Commenti in emergenza 2

emergenza

Poliscritture – Poesia esodante (intervista di Partesana): qui

da Rita Simonitto

La domanda di Cristiana (*La poesia (l’arte) nasce già come se stessa (anche se non intera e perfetta) in un singolo e poi si socializza, o nasce appena come potenzialità, embrione, e ha bisogno degli altri per diventare se stessa come poesia?*) va al cuore del problema.
C’è un ‘fuori’ da noi (e anche ‘dentro’ di noi esiste un ‘fuori’, quando non lo riconosciamo appartenerci) che attualmente manca di punti di riferimento e questo fatto non può che arrecare un senso di disagio. Disagio al quale cerchiamo di dare un senso ma, siccome questo è un percorso troppo lungo, cerchiamo di dargli un nome, di delimitarlo quindi, di farlo diventare ‘cosa’ perché non continui a circolare come fantasma.
Allora, come scrive Ennio *“Punto alla “cosa” (l’immagine-pensiero, la figura), ma senza averla chiara in mente o intravvederla attraverso un modello approssimativo o regolativo che inforco come fosse un paio di occhiali*.
E poi da questo “garbuglio” scaturiscono due confronti: il primo, con la realtà che ha suscitato il disagio e il secondo con la relazione con il mondo degli altri: ovvero quanto ciò che egli ha raggiunto nel suo lavoro poetico si allontani o si avvicini – e di quanto – al lavoro di altri. ‘Altri’ che, sia ben chiaro, non stanno sempre in un rapporto ‘familiare’ io-noi ma, spesse volte sono proprio ‘altri’, in un rapporto di alterità perturbante, unheimlich, come diceva Freud. Questo è il mio punto di vista.
L’arte è quello strumento che, in potenza, lavorando su stimoli che appartengono al nostro profondo, ci permetterebbe di avvicinarci all’oscuro inquietante e nello stesso tempo ci darebbe la possibilità di comunicarlo.
Quanto al concetto di ‘esodante’, Ennio sembra intendere una ‘fuoriuscita’ da qualche modello: *anche per me esodo è “fuoriuscita” proprio nei termini da te indicati. La sfumatura diversa tra noi consiste forse nell’accento. Io lo pongo sull’assenza (o opacità) dello scopo da raggiungere *. La falsariga citata è quella di Toni Negri – Marx oltre Marx -, o di Gianfranco La Grassa, per il quale la porta da cui si esce è quella di Marx.
Ma, mi chiedo, in che modo la poesia può essere ‘costretta’ in una teorizzazione a priori? La poesia non ha uno scopo se non quello di essere se stessa nel suo peculiare contatto con un reale in continuo movimento, un contatto che si diversifica dall’approccio scientifico il quale necessita di ipostatizzare la fascia oggetto di indagine. Ciò da cui la poesia dovrebbe invece ‘esodare’ è dal ‘luogo comune’, che non solo banalizza la realtà, la impoverisce, ma devia lo sguardo dal luogo ‘vero’ dove l’orrore si compie. Perché veniamo continuamente chiamati ad assistere a situazioni truculente dalle quali ritrarre le nostre ‘anime belle’ dicendoci ‘no, io no’, ‘QUELLE cose lì, io no’. Ci ritraiamo dagli effetti e non ne vediamo le cause. E ciò porta ad una continua deresponsabilizzazione: la montagna diventa ‘montagna assassina’, l’autostrada si trasforma in una ‘autostrada killer’, le trombe d’aria diventano ‘tornado’, i pesanti rovesci temporaleschi diventano ‘bombe d’acqua’. Viviamo regressivamente in una specie di terrore ‘animistico’ che, come in un circolo vizioso, ci porta sempre di più a proiettare verso l’esterno, indistintamente, la causa della nostra angoscia.
Angoscia che non riguarda più una classe (borghese o proletaria che fosse) ma sembra avere a che fare con la rottura di un ordine pregresso e, come in “Aspettando Godot” di S. Beckett, non c’è idea di che cosa potrà apparire all’orizzonte.
Forse la poesia dovrà abitare, in modo esodante, in quei paraggi lì.

R.S.

