Molti in poesia e poesia esodante. (Appunti)

moltinpoesia astrazione

In riferimento alla mia recente presa di posizione (Per i molti in poesia) e anche per rispondere ai vari commenti di Mayoor, Fischer, Locatelli, sto lavorando ad un ripensamento del discorso su moltinpoesia e poesia esodante. Pubblico nel frattempo il paragrafo di un vecchio saggio in cui tentavo di definire cosa intendere per poesia esodante (in stretto riferimento al concetto di moltinpoesia) e invito commentatori e lettori a mandarmi appunti, critiche, domande di chiarimento che integrerò nella mia riflessione [E.A.]

di Ennio Abate

Ho tentato varie volte di definire cosa intendere per poesia esodante. L’ho fatto partendo da alcune mie poesie, e in particolare da un testo, Ultimo dialogo tra il vecchio scriba e il giovane giardiniere (2002-2009), dove ho fissato il passaggio dal mio giovanile, fiducioso, accostamento alla cultura umanistica (unica stella osservabile e accostabile allora per me dal Sud d’Italia) a una fase successiva di contestazione delle idee ricevute e di ricerca poi di un tipo di poesia che tenesse in conto l’esperienza “demitizzante” fatta da immigrato in una città moderna e industriale come Milano (e la sua periferia). Potrei riassumere il percorso come un passaggio da una (istintiva) poetica dell’io a una (meditata) poetica dell’io/noi.
Oggi chiamo questa ricerca con un nome un po’ complicato: «esodante» (da ‘esodo’, che fa riferimento sia al libro della Bibbia sia al dibattito sul concetto di esodo, sviluppatosi in Italia attorno agli anni ’80-’90 del Novecento, condotto con varie sfumature da autori che andavano da Walzer a Negri, a Virno a De Carolis e che ho seguito dalla mia collocazione di “intellettuale periferico”). Potrei più semplicemente dire, per farmi intendere dai veri ingenui (non dai falsi ingenui): esodo come fuoruscita dai discorsi da cui si proviene; e, nel campo di cui ci stiamo occupando, poesia che non si ferma alla poesia.
In successive altre poesie e riflessioni ho tentato poi, dopo lo shock di quello che ho chiamato immigratorio, di elaborare quello delle nuove guerre “umanitarie”, tenendomi a distanza sia dal dogma dell’autonomia della poesia sia da certa “poesia civile” o “avanguardista” a mio parere standardizzatasi, riducendo il tasso di liricità (senza mai abolirlo, però) e assumendomi i temi di un noi o, più precisamente, di un inquieto io/noi permeabile all’orrore della storia e delle società e in distacco crescente dalle tradizioni culturali del periodo storico in cui mi sono formato (che possono indicare sempre coi nomi comuni e ideologici di destra/sinistra e cattolicesimo/comunismo). Con l’occhio a questo mio percorso esistenziale, poetico e intellettuale, propongo qui, schematicamente, queste definizioni-tesi sulla poesia esodante:

a. La poesia esodante, essendo scritta in Italia, dunque in città occidentalizzate, si sofferma per forza di cose sull’ovattato orrore quotidiano (di “pace”, parcellizzato, quotidiano, normale), ma si sporge sull’orrore storico del mondo, quello passato e quello presente e si sofferma sulla politica dei potenti, su guerre,sofferenze, fatti di sangue.

b. La poesia esodante si sforza di destarsi dal sogno della poesia. Almeno un po’. Ma questo po’ conta. (Perché una certa poesia ha messo radici nel sogno e là vuole unicamente o soprattutto permanere).

c. La poesia esodante è tentativo di rompere gli steccati (tutti e non solo quelli che comodamente attribuiamo agli altri) in cui oggi sta una certa poesia (minimalista, orfica, formalistica, verginale, adamitica, fatua o agghindata di tecnicismi e manierismi). E rimettersi a contatto con la realtà e i conflitti sociali, come fecero a suo tempo le avanguardie, i neorealisti e più di recente le neoavanguardie.

