La tempesta

ancr

di Giorgio Mannacio

1.
Quel giorno pensai che il passaggio dalla giovinezza ad una età più adulta può essere segnalato anche dalla decifrazione di una scritta che sembra incomprensibile. E’ la maturità a produrre questo effetto o viceversa? Chissà. La prima scoperta la ebbi quando capii che l’abracadabra che leggevo su un vecchio coltello da cucina come se fosse una sola parola ( acierfondugaranti ) era in realtà costituito da tre parole francesi e significava: acciaio fuso garantito.
Quando Giovanni ed io arrivammo davanti alla Osteria del Ponte, a pochi passi dal punto in cui il Toce (secondo altri: la Toce ), disceso dalla Val Formazza, si butta nel Lago Maggiore, il temporale di breve durata e di scarsa intensità era già passato e un bel sole dorato illuminava l’insegna e, sotto di essa , l’acronimo A.N.C.R che il mio compagno mi spiegò subito: Associazione nazionale combattenti e reduci. Un po’ più tardi lessi su un’enciclopedia che l’associazione era nata nel 1919 con il nome di Associazione nazionale combattenti (A.N.C.) per unire e promuovere il cameratismo tra i reduci della Prima Guerra mondiale. Con R.D. 17 giugno 1923 n. 1371 il Governo Mussolini la trasformò in A.N.C.R. , controllandone i vertici. In essa confluirono – per una sorta di par condicio – anche i reduci della Seconda Guerra mondiale.
All’interno ci accolse un certo numero di persone per lo più anziane che catalogai subito come buontemponi di paese, intenti com’erano a giocare a carte trincando. Di bellicoso restavano solo una porticina chiusa, di fianco al bancone, con vetri appannati da uno strato di polvere e una targhetta di ferro : Sede dell’ANCR. Mi divertii subito all’idea che l’allegro gioco di quelle persone e la memoria delle guerre coabitassero in un unico locale. Chi era l’ospitante e chi l’ospite? Quella porta chiusa segnalava una kantiana pace perpetua o soltanto la speranza di essa? Chissà.
Nel tragitto per arrivare ci eravamo chiesti se Tonino Fara, la persona che dovevamo incontrare, sarebbe arrivato. Giovanni mi aveva detto che era dipendente di una grande impresa produttrice e distributrice di elettricità e che spesso i temporali lo costringevano a riparazioni improvvise ed urgenti sulle linee. Sarebbe arrivato? Nel locale – dove era conosciuto – nessuno l’aveva visto ancora ma un vecchio alto e robusto con barba da profeta ci rassicurò. Se Tonino ha detto che arriva, arriva. E poi il temporale non era stato di quelli che ti danno seri problemi.
In quel luogo ero spinto dall’amore, da un progetto di trovare una casa per il fine settimana e da un libricino che avevo trovato su una bancarella di libri usati, a Omegna , cittadina operaia di acciaierie e piccoli elettrodomestici. Esigua pubblicazione di 140 pagine, copertina grigia, dimessa ma decorosa : L’Ossola nella Resistenza italiana di Anita Azzari, La Cartolibreria Antonelli – Domodossola 1954. L’avevo divorato nei giorni precedenti e ne ero rimasto colpito. Faceva nomi e cognomi, indicava luoghi reali (città, cittadine, paesi, frazioni, località, alpeggi, sentieri, fiumi, torrenti, specchi d’acqua ) come a me piace si faccia in una narrazione.
Volevo non solo leggere ma anche sentir parlare della guerra, di una guerra particolare ma vera e nascosta. Giovanni m’aveva detto che Tonino era in grado di dirmi qualcosa.
Il profeta non aveva sbagliato perché da lì a poco il personaggio atteso si presentò, vestito con un giubbotto impermeabile blu scuro e un cappellaccio. Se lo tolse e mostrò un viso rotondo, quasi paffuto, un naso leggermente all’insù, due occhi chiari e un sorriso ironico ed accogliente insieme. Avevo portato con me il libricino della Azzari e lui mi disse che – se l’avevo letto – sapevo già tutto. Dandogli del lei lo pregai, in qualche modo, di raccontarmi qualcosa cui aveva personalmente partecipato. Non si mostrò contrariato da questa mia curiosità ma respinse il lei. Non sei fidanzato con mia cugina? E sorrise per un momento.