*Nota di E.A.
Su richiesta di R.S. cancello il P.s. che accompagnava questo commento

10 pensieri su “Commenti in emergenza 2

  1. …esodare, cioè uscire dal “luogo comune”, comporta, secondo me, sia un viversi dentro, in un io che tuttavia è sempre molteplice e spesso “ingarbugliato”, sia un rapportarsi fuori, agli altri per concepire un possibile o impossibile noi, come ad una realtà globale dalla maschera accecante…un doppio (triplo, infinito…) lavoro di riordino delle idee e di trasformazione, mai concluso verso, si spera, una realtà collettiva dal volto più umano…La poesia ci può aiutare, credo, anche se oggi sembra che tutto precipiti…La morte “stracciona” in mare e quella “in abito da sera” nelle discoteche sono le punte dell’orrore di questa nostra estate, credo, e il clima suona la campana…

  2. Riprendo quel mio argomento “la poesia nasce già come se stessa, o appena come potenzialità?” ecc: l’istanza, così condivisa, di poesia esodante indica, per me, che è proprio quell’accordo a priori tra la formulazione originaria e il letto in cui può distendersi che nella crisi presente è venuto a mancare
    Ennio infatti lo chiama garbuglio: perchè non si può distendere, perchè rimane un groppo annodato e implicito?
    Nella mia esperienza poetante, quando mi arriva la formulazione iniziale, un avvio, una “idea” (“vedo”, ma mentalmente, una direzione possibile in cui entrare e camminare) è spesso un avvio che ha un ritmo, un’arsi prima ancora della tesi, è, appunto, un inizio di andamento. Poi, molto presto, diventa un endecasillabo (o altro verso), con mio grande scorno: magari distendo il percorso in versi diligenti ma tortuosi, franti, anche graficamente, con accenti discordanti… ma sempre riecheggiano metri noti. E questo riecheggiare di moti, è, inevitabilmente, riecheggiare di temi, o di allusioni, di memorie, di… già visto vissuto pensato, e inevitabilmente detto.
    Una poesia di m, ecco, da buttare.
    Naturalmente nessuno può alzarsi per il codino e esodare sulla luna “siamo vivi vivi e qui dobbiamo stare” come nella canzone di Alice, allora esodare in altre terre, o meglio, negli intermundia dissimulati dalle plumbee coperture della finzione, del senso comune, dell’ideologia. Poesia esodante come critica, corrosiva, demistificante.
    E poi, ma qui c’è un vero nodo, poesia che si rivolge ai soggetti che queste altre dimensioni del vivere abitano, le hanno colonizzate, ci vivono e hanno una lingua e una cultura. Chi sono? Per Mayoor è un problema di modalità, di come incontrare gli altri “sulla poesia e quel che può fare per tutti. Per tutti s’intende: non quella parte o quell’altra soltanto, ma per tutta l’umanità. Io preferisco se la poesia ragiona così, in questo modo si riempie il vuoto lasciato dalla lotta (di classe), se non altro per portare il bagaglio di quel che importa per davvero, di cosa siamo, dell’universo e del modo in cui ci piacerebbe di viverci”, e siccome l’umanità sono tanti e tutti diversi è bene che i poeti siano tanti.
    Per Annamaria Locatelli occorre (anche) “rapportarsi fuori, agli altri per concepire un possibile o impossibile noi, come ad una realtà globale dalla maschera accecante…un doppio (triplo, infinito…) lavoro di riordino delle idee e di trasformazione, mai concluso verso, si spera, una realtà collettiva dal volto più umano”, poesia esodante è -anche- incontro, rivolgersi, legarsi.
    Buono.
    Ma che cosa risponde, fa nascere la poesia, dentro di me, a questi atteggiamenti?
    Credo, personalmente, poco o nulla, anche se è brutto da dire. La poesia mi nasce da riflessioni accumulate, da ribellioni, da senso di perdita, da momenti egoistici e panici, da insight (illuminazioni), da fervore, e il noi che vuole incontrare poggia sulla certezza di possibile condivisione. L’argomento può essere anche estrinseco, da poesia civile, per esempio, ma la forza che scatena la poesia è solo interna.
    D’altra parte Rita Simonitto spiega bene che “anche ‘dentro’ di noi esiste un ‘fuori’, quando non lo riconosciamo appartenerci”. Un fuori rispetto a un dentro, e un fuori nel dentro: il senso di poesia esodante, automaticamente così condiviso, deve collegare qualcosa di più.

