( la mia ,ovviamente ). Un cordiale saluto. G.M

  9. @ Mannacio

    Una “poesia politica” non necessariamente parla di politica o di guerra. E’ un discorso che abbiamo sviluppato tante volte. Ma ora, al di là di praticare entrambi lo stesso sano sport (della pignoleria?), mi accorgo che stiamo equivocando.
    Tu hai scritto:« E.A riferisce l’opinione di F. secondo cui non si fa poesia in tempo di guerra.». In realtà io avevo semplicemente citato un pezzo di Fortini che non fa questa affermazione ma sostiene:
    « Certo aveva ragione quel grande scrittore e poeta cinese che negli anni Trenta circa diceva che una canzone battagliera anche di pessima qualità, come possono essere gli inni patriottici, serve benissimo per incitare gli animi, per commuoverli, ma che per battere il nemico – Lu Xun parlava degli ufficiali di artiglieria – è meglio usare i cannoni».

    Il discorso se durante la guerra sia possibile o meno scrivere poesia lo stiamo portando avanti noi, ma non è presente nel testo di Fortini. E comunque a me premeva insistere sul realismo di Fortini e Lu Xun quando riflettevano sulla guerra (e la politica) in contrasto con l’idealismo (per me insopportabile) di tanti “poeti a tempo pieno” o declamatori (a vuoto) di versi contro la guerra.

    @ Cascella Luciani
    Benissimo, « Ungaretti ha scritto poesie sul fronte di guerra, su ogni pezzetto di carta che gli capitasse, fortunosamente, di trovarsi ad avere». E quindi mi sbaglio io se dico che durante la guerra non si scrivono poesie o che è meglio darsi da fare per sopravvivere ecc. ( Come del resto credo abbia fatto anche Ungaretti).
    Sulla deviazione dalla frase di Fortini «per battere il nemico – Lu Xun parlava degli ufficiali di artiglieria – è meglio usare i cannoni» a questa più leggera disquisizione vedere quanto appena detto a Giorgio Mannacio.

    P.s.
    E’ proprio il caso che su un post così lungo e impegnativo sulla poesia ci si debba bloccare su tale questioncina?

  10. @Ennio

    Ma ce ne sarà uno prossimo è così…

    Parti lancia in resta, a testa bassa e il tuo incipit “Benissimo”…
    Ma benissimo cosa?
    Malissimo, Ennio.
    La mia non era una critica al tuo dire precedente, era una notazione, inoltre, e non una citazione. Tu ne fai una citazione, mettendola tra virgolette e la travisi.
    Ungaretti in trincea scriveva poesie – quando ne aveva il tempo, immagino -, non aveva carta extra-strong a disposizione né tanto meno mezzi virtuali, era un poeta o tale sarebbe diventato o avrebbe continuato a essere, e quando gli capitava, in guerra, scriveva (poesie).
    Non ho detto “Ma Ungaretti… “, non ho messo in piedi una contrapposizione, non ho usato un “ma” avversativo, mi è solo tornato in mente che…
    Che in una trincea di violentissima guerra, – quando ne aveva il tempo, immagino -, scriveva poesie.

    1. @ Anna

      Nessuna lancia in resta etc. E poi vedi che a me le critiche fanno bene. Facendo una citazione della tua notazione, non credo di aver travisato nulla. L’esempio di Ungaretti che scrive poesie mentre è soldato in guerra non mi era venuto in mente. E smentisce la convinzione che durante le guerre non si scrivano o possano scrivere poesie. Affermazione non imputabile a Fortini – ripeto – ma venuta fuori nel dialogo fra me e Mannacio.

  11. …penso che in condizioni di emergenza, in guerra come in carcere, proprio per sopravvivere si senta la spinta a fissare la testimonianza calda di qualcosa che vorrebbe travolgerti, magari solo con un appunto che poi riprendi in tempi più normali. Le lettere dal carcere di Gramsci (certo lì i tempi erano forzatamente lunghi), come le poesie dal fronte di Ungaretti… Tuttavia l’importante è che possiamo ora leggerle e sappiamo che chi ha scritto ( nella contemporaneità o nella rielaborazione del ricordo) quelle esperienze le ha anche vissute…Ora invece mi preme sciogliere un altro dubbio: se del nostro tempo assistiamo a molte tragedie e in qualche modo ci sentiamo coinvolte, anche se non le viviamo direttamente, possiamo scriverne? Non dico come cronaca, in forma giornalistica, ma all’interno del dramma umano? O si tratta di una forzatura, di una menzogna, dato che quelle esperienze non si stanno vivendo sulla propria pelle? Faccio un esempio: in questi giorni vediamo stazionare alla Stazione Centrale centinaia di profughi, posso scriverne per il solo fatto che anch’io mi son “sentita” così nel tempo e sono solidale con loro, anche se ora non sono lì a dormire per terra e a grattarmi per la scabbia?