2.
Nel 1994, anno cui si riferiscono i fatti che mi raccontò, aveva diciannove anni e viveva con i genitori in una casetta pomposamente chiamata villino. Era inserita in un agglomerato di abitazioni, quasi un villaggio, poco fuori il paese di Gravellona Toce. Suo padre era stato disegnatore tecnico in una officina della zona e, a quel’epoca, da pensionato, si dilettava a dipingere. Aveva una certa abilità nel fissare sulla tela – con minuzia tra l’ingenuo e il fiammingo – affollamenti di persone nelle fiere, nei mercati, nelle strade dei paesi o in riva al lago. Insomma aveva acquistato una certa fama locale. Era guardato con una certa sufficienza da repubblichini e tedeschi che presidiavano la zona dato il suo carattere mite anche se era nota la sua appartenenza ad una famiglia da sempre “ rossa “ (  comunisti e socialisti erano, per i neri, la stessa cosa). La mamma di Tonino era stata maestra d’asilo e lui, Tonino, ancora senza lavoro, aveva imparato qualcosa sulle linee elettriche e le cabine di trasformazione, frequentando i capi zona dell’impresa elettrica locale. Durante i temporali – e nella zona sono davvero frequenti e a volte davvero impressionanti per intensità – si rendeva utile arrampicandosi sui pali e, a volte, operando anche sui trasformatori. Se non altro per questo, era lasciato in pace. Lo conoscevano tutti e lui, qualche volta aveva portato ai partigiani – che “ infestavano la zona “- vettovaglie e vestiario. Le valli dell’Ossola sono impervie, di difficile accesso e nello stesso tempo provvidenzialmente vicine alla Svizzera neutrale. Si prestavano bene ad azioni di guerriglia. Che dire poi della Val Grande? Un rifugio ideale. Un alpinista (Teresio Valsesia), molti anni dopo la fine della guerra, l’aveva definita, in un suo libro, come “ l’ultimo paradiso “, specificando che si tratta dell’ “area selvaggia più vasta d’Italia“. Essa si estende tra il Lago Maggiore e la regione Ossola. Ma mano che si sale dai paesi più bassi alla cima del Monte Tògano (2400 metri) che la separa dalla dolce Val Vigezzo, la sua fisionomia cambia. Si incontrano, in uno scenario di bellezza selvaggia, sentieri impervi, burroni inaccessibili, boschi impenetrabili, cascinali isolati, alpeggi solitari, forre, caverne, massi erratici.
I partigiani stavano più in basso, vicini agli ultimi paese (Cicogna, ad esempio, a 700 metri). Le popolazioni locali li ammiravano e li aiutavano. In caso di attacchi si portavano in alto, quasi irraggiungibili. Scendendo a valle e unendosi ad altre formazioni partigiane di vario “colore“ avevano compiuto sabotaggio importanti: lì, a due passi, corre la linea ferroviaria del Sempione. Così i nazifascisti decisero di “ ripulirla “ annunciando tale operazione su vari cartelli affissi nei paesi del bassopiano.