d. La poesia esodante rifiuta la netta distinzione tra poesia e politica (pur sapendo i pericoli di una cattiva mescolanza tra le due attività, non evitati dai sunnominati movimenti: surrealisti, neorealisti, neoavanguardie). Non chiede ai poeti di tramutarsi in politici o di mescolarsi con loro, ma di maneggiare la politicità del linguaggio (anche di quello poetico) e farla incontrare con quella di veri costruttori di polis.

e. La poesia esodante abbandona l’oasi di piacere-libertà-bellezza della Poesia. Che non esiste. Che è un’ideologia della poesia, non dissimile dal vischioso petrolio di brutti pensieri-teorie-ideologie – prodotto a barili dagli specialisti dell’orrore del mondo e della storia.

f. La poesia esodante mira a ciò che la poesia migliore – che parta dall’io lirico o da un noi epico – ha sempre fatto: pensare l’orrore del mondo e della storia. Non ha cambiato il mondo, ma la testimonianza dell’orrore l’ha sempre data e in modi spesso più penetranti di altri saperi. La poesia esodante non cambierà il mondo? E con questo? Può però pensarlo. Non ha armi per rivoltarsi assieme ad altri? Forse, ma sa che nel passato ci sono stati poeti capaci di pensare, poetare e anche agire con altri, molti altri e non con le solite élite dei potenti.

g. La poesia esodante è quella di poeti che sanno di non essere liberi. Che non cercano nella poesia compenso individuale alla illibertà crescente delle società. Che non coccolano una loro presunta libertà, che consisterebbe (come fossimo ai tempi della Controriforma) nello scrivere al di fuori delle “precettistiche”. Visto che il vero, unico, Precetto, cui siamo tutti sottomessi, anche quando scriviamo poesie, anche quando assaggiamo un pizzico di “felicità” in poesia, è quello del Capitale, un Padrone e Nemico che pochi tra noi oggi sanno nominare, riconoscere e contrastare.

h. La poesia esodante sa che la bellezza, quella che ancora può esserci anche in poesia, è segnata dall’orrore e vi convive. La bellezza non è tutto, non viene neppure «innanzitutto»; e, se la si indaga senza innamoramento estetico, non può che mostrare anch’essa l’orrore del mondo e della storia. È segnata da quello. Gronda, pur essa, di «lagrime e sangue», che non si vogliono vedere. Lo sapeva bene, perché l’orrore storico stava per ghermirlo e la bellezza non gli fu scudo sufficiente dai colpi mortali in arrivo, Walter Benjamin. Affermare, come alcuni insistono a ripetere, l’inscindibilità di poesia e bellezza è non tener conto che la poesia, se copre con la bellezza l’orrore, di esso si nutre e si fa complice. Meglio che la poesia esodante sappia mostrare la fragilità e la forza dei desideri umani senza ricorrere al feticcio della Bellezza.

i. La poesia esodante non liquida la domanda fondamentale su quali siano i modi con cui la realtà può entrare in poesia. Sa che essa “così com’è” non entra nelle parole della poesia come in una scatoletta preconfezionata. Come del resto non entra in una formula matematica o chimica o in un concetto filosofico. Sa che la realtà sfugge alla forma. Sa che la forma (e la forma in generale, non solo la “bella forma”) è in sé già distanziamento (problematico), se non repulsione (problematica) della realtà. Fortini ricordava che la forma è segnata dal marchio secolare dei dominatori. E lo stesso marchio segna pure la “non forma” (variante in effetti della forma), adottata da quanti (le avanguardie) hanno creduto così di aver trovato una scorciatoia per trasgredire e aggirare il potere della forma (che è potere, da alcuni secoli, del Capitale).

l. La poesia esodante riconsidera dal suo punto di vista i tentativi sia dei poeti fedeli alle forme della tradizione, che in quelle vecchie botti immisero nuovo vino sia dei poeti che hanno voluto slogare le forme tramandate facendosi camaleonti e mimi di quelle caotiche o mostruose o “patologiche” accumulatesi in epoca moderna e postmoderna. Pensare in poesia l’orrore del mondo non può significare cedere a tale orrore, al Niente, all’«enorme, indomabile inconscio biologico, un inconscio preumano e postumano, dove tutto è in metamorfosi» (Berardinelli), che troppi vedono scorrere e gonfiarsi nel fondo dell’abisso storico degli ultimi secoli o di tutti i secoli. Non ne verrebbe un linguaggio (indispensabile approdo per il poeta) capace di accogliere in sé la “forma informe” o «senza limiti e senza confini» del mondo, ma la resa ad esso e la negazione del fare poesia.