  3. …secondo me, il “fuori” comprende sia gli altri di un possibile noi, sia quell'”orrore” che sta davanti agli occhi di tutti ( e potrebbe essere, non riconosciuto, anche dentro, come dice Rita, e questo comporta ulteriori complicazioni e battaglie). Detto ciò, la spinta del viaggio poetico, esodo, verso una realtà “altra” è solo il frutto di una scelta, come mi sembrano affermare Ennio e Luca, che passa attraverso la critica della realtà contingente…Questa convergenza mi sembra d’obbligo in un gruppo, ma poi di quel “Fuori-orrore” ciascuno può cogliere gli aspetti più diversi, in quanto i vissuti dei poeti o dei moltinpoesia sono diversi, come la modalità di sentire e di esprimersi…e su questo punto credo ci voglia un certo rispetto reciproco e accettazione…Interessante poi quanto chiede Luca, “…non potrebbe essere l’ora di valutare l’ipotesi di tradurla in iniziativa culturale, in una presenza visibile e attiva?…” me lo domando anch’io…

    1. per la poesia esodante

      e se la mamma non è d’accordo
      come raccontano i cantori
      sospirosi di ordini antichi
      rientriamo all’ordine le mamme
      non partoriscono più e voi volete
      fratelli nomadi senza famiglie
      adottive e ricca civiltà?
      volete l’errabondo nominare
      la nuova lingua dello spazio senza
      i segni con finite scale?

      un canale (dal circolo)
      per esodare così breve così breve
      il senso senza storia e così cieco
      passato alla memoria

  4. …Voglio i sorrisi
    di chi aspetta perché sa
    che presto arriverà
    Voglio la madre
    che fa le frittelle a carnevale
    Voglio arrampicarmi sul fico
    e sapere come fare per scendere
    Voglio che la Rita mi spieghi
    perché ho così tanta fiducia
    nei gatti
    Voglio restare a guardare
    la luna per ore
    Voglio l’inutile tempo
    quello che hai quando sei sola
    quando tutti hanno qualcosa da fare
    quello che ti fa chiudere la porta
    a chiave.

    Emy

  5. Cara Emilia, la madre… da una parte è libera (rispetto a un certo passato) dall’altra parte è radicata nella generazione e quindi di per sé conservatrice. Oggi, come facciamo? il nomadismo (così vicino alla poesia esodante) è in parte della madre, come accoglienza e integrazione… (molto più della politica dei diritti rispetto alla concretezza della accoglienza), ma è sufficiente per l’integrazione di popoli così diversi e spiazzati dalla attuale situazione del mondo?
    Siamo davvero in una situazione in cui i vecchi schemi vanno rimpiazzati, attraverso un nuovo gioco anche delle funzioni sessuali.

  6. …dal sud come dal nord
    il mare l’ha espulsa
    spiaggiata
    non è una balena
    la sedicene
    vecchia di un lungo viaggio
    d’acqua
    in trasparenze celestine
    e abbeverate di denso petrolio
    rotolata da giganti inermi solitudini
    sino a riva
    consegnata
    povera cosa accartocciata
    al confine tra mondi escludenti
    l’acqua fu morte e carezza…

  7. Mi sembra di capire (un capire che è anche condivisione) che la poesia sia un atto che nasce da un ‘dentro’ complesso costituito (* da riflessioni accumulate, da ribellioni, da senso di perdita, da momenti egoistici e panici, da insight (illuminazioni), da fervore*) che si muove spinto da un bisogno di possibile condivisione (Cristiana).
    Ma è anche (Annamaria) un *rapportarsi fuori, agli altri per concepire un possibile o impossibile noi*; oppure, in questo esodo, andare verso una realtà altra, * il frutto di una scelta, come mi sembrano affermare Ennio e Luca, che passa attraverso la critica della realtà contingente…* (Annamaria); oppure, come si esprime Mayoor: *La cosa mi imbarazza un po’ perché Esodante fa pensare ad un luogo, un prima, da cui ci si avventura per l’esodo. Ma come limitarsi ad un prima , senza considerare il poi? Dove si andrebbe? Il prima contiene le ragioni dell’esodo, il poi dovrebbe avere a che fare con la soluzione, quel “visibile e attiva” di cui parla Luca Chiarei.*

    Non mi sentirei di escludere nulla di tutto ciò dalla (e nella) scrittura della poesia ‘esodante’ e questo lo vediamo ben rappresentato nelle tre poesie postate da Cristiana, Emy e Annamara.
    Tre poesie che ‘riflettono’, nel loro farsi poesia, l’essere e il bisogno di chi le scrive.
    Da un lato viene rappresentato il rapporto del presente con la turbolenza della storia (*volete l’errabondo nominare/la nuova lingua dello spazio senza/i segni con finite scale?/un canale (dal circolo)/per esodare così breve così breve/il senso senza storia e così cieco/passato alla memoria*) (Cristiana).
    Oppure, da Emy, ecco il suo bisogno intimo di tenerezze frustrate senza un perché (*Voglio l’inutile tempo/quello che hai quando sei sola/quando tutti hanno qualcosa da fare/quello che ti fa chiudere la porta/a chiave.*). Quel susseguirsi di “voglio”, “voglio” che, anche quando facciamo finta di essere adulti, ci portiamo sempre dietro.
    O, ancora, Annamaria con il suo sguardo attento alle contraddizioni che, se non si trasformano in conflitti – i quali esigono un nostro essere soggetti che lottano per qualche cosa – rischiano di essere mortali. Allora, non importa se *…dal sud come dal nord*: indifferenziazione che rappresenta l’ultimo sfregio al sentimento dell’appartenenza, * povera cosa accartocciata/al confine tra mondi escludenti/
    l’acqua fu morte e carezza…*.
    Ecco, per me, quelli che ho citato sono spezzoni importanti di un sentire che non possono essere perduti. A questi, sempre per me, dovrebbe essere data più attenzione, più cura, perché sono la ‘cifra’ di quella persona e rischiano di perdersi nel mare magnum di ciò che è stato scritto nella fretta o nel dover essere o, peggio che peggio, nel dover ricalcare le idee del politically correct, quello che ho chiamato anche ‘il luogo comune’, un posto dove si assembrano numeri e non persone. Il ‘luogo comune’ è diverso dal ‘senso comune’, là dove i sensi tendono a trovare una loro armonia.
    Poesie ‘diverse’ e poeti ‘diversi’ fra loro, con storie di vita ed esperienze differenti, hanno depositato sul tavolo di Poliscritture parte del loro essere, il loro ‘senso della vita’: ci servirà per capire il mondo, per trasformarlo? Ne dubito. Allora perché? Sinceramente non lo so. E’ perché sono sensibile al fascino della poesia? Può essere. E pure a loro capita questo? Chi lo può sapere. Continuo a credere che la poesia abbia una qualche marcia in più nell’accesso alla ‘parte oscura’ di noi e della realtà circostante che sarebbe prezioso conoscere.
    Ma mi secca dare l’impressione di investire su chissà quali capacità ‘rivoluzionarie’ della poesia: sono pienamente d’accordo con Chiarei quando scrive *Io non credo che vi sia un obbligo morale superiore per la poesia rispetto ad altre arti a rispondere, o addirittura dare soluzioni. Se questo accade è solo perchè si operano delle scelte che si possono fare o non fare, che si alimentano di quello che viviamo nella quotidianità impoetica (per dirla alla Lucini…)*.
    E’ proprio sulle scelte che punterei; le quali non possono che essere personali. Forse i tempi non sono maturi (o non sono maturi del tutto) come ci è palese dagli incessanti sforzi compiuti da Ennio, che lo fanno sentire sempre insoddisfatto degli esiti, mentre non è del tutto così.
    Ma si procede… e si impara proprio da questo ‘noi’ che si presenta qui, volta per volta, pronto alla discussione. Non si tratta di un noi astratto né di una nostra proiezione.

    R.S.

    1. Sì Rita, sì Cristiana, sì Annamaria
      Sì l’io è un noi nascosto e qualcuno ancora ci crede.
      C’è il senso dell’unione nelle nostre parole . Una grandezza dura da sconfiggere…e poi chi la vuol sconfiggere? E perché?
      Resta il tempo in attesa del nuovo – Una nuova persona? Una nuova esistenza? Una nuova lotta?
      Si nasce ogni volta allo stesso modo e si muore.

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