3.
Chi erano quelli che stavano lassù, chi erano quelli nascosti più in basso lungo il Toce, entrambi etichettati come “banditi“ ? Tonino mi parla – con semplicità quasi disarmante – di persone comuni sospettate di essere comunisti, di militari stanchi di combattere o non più obbedienti ai comandi della guerra, di altri con qualche idea o progetto in testa sul futuro del loro paese.
A Domodossola (chiamata quasi affettuosamente Domo) alcuni di questi avevano fondato una repubblica. Ne facevano parte anche personaggi dai nomi sconosciuti e famosi. Dopo il rastrellamento della Val Grande la Repubblica fu ripresa dai nazifascisti. Alcuni si salvarono riparando oltre confine. Lassù c’erano uomini di tutte le parti d’Italia. E questo sembrava molto bello agli altri. Si diceva – e fu confermato dai fatti successivi – che c’era anche una donna del Centro Italia. Si ammirava il loro coraggio e li si aiutava, potendo. Insomma la Val Grande era una sorta di spina nel fianco e si decise di estirparla. Era il mese di giugno del 1944.
I fascisti scesero dal Nord, dalla Valle Cannobina; i tedeschi dal Sud e precisamente dal Lago di Mergozzo, attraverso il paesino di Candoglia (quello dalle cui cave si estrasse temporibus illis il marmo per il Duomo di Milano) e alcuni sentieri tortuosi ( frequentati solo da animali selvatici e cacciatori ed esperti escursionisti) che si aprono tra i Corni di Nibbio, cime basse dai profili spettacolari. I partigiani, alcuni ancora fermi a Cicogna ed altri più su, furono presi in mezzo, tutti. Il rastrellamento ebbe inizio e finì in poco tempo.
Quella manovra dal basso non poteva essere stata suggerita e guidata se non da uno del luogo e si pensò subito al Gobbo, un ciabattino deforme che abitava tra Mergozzo e Candoglia in una casa isolata. Era – notoriamente – una spia protetta dai repubblichini e tollerata dai tedeschi non pratici della zona.
Si seppe che erano stati fatti quarantatre prigionieri, che sarebbero stati portati giù a Fondo Toce, e qui giustiziati. Quello che avevo letto sul libro della Azzari mi fu confermato da Tonino. Lui (disobbedendo ai genitori) era andato sul posto in compagnia di Guido Oliva, un amico di un paese vicino, sospettato anche lui di essere un “rosso“, ma guardato solo a vista. Era di famiglia ricca e influente e poi pensavano che lasciandogli il collare lungo avrebbe finito per commettere qualche sciocchezza e smascherarsi definitivamente.
I partigiani furono portati dove sorge il monumento commemorativo (chiamato oggi Il Parco della Memoria). Il tragitto dalla Val Grande al lago non è lungo, ma – come si seppe e come riferisce l’Azzari – i prigionieri furono fatti fermare diverse volte, in luoghi diversi, e sottoposti a torture. Ne mostravano tutti i segni, là sul luogo del loro destino. Alcuni non ce la facevano più a reggersi sulle gambe e furono calpestati dai loro aguzzini. I fratelli repubblichini si mostrarono – nell’occasione – più spietati degli stessi tedeschi. Erano in tutto quarantatre e furono fucilati tre per volta. Uno di loro scampò e così – all’esito della carneficina – l’atroce divisione suggerita dagli uomini mortali alla Morte immortale risultò senza resto.

4.
Era stato un giugno insolitamente torrido, per quella zona. Tonino mi avverte che, da questo punto in poi, il libro che ho con me non serve. A fine mese scoppiò un temporale violentissimo, una sorta di nubifragio. Lui, rintanato in casa, aveva mandato al diavolo mentalmente, tutte le possibili richieste di intervento durante la buriana, inutili finchè questa durava. I suoi non si sarebbero mossi certamente dalla vicina Arona, dove si erano recati a trovare un parente. La tempesta sarebbe passata come ne erano passata altre. Finita, avrebbe aspettato eventuali chiamate. Ed ora stava tranquillo. Sentì, da fuori, un richiamo conosciuto. Aperta la porta con cautela vide l’amico Oliva accompagnato da un ‘altra persona sconosciuta. L’amico gli fece l’inequivocabile segno di seguirlo e lui, senza pensare minimamente alle ragioni di esso, aveva indossato i suoi abiti da intervento ed era uscito. I due avevano delle, biciclette. Guido lo prese in canna e sotto quel diluvio, accecati e sferzati si erano diretti verso Mergozzo. Aveva capito. Sfondarono la porta del Gobbo, sorprendendolo nel sonno. Guido lo stordì con un pugno e lo imbavagliò. Lo portarono in un boschetto a pelo dell’acqua del lago che ribolliva. E qui gli sparò due colpi di pistola in testa. Fu facile scavargli una fossa con due vanghette da campeggio nel terreno marcio di pioggia, lo gettarono dentro, ricoprendolo rapidamente. Una leggera ondulazione del terreno segnalava che sotto v’era qualcosa di nascosto e allora su comando di Guido la spianarono con i piedi. A questo punto Guido gli intimò di tornare a casa di corsa. Loro avrebbero lasciate ben visibili le biciclette – conosciute nella zona orientando così le ricerche solo su loro due – e si sarebbero portati verso Domo, la cui repubblica era ancora in piedi. Quando ci cercheranno – disse – saremo al sicuro o quasi, magari in Svizzera. Si erano lasciati con un stretta di mano. Ed io – concluse – sono qui a raccontartela. Ci fu un attimo di silenzio. Poi Tonino simulò con la mano una pistola e me la puntò alla tempia dicendomi: “ Ma tu sposerai la mia bella cugina “. Per una volta tanto non nascose la sua emozione e mi sorrise commosso. Ci abbracciammo.

Giorgio Mannacio, gennaio – maggio 2015.