m. La poesia esodante non è surrogato o ripresa dell’impegno (etico, politico) in poesia. Guarda con rispetto a quelle esperienze, le difende dalla denigrazione degli odierni revisionismi, però non si fa riassorbire in quelle poetiche. Per la semplice ragione che sono venute meno tutte le condizioni sociali e culturali che negli anni del secondo dopoguerra e attorno al biennio ’68-’69 le permisero e sostennero. A riproporle artificiosamente (come si è tentato di recente con l’antologia «Calpestare l’oblio»: qui) si svela presto l’equivoco di ogni rifondazione. La poesia esodante sa che la sua eticità e politicità sono da costruire e da controllare su un terreno più ignoto, non su quello di una qualche rassicurante tradizione.

n. La poesia esodante si distanzia sia dal formalismo (o estetismo) sia dal contenutismo (spesso mera propaganda dell’ideologia del Noi dominante). Il contenuto, però, va giudicato anche quando ben formalizzato! Contenuti che, con i saperi in nostro possesso, giudichiamo nichilistici, prevaricatori, individualisti, antisemiti, razzisti, anche se raggiungessero in poesia una forma esteticamente originale o persino sbalorditiva, pur essendo de-realizzati (una cosa è ammazzare, altra rappresentare un omicidio) non diventano “altra cosa”, non vengono mai del tutto “sublimati”; e non devono pertanto sfuggire a una verifica critica rigorosa. La loro messa in forma non li “riscatta” dalla melma storica. Restano latenti con la loro carica positiva o negativa (o ambigua) nell’opera. Tra tirannide e libertà, dominio e lotta per liberarsi dal dominio (o ridurlo) il contrasto è ineliminabile (e storicamente irrisolto). La poesia lo può attenuare, svelare (Foscolo), occultare ma lo può anche sottilmente esaltare, non essendo mai del tutto neutra. La poesia esodante, dunque, è sempre accorta alla doppia faccia della poesia: oggetto estetico con un suo particolare fascino; grumo di contenuti storici conflittuali mai del tutto spenti.

o. La poesia esodante resta poesia e si muove all’interno del discorso dell’«ambivalenza». Non è discorso diretto, ma indiretto. Non può essere mai immediatamente discorso politico (anche se – ripeto – è in rapporto con la politicità innanzitutto del proprio linguaggio). E non può essere neppure discorso immediatamente corporeo, emotivo, vitale. Può muoversi in una zona definibile lirico-politica o dell’io/noi. È/potrebbe essere poesia esodante quella che rivela una sua politicità, anche quando parla di una rosa (Celan per tutti). O quella che ha una sua liricità, anche quando parla di un orrore storico ben preciso e nominabile con altri saperi. Riconosce che anche nell’io isolato ci può essere non solo universalità generica ma politicità. E sa pure che il noi non è sempre e solo ideologia, negazione della individualità, comunitarismo più o meno fusionale e tribale.

p. La poesia esodante è critica continua, intelligente, tenace, di tutto quanto ci impedisce di accedere a una maggiore comprensione della realtà (e della poesia e delle forme e delle tecniche per dir meglio e con più efficacia quello che abbiamo da dire su noi e sul mondo). Tale critica è in parte accompagnamento (musica di sottofondo) dell’atto poetico e in parte svolta proprio tramite esso. La poesia esodante non si dà perciò un fine astratto da raggiungere (fosse la bellezza, la morale, l’impegno politico o altro) Essa critica di fatto i Valori se si presentano come astrazioni pericolose, ideologie, impedimenti della stessa ricerca poetica. Per poesia esodante non s’intende la propaganda di un valore qualsiasi, né una forma laico-borghese di religione o un’autoterapia o un’autoconsolazione. S’intende, invece, un’attività intuitiva-pensante in sintonia per quanto è possibile (come accade anche per le scienze e altre forme di conoscenza) con le trasformazioni del mondo reale (preciso: interno ed esterno; soggettivo e oggettivo).