    1. @ Locatelli

      “si tratta di una forzatura, di una menzogna, dato che quelle esperienze non si stanno vivendo sulla propria pelle? ”

      Se dovessimo ridurre la letteratura soltanto a quella di chi ha scritto sulla base di esperienze vissute “sulla propria pelle” (solo sulla pelle, eh!) dovremmo buttarne via a dir poco l’80%.
      Suvvia, ho appena scritto un post in cui sia Freud che Lorenzo Renzi che Fortini dicono che il gioco, la finzione, la menzogna in letteratura ( e in poesia) possono spalancare ( non sempre, ma spesso) gli occhi su verità che anche chi vive esperienze eccezionali non riesce manco a dire.
      Scrivete, scrivete anche se non siete profughi e avete dormito per terra solo qualche volte in passato! Poi si vedrà. O sarebbe meglio andare a fare un giro di persona alla Stazione Centrale? Ciao

      1. Non mi sembra che l’osservazione di Annamaria Locatelli “l’importante è che possiamo ora leggerle e sappiamo che chi ha scritto ( nella contemporaneità o nella rielaborazione del ricordo) quelle esperienze le ha anche vissute…” sia così banale.
        Ariosto non è mai stato sulla luna come Astolfo, ma ha fatto l’esperienza del poeta di corte che doveva divertire il signore. Nel ‘900 la poesia rifletteva su se stessa, guardandosi allo specchio il poeta parlava dell’essere poeta mentre scriveva la poesia (e qui si incontra facilmente Brecht “in me combattono/l’entusiasmo per il melo in fiore/e l’orrore…), era metapoesia, scrittura poetica autoreferenziale: il fatto è che la Storia e la Teoria passavano dalle nostre parti europee.
        Oggi quella autoreferenzialità è diventata consapevolezza del proprio intorno, piccolo ma esperienziale, o coltivazione di proprietà elitistiche per connettersi a Verità esterne e superiori, o agency, e il nesso tra finzione e verità si è fatto misero e improbabile.
        In realtà riguardo a quel nesso siamo in terra incognita. In posizione sociale periferica e in periferia geografica e politica, i poeti fanno proprio bene a tenersi fondati nell’esperienza, per poter immaginarie previdenti e chiarificanti “menzogne”.

  12. @Ennio.
    Fine della schermaglie. Leggo le tue precisazioni concordando sul fatto che la ” poesia politica ” non deve necessariamente parlare di politica e di guerra. Poesia civile va forse meglio perchè ampia il ” campo ” del discorso poetico ad una serie di considerazioni che hanno ” nel rapporto con gli altri e nelle responsabilità verso gli altri ” la loro radice.
    Sono contento ovviamente di non essere ” un poeta a tempo pieno ” ( ho fatto anche altre cose di una certa utilità collettiva nella vita ) e dunque posso anche soffrire meno il mio isolamento come poeta. Un cordiale saluto. Giorgio.

  13. SEGNALAZIONE

    Come una narratrice parla di una vicenda che non ha vissuto “sulla propria pelle”:

    Lo spettatore indifferente

    Intervista di Guido Caldiron Un incontro con la scrittrice croata Daša Drndic, autrice del romanzo «Trieste». Sarà ospite stasera alle 21, in piazza del Campidoglio, al Festival delle letterature. «Non è stata solo l’Italia a non essere disposta ad affrontare gli eventi più oscuri del proprio passato, si tratta di una tendenza che ha riguardato anche molti altri paesi»

    Uno stralcio:

    Ho cer­cato di met­tere in evi­denza come tutto ciò abbia a che fare con quanto accade intorno a noi anche al giorno d’oggi, e di mostrare come siamo fon­da­men­tal­mente indif­fe­renti a tutto quello che non ci riguarda diret­ta­mente o ci minac­cia in prima per­sona. La prima idea per il libro mi era venuta dopo aver letto un pam­phlet, tro­vato in rete, che rac­con­tava la sto­ria di una fami­glia ebrea che si era con­ver­tita al cat­to­li­ce­simo negli anni Trenta e di cui alcuni mem­bri si erano iscritti al Par­tito fasci­sta ed ave­vano lavo­rato per l’amministrazione tede­sca dopo il 1943. Di con­se­guenza que­sta fami­glia non aveva dav­vero pro­vato gli orrori della guerra sulla pro­pria pelle, aveva tro­vato un modo per sal­varsi. In quel pam­phlet non c’era alcun rife­ri­mento a ciò che era acca­duto alle vit­time di fasci­sti e nazi­sti, ai vicini e agli amici di que­sta fami­glia, gente che stava pas­sando sotto le loro fine­stre nei vagoni da bestiame verso i campi di con­cen­tra­mento, o che veniva impri­gionata a San Sabba. Non solo non c’era quasi alcuna com­pas­sione per l’altro, non c’era nem­meno coscienza dell’altro. Dun­que ho comin­ciato a costruire la mia sto­ria par­tendo da questo.

    (da http://ilmanifesto.info/lo-spettatore-indifferente/)

    1. …Dasa Drndic dice, presentando il suo romanzo: “Come siamo fondamentalmente indifferenti a tutto quello che non ci riguarda direttamente o ci minaccia in prima persona”. Credo di non essere tra le persone indifferenti e quando ho espresso il mio dubbio sulla opportunità di scrivere incondizionatamente sugli orrori del nostro tempo, volevo esprimere due pensieri: il tuo stesso, Ennio, di non cadere nell’ “idealismo( per me insopportabile) di tanti “poeti a tempo pieno” o declamatori (a vuoto) di versi contro la guerra”, e quello personale di non sentirmi all’altezza…Cioè per scriverne, secondo me, ci sono delle condizioni: scrivere “sulla propria pelle” (ma anche oltre, dove stanno gli organi vitali), cioè esserne coinvolti e trovare la forma…Ho scritto una poesia sui profughi, ma mi sento sempre un po’ stonata rispetto al loro dramma e impreparata sulla forma…ma non è indifferenza

      1. @ Locatelli

        Ho indicato il motivo della mia segnalazione (Come una narratrice parla di una vicenda che non ha vissuto “sulla propria pelle”). Nessuna allusione ad una tua indifferenza.

  14. Un punto di vista

    Qualche sera fa alla “CONTA” del Ponte Delle Gabelle di Milano è stata letta questa poesia scritta in pieno internamento:

    Non mi avrete

    Ho fame e non mi date da mangiare
    Ho sete non mi date da bere
    …………………….
    ho sonno non mi lasciate dormire

    ……………………..
    sono sfinito mi fate trascinare
    un compagno morto per i piedi
    con le caviglie gonfie e la testa
    che sobbalza sulla terra
    con gli occhi spalancati…

    Ma ho potuto pensare una casa
    In cima a uno scoglio sul mare
    Proporzionata come un tempio antico
    Sono felice Non mi avrete

    Il testo è di Lodovico Belgioioso architetto e poeta milanese mentre era internato in un campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale per le sue idee politiche.
    I pezzettini di carta su cui scrivere poesie se li era procurati rischiando la vita.

      1. …grazie Enzo, sì molto forte questa testimonianza poetica, raccolta, come dici, nel momento di aver vissuto le terribili vicende…E ancora mi si riaccende la questione: quanto la poesia possa (o debba?)avvicinarsi alla vita, senza abbandonare la sua peculiarità? Mi vengono in mente: Orfeo che irrompe nell’oltretomba per “salvare” Euridice, ma la perde…la farfalla che attratta dal calore e dalla luce del fuoco, vi lascia le sue ali… Icaro che precipita in mare, volando vicino al sole con ali di cera…Insomma la poesia perderebbe la vita accostandosi troppo alla vita?

        1. Annamaria, infatti la poesia di Belgioioso è solo un estremo, l’altro sarebbe quello dell’osservatore che scrive del disagio, in mezzo c’è tutta la gamma delle varianti . La tua domanda “se ..assistiamo a molte tragedie.. possiamo scriverne” contiene in sé una risposta positiva anche perché credo non è mai mera osservazione del disagio o del dolore ma un immedesimarsi in esso. E non si tratta di menzogna!

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