Avvertenze.
I luoghi citati – salvo L’Osteria del ponte – sono reali ed appartengono tutti al dipartimento Verbano- Cusio – Ossola della Regione Piemonte.
Anche i fatti narrati sono reali. Ne parlano i due libri da me citati.
I personaggi sono, in genere, trasfigurazioni di personaggi reali. Guido Oliva è figura inventata cui ho attribuito un cognome della zona. Tonino è un personaggio
reale, morto diversi anni fa e indicato con un cognome non suo ma comune in quei luoghi . L’episodio del Gobbo mi fu narrato da Tonino che lo colloca, però, presso Sesto Calende.
( Varese )

5 pensieri su “La tempesta

  1. …ringrazio Giorgio M. per questo racconto che offre diversi spunti di riflessione e di lettuta ( anche di rilettura quando si arriva, maturando, alla vera comprensione)…Mi sembra, prima di tutto, un racconto di memorie di guerra e di una guerra particolare, come fu quella partigiana. Memorie da rimuovere da uno stanzino buio e polveroso, attiguo ad una vecchia osteria situata a pochi passi dalla confluenza del Toce nel Lago Maggiore, dove buontemponi di paese trascorrevano il tempo giocando a carte e trincando, in fondo un buon cane da guardia di qualcosa di molto prezioso…Memorie gloriose ospiti di un presente che magari non lo è più, ma può ancora consegnarle intatte ad un giovane, perpetuandole. La storia dei partigiani della Val d’Ossola, lette in un libro di memorie e sentite raccontare cinquant’anni dopo da uno di dei protagonisti di quelle vicende di lotta che sfociarono nella morte di quarantadue persone torturate e giustiziate dai “fratelli” repubblichini e dai tedeschi…e la conseguente vendetta portata avanti da alcuni compagni partigiani nei confronti della persona considerata responsabile del tradimento presso i tedeschi…Questo racconto ci parla anche della “morale” del tempo di guerra, che non è quella del tempo di pace, ma, quando esista, obbedisce comunque a delle regole di lealtà, di coraggio e di giustizia…

  2. Oltre che ben scritto, ma già lo sappiamo, e ben raccontato, trovo che sia un racconto benefico; nel senso che non ci si stanca di queste storie perché sono di un vicino passato, del quale si può provare nostalgia… non certo dei nazisti o dei fascisti, né della guerra, ovviamente, ma della solidarietà ostinata, silenziosa, per una causa giusta, necessaria, anche se disperata; eppure s’è fatto, di giorno in giorno, con tanti lutti, dolore e rabbia, giungendo anche all’omicidio sacrosanto di chi si dimostrò pericoloso per tutti. E viene da dire basta! che non ci si dovrebbe ammazzare, nemmeno per giustizia. Basta ma ci risiamo. In verità non ne siamo mai usciti: mentalità che non cambia, evoluzione troppo lenta, permanenza di privilegi e disparità, egoismo che genera ignoranza, furbizia a buon mercato, menzogne su menzogne. Leghisti che fomentano l’odio, che creano nemici inesistenti, e di nuovo fascismo, voglia di totalitarismo, di nazionalismo regressivo, socialmente astorico ma che funziona per l’oggi, come se una semplice mossa di scacchi bastasse a delineare un futuro roseo per l’umanità. Ma funziona, nell’oggi purtroppo funziona. Così domani saremo punto a capo, più o meno nello stesso punto a capo di cinquant’anni fa. Ma allora c’era almeno la guerra dei fucili, che oggi a me pare un fatto romantico, quasi una storia d’amore.

  3. Un racconto fitto fitto di nomi di persone e di luoghi, di laghi valli e paesi, e di tempi. Si incrociano le valli, salite dai partigiani e ridiscese da fascisti e tedeschi per l’aggiramento e l’imboscata, si incrociano i mesi e le stagioni, o meglio il freddo la pioggia lo scuro e la primavera, si incrociano le età degli uomini e le stagioni dei libri.
    Si incrocia il tempo della memoria, un fondo ampio e sicuro, da risvegliare appena con brevi cenni, qualche pagina, una conversazione, un’intesa che rifluisce in quel fondo, nella memoria attiva.

  4. Molto bella ed emozionante come sempre la scrittura di Giorgio Mannacio,
    resta impressa nella mente e nel cuore come quando si scoprono grandi verità e saggezze. Il racconto con quel finale ironico lascia il lettore ancor più “colpito” (data la pistola)
    Quei luoghi che conosco, come per magìa mi portano le loro voci,la storia, i loro profumi , le frescure e la grande dignità di quella gente,
    Grazie Giorgio.

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