3 pensieri su “Molti in poesia e poesia esodante. (Appunti)

  1. Io non vivo la brutalità (Brecht), che è però intorno a me in televisione sui giornali in rete, mediata dai funzionari della cultura che mette me tra i sicuri (vecchia scolarizzata e pensionata) e gli altri, quelli insicuri, o tra i poveri da assistere o tra i criminali da perseguire.
    Se mi sposto in città la brutalità ha le apparenze anonime della fretta, della sfrenatezza, della paura, dell’abbandono, dell’odio soffocato.
    Pur in un contesto di relazioni personali in cui la Difficoltà si è insinuata e serpeggia, per mio conto sono privilegiata, il privilegio consistendo nella cultura acquisita e nel tempo a disposizione.
    Non vivo in zona di guerra, non sono esule, non ho perso il lavoro o la pensione: la brutalità la sperimento nella opacità indifferente del mondo così come viene rappresentato e, per molti, creduto e interpretato.
    Quella opacità, quel lucore nebbioso di cui il mondo splenderebbe nelle correnti rappresentazioni, è tuttaltro che lo “strano lucore” di cui ha scritto Nova, è anzi una soffusa indefinitezza che autorizza un pacifico allontanarsi dal prendere conoscenza della realtà.
    Conoscenza (scientifica, politica e artistica) che sia anche presa d’atto descrittiva, ma soprattutto astrattiva, in risposta agli *interrogativi più ardui*, per produrre *parole-concetti* adeguate a comprendere quanto accade e le ragioni.
    Oggi, in particolare, occorrono anche parole-concetti distruttivi, per lacerare il velo (quello di Maya) delle rappresentazioni ammalianti e falsificanti che ci ripropongono un mondo edulcorato in schemi, affreschi, spiegazioni pacificanti e ipocritamente razionali.
    Qui il lavoro da fare è continuo e collettivo, e comporta per forza un conflitto dentro le Rappresentazioni, tra chi guarda fuori e chi allestisce scene. Non sono una realista ingenua, so bene che la realtà è sempre quella conosciuta, ma anche il conoscere fa parte della realtà e non viene dal cielo, perciò essere realisti è ragionevole, e per questo c’è bisogno davvero che siamo in molti, anche in poesia.
    Lego quindi molti in poesia, con esodo da falsa razionalità (anche la forma per la forma lo è), con conflitto con le lettere accademiche, o intimistiche o estetizzanti.
    Credo che questa sia una prospettiva conoscitiva, ma non ne vedo altre possibili. Anche EA scrive “la poesia esodante sa che la sua eticità e politicità sono da costruire e da controllare su un terreno più ignoto”.
    Il punto “o” apre i bordi del discorso molti-in-poesia, si riconosce l’ambivalenza della poesia che è discorso indiretto e mai direttamente politico. E’ un punto delicato, occorre un discorso di mediazione (che si potrebbe anche chiamare una nuova terra): la poesia anche ma non solo corpo e emozioni, anche e non solo individualità “anche nell’io isolato ci può essere non solo universalità generica ma politicità” (Celan), anche e non solo collegamenti “il noi non è sempre e solo ideologia, negazione della individualità, comunitarismo più o meno fusionale e tribale”.
    Il punto di mediazione si trova nella *politicità del linguaggio*, approdo alla *zona lirico-politica o dell’io-noi*.
    Mi sembra il problema che Mayoor ha posto con la domanda sui tre aggettivi finali della poesia di EA, e il successivo chiarimento: “la soluzione inespugnabile non può trovarsi che nell’esattezza di un verso, costasse anche il pesante giudizio del pubblico come fu nel caso di Ezra Pound. Nessuno oltre a Ennio può sapere quale sia la soluzione.” https://www.poliscritture.it/2015/07/26/per-i-molti-in-poesia/?replytocom=21062#respond
    Il punto “p” successivo collega questa ricerca di mediazione (o di nuova terra) alla poesia esodante come “critica continua, intelligente, tenace, di tutto quanto ci impedisce di accedere a una maggiore comprensione della realtà (e della poesia e delle forme e delle tecniche per dir meglio e con più efficacia quello che abbiamo da dire su noi e sul mondo)”, quindi la colloca ancora in una prospettiva di conoscenza.

  2. …trovo giusto collegare la poesia dei molti alla poesia esodante…La prima infatti o resta vittima (a volte consenziente) dei molti corteggiamenti di una editoria adulatrice e affaristica, finendo frammentata, isolata e senza senso, oppure cerca una ragione di esistere come espressione poetica collettiva di una forma di dissenso nei confronti della troppo spesso atroce realtà dei nostri giorni, cioè poesia esodante…Riprendendo il discorso di Ennio, una poesia che, senza rifiutare la tradizione e la forma, ammette anche nuove forme e rifiuta comunque “il feticcio della Bellezza” , come sua unica caratteristica distintiva…all’interno del discorso dell”ambivalenza”…può muoversi in una zona definibile lirico-politica e dell’io-noi…”
    Per la poesia esodante resta fondamentale l’attenzione alla realtà (oggettiva, quanto soggettiva)in cui viviamo, per poter accendere un faro di comprensione e di critica, anche intorno a se stessa…Credo quest’ultimo uno degli obiettivi più difficili perchè alla fine ci si abitua proprio a tutto, oggi si nasce quasi abituati e ci pensiamo sicuri…
    Mi ha colpito per l’attualità il discorso del 1935 di B. Brecht: “Quando i delitti si moltiplicano, diventano invisibili. Quando le sofferenze diventano insopportabili non si odono più grida. Si uccide un uomo e chi guarda perde la forza. E’ naturale sia così. Quando i crimini arrivano come pioggia, nessuno più grida: basta”…

  3. Agli inizi, quando Ennio aveva incominciato a parlare di ‘poesia esodante’, avevo rifiutato quasi d’istinto quel concetto come se intendesse rappresentare una poesia ‘in esodo’: un ennesimo tentativo di uscire dagli schemi (ovvero dai canoni formali sul come la poesia dovesse essere o dire); o dai dogmi che via via si ponevano (la necessità di una *poesia civile*, o di una *poesia d’avanguardia*, o, addirittura, di una *autonomia della poesia*, ecc.). Il tutto per andare verso una specie di biblica ‘terra promessa’ in cui, finalmente, ci sarebbe stata l’unione, o l’incontro felice, tra la terra e i suoi lavoratori, o, al più, un incontro tra io-noi. Una visione Goethiana esplicitata nel momento in cui il poeta fa dire al Faust “fermati, sei bello!” (1). E quel progetto non mi sembrava molto accettabile e lo avevo esplicitato anche in alcuni commenti.
    Invece, dai punti che Ennio mette giù qui, mi sembra una visione del tutto diversa e più sostenibile. Cito a caso quelli che mi sono sembrati più significativi:
    – *La poesia esodante abbandona l’oasi di piacere-libertà-bellezza della Poesia* (EA), con la conseguente “demitizzazione” della stessa.
    – *La poesia esodante è quella di poeti che sanno di non essere liberi* (EA), ma che nello stesso tempo non cercano nella poesia una compensazione individuale. Non è quindi *una forma laico-borghese di religione o un’autoterapia o un’autoconsolazione.* (EA).
    – *La poesia esodante sa che la sua eticità e politicità sono da costruire e da controllare su un terreno più ignoto, non su quello di una qualche rassicurante tradizione*.(EA)
    E su quest’ultimo punto, a mio parere, si aggancia un passaggio molto importante e che andrebbe declinato meglio: *una poesia che non si ferma alla poesia*.(EA)

    Ennio scrive: * La poesia esodante mira a ciò che la poesia migliore – che parta dall’io lirico o da un noi epico – ha sempre fatto: pensare l’orrore del mondo e della storia*. Ma, in controcanto, Cristiana scrive: * Non vivo in zona di guerra, non sono esule, non ho perso il lavoro o la pensione: la brutalità la sperimento nella opacità indifferente del mondo così come viene rappresentato e, per molti, creduto e interpretato* e fuggevolmente fa cenno ad un privilegio di cui dispone, il *privilegio di una cultura acquisita*.
    Cristiana introduce dunque qualche cosa che può appartenere alla poesia ma che non è ‘orrore’.
    Che ha a che vedere con la bellezza di un lascito, di una eredità.
    So che a proposito del rapporto poesia-bellezza, Ennio è molto scettico perché ne ravvisa il rischio ‘feticcio’: *Affermare, come alcuni insistono a ripetere, l’inscindibilità di poesia e bellezza è non tener conto che la poesia, se copre con la bellezza l’orrore, di esso si nutre e si fa complice*. E riconosce che *la bellezza, quella che ancora può esserci anche in poesia, è segnata dall’orrore e vi convive…. Gronda, pur essa, di «lagrime e sangue», che non si vogliono vedere*.
    Però il problema si pone quando isoliamo bellezza e orrore e vediamo ‘o’ questa ‘o’ quello. L’importante sarebbe poterli vedere nel loro rapporto dinamico, ma questa è la parte più difficile anche perché molti di questi aspetti sono occulti o occultati.
    C’è una domanda che mi pongo: come mai a fronte di questo *orrore* della storia vi è chiamata a rispondere la poesia? Perché l’appello non può essere fatto alla scienza?
    In che termini uno strumento di espressione (la poesia) dovrebbe essere più valido e più adeguato di quello dell’analisi scientifica?
    Ma anche se contempliamo l’apporto delle varie forme d’arte, sembra essere il più privilegiato, come se quello e solo quello andasse al cuore del problema.
    E, nonostante tutto questo, oggi è il più disatteso.
    Se tutta l’arte gode della cifra dell’ambiguità – e di questa cifra il sogno è la massima espressione – la poesia è quella che ne partecipa maggiormente, anche perché è costretta ad utilizzare la parola, ambigua essa stessa.
    Mi viene dunque un’immagine rispetto alla poesia esodante, di cui sottolineo l’aspetto di movimento attraverso il tempo verbale utilizzato (non si tratta quindi di una poesia ‘esodata’ o ‘in esodo’).
    Come il “caminante” di Machado, la poesia ‘esodante’ rappresenterebbe un continuo tessere legami non solo attraverso *un’attività intuitiva-pensante in sintonia per quanto è possibile (come accade anche per le scienze e altre forme di conoscenza) con le trasformazioni del mondo reale (preciso: interno ed esterno; soggettivo e oggettivo)* (Ennio), ma anche attraverso la gestione del conflitto estetico, vale a dire tra ciò che percepiamo con i sensi (bello o brutto che sia) e ciò che ci sta dietro.
    Oscillare tra la bellezza e l’orrore senza rimanerne travolti, come fece Odisseo quando si imbattè nel canto delle Sirene.
    O, come scrive Annamaria, * per la poesia esodante resta fondamentale l’attenzione alla realtà (oggettiva, quanto soggettiva)in cui viviamo, per poter accendere un faro di comprensione e di critica, anche intorno a se stessa*.
    E’ chiaro che in questo progetto di poesia esodante viene molto implicata la figura del poeta che si trova a gestire in solitudine proprio quell’*inespugnabilità* citata da Mayoor e ripresa da Cristiana.
    Ed è proprio per questo che sono importanti i ‘molti’: * trovo giusto collegare la poesia dei molti alla poesia esodante* (Annamaria).
    Da un lato per contenere la solitudine del poeta e dall’altro per permettergli di misurarsi con quella ‘inespugnabilità’, l’unicità del sentire soggettivo espressa proprio in quella *esattezza di un verso*.

    (1) “Vorrei stare su suolo libero/con un libero popolo./ All’attimo direi:/ ‘sei così bello, fermati’!” – J. W. Goethe, Faust, atto V

    R.S.

Rispondi a Annamaria Locatelli Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *