Una poesia mostruosa?

Frankesteindi Ennio Abate

Note a margine di alcuni commenti a “Poesie dall’anno zero” di Antonio Sagredo (qui)

La poesia di Sagredo, come quella di tanti altri poeti che compaiono qui su Poliscritture o in genere nel Web, avrebbe bisogno di un certosino e non compiacente lavoro critico. Sarebbe bello smuovere questo poeta dalla sua autoclausura disdegnosa e spesso irritante, che alle legittime richieste di spiegazioni dei suoi lettori si limita a rispondere con altri suoi versi e troppo laconiche affermazioni oracolari, rifiutando di fatto la ricerca più paritaria (in teoria) attraverso il dialogo. Ma Sagredo ha la sua personalità.  Non vuole, come chiedeva affettuosamente Cristiana Fischer collocarsi «in mezzo agli altri, a noi». E allora continuo a interrogare i suoi versi come  so fare. In questo articolo,  accanto al riconoscimento pieno per il loro vigore, ragiono sulla sua poetica che non mi convince. Mi chiedo in sostanza due cose: – sono davvero «mostruose» queste sue ultime prove poetiche? ed è buona cosa proporsi di «costruire una Poesia più mostruosa della mostruosità che mi circonda».  Ho già espresso in proposito le mie riserve (26 agosto 2015 alle 10:19 ).  Ora l’impegnativo commento di Rita Simonitto (28 agosto 2015 alle 20:29 ) mi offre l’occasione di approfondire il discorso. Vado schematicamente per punti:

1. Fascino della poesia di Sagredo. Secondo me, non possiamo abbandonarci -sarebbe puro estetismo – al fascino indubbio dei suoi versi. Dubito che la loro forma, come invece sostiene Rita, sia « aliena da qualsivoglia costrizione». Da alcune sì, da altre no: sì dalla banalità di tanta poesia che circola sul Web, no dall’alterigia e dall’oscurità tipica della tradizione ermetica o orfica dei Vati; sì dal democraticismo e dal populismo che la crisi ha incoraggiato anche in poesia, no dal superomismo e individualismo nicciano-stirneriano, che a me continua a parere posizione abbastanza “reazionaria”;

2. Immagini. Il linguaggio immaginifico di Sagredo «costringe il reale ad adattarvisi»? Ma per capire se esso ha valore non solo estetico (ed io ritengo che in parte ne abbia), se cioè apre a *qualcosa* d’importante invece di chiudersi in una teatralità a sé stante o nel gioco dei significanti che s’inseguono e si moltiplicano all’infinito (e fanno gioire solo gli specialisti della letteratura), bisognerebbe capire quale sia il “reale” che, come scrive Rita, ad esso [linguaggio immaginifico] si adatterebbe. E questo (almeno a me) non è chiaro. Il che rende l’affermazione troppo generica. (Tra l’altro, approfitto per chiedere perché un’articolazione del senso delle immagini dovrebbe essere impegno soltanto del lettore, come scrive Rita, e non anche del poeta);

3. «Postura da guerriero» (Mayoor 26 agosto 2015 alle 0:50 ) della poesia di Sagredo. Davvero, come pensa Annamaria (Locatelli), questa poesia (o la poesia in genere o una certa poesia, anche quella “civile”) « arriva a combattere il nemico con le sue stesse armi»? E quali sarebbero queste armi? Quelle del linguaggio? Ma il nemico non usa soltanto queste armi! Se, come giustamente ricorda Rita, «le cosiddette *armi del nemico* sono diventate così distruttive da paralizzare ogni elemento di vitalità», mentre «la Poesia dovrebbe vitalizzare gli elementi che tocca», non mi pare che tale risultato venga raggiunto dalla poesia di Sagredo. (Né, credo, da altra poesia d’oggi, per la verità…). Temo, invece, che le sue «prove mostruose» vadano ad aggiungersi alla « mostruosità che mi [o ci] circonda», facciano semmai da musica di accompagnamento e siano in un certo senso il canto del cigno della crisi. E che il linguaggio poetico di Sagredo più che uscire vitalizzato da queste “prove mostruose” venga  reso più che funereo. Inoltre, a me pare che taccia proprio di fronte alla domanda fondamentale di Rita: « Come si potranno recuperare le specificità della Poesia a partire dall’anno zero?». In altri termini, di fronte al problema “fine-inizio” (la transizione a una nuova epoca, a una nuova poesia, a un nuovo mondo, a una nuova società), a cui non troviamo oggi risposte, sembra che Sagredo ci parli più della fine (o della nostra fine, o  di quella della nostra civiltà) che del possibile inizio; o almeno di come sia oggi possibile scommettere su qualche inizio. Si abbandoni, cioè, – e non lo fa solo lui! – di più al “massacro destruens”, che secondo me nel Novecento ha caratterizzato ogni “rivoluzione del linguaggio”, ogni combattimento del “nemico” con le armi del linguaggio, come la storia della neoavanguardia in Italia ha dimostrato. (E questo per me – ma dirò dopo – rientra nel nichilismo);

4. Sul «costruire una Poesia più mostruosa della mostruosità che mi circonda» (Sagredo). Posso sbagliarmi, ma: vale la pena di riprodurre il mostruoso in poesia? Ed è davvero possibile che la poesia possa battere in mostruosità «la mostruosità che mi circonda»»? Qui il mio dissenso  è ben consolidato. Poggia sulla convinzione di Benjamin e poi di Fortini che una «critica della frantumazione mediante la frantumazione» si adatti solo all’esistente (frantumato appunto). Mi si obietterà che il linguaggio poetico di Sagredo non è frantumato, come quello che la neoavanguardia italiana teorizzò e praticò. Eppure di fronte a una frantumazione spesso compiaciuta, del senso ci troviamo in queste «prove mostruose» (e anche nelle precedenti composizioni di Sagredo che mostruose non si definivano). Dovremmo – uso quel “noi” ipotetico, da costruire! – aver imparato che non bisogna riprodurre in poesia o nel pensiero semplicemente il caos o il disordine del mondo. O la sua “mostruosità”. Questa regola dovrebbe valere ancor più oggi, se è vero che il mondo si va facendo  più mostruoso che in passato.

5. Sul tema dei mostri. (Qui mi pare di cogliere una sintonia tra  il fascino per il mostruoso di Sagredo e quello che hanno mostrato Hardt e Negri, quando hanno trattato il tema del «ritorno dei mostri». E essendomi ricordato di aver letto quelle loro pagine, le riporto in Appendice. Ma estraendole, per quel che è possibile, da quel loro discusso e discutibile discorso filosofico-politico generale. E precisando quali sono i punti che  ho trovato interessanti: a. i cenni storici all’apparire e svolgersi  del tema nella cultura occidentale a partire dal Seicento; b. la lettura del tema alla luce del contrasto modernità/antimodernità; c. la sottolineatura che l’antimodernità (entro la quale  i due autori inquadrano il tema del mostro) è politicamente ambivalente: ha una doppia faccia, una reazionaria e l’altra potenzialmente liberatrice. Insisto, però, sul fatto che anch’essi non riescono a dare nessuna indicazione di come uscire dall’ambivalenza dell’antimodernità, che pur guardano con simpatia e forse soverchio ottimismo. E tuttavia la loro lettura “politica” del mostro permette di interrogare da questa ottica anche la poesia di Sagredo; e porre un problema che a me pare da chiarire: se il ‘monstrum’, come dice Rita (Simonitto), è o può essere « prodigioso avvertimento», di cosa ci avverte? Il mostruoso porta in sé – diciamolo terra terra – un meglio o un peggio? una nuova costruzione (poetica, sociale, politica) o (altra) distruzione? più sottomissione o più libertà? e per chi? Sono domande per me ineludibili anche in poesia. E se c’interroghiamo sull’ambivalenza dell’antimodernità e teniamo d’occhio le «prove mostruose» di Sagredo, che antimoderne senza dubbio sono, ci accorgiamo dell’importanza delle critiche che ho mosso al precedente punto 3.

6. Antecedenti della mia critica. E per provare quanto sia consolidata la diffidenza che mi suscita la poetica  del «costruire una Poesia più mostruosa della mostruosità che mi circonda», riporto quanto scrissi – gennaio 2010 – nel saggio sul «Viaggio nella presenza del tempo» di G. Majorino, dove esprimevo perplessità molto simili a quelle appena espresse al punto 4 :

«sarebbe da discutere se il Viaggio abbia assunto questa “forma informe” «senza limiti e senza confini» per semplice mimesi del mondo confuso (o complesso?) d’oggi. Non lo credo. Anche se a volte certe dichiarazioni di Majorino tendono a giustificare la complessità del proprio linguaggio rimandando alla complessità del mondo. A me vengono in mente vecchi discorsi di Benjamin e di Fortini sulla caoticità apparente o reale del mondo (o della “realtà”) e sull’arte, che non ne è mai la semplice mimesi. Per me il Viaggio non è “difficile” solo perché la “realtà” d’oggi lo è ed esso ne ricalchi fedelmente gli ardui contorni. La “realtà” sarà pure complessa o difficilissima da intendere, ma non comanda automaticamente le scelte linguistiche di un poeta. Nel caso di Majorino, queste discendono da preferenze culturali, da modelli di scrittura assorbiti (quelli delle avanguardie novecentesche), dall’influenza della psicanalisi, dall’abboandono dell’opposizione a favore dello spostamento, ecc. Tra la scelta di mantenere la facciata delle forme unitarie della tradizione (la «sublime lingua borghese» di Fortini), magari parodiandole o riempiendone gli “interni” di contenuti moderni o comunque più frammentari e quella di partire dall’esperienza qualsiasi e soggettiva che si ha del mondo costruendo forme, il cui grado di compattezza o frantume non è codificato a priori (o è meno codificato delle forme classiche) Majorino mi pare abbia scelto questa seconda strada, con qualche nostalgia della tradizione, che nel caso del Viaggio l’ha portato a scrivere un poema/non poema, come ho detto».

(http://www.backupoli.altervista.org/IMG/E._Abate_SUL_VIAGGIO_DI_MAJORINO.pdf)

7. Ma: e la “realtà”? Concessa la vicinanza della poesia al sogno e al «regno del paradosso», se « la realtà è altra cosa» (Sagredo), « come ci si può accostare ad essa realtà?»(Simonitto). E Sagredo si vuole accostare ad essa o la salta o la nega? Se affermiamo (con qualche giustezza…) che essa non deve essere più accostata nel modo « meramente ‘descrittivo’» (ahi, l’ingenuo neorealismo dei nostri nonni!), se abbiamo anche imparato a sospettare dello sguardo, « quello sguardo che in questi ultimi tempi è diventato il motore della seduzione portando all’estremo eccesso narcisistico quel bisogno dello sguardo altrui che fa emergere la nostra esistenza al mondo e nello stesso tempo ci spoglia di un nostro privato» (Simonitto), – ripeto la domanda – « come ci si può accostare ad essa realtà?»(Simonitto). In un altro commento (23 agosto 2015 alle 22:19 )  a “Mie città” di Rita Simonitto  avevo scritto: «Forse c’è bisogno di una nuova e rigorosa *verifica dei poteri* di tutti gli strumenti: sia della poesia che dell’arte che delle scienze». E mi viene di ribadire questa esigenza ora che tanto facilmente ( e spesso a ragione eh!) si parla di realtà mostruosa (o, come appena vedo, in un commento di Mayoor che cita P. Dick 30 agosto 2015 alle 17:49 ) di «mondo […] orribile» (io altrove parlavo però di «orrore della storia», che forse è altra cosa…). Fino a chiedere provocatoriamente, vista la genericità con cui usiamo la parola ‘realtà’: E se non fosse tutta mostruosa? E se questo ‘mostruoso’ (della realtà tutta o di una sua parte?), che avrebbe «a che vedere con il ‘fascinans et tremendum’ [e] che quindi contempla la bellezza che è nelle stesso tempo orrore (oltre che a venire poi tramutata in orrore tout court)» (Rita), fosse (anche o in parte) una nostra costruzione “poetico-delirante”?

8. Mito e storia. Mi sta bene accogliere l’avvertimento che ci arriva dal mito («Fissare la Medusa, e, per traslato, immergersi troppo nella realtà, significa farsi invadere, penetrare dalla figura che sta di fronte. Diventare ‘la cosa stessa’») (Rita), ma ci bastano di fronte a una tanto mutata (pare) “realtà” che non riusciamo a nominare, descrivere o rappresentare o dire? Il Mito, dice Rita, « ci presenta la terza possibilità e cioè di guardare la Gorgone né direttamente né cogliendola nel sonno ma attraverso uno sguardo riflesso, il filtro dello specchio di Athena». E aggiunge: «Questa è anche la specificità della poesia di godere del doppio registro dello sguardo diretto, personale, e quello mediato, riflesso, della storia propria e della storia altrui», «di ‘cantare’ la follia, il delirio del mondo senza diventare deliranti», di «attaccare gli Dei, come Diomede, senza venirne distrutti». Ma come facciamo a passare da queste indicazioni generali del mito (e della poesia) ai problemi di storia che abbiamo oggi? Non c’è continuità tra mito e storia, questo è il problema. Almeno per chi, come me/noi, sta e vuole stare coi piedi nella storia.

9. Nichilismo sì o no? Mi andrebbe comunque bene che Rita usasse il mito per arginare il nichilismo che vedo nel pensiero e nella poetica di Sagredo. Ma, ohibò!,  anche lei sembra sostenere che non si tratta di nichilismo. Ora forse ciascuno di noi avrà un suo concetto di nichilismo. Ma a me pare che quando la poesia di Sagredo – ed è da prenderlo sul serio! – afferma che «dovremo in questo secolo di genocidi senza fine ristabilire la dolcezza*» e poi resta inchiodata a proclamare il suo (nicciano) « Basta con Dio e gli Dei! Con queste fandonie* (Prova n. 9)», senza che in altri suoi versi compaia un’assunzione di responsabilità (dico almeno alla Sartre che Nietzsche l’aveva digerito…), non vedo come possa essere  sottratta a quella tradizione. O come ho già scritto a « quel “superomismo” (individualistico e stirneriano nel suo caso) che conserva troppi tratti “divini” per non far pensare – cosa che ho sempre cercato di ricordargli ma egli smentisce troppo categoricamente – a una nostalgia inconscia, atemporale e più che metafisica che lo inchioda a Quel che nega invece di liberarlo veramente».  Dico  queste cose così come mi passano per la testa da tempo, non riuscendo ad ottenere né conferme né smentite; e né da Sagredo né da altri interlocutori. Posso quindi prendere una cantonata, ma sarei felice che qualcuno me lo provasse. Infine azzardo che,  quando Rita afferma: «non possiamo che aspettarci scene apocalittiche fra cui la punizione data alla blasfemia dell’Olandese Volante, condannato a girare a vuoto per i mari procellosi con il suo Vascello fantasma e a non toccare mai la terra, ovvero la ‘realtà’, detto fuor di metafora», coglie in pieno la realtà del pensiero di Sagredo, il quale a me pare  che la “realtà”,  a cui noi vogliamo approssimarci, manco la vuole cercare, contento del suo girare a vuoto (“liberamente”) nel linguaggio.

APPENDICE

M. HARDT E  A. NEGRI SUI MOSTRI

1.

L’invasione dei mostri

Nel XVII secolo, a fianco delle biblioteche erudite e dei labora-
tori di invenzioni fantastiche, fiorivano i primi gabinetti delle
mostruosità. Queste collezioni comprendevano oggetti singola-
ri di ogni genere, dai feti malformati nei contenitori di formali-
na sino all’uomo gallina» di Lipsia – tutti quei fenomeni che
potevano colpire l’immaginazione di Frederik Ruysch *, il crea-
tore delle spettacolari collezioni allegoriche di Amsterdam.
Anche nei regni assolutistici, la creazione dei gabinetti di sto-
ria naturale, ricchi di curiosità d’ogni genere, era diventato un
fatto normale. Pietro il Grande, dopo la rapidissima costruzione
di S. Pietroburgo, che costò il sacrificio e le sofferenze di
milioni di lavoratori, acquistò la collezione di Ruysch, che servì
da base per il museo di storia naturale. Perché questa invasio-
ne di mostri?
L’interesse per i mostri nel XVII e XVIII secolo era contempo-
raneo della crisi del credo eugenetico tradizionale e minaccia-
va i presupposti teologici di fronte alla nascita delle scienze
naturali moderne. Con l’espressione «credo eugenetico» inten-
diamo riferirei alla struttura filosofica che identifica le origini
del cosmo e l’ordine etico con un principio metafisico: «Chi
nasce bene governa bene». Questo principio di origine greca ha
impregnato in mille modi la concezione creazionistica ebraico-
cristiana. Secondo l’impianto dei presupposti teleologici, l’es-
senza e il divenire di ogni singola creatura sono determinati
dai fini che la collegano all’ordine cosmo logico. Non è casuale
che l’eugenetica e il finalismo siano sempre stati uniti nel corso
della «civiltà occidentale»: la stabilità e la coerenza dell’origi-
ne e dei fini mantengono l’ordine del cosmo. Nel XVII e XVIII
secolo, però, questo ordine della civiltà fu messo in questione.
Mentre le grandi guerre che fondavano la modernità provoca-
vano indicibili sofferenze, i mostri iniziarono a incarnare le
obiezioni all’ordine eugenetico e finalistico. Le conseguenze
furono ancora più rilevanti per la politica che per la metafisica:
il mostro non è un incidente, ma è la sempre latente possibilità
di una distruzione di tutti gli ambiti – dalla famiglia al regno-
in cui si articola l’ordine naturale del potere. I grandi innova-
tori della modernità, dal conte di Buffon al barone d ‘Holbach
sino a Diderot, si impegnarono nella ricerca di nuove figure
normative della natura e, in particolare, investigarono la rela-
zione tra la causalità e l’errore e l’indeterminatezza dell’ordi-
ne e del potere. I mostri contagiarono anche gli spiriti più illu-
minati! Questo è il vero e proprio atto di nascita del moderno
metodo scientifico europeo. Prima di questo punto, come sotto-
linea d’Holbach, i dadi erano truccati e l’ordine della natura
che ne risultava era completamente falso; ora il gioco non può
più essere manipolato. Questo è quanto dobbiamo ai mostri: la
rottura con la teleologia e l’eugenetica apre il problema dell’o-
rigine e della dinamica della creazione, di come essa si manife-
sti e dove conduca.
Oggi che l’orizzonte sociale è definito in termini biopolitici,
non dobbiamo dimenticare queste storie di mostri agli albori
della modernità. L’effetto-mostro si è soltanto moltiplicato. La
teleologia oggi è solo ignoranza e superstizione. Il metodo
scientifico è sempre più caratterizzato dall’indeterminazione:
ogni singola entità è prodotta in modo aleatorio e singolare,
come un’improvvisa emergenza del nuovo. Frankenstein è
finalmente diventato un membro della famiglia. In questo con-
testo, il discorso sugli esseri viventi si trasforma in una teoria
della loro costruzione e dei possibili futuri che li attendono.
Immersi come siamo in questa realtà instabile, messi a con-
fronto con la deriva sempre più artificiale della biosfera e con
la sistematica istituzionalizzazione del sociale, non possiamo
che attenderci una continua proliferazione di mostri. «Mon-
strum prodigium», come diceva Agostino di lppona: i mostri
sono miracolosi. Ma oggi il prodigio avviene ogni volta che ci
rendiamo conto che le precedenti unità di misura non sono più
valide, ogni volta che i vecchi corpi sociali si decompongono e i
loro resti fecondano la nuova produzione della carne sociale.
Deleuze decifrava la presenza del mostro nell’umano, affer-
mando che l’uomo è l’animale che cambia la propria specie.
Queste affermazioni vanno prese sul serio. I mostri stanno
avanzando, e il metodo scientifico deve prenderne atto. L’uma-
nità trasforma se stessa insieme alla storia e alla natura. In tal
senso, il problema non è più quello di decidere se accettare o
meno le tecniche che rendono possibili queste trasformazioni,
ma è quello di imparare a usarle e di riconoscerne i benefici e i
danni. Dobbiamo proprio imparare ad amare certi mostri e a
combatterne altri. Con la figura di Moosbrugger, l’efferato cri-
minale, Musil ha descritto la relazione paradossale tra la follia
e il desiderio iperbolico: se l’umanità potesse sognare colletti-
vamente, scrive Musil. essa sognerebbe Moosbrugger. Moosbruq-
ger è la personificazione della nostra relazione ambivalente
con i mostri. del bisogno di perfezionare l’eccessivo potere di
trasformazione che è nelle nostre mani e di attaccare il mondo
orribile e mostruoso in cui il corpo politico globale e lo sfrutta-
mento capitalistico ci costringono a vivere. Dobbiamo impara-
re a usare le espressioni mostruose della moltitudine per sfida-
re le mutazioni della vita artificiale trasformate in merci, il
potere capitalistico di mettere in vendita le metamorfosi della
natura, la nuova eugenetica che sta dalla parte del potere
costituito. Il nuovo mondo popolato da mostri è il luogo in cui
l’umanità deve afferrare il suo futuro.

* A Ruysch è dedicata una delle Operette morali di Giacomo Leopardi
intitolata Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, incentrata
su cosa proverebbe l’uomo nel punto della morte

(da Hardt e Negri, Moltitudine, pagg. 227-229) Rizzoli, Milano 2004)

2.
Calibano si emancipa dalla dialettica

Nel corso della modernità, spesso nell’ambito dei progetti più radi-
cali della razionalizzazione illuministica, i mostri continuano a saltare
fuori. In Europa, da Rabelais a Diderot e da Shakespeare a Mary Shelley,
i mostri sono indicativi di sublimi sproporzioni ed eccessi, come
se le dimensioni della modernità fossero troppo anguste per contenere
il loro straordinario potere creativo. Anche al di fuori dell’Europa, le forze
dell’ antimodernità sono trasformate in mostri per imbrigliare la loro
potenza e per legittimare il dominio su di loro. I resoconti sui sacrifici
umani consumati dagli amerindi servirono come prova per legittimare
le follie e le crudeltà degli spagnoli allo stesso modo in cui, più tardi,
furono utilizzate le descrizioni delle atrocità dei cannibali in Africa.
La caccia, i processi e i roghi delle
streghe che si verificarono in gran parte dell’Europa e in America
nel XVI e nel XVII secolo costituiscono altri esempi di forze dell’an-
timodernità cacciate nell’inferno dell’irrazionalità e della supersti-
zione da cui minacciano la religione e la ragione. La caccia alle stre-
ghe si era diffusa nelle aree dove la lotta dei contadini era stata
particolarmente violenta e colpiva le donne che avevano contrastato
con più determinazione il colonialismo, il comando capitalistico
e il dominio patriarcale.” La modernità ha molte difficoltà con i propri
mostri che cerca di scacciare in ogni modo come delle mere illusio-
ni, degli autoinganni di un’immaginazione sovreccitata: «Perseo usa-
va un manto di nebbia per inseguire i mostri» scrive Marx. «Noi ci
tiriamo la cappa di nebbia giù sugli occhi e le orecchie per poter ne-
gare l’esistenza dei mostri.» I mostri sono reali. Faremmo bene ad
aprire gli occhi e a sturarci le orecchie per capire quello che hanno
da direi sulla modernità.
Max Horkheimer e Theodor Adorno hanno cercato di affrontare
i mostri dell’antimodernità – l’irrazionalismo, il mito, il dominio e la
barbarie – e di riportarli all’interno di una relazione dialettica con
l’Illuminismo. «Non abbiamo il minimo dubbio» così scrivevano
«ed è la nostra petizione di principio, che la libertà nella società è in-
separabile dal pensiero illuministico. Ma riteniamo di aver compre-
so, con altrettanta chiarezza, che il concetto stesso di questo pensie-
ro, non meno delle forme storiche concrete, delle istituzioni sociali
cui è strettamente legato, implicano già il germe di quella regressio-
ne che oggi si verifica ovunque. Essi videro nella modernità un in-
treccio inestricabile con il suo contrario che avrebbe condotto ine-
luttabilmente all’autodistruzione della ragione. Horkheimer e Ador-
no, scrivendo dal loro esilio negli Stati Uniti agli inizi degli anni
Quaranta, stavano cercando di capire le ragioni del trionfo del nazi-
smo in Germania e le origini della miscela di barbarie e di raziona-
lità che lo caratterizzava. Si resero così conto che i nazisti non rap-
presentavano un’ anomalia, ma un sintomo della natura stessa della
modernità. Anche i proletari erano soggetti alla medesima dialettica:
i progetti di emancipazione e razionalizzazione sociale risultavano
ugualmente funzionali alla creazione di un mondo totalmente ammi-
nistrato. Per Horkheimer e Adorno non c’era all’ orizzonte alcuna
prospettiva di risoluzione di questa dialettica, ma solo un’intermina-
bile frustrazione degli ideali della modernità sino all’ineluttabile de-
gradazione nel loro opposto. Alla fine, invece di veder realizzata una
nuova condizione dell’umanità, ci ritroviamo ricacciati in un nuovo
baratro di barbarie.
Gli argomenti di Horkheimer e di Adorno sono straordinaria-
mente importanti per la loro capacità di abbandonare una volta per
tutte la linea del teleologismo modernista che aveva caratterizzato la
storia del marxismo. A nostro parere, tuttavia, nel loro tentativo di
dare una forma dialettica al rapporto tra modernità e antimodernità
hanno commesso due errori. In primo luogo, nelle loro analisi essi
tendono a omogeneizzare le forze dell’ antimodernità. Alcune espressioni
dell’ antimodernità, come il nazismo, erano delle forze demoniache
che si proponevano di schiavizzare intere popolazioni, altre sfidarono
le strutture della gerarchia e della sovranità esprimendo delle figure
di incontenibile libertà. Il secondo errore consiste nell’ aver chiuso
questa relazione nella dialettica. In questo modo,
Horkheimer e Adorno hanno messo in scena l’antimodernità come
una forza che fronteggia la modernità opponendosi a essa o agendo
come una contraddizione. In tal senso, la dialettica, da principio di
movimento, costringe la relazione tra modernità e antimodernità in
uno stallo. In tal senso, Horkheimer e Adorno non vedono alcuna
via d’uscita all’eterna oscillazione tra gli opposti in cui è costretta la
sorte dell’umanità. A nostro avviso, il problema dipende sostanzial-
mente dall’incapacità di discernere le differenze all’interno delle fi-
gure dell’ antimodernità. Le più potenti tra queste forze, quelle che ci
interessano maggiormente, non sono in una relazione specularmente
negativa con la modernità, bensì si muovono su traiettorie trasversa-
li. Da ciò non si deve concludere che esse si oppongono a tutto ciò
che è moderno o razionale, ma che sono impegnate a creare nuove
forme di razionalità e nuove forme di liberazione. Occorre svincolar-
si dal circolo vizioso creato dalla dialettica di Horkheimer e Adorno
per poter vedere in che misura i mostri creativi e felici dell’ antimo-
dernità, i mostri della liberazione, eccedono il dominio della moder-
nità e per rendersi conto in che misura il loro stesso essere è indicati-
vo di una prospettiva alternativa.
Un modo per emanciparsi dalla dialettica è osservare la relazione
che essa sottende dal punto di vista dei mostri della modernità. Cali-
bano, il mostro deforme della Tempesta, è un potente esempio del
nativo colonizzato nelle sembianze di un mostro terribile e minac-cioso.
(Il nome, Calibano, è sia un anagramma di cannibale sia un’al-
lusione ai caraibici, gli antichi abitanti delle isole dei Caraibi stermi-
nati durante la prima colonizzazione.) Prospero il mago racconta
che, nonostante avesse cercato di fare amicizia con il mostro e avesse
cercato di educarlo, non ha avuto altra scelta quando, dopo che Ca-
libano ebbe insidiato la figlia Miranda, fu costretto a placarlo impri-
gionandolo dentro un albero. Secondo questo testo così classico, la
mostruosità e la natura selvaggia del nativo legittimano il potere del-
l’uomo europeo in nome della modernità. E tuttavia, non è così faci-
le uccidere o liberarsi di Calibano. «Non possiamo fare a meno di
lui» dice Prospero alla figlia Miranda, «ci accende il fuoco, ci porta
la legna, e ci rende degli utili servigi. Il lavoro del mostro è neces-
sario e così egli deve rimanere all’interno della società dell’isola.
La figura di Calibano è stata riesumata come simbolo di resisten-
za nelle lotte anticoloniali del XX secolo nei Caraibi. La mostruosa
immagine creata dai colonizzatori è stata evocata per narrare la sto-
ria delle sofferenze dei colonizzati e le loro lotte di liberazione con-
tro i colonizzatori. «Prospero invase le isole» scrive Roberto Fernan-
dez Retamar, «uccise i nostri antenati, schiavizzò Calibano, e gli in-
segnò la sua lingua perché venisse capito. Cos’ altro può fare Caliba-
no se non usare la stessa lingua (oggi conosce solo quella) per male-
dirlo, per desiderare che venga colpito dalla “peste rossa”? Non co-
nosco altra metafora che esprima meglio la nostra situazione cultu-
rale, la nostra realtà […] Qual è la nostra storia, qual è la nostra cul-
tura, se non la storia e la cultura di Calibano?».” La cultura di Cali-
bano è la cultura della resistenza che ritorce le armi del colonialismo
contro di esso. La vittoria della Rivoluzione cubana, per Retamar, è
la vittoria di Calibano su Prospero. Anche Aimé Césaire ha riscritto
la tragedia shakespeariana. Calibano, che è stato troppo a lungo ti-
ranneggiato da Prospero, alla fine riconquista la libertà non solo
spezzando le catene materiali ma emancipandosi dalla mostruosa
immagine – sottosviluppato, incompetente e inferiore – che i colo-
nizzatori lo hanno costretto a interiorizzare. La «ragione di Caliba-
no» diventa in questo modo un emblema del pensiero afrocaraibico
nel suo percorso distinto e indipendente da quello europeo.”
Questo Calibano anticoloniale ci indica una via di fuga dalla dia-
lettica in cui Horkheimer e Adorno ci hanno intrappolato. Dal pun-
to di vista del colonizzatore europeo, il mostro fa parte della dialetti-
ca tra ragione e follia, progresso e barbarie, modernità e antimoder-
nità. Dal punto di vista del colonizzato, nella lotta per la sua libera-
zione, Calibano è dotato di altrettanta ragione e civiltà del coloniz-
zatore, è un essere mostruoso solo nella misura in cui il suo deside-
rio di libertà eccede i limiti del biopotere coloniale e per questo egli
può far saltare le catene della dialettica.
L’incontro con la selvaggia potenza dei mostri ci riporta a un altro
momento della filosofia moderna che, attraverso le espressioni del
razzismo e della paura dell’ alterità, mette ulteriormente in evidenza la
potenza dei mostri. Spinoza riceve una lettera dall’ amico Peter Bal-
ling il quale gli racconta che ,dopo la recente morte del figlio, egli
continua a sentirne la voce che tormenta le sue notti. Spinoza rispon-
de all’ amico con uno strano esempio ricavato dalle sue personali espe-
rienze allucinatorie: «Svegliandomi un mattino alle prime luci del
giorno da un sonno assai pesante, le immagini che mi avevano assalito
nel sogno persistevano davanti ai miei occhi con altrettanta vivacità
come se fossero oggetti reali e specialmente la figura di un nero e irsu-
to brasiliano che io non avevo mai visto».” La prima cosa da osserva-
re a proposito di questa lettera è la costruzione dell’immagine razzista
del nero e irsuto brasiliano come una sorta di Calibano, immagine
che probabilmente deriva dalle conoscenze di seconda mano di Spi-
noza dell’ esperienza dei mercanti e degli imprenditori olandesi, in
particolare di origine ebraica, che avevano fatto affari in Brasile nel
XVII secolo. Spinoza non è naturalmente l’unico filosofo moderno
ad adoperare delle espressioni e a dipingere delle immagini razziste.
Molti tra i maggiori esponenti del canone filosofico occidentale, Kant ;
e Hegel ad esempio, non solo parlano dei non europei e in particolare
dei neri come esemplari della sragione, ma impiegano molti argomen-
ti per giustificare le limitate capacità mentali di questi ultimi.” Se ci li-
mitiamo a leggere la lettera attraverso questa lente di ingrandimento
perdiamo di vista 1’aspetto più interessante del mostro di Spinoza da-
to che il filosofo prosegue il suo discorso dicendo che il mostro per
lui raffigura la potenza stessa dell’immaginazione. Per Spinoza,
l’immaginazione non è la fonte delle illusioni, ma una grande forza mate-
riale. È un campo aperto di possibilità in cui riconosciamo ciò che è
comune tra i corpi, tra le idee. Le nozioni comuni sono i blocchi da
costruzione della ragione e gli strumenti che ci permettono di far cre-
scere indefinitamente la nostra potenza di pensare e di agire. L’imma-
ginazione, per Spinoza, è tuttavia sempre eccessiva e trascendente i li-
miti ordinari della conoscenza e del pensiero. Nondimeno essa pre-
sentifica la possibilità di trasformarci e di liberarci. Il mostro brasilia-
no, oltre a essere il sintomo di una mentalità colonialista, è una figura
espressiva della potenza selvaggia ed eccessiva dell’immaginazione.
Se riduciamo la pluralità delle figure dell’ antimodernità a una piatta
dialettica di opposte identità perdiamo completamente le potenzialità
liberatorie della loro mostruosa immaginazione.”
È vero, e continua a esserlo, che sono esistite e continuano a
esistere delle forze dell’ antimodernità che non hanno nulla di liberatorio.
Horkheimer e Adorno hanno perciò ragione quando vedono nel pro-
getto nazista un’ antimodernità reazionaria. La stessa aberrazione la
vediamo in opera nel tanti fenomeni di pulizia etnica, nei deliri supre-
matisti del Ku Klux K1an, e nelle allucinazioni di dominio dei neo-
conservatori americani. TI fattore antimoderno di questi fenomeni è
costituito dal tentativo di rompere la relazione che è a fondamento
della modernità per liberare il dominatore dalla necessità di dover
avere a che fare con il dominato. Le teorie della sovranità, da Donoso
Cortés a Carl Schmitt, sono antimoderne nella misura in cui si ripro-
pongono di rompere la relazione della modernità e di porre fine ai
conflitti che la caratterizzano per liberare il sovrano. La cosiddetta
, autonomia della politica proposta da queste teorie è 1’autonomia dei
dominatori dai dominati, finalmente liberi dalle sfide e dalle resisten-
ze degli assoggettati. Questo sogno è ovviamente un’illusione dato
che i dominatori non potrebbero sopravvivere senza i soggiogati, co-
me ebbe modo di riconoscere Prospero, così come il capitale non po-
trebbe sopravvivere senza quei noiosi operai! TI fatto che sia un’illu-
sione non toglie che essa continui ancora oggi a provocare terribili
tragedie. I mostri sono la stoffa di cui sono fatti gli incubi.
Quanto detto assegna ancora due compiti alla nostra analisi delle
forze dell’antimodernità. TI primo è quello di stare bene attenti a di-
stinguere, da un lato, le declinazioni reazionarie dell’ antimodernità
con cui si cerca di rompere la relazione che sta alla base della mo-
dernità per liberare la sovranità, dall’ altro, le declinazioni libertarie
dell’ antimodernità che sfidano e sovvertono le gerarchie con la resi-
stenza per espandere la libertà dei subordinati. TI secondo compito è
quello di riconoscere che la resistenza e la libertà eccedono sistema-
ticamente i rapporti di dominio e non possono essere recuperate da
una dialettica con i poteri della modernità. I mostri possiedono la
chIave di nuovi poteri creativi che oltrepassano l’opposizione tra
modernità e antimodernità.

(da Hardt e Negri, Comune, pagg. 101-106, Rizzoli, Milano 2010)

78 pensieri su “Una poesia mostruosa?

  1. “Oggi (…) ogni singola entità è prodotta in modo aleatorio e singolare,
    come un’improvvisa emergenza del nuovo.” (1- Hardt e Negri sui mostri)

    Devo soffermarmi su questa “improvvisa emergenza del nuovo”, perché sul cruscotto si è accesa la spia dell’eugenetica: a proposito del superamento della dialettica e del quanto di buono possa esserci nella mostruosità. A mio parere servirebbero, urgentemente, rapide considerazioni sul progredire della tecnologia, in contrasto con la disillusione (degli illusi) e l’apparente spegnimento di un’epoca ad opera di non si sa chi ( ma del cosa un’idea ce la siamo fatta, proprio grazie alla mostruosità).
    Grazie alla tecnologia non mi sento di escludere che nel futuro prossimo assisteremo ad un’arte di bellezza stupefacente, incentrata sul dominio delle immagini in movimento. Questo dovrebbe portare al superamento dell’immagine unica, ferma nel tempo e definitiva. Addio Van Gogh! e addio a pittura, scultura e fotografia. Non so immaginare mostruosità peggiore di questa, forse solo l’abbattimento delle meraviglie di Palmira ad opera dell’Isis. Ma tant’è. Isis a parte, il nuovo non ha mai fatto tanti complimenti; solo che fino ad oggi era un nuovo, per così dire, artigianale, pensato e creato dall’uomo, mentre oggi è un nuovo tecnologico – che si realizza nel ventre di una macchina – i cui risultati possono essere, come dicevo, davvero stupefacenti. Basti pensare alla tecnica cinematografica, alle sue qualità se confrontate anche solo ad un decennio fa. L’attuale successo della fotografia è data dal mercato, in realtà la fotografia di oggi è divenuta immagine simbolica; destinata ad essere sempre più immagine copertina, grazie al valore riassuntivo e anticipante del fotogramma estrapolato per significare, non potrà competere con le immagini in movimento. Potrei anche proseguire dicendo della scrittura, della musica e delle altre arti, ma non vorrei passare per matto. Il nuovo è necessario alla tecnologia, non solo per ovvie ragioni consumistiche, ma perché sembra proprio che tutto ciò che viene prodotto dalla tecnologia abbia vita breve. In breve viene a noia, e se annoia non lascerà traccia. In definitiva si tratta pur sempre di elettrodomestici. Da qui il discorso sull’economia capitalistica potrebbe anche andare in discesa. Qualcosa di buono sembra nascere, proprio dalla mostruosità.

  2. Condivido in toto queste osservazioni di Ennio Abate sulla poesia di Antonio Sagredo. Solo non avrei usato l’espressione, al punto 1, di “fascino indubbio”. Più coerente con quanto poi viene giustamente argomentato sarebbe stata l’espressione “fascino assai discutibile” …. magari ricordando che i Romani diedero al dio Priapo, e poi all’attributo sessuale del dio, proprio il nome di “Fascinus”, a cui si riconobbe valore apotropaico, per allontanare influenze maligne…
    Un caro saluto

  3. … Credo che in un’epoca mistificante come la nostra sia facile cadere nella possibilità di cullare , vezzeggiare mostri veri, che scambiamo(ci vengono proposti) per beni…Mentre ci snaturano, ci dominano e non riusciamo a sottrarvici, prima a loro ci abituiamo, poi ci affezioniamo (come le vittime della sindrome di Stoccolma) e infine i mostri finiscono per far parte del nostro orizzonte quotidiano…la sensibilità così sviata finisce poi per mostrificare persone e situazioni che non lo sono affatto…e qui mi viene da pensare alla attuale migrazione nel nostro occidente di uomini affamati e in fuga dalle guerre e mi chiedo: cosa c’è di mostruoso? Eppure a sentire i discorsi in giro sembra il contrario…Certo ogni cambiamento può suonare come minaccia, ma noi siamo già minacciati da dentro e i termini si confondono paurosamente…A proposito, almeno credo, mi è ritornata alla mente una breve opera teatrale di B. Brecht, letta decenni fa : “L’eccezione e la regola”…

  4. Scrivete storie per l’epica rinnovata
    e misuratele con l’epopea del classicismo.
    Come il sarto tende il nastro del centimetro.

    In fondo quelli, che ne sapevano del vivere in pace
    e di potersi buttare contro un muro, di notte.

    E ogni tanto scrivete di voi stessi, così che non si sappiano altre notizie.
    Quindi ditene bene, o come sapete fare, ché questo è compito vostro.

    Io sto scrivendo altro, ho da lavorare.

    – Agosto 2015

    1. per esteso:

      Duemilaventicinque.

      Sarà poesia quel che diventerà voce e commento di molte immagini.
      Esattamente come Omero tanti secoli fa. E tutto verrà registrato
      e moltiplicato.

      Scrivete storie per l’epica rinnovata e misuratele con l’epopea del classicismo.
      Come sarti tendete il nastro del centimetro. In fondo quelli, che ne sapevano del vivere in pace
      e di potersi buttare contro un muro, di notte.

      E ogni tanto scrivete di voi stessi, così che non si sappiano altre notizie.
      Quindi ditene bene, o come sapete fare, ché questo è compito vostro.

      Io sto scrivendo altro, ho da lavorare.

      – Agosto 2015

  5. Ho l’impressione che, più che ad essere impegnativo il mio commento, sia ‘impegnativo’, il desiderio di Ennio affinchè A. Sagredo *come chiedeva affettuosamente Cristiana Fischer [possa] collocarsi «in mezzo agli altri, a noi».*
    Da quello che mi sembra di aver capito, e ovviamente posso anche sbagliare, il poeta Sagredo è come se volesse mettersi ‘nel posto del reale’, nel suo disordine, nelle sue manifestazioni grottesche, anche priapiche – come segnala Ottaviani -, e mostruose (però nel senso di ‘monstrum’ come cercavo di spiegare nel mio intervento, in cui è implicita la ‘meraviglia’. E certo che faceva – e fa tutt’ora – ‘meraviglia’ il fallo priapico!).
    Ora, non si può chiedere alla ‘realtà’ di collaborare e di collocarsi al livello o alla capacità della nostra comprensione. Non è affar suo (della realtà, intendo). Quindi mi sembra un fuori luogo l’idea – sostenuta da Ennio – che favorire detta comprensione non *dovrebbe essere impegno soltanto del lettore, [ma….] anche del poeta*.
    Ma questo accade in qualunque situazione relazionale in cui uno dei componenti occupa il posto del ‘reale’, inamovibile.
    Nel contempo questa ‘identificazione’, pare ovvio, non è mai completa. La ‘torsione del reale ad adattarsi all’immaginario’ rimane comunque una prerogativa poetica che continua ad essere esercitata, anche perché da quella ci sono poi facili aperture di senso ecc. ecc. Non a caso avevo selezionato un esempio che mi sembrava significativo, il rapporto tra midollo e ossa (*le ossa forzavano il midollo ad un zigzagare/e a precipizio nei labirinti scorrevano i gridi angolari dei corvi/ e delle cornacchie*), ovvero contenuto e contenitore e il significato che può avere questo legame se viene privilegiato il primo fattore o il secondo.
    Sono invece pienamente d’accordo con la posizione di Ennio quando sostiene *Qui il mio dissenso è ben consolidato. Poggia sulla convinzione di Benjamin e poi di Fortini che una «critica della frantumazione mediante la frantumazione» si adatti solo all’esistente (frantumato appunto)*.
    Per quanto il poeta possa mettersi in contatto con la ‘realtà’ (o anche entrare in essa), deve pur sempre mantenere una posizione ‘terza’, esterna; ‘lo sguardo obliquo’ se vogliamo ricorrere al mito di Medusa.
    Rimane lo stesso una ‘descrizione’, solo che, venendo immaginata ‘dall’interno’, può dare l’illusione di essere più pregnante. E’ un equivoco che ha condizionato pesantemente anche un certo quadro teorico politico: solo lo sfruttato può sapere ‘dall’interno’ che cosa significhi lo sfruttamento. Invece, se non c’è una teoria ‘esterna’ che glielo spieghi, lui non ‘sa’ nulla: patisce soltanto.
    Scrive Ennio: * Non c’è continuità tra mito e storia, questo è il problema. Almeno per chi, come me/noi, sta e vuole stare coi piedi nella storia.*
    E meno male che non c’è continuità! Ma non è per *stare coi piedi nella storia*!
    E’ per non stare nel ‘delirio’. Ovvero poter stare in un ‘delirio controllato’!
    In un suo commento del 30.8 (16.43) Sagredo, dopo aver sottolineato l’intervento di Mayoor che dice: “Beh, direi che ci siamo (Isis e quant’altro)”, aggiunge *già da tanto tempo sapevo….* e esplicita questo suo ‘sapere’ in strofe poetiche, appartenenti ad anni diversi. Molte persone affermano di aver anticipato gli eventi nelle loro previsioni! Ma poi sono rimaste lì, nella loro posizione ‘oracolare’ aspettando che la ‘realtà’ avesse compimento per poi affermare: “l’avevo detto io!”.
    Questa è una visione ‘continuista’ non solo negativa ma perniciosa. Una ‘cattiva maestra’!
    Tutti avranno presente il mito della creazione di Michelangelo, Cappella Sistina.
    Tra il dito di Dio e il dito di Adamo l’artista ha messo uno spazio, un intervallo, una cesura. Il genio artistico non ha segnalato una continuità, Dio-Uomo, ma una rottura dentro la quale ci sta di tutto, storia compresa. Geniale davvero.
    Ora ‘Dio’ (ovvero ciò che sta dall’altra parte, idea o religione che sia, o Altro) è necessario proprio per articolare meglio quello che ci sta in mezzo e permettere a quello stupidotto di Adamo di essere meno stupido! Il primo nichilista della storia, se vogliamo, è stato proprio lui: “non c’è Dio che tenga, Dieu c’est moi!”.
    E mal gliene incolse.

    R.S.

  6. PRECISAZIONI A RITA

    1.
    «Ho l’impressione che, più che ad essere impegnativo il mio commento, sia ‘impegnativo’, il desiderio di Ennio affinchè A. Sagredo *come chiedeva affettuosamente Cristiana Fischer [possa] collocarsi «in mezzo agli altri, a noi».*

    No, no! Non mi turba che Sagredo continui a fare Sagredo. Non desidero “convertirlo”! E l’ho detto e ridetto: 27 agosto 2015 alle 10:30 . Rispetto la sua personalità e le sue volontà. (Fino al punto da non pubblicare più, come da lui richiesto, una lunga intervista che gli avevo fatto, perché non riteneva più conveniente farlo).

    2.
    «Ora, non si può chiedere alla ‘realtà’ di collaborare e di collocarsi al livello o alla capacità della nostra comprensione. Non è affar suo (della realtà, intendo). Quindi mi sembra un fuori luogo l’idea – sostenuta da Ennio – che favorire detta comprensione non *dovrebbe essere impegno soltanto del lettore, [ma….] anche del poeta*».

    Forse c’è un equivoco. La collaborazione io la chiedo ll’utore non alla ‘realtà’. Ho scritto: « Tra l’altro, approfitto per chiedere perché un’articolazione del senso delle immagini dovrebbe essere impegno soltanto del lettore, come scrive Rita, e non anche del poeta)», intendendo dire che il senso di un testo non dovrebbe cercarselo solo il lettore ma l’autore dovrebbe aiutarlo nella ricerca.
    La ‘realtà’, se non capisco male, non c’entra. Per me in una poetica non è indifferente il grado di attenzione (bassa, medio, alta) dell’autore verso i destinatari (reali, immaginari, presenti, futuri…) dei suoi versi. Preferisco un Dante che m’accompagni passo passo al Vate che mi mette di fronte alle sue “illuminazioni” e mi costringe a tirare ad indovinare o a dire: affascinante, ma non capisco, non riesco ad entrarci.

    3.
    «Scrive Ennio: * Non c’è continuità tra mito e storia, questo è il problema. Almeno per chi, come me/noi, sta e vuole stare coi piedi nella storia.* E meno male che non c’è continuità! Ma non è per *stare coi piedi nella storia*! E’ per non stare nel ‘delirio’. Ovvero poter stare in un ‘delirio controllato’!

    Forse diciamo stessa cosa: per me stare coi piedi nella storia è evitare il delirio o « stare in un ‘delirio controllato’» (o controllabile da me e da altri). Magari seguendo il vecchio adagio: mal comune, mezzo gaudio.

    4.
    «Molte persone affermano di aver anticipato gli eventi nelle loro previsioni! Ma poi sono rimaste lì, nella loro posizione ‘oracolare’ aspettando che la ‘realtà’ avesse compimento per poi affermare: “l’avevo detto io!”».

    D’accordissimo. E bella la lettura dell’affresco di Michelangelo alla Sistina.
    Mi pare di aver io pure insistito sul fatto che Sagredo non pare essersi rassegnato alla rottura della «continuità Dio-Uomo» e tenda – niccianamente? – a porsi Lui come Poeta al posto dello spodestato o degli spodestati : *Basta con Dio e gli Dei! Con queste fandonie* (Prova n. 9)

  7. …sono d’accordo con quanto afferma Ennio nel primo punto, riguardo alla poesia di Antonio Sagredo: “Non desidero “convertirlo!”” e penso tutti noi, poichè per fortuna non esiste un indice di libri (poesie) proibiti e neanche un tribunale dell’inquisizione…ogni poeta è libero di esprimersi, anche nel nichilismo, come del resto il lettore o il critico di esporre commenti positivi o meno…Sono arrivata a pensarla come voi anche riguardo al fatto che la poesia mostruosa non può curare la mostruosità dei nostri tempi…mi chiedo tuttavia se non può in un certo senso documentarla, sperando che questo sia un periodo di transizione, per la gente che verrà…
    Mi sembra che Sagredo nelle sue poesie si metta “nel posto del reale”, come dice Rita, nel senso che salva solo se stesso, depositario di verità da riconoscere ( perciò non concede nulla al lettore) sorvolando “la realtà realtà”, che vede come cumulo di macerie, ma mentre l’angelo di Benjamin retrocede inorridito verso il futuro davanti agli orrori della Storia, lui folleggia di gioia e di dolore…

  8. La lettura che ha fatto Rita Simonitto (28 agosto) delle poesie di Sagredo è fondata su apertura e ascolto. “Sconvolgenti relazioni con l’altro da sé, la diversità dei linguaggi, le illusioni”: me lo ha fatto rileggere come quel tale uomo poeta che si dibatte “tra inquiete domande, frammenti di esperienze dolorose e destrutturanti storie personali”.
    L’individualismo e la teatralità (di un protagonista senza il coro) più che tratti di poetica mi appaiono, dopo la lettura di Rita, tratti personali.

    (Anche se continuo a vedere nei testi i confini propri del postmoderno: l’aggirarsi tormentoso tra frammenti in un orizzonte invalicabile — ed è l’accumulo quasi equivalenza di memorie, fonti mitiche e affastellamento di immaginario a farmi parlare di relativismo/nichilismo.)

    Però siamo arrivati a un punto in cui Sagredo parla di “fine-inizio”, e di queste -forse ultime- poesie: “Celebravo questo mondo coi versi miei, ma non è eguale a me! – mi dicevo.” (Prova 3)
    Traguardo di riassunto e cesura “io so adesso/cos’è una Resurrezione senza fine, un traguardo di tramonto! Un’assenza d’aurore!//Ora non è più un sospetto il piacere di una barbarie recidiva, e l’attesa è la scrittura bianca/ su nero sfondo, come una finzione antica la smania nostra è la scosciata Europa: zoccola,/chiavica che devasti senza rimorsi e requie! Leuca, luce di rivolta!”. (Prova 2)

    La fine-inizio è ripresa in vari commenti, e non so dire come si configuri il passaggio epocale che stiamo vivendo, se catastrofe improvvisa (l’eruzione di un vesuvio di dimensioni bibliche di Annamaria Locatelli) o mutamento globale e continuo da seguire. Però Sagredo scrive: “Non si canta il nulla che non esiste – si canta quello che esiste – NOI!” (Prova 4)
    E mi pare che abbia in mente un Noi per sè poeta.

  9. @ Ennio

    1) La mia era solo una battuta! Ma nello stesso tempo intendevo anche segnalare il bisogno che abbiamo di ‘assorbire’ l’altro al ‘noi’, stabilire una comunità di linguaggio. Niente di male in ciò.
    2) Anch’io chiederei all’autore di ‘collaborare’ con il lettore nei limiti richiesti dal rispetto della struttura interna della poesia stessa che mantiene le sue ambiguità.
    Ciò che io intendevo dire è che, se (e quando) il poeta si mette “nel posto del reale”, non gli puoi chiedere di ‘collaborare’ perché il reale non collabora, si manifesta. Punto e basta. Quale che sia l’epifania, essa sta lì. Non deve dare spiegazioni a chicchessia.
    3) Il ‘delirio’ è ‘controllato’ quando avviene il confronto e con gli altri e con la realtà.

    @ Annamaria

    *sperando che questo sia un periodo di transizione, per la gente che verrà*

    E’ un periodo di transizione: i vecchi equilibri non tengono più e noi stessi veniamo trascinati in questo caos. Le vecchie parole d’ordine non sono più spendibili e i più furbi ne inventano di nuove che servono solo a illudere che una strada si è trovata.

    @ Cristiana

    * La fine-inizio è ripresa in vari commenti, e non so dire come si configuri il passaggio epocale che stiamo vivendo, se catastrofe improvvisa (l’eruzione di un vesuvio di dimensioni bibliche di Annamaria Locatelli) o mutamento globale e continuo da seguire. Però Sagredo scrive: “Non si canta il nulla che non esiste – si canta quello che esiste – NOI!” (Prova 4)
    E mi pare che abbia in mente un Noi per sè poeta.*

    La fine-inizio significa, come accade in ogni cambiamento, affrontare un processo di lutto che traghetti nel nuovo qualche cosa di antico. Ma gli eventi si succedono troppo tumultuosamente e questa operazione diventa problematica. La fantasia della catastrofe improvvisa o un annichilimento dove tutto (divinità comprese) viene buttato alla deriva può sembrare la facile via di uscita per ricominciare ex novo. Ma non sarà così. Per questo dobbiamo saper sostare in una situazione di incertezza . Ed è anche per questo che trovo interessante l’ultimo verso di Sagredo, illuminante nella sua ambiguità che riguarda il NOI. Tutto si gioca sulla funzione dell’inciso.
    a) Non si può cantare un Noi, equiparabile ad un nulla che non esiste: lo canteremmo solo se esistesse.
    b) Oppure, non potendo cantare il nulla che non esiste, non ci rimane che cantare quello che esiste: NOI. Ma qual è l’idea di questo NOI?

    R.S.

  10. “Ma qual è l’idea di questo NOI?”
    Un rompicapo non da poco. Il NOI sarebbe l’ente su cui ragionare? Pardon, prima definiamo l’ambito della ricerca: che per Ennio è storica, non filosofica. Su questo è stato chiaro. Non conta l’essere ma l’esser-ci; far sentire la propria voce con modalità da definire, previo la definizione del cosa dire, all’incirca. La verità non verrebbe anteposta ma semplicemente constatata, storicamente e socialmente. Dopodiché dovremmo guardarci dall’inautenticità, dovuta alla conformità generata dal NOI. No, questo noi a me sembra un pasticcio. Lo metterei da parte. Ma salverei l’idea-constatazione di come stiamo vivendo. “Sono d’accordo” disse l’altro naufrago “ma, visto che ci resta ancora qualche giorno di vita, per parlarne: secondo te come siamo finiti su questo legno? Fu disattenzione o ci hanno silurati?”

  11. gentile Rita Simonitto,
    in effetti “già lo sapevo”, e senza alcuna presunzione ma per conoscenza diretta di quanto lì si muoveva… come tante fini imminenti… come sapevo la caduta di quei regimi comunisti “anche” per aver studiato a Praga 5 anni i primissimi anni ’70, e conoscendone dal di dentro le problematiche e le avvisaglie di quel regime agonizzante anche ben prima del ’68… ne avevo tratto le conseguenze anche con l’aiuto di informazioni che mi giungevano da persone “amiche” informate (queste, “cittadini” dei vari stati comunisti) sulle rispettive condizioni degli stessi stati (*), oltre ovviamente a quello Cecoslovacco senza attendere la carta 77! (che fu la/una prova generale) … dalla stessa Russia che quanto più ortodossa voleva mostrarsi all’ “occidente” tanto più affrettava la sua fine; (* a dispetto delle fandonie dei giornali occidentali che li leggevo poi che mi giungevano, deformando i cervelli dei “deboli” occidentali!)… e a chi era accorto il significato dell’elezione di un papa polacco ( ’78!) doveva apparire più che chiaro! (elezione d’altra parte approvata da tantissima gerarchia comunista!) Il disegno era chiarissimo! – (come chiaro mi apparve, da sterminate letture sui fatti ungheresi del ’56, che tutto da li forse iniziò lo scricchiolìo!; pure se vi erano stati altri segnali antecedenti!) – Non appartengo alle “Molte persone[che] affermano di aver anticipato gli eventi nelle loro previsioni!”! D’altra parte affermazione moltissimo generica e priva di senso.
    E non mi va di dire altro che Voi lontanamente allora non sapevate, che lontanamente non potevate nemmeno immaginare! , e che ora è tardi da sapere! –
    E non mi va che mi rispondiate da ignoranti (che mi rispondiate comunque!) che stavano dall’altra parte, mentre per motivi di studio me ne stavo in quella parte e ne vivevo le vicissitudini di un popolo (e per riflesso quelle di altri popoli: ciascuno con la propria variante; i rappresentanti più o meno ufficiali di quegli stati comunisti già lavoravano per la caduta degli stessi stati, dichiarando a più non posso invece la loro fedeltà “eterna”!) – Sarebbe stato facilissimo per me scrivere su qualche giornale occidentale di quel che sapevo, “anche” di quel che doveva avvenire!, ma riflettei che non ne valeva la pena per tantissime motivazioni: conoscevo bene i vari giornalisti-intellettuali che scrivevano baggianate ognuno per il suo partito! Venditori ciarlatani e accattoni, quegli specialisti! Tanti per fortuna sono già morti, qualcuno vegliardo ancora vive e spero per pochissimo tempo!
    Solo gli slavisti seri conoscevano perfettamente quanto si muoveva realisticamente da quelle parti!
    “La risposta a una domanda inaccessibile è una risposta”.
    Anche se so benissimo che “qualcuno” su quanto ho scritto adesso è un curioso… ma la saccenteria non la perdono! Non risponderò!
    A.S.
    ——————————————
    alla signora Locatelli
    che “mentre l’angelo di Benjamin retrocede inorridito verso il futuro davanti agli orrori della Storia, lui folleggia di gioia e di dolore…” –
    Non folleggio affatto, nemmeno del Nulla!
    , anzi il contrario!
    Poi in una delle mie Legioni del 1989 dettavo:

    “Vigilia, epifanie, attutite le cadute!
    Narciso, affossa gli specchi e scanna
    l’angelo!
    Respiro, io sono figlio della mia Parola!”
    —————————–
    a E. A.
    > definire la mia Poesia da un punto di vista politico-ideologico ecc. è un errore anche storico!
    Ma quell’”ateo devoto” non è male, ma….
    completo il verso della nona mostruosa:
    “… andiamo a morire da Poeti, allegramente!”
    —————————————–
    Ma sarei felice se qualcuno mi commentasse un mio verso.
    “Accidia è là dove mi sorprendono con un Pensiero! “
    — grazie di tutto e per ora ADDIO!
    a.s.

    1. Le donne non ti sposano se vivi nei pensieri: c’è da fare la spesa, aggiustare lampade, comodini, porre rimedio ad una macchia d’umidità…
      Ti spero felice.

  12. Gentile Antonio Sagredo,
    non per ‘violare’ il suo ‘adieu’ ma per doverosa precisazione.
    Io purtroppo appartengo alle poche persone che ‘già lo sapevano’, che avevano già ‘previsto’ quegli eventi che sono andati poi a verificarsi: il cosiddetto tradimento dell’URSS, la subordinazione dei paesi satelliti alla politica atlantica, la caduta del bipolarismo e via via di questo passo.
    E non si trattava di un ‘sapere’ perché si era lì o lì si avevano amici (anche oggi noi siamo ‘qui’ e possiamo avere ‘amici’ che ci informano di particolari movimenti, ma non succede nulla di nulla), bensì suffragato da ipotesi teoriche le quali, a differenza di quanto lei crede (*Sarebbe stato facilissimo per me scrivere su qualche giornale occidentale di quel che sapevo, “anche” di quel che doveva avvenire*), non era poi così ‘facilissimo’ esporre. Anzi, quelle diverse letture della realtà, venivano sistematicamente silenziate proprio da coloro che, sedicenti ricercatori della verità, avevano invece sposato un’altra causa sotto le cui coperte si sentivano protetti e al caldo. E poi, non si dice, forse, che non si possono portare i cani in Chiesa?
    Per cui quando ho fatto quell’affermazione *«Molte persone affermano di aver anticipato gli eventi nelle loro previsioni! Ma poi sono rimaste lì, nella loro posizione ‘oracolare’ aspettando che la ‘realtà’ avesse compimento per poi affermare: “l’avevo detto io!”»* sto parlando anche per me e per la conoscenza ‘diretta’ che ho di quelle persone e di quegli eventi. Forse lei non c’entra affatto con tutto ciò e me ne compiaccio con lei. Ma, per i tempi di allora, l’ “aver visto cose che voi mortali non potete nemmeno immaginare”, come dice il droide Roy in Blade Runner”, produceva una specie di euforia oracolare – consapevole o meno che fosse – e che non si poteva estinguere ‘andando a parlare alle masse’. Ci sarebbe stato bisogno di ben altro. Ma che cosa?
    Lei chiama in causa l’accidia, e giustamente: è l’antidoto difensivo al veleno della superbia.
    Solo un Pensiero ci potrà salvare? Credo di sì…. ma dovrà passare attraverso un vuoto di senso difficile da sopportare.
    E adesso la lascio al suo ‘adieu’.
    R.S.

  13. caro Mayoor, ci sono donne e donne come si dice, e noi uomini non lo sappiamo quali siano donne e quali no… quanto riguarda la spesa quotidiana alimentare non so nulla, quanto riguarda quella elementare so qualcosa, ma poi non sia così astioso con me che in fin dei conti sono persona normalissima con qualche pensiero in più o in meno, insomma anche gli idioti hanno dei pensieri eccelsi (vedi quello di Dostoevskij!) del quale in un saggio non finito, non infinito, trattai qualcosa… lo sa che qualche volta anche l’apprezzo per la Sua arguzia, qualche volta però come capita sovente anche a me stesso… la Simonitto è simpatica e sull’accida ha compreso qualcosa… ma non l’assenza! -grazie a tutti da

    1. Nessun astio, mi creda. All’inizio, quando qualche anno fa lessi per la prima volta qualche suo verso, la trovavo insopportabile… tronfio, delirante, con versi sovraccarichi, inutilmente altisonanti, troppo incline allo sdegno, teatrante. Ma ora riesco a leggerla e, anche se riconosco di non capire tutto, mi compiaccio di poter cogliere alcune sue perle; tante, per la verità. E leggendo alcuni suoi commenti ho anche iniziato a considerare seriamente, con rispetto, i suoi parametri di giudizio. Anche ai lettori serve tempo; le cose scritte nella rete bruciano in fretta, ma per fortuna altrettanto in fretta ritornano. Strani libri. A presto, spero.

  14. MA DA DOVE ME LO CRITICHI ‘STO COMUNISMO SOVIETICO?

    Caro Antonio,
    e no, eh! Sono stato il primo (anche anticipando i tuoi amici poeti e critici romani coi quali collabori) a riconoscere il valore della tua poesia e ad aprire prima il blog POESIA E MOLTINPOESIA e poi POLISCRITTURE ai tuoi versi; e non te la puoi cavare con uno spocchioso « e per ora ADDIO!».
    Qui non rispondiamo «da ignoranti» né ci puoi accusare di «saccenteria».
    Alle cose dette da Rita ne vorrei aggiungere altre io.

    C’è un sapere che ci paralizza (o, come ha ricordato Rita, fissa la Medusa, si immerge troppo nella realtà, se ne fa invadere; o, come tu dichiari, la vuole superare in mostruosità) e un sapere che riconosce il suo limite, scommette e sfida e lotta con la realtà (o quello che sta fuori di esso) e intravvede a volte territori nascosti e magari insospettati, va in crisi e riaggiusta per quel che è possibile i suoi modi di interrogarla o *capirla* o *spiegarsela*.
    Il primo io l’ho chiamato (senza moraleggiare) ‘nichilista’. Il secondo lo chiamo ‘costruttivo’.

    Non sono così scemo da affermare che il primo («discutibile» quanto si vuole, come affermato da Paolo Ottaviani) sia semplicemente negativo e da condannare. Anzi riconosco che esso svela, scuote certezze, abitudini, pigrizie e può (non sempre!) preparare il terreno a cose nuove; e, se sinceramente vissuto (Ahi, autenticità quanto sei insondabile!), produrre poesia e grande poesia.
    Né sono ancora più scemo da chiedere al nichilista di “convertirsi”, di non isolarsi, di “stare in mezzo a noi” in quella che sarebbe o pretenderebbe di essere la “buona compagnia”, il ‘noi’ giusto. E so anche che non si passa facilmente da un modo di pensare, consolidatosi attraverso l’esperienza di vita, i legami intellettuali ed affettivi, le letture e gli studi che costruiscono mente e cuore in una certa direzione e non in un’altra, ad altro modo di pensare.
    Non si passa, cioè da una ideologia ad un’altra tanto facilmente. Né pare possibile, se l’ideologia è con qualche approssimazione metaforica paragonabile all’aria, che comunque dobbiamo respirare per stare in questo mondo o in queste società traballanti (liquide o alquanto mostruose), vivere *senza ideologie*, come molti pretendono (accecandosi ancor più) . E che aria respiri? Non respiri più? Anche l’anarchismo (sia quello popolare e ingenuo sia quello saputello e presuntuoso) non è che una delle ideologie praticabili. (E ripeto: non sostituibile a capriccio con un’altra).

    Perciò è un bene che in questi due post, dedicati alle «prove mostruose» della tua recente poesia, sia venuto fuori il discorso sul ‘comunismo’ ( usiamolo questo termine divenuto “parolaccia”!) o sui regimi comunisti sovietici. E cioè dell’implicito dato storico, a cui allude di fatto la tua poesia; e che, in questo tuo ultimo commento, finalmente diventa esplicito.

    Ma sia chiaro che non si sta svolgendo un confronto tra un Sagredo, che assieme ai suoi amici slavisti conosceva «dal di dentro le problematiche e le avvisaglie di quel regime agonizzante anche ben prima del ’68» e i « cervelli dei “deboli” occidentali» o degli ignari dello «scricchiolio» dei « fatti ungheresi del ’56» o di «altri segnali antecedenti».
    Non posso concederti questa menzogna.

    Eh, no, queste cose non le puoi dire a uno come me (e ad altri di POLISCRITTURE o che su questo sito lasciano i loro commenti). Siamo degli sconfitti, ma di quelli che negli anni dal ’68 e per tutti i Settanta si sono costruiti la loro *scommessa comunista* sugli scritti di Fortini, cioè del più “ideologico” (così dicono i suoi nemici) dei poeti del Novecento (tra l’altro in continuo rapporto di odio/amore con Pasolini e il PCI). E che tu, Antonio, non ha mai voluto leggere.
    Nelle sue pagine avresti trovato molte delle tue stesse preoccupazioni, obiezioni e critiche al “comunismo reale”, ma svolte non alla luce del tuo pensiero nichilista, nicciano e stirneriano, come ti ho ripetuto, ma appunto alla luce di quelle che sono state le “eresie” della “Chiesa comunista”, che si sono appoggiate al pensiero di Lenin, Lukács, Bloch, Adorno e Mao.

    Certo non sapevamo e nemmeno potevamo lontanamente immaginare molte cose che tu, Antonio, proprio « per aver studiato a Praga 5 anni i primissimi anni ’70» e potendo disporre di «informazioni che [ti] giungevano da persone “amiche” informate (queste, “cittadini” dei vari stati comunisti)», sapevi.
    (Cosa, ammetterai, che non era possibile a tutti in quegli anni: io – un esempio concreto devo pur fartelo ! – in quegli anni, in cui pur militavo nell’«organizazione comunista Avanguardia Operaia», mentre leggevo tutto quel che riuscivo a leggere sulla storia del movimento operaio e comunista, me la dovevo sfangare in periferia, a Colognom, per metter su una piccola scuola materna pubblica per i figli degli immigrati (tra cui i miei primi due) almeno con maestre diplomate, al posto di una Sala custodia (così veniva chiamata), dove una immigrata sarda, che si considerava “benefattrice del popolo”, teneva, dal mattino presto al tardo pomeriggio, circa 60 bambini (alcuni persino neonati), figli di operai immigrati; e col semplice aiuto di una donna calabrese analfabeta).
    Ma, pur in queste condizioni, una critica allo “stalinismo” la masticavo assieme ad altri. Non eravamo così ciechi, o «ignoranti» o «dall’altra parte»!

    E poi è sicuro che tu, stando « in quella parte» (quale? dei cattolici repressi dal regime sovietico? degli eretici del comunismo che scrivevano i loro *samizdat*? o di Amedeo Bordiga, Victor Serge, Andrea Caffi, Camillo Berneri, Bruno Rizzi, Artur Koestler, Simone Weil, delle cui critiche lo storico P.P. Poggio sta dando una documentazione ragionata per far emergere intuizioni e limiti del cosiddetto «comunismo eretico e pensiero critico» nei volumi di «L’altro Novecento» della Jaca Book?) e vivendo, come dici, «le vicissitudini di un popolo (e per riflesso quelle di altri popoli», fossi meno “ignorante” di noi?
    Non voglio toglierti nessun merito, ma ritengo che anche tu sguazzavi, arrangiandoti, nella palude delle ideologie del Novecento. E dovresti spiegare meglio perché, pur essendo (come affermi) facilissimo per te « scrivere su qualche giornale occidentale di quel che sapev[i], “anche” di quel che doveva avvenire!», decidesti – più o meno come tanti comunisti di allora dissenzienti anche all’interno dello stesso PCI ( e in proposito ti consigliere di leggere le testimonianze – d’altro orientamento rispetto al mio ma comunque illuminanti – di G. La Grassa su «Conflitti e strategie») – di tacere o « che non ne valeva la pena per tantissime motivazioni».
    Non solo, però, perché «i vari giornalisti-intellettuali che scrivevano baggianate ognuno per il suo partito! ». Non prendiamoci in giro. Di voci dissenzienti ce n’erano anche in Italia. E penso, invece, che tu sia rimasto esterno – ecco ancora la funzione di freno dell’ideologia assorbita, dell’ “aria” respirata, che non è facile espellere – alla ricerca di alcuni gruppi legati alle riviste di sinistra “eretiche” italiane degli anni Cinquanta-Sessanta (Discussioni, Ragionamenti, Quaderni Piacentini, Quaderni rossi; e va aggiunto anche «il manifesto»). Che in modi impacciati e persino ambigui cercarono una via d’uscita da un’esperienza – quella socialista detta “reale”- ritenuta ormai fallimentare. Che poi abbiano fallito è altro discorso. Ma per starci , ci stavano.
    In Italia e già dal 1956, non erano « solo gli slavisti seri» a conoscere «perfettamente quanto si muoveva realisticamente da quelle parti!». E, del resto, se molto o più conoscevano, neppure loro sono riusciti ad uscire dalla «palus putredinis» . O a uscire dalla critica nichilista in cui ancora tu (ed altri) ti dibatti. E a indicare una via, che acnora vanamente cerchiamo.

    P.s.
    Ultima precisazione. Non ho definito la tua poesia « da un punto di vista politico-ideologico ecc ». Lo provano i miei precedenti commenti, puntuali e attenti al tuo linguaggio. Ho solo messo in luce il pensiero politico-ideologico che sta *alla base della tua poesia*. Affermare che essa ha lì le radici è come affermare che la poesia di Dante affonda le sue radici nel cattolicesimo medievale. Che c’è di strano a dirlo? Cosa invece si perde a tacerlo? E, infine, a riprova di non essermi del tutto sbagliato, sta la difesa che tu fai ora in questo ultimo commento dei *tuoi* critici del comunismo (che non nomini, ma sarebbe utile nominare per confrontare le loro posizioni con altre altrettanto critiche delle esperienze sovietiche a cui ho accennato).

    1. @ Sagredo.
      Per il mio armamentario femminista una frase come “noi uomini non lo sappiamo quali siano donne e quali no” appartiene a un antico quadro élitista (sono donne quelle con la gonna?): non sappiamo quali siano uomini o quaquaraqua, quali siano veri poeti o non poeti, quali abbiano capito il regime comunista e quali no, ecc.
      Non vedo nulla di significativo che possa distinguere una donna da una non donna.
      Distinzione che non regala Medusa, né altro sapere mostruoso che eguaglia e divide, che frammenta, scompone e consuma (ecco il nichilismo, che non accetta la differenza).
      E’ vero, la critica “da un punto di vista politico-ideologico ecc. è un errore” ma io sto prima nel femminismo poi in letteratura. Reali sono tutte le donne, ideologia (quindi poi politica) distinguere tra esse.
      Un po’ quello che ha scritto anche Mayoor “Le donne non ti sposano se vivi nei pensieri: c’è da fare la spesa… ecc” e pare che *le donne* si interessino di avere questo… tutte?
      Tutte le donne insieme per quello che sono è una idea difficile, non semplice. Un’idea che però non si può dividere, come non si dividono le donne da loro stesse, da quello che sono *in generale*. In generale non è un’idea, un criterio: in generale sono tutte le donne e basta.
      ah, la differenza ontologica!
      ah, la neutralità delle idee!
      ah il pensiero astratto!

      Ah le vostre (della cultura greco ebraica romana) scissioni del mondo, il vostro dualismo radicale (di cui quello sessuato è una conseguenza… o è l’origine, per chi lo sa pensare?)

      Quindi, sottolineo a Ennio (“non si passa cioè da un’ideologia ad un’altra tanto facilmente”) che la dualità degli esseri umani non è un fatto ideologico, è un fatto e basta.
      Si può assumerlo come non problematico, o può interrogarne il senso l’altra dei due, come si è assunto il compito il pensiero femminista. Che non consente più all’uno dei due di affermare l’ovvia indifferenza: le donne sono, le donne non sono…

      L’aria ideologia – la creaturalità divisa, o meglio, raddoppiata.

  15. Carissimo Ennio,
    hai preso un abbag-glio colossale… una cantonata… l’addio era una maniera per dire arrivederci, non un addio serio! ma che diamine non si può nemmeno scherzare… beh addio, ci vediamo domani, per esempio! Eppure Tu conosci Pulcinella, Arlecchino ecc., e davvero mi hai preso sul serio? Fiaschi per fischi
    Come anche la gentile Cristiana! Ma siate divertenti e “lasciatemi divertire”!
    Dovreste leggere tutti l'”Esorcismo col riso” di Velemir Chlebnikov!
    Ma che, le brume lombarde vi hanno rinsecchito il cerebro?!
    Invio dei versi giocosi:

    Far poesia è lirico
    ammaestrar le arti.
    Far poesia
    è lirico… quando
    il verde serpeggia
    dove il pudore non ha cani
    da sbattere
    con sputo di pagliaccio.

    Cos’è poesia?
    Non è forse
    orgogliosa
    vogliosa combinazione
    di numeri intrecciati
    come pezzi infiniti di ricambio?
    Non è forse
    spumosa messe di parole
    divise in classi
    gerarchie
    sottostrati?

    Che ordine costrutto
    come sorci
    sull’ATTENTI!

    Un motivo sobbalza
    strabocca numeri a catena
    disordine ribellione
    la forma impazza
    tentenna il contenuto
    la parola dominante
    invoca
    ispezioni!
    comanda
    arrotini!
    affila
    sgranocchia
    consuma
    lo sperpero ridotto a grande effetto
    ma la poesia
    per contrasto abbaia
    con muso
    da strapazzo!

    Ai sogni infantili
    lasciate i ricordi
    cucire
    colori su colori
    palazzi su palazzi
    cucire i sogni
    sui grandi e piccoli poeti
    come toppe false
    sulle chiappe!

    All’antica ragione
    prestare fantasie…

    Bruciare i canti sazi
    stanchi del poeta
    e leccate la calvizie
    di teste coronate
    in serie
    come gaie capre nei recinti.

    (da : Poema di un idiota 1968-1970)

  16. Il troppo stroppia. C’è qualcosa di troppo in Antonio Sagredo. L’abbaglio (non abbag-glio), niente affatto “colossale”, ma semplicemente naturale offuscamento e umana imprecisione, è soltanto in lui. Ennio Abate, Cristiana Fischer, Rita Simonitto, Annamaria Locatelli, Lucio Mayor Tosi sono fin troppo pazienti. E anche la troppa pazienza non sempre aiuta…
    Un caro saluto a tutti, ad Antonio Sagredo in primis… naturalmente!

  17. @ Sagredo

    Ma è un secolo che vi lasciano divertire!
    L’abbaglio sta nel persistere (per eludere i “fin troppo pazienti”
    ragionamenti).

  18. non eludo i ragionamenti, come dire: porto nottole ad Atene e vasi a Samo; o è il contrario?.

    l gioco comincia:

    le persone citate da Ottaviani mi sono care, compreso lo scherzo sull’ab-b-agliare persistente, e un secolo è troppo poco!
    ancor ci divertiremo recitarcantando: oplà oplà…! >> “i portali di scoperta” di J. J…..
    ———————–
    La tua solitudine sulla punta del molo Meridionale
    ha un significato forse più profondo
    che del puro isolamento.

    la poetessa K. R. tradotta da…
    —————————————————————–
    “Chi ama la verità attraverso la Poesia
    sarà frainteso e per lungo tempo
    creduto alleato delle forze che aborre.”

    (non ricordo l’autore, ricordaremelo!)

    —————————
    ” Io ho scritto tutto questo
    su voi,
    poveri topi.
    Mi dispiaceva non avere un seno:
    vi avrei nutrito come una piccola balia.

    (non ricordo l’autore e l’opera, ricordatemelo! – da una trad.
    di A. S.)
    ———————
    attendo il Vostro commento sull’ accidia!
    —-
    non adieu, questa volta!

  19. @ Sagredo

    Io aspetto risposte serie e argomentate ai problemi che tu hai sollevato e che io ho ripreso.
    Poi giochiamo.

    1. Gentile Antonio Sagredo,
      a me pare che ti è più caro lo scherzo che le persone, più il paradosso che il ragionamento, più il poetare barocco che il semplice poetare… e il tuo verso sull’accidia è “incommentabile”, per parte mia la tua attesa è vana!

  20. …uno contro tutti e tutti contro uno? mette a disagio…Sembrano due fronti(?) da cui partono domande senza peraltro ricevere risposte. Un blocco comunicativo, innestato certo da qualcuno. Raccolgo l’invito di A. Sagredo sull’accidia e rispondo (indovinello indovinello) che, secondo me, l’accidia potrebbe essere la sua proposta di sospendere il Pensiero, la causa dei nostri mali…per ritornare alla vita primitiva? Alla raccolta dei frutti, pre-rivoluzione agricola?…
    Ora l’invito nostro sarebbe che A.S. rispondesse, a sua volta, alle domande di Ennio, che ci riportano sul terreno comune della Storia…

    1. La gentile Annamaria sta al gioco di Sagredo, per farlo rientrare nel gioco collettivo. La seguo volentieri.
      La cesura del verso è dopo là, quindi l’accidia ha un luogo, dove avviene un incontro non del tutto piacevole (sorprendere è anche “cogliere di sorpresa”): perché si stava in uno stato accidioso che viene disturbato (dal pensiero)?
      O là è il luogo da dove viene il Pensiero? E questo genera sorpresa, o è una bella sorpresa, cioè là non c’era accidia, come prima credeva; oppure la sorpresa è fastidio (quindi l’uso del verbo è anche ironico) perché, nella loro accidia, quelli che stanno là non sanno che proporre Pensiero, e ancora Pensiero.
      Quest’ultima, forse malevolmente, sembra a me la lettura più probabile.
      Ora toccherebbe a Sagredo.

      1. Gentilissima Annamaria Locatelli,
        ciò che mette a disagio non è “l’uno contro tutti o il tutti contro uno”, giochi assai comuni ai quali, se dichiarati in anticipo, si può liberamente scegliere di partecipare o meno, ma “giocare” sopra le righe o dire soltanto dopo che si è intervenuti che si trattava solo di un “gioco”… E non credo che ci sia stato nessuno che abbia ordito un “blocco comunicativo”…
        In ogni caso, da parte mia, buon divertimento!

    2. Gentilissima Annamaria Locatelli,
      ciò che mette a disagio non è “l’uno contro tutti o il tutti contro uno”, giochi assai comuni ai quali, se dichiarati in anticipo, si può liberamente scegliere di partecipare o meno, ma “giocare” sopra le righe o dire soltanto dopo che si è intervenuti che si trattava solo di un “gioco”… E non credo che ci sia stato nessuno che abbia ordito un “blocco comunicativo”…
      In ogni caso, da parte mia, buon divertimento!

  21. …@ Paolo Ottaviani: non mi riferivo a nessuno in particolare…mi scuso se mi sono espressa male. Tuttavia non penso che le poesie di A. Sagredo offrano solo divertimento, anche tormento. Non sarebbe nichilismo

    1. @Annamaria Locatelli: non ha nulla di cui scusarsi. Si è espressa benissimo. Sono io che preferisco non partecipare al gioco “indovinello indovinello”. Ma solo perché non amo questo genere di curiosità che non mi piacevano neppure da bambino…Non mi pare che ci sia stato qualcuno che abbia affermato che le poesie di A. Sagredo “offrano solo divertimento”… magari! A me troppo spesso fanno solo star male perché vi avverto solo un vuoto artificio… Liberi, ovviamente, gli altri di indovinarvi paradisi e tormenti!

  22. *Ma siate divertenti e “lasciatemi divertire”!* chiede A. Sagredo.
    Ma mentre A. Palazzeschi, con il suo manifesto di poetica futurista (“Lasciatemi divertire”) attraverso il riso, l’ironia e facendo il giocoliere con i suoni cercava di sganciarsi da una tradizione poetica rigida – come il pubblico medio a cui era rivolta -, qui con A. Sagredo, ho l’impressione che ci sia in azione una specie di pifferaio di Hamelin che trascina i bambini (* “Io ho scritto tutto questo/su voi,/poveri topi./Mi dispiaceva non avere un seno:/vi avrei nutrito come una piccola balia”.*) nell’abisso del nulla (di fatto). Il pifferaio che reagisce in modo atroce al tradimento che gli viene fatto, trasformando l’arte della sua musica in qualche cosa di negativo, antivitale. Mostruoso. Perché attraversato dalla vendetta.

    Ma, al di là di questo, ognuno gioca come sa e come può.

    Ennio scrive più sopra: * Perciò è un bene che in questi due post, dedicati alle «prove mostruose» della tua recente poesia, sia venuto fuori il discorso sul ‘comunismo’ ( usiamolo questo termine divenuto “parolaccia”!) o sui regimi comunisti sovietici. E cioè dell’implicito dato storico, a cui allude di fatto la tua poesia; e che, in questo tuo ultimo commento, finalmente diventa esplicito.*
    Io direi che non è venuto fuori alcun discorso esplicito sul ‘comunismo’ bensì sulle esperienze individuali di Sagredo che ha vissuto conflittualmente in un regime sedicente comunista (perché fosse ‘sedicente’ nessuno lo dice), e che di queste conoscenze ha fatto tessuto per il suo lavoro poetico.
    Ne risente la sua poiesis? Indubbiamente sì. * Ho solo messo in luce il pensiero politico-ideologico che sta *alla base della tua poesia*, scrive Ennio.
    Potrebbe essere diversamente se A. Sagredo volesse mettersi in un’ottica di *confrontare le loro posizioni con altre altrettanto critiche delle esperienze sovietiche* [uscendo da] « [in] quella parte» (quale? dei cattolici repressi dal regime sovietico? degli eretici del comunismo che scrivevano i loro *samizdat*? Come sembra ipotizzare Ennio?
    Ne dubito assai: *Non si passa da un’ideologia all’altra tanto facilmente*.
    E allora?
    Pensiamoci! E divertiamoci intanto con questa poesia di:

    Aldo Palazzeschi – E lasciatemi divertire

    Tri, tri tri
    Fru fru fru,
    uhi uhi uhi,
    ihu ihu, ihu.

    Il poeta si diverte,
    pazzamente,
    smisuratamente.

    Non lo state a insolentire,
    lasciatelo divertire
    poveretto,
    queste piccole corbellerie
    sono il suo diletto.

    Cucù rurù,
    rurù cucù,
    cuccuccurucù!

    Cosa sono queste indecenze?
    Queste strofe bisbetiche?
    Licenze, licenze,
    licenze poetiche,
    Sono la mia passione.

    Farafarafarafa,
    Tarataratarata,
    Paraparaparapa,
    Laralaralarala!

    Sapete cosa sono?
    Sono robe avanzate,
    non sono grullerie,
    sono la… spazzatura
    delle altre poesie,

    Bubububu,
    fufufufu,
    Friù!
    Friù!

    Se d’un qualunque nesso
    son prive,
    perché le scrive
    quel fesso?

    Bilobilobiobilobilo
    blum!
    Filofilofilofilofilo
    flum!

    Bilolù. Filolù,
    U.

    Non è vero che non voglion dire,
    vogliono dire qualcosa.
    Voglion dire…
    come quando uno si mette a cantare
    senza saper le parole.
    Una cosa molto volgare.
    Ebbene, così mi piace di fare.

    Aaaaa!
    Eeeee!
    liii!
    Qoooo!
    Uuuuu!
    A! E! I! O! U!
    Ma giovinotto,
    diteci un poco una cosa,
    non è la vostra una posa,
    di voler con cosi poco
    tenere alimentato
    un sì gran foco?

    Huisc… Huiusc…
    Huisciu… sciu sciu,
    Sciukoku… Koku koku,
    Sciu
    ko
    ku.

    Come si deve fare a capire?
    Avete delle belle pretese,
    sembra ormai che scriviate
    in giapponese,

    Abi, alì, alarì.
    Riririri!
    Ri.

    Lasciate pure che si sbizzarrisca,
    anzi, è bene che non lo finisca,
    il divertimento gli costerà caro:
    gli daranno del somaro.

    Labala
    falala
    falala
    eppoi lala…

    e lala, lalalalala lalala.

    Certo è un azzardo un po’ forte
    scrivere delle cose così,
    che ci son professori, oggidì,
    a tutte le porte.

    Ahahahahahahah!
    Ahahahahahahah!
    Ahahahahahahah!

    Infine,
    io ho pienamente ragione,
    i tempi sono cambiati,
    gli uomini non domandano più nulla
    dai poeti:
    e lasciatemi divertire!

    R.S.

  23. Lasciamo da parte l’Ottaviani incapace di commentare un così semplice concetto sull’accidia! (figuriamoci gli altri di cui mai saprà per sua fortuna o sfortuna non so). Si è messo da parte da se stesso e non può essere diversamente: lo escludo dai miei lettori futuri: è la mia Poesia che non è alla Sua portata: troppo “sublime possanza” (Squarotti e altri ecc.) non la comprende! L’Ottaviani non è poeta! Vive in equivoco senza fondo come il 95 % dei poeti sedicenti. La mia “attesa”?,: da lei non attendo nulla e nulla mi può pervenire di nuovo e valido! Per questo la Sua poesia è mortale!”
    Le tre lettrici invece più intelligenti e preparate lo hanno già da tempo lasciato indietro e questo lo giudico dai loro commenti: la Cristiana ha quasi centrato il concetto (e dimostra che è commentabile l’Accidia); la Rita deve sapere che la citazione dei “topi” non è un auto-citazione, ma è Majakovskij nella sua tragedia omonima (Vladimir Majakovskij) da me tradotta splendidamente nel 1971 (e non come quel coglione sardo del linguista Ruju, allievo del Tullio De Mauro); l’Annamaria è arguta e altro… sottolineo che l’Ennio di cui dico in una “mostruosa” non è affatto Ennio Abate, ma un celeberrimo matematico leccese, che con le sue scoperte ha fatto di-venire alcuni matematici dei premi Nobel! Che l’espressione-verso “andiamo a morire da Poeti” è parafrasi dell’ultima frase pronunciata dal Vanini prima che fosse arso “andiamo a morire da filosofi, allegramente!”( quest’ultimo termine aggiungo al verso parafrasato ). Ma potrei continuare senza fine: ma non è mio compito facilitare la mia (in)- comprensione: il mio compito è già realizzato col verso!
    Adieu (vuol dire per me arrivederci) . a.s.

    1. Concordo con Rita Simonitto quando afferma che è venuto fuori solo un discorso “sulle esperienze individuali di Sagredo che ha vissuto conflittualmente in un regime sedicente comunista”….

      Resta però il fatto che, per discutibile che fosse, Aldo Palazzeschi, aveva, a mio parere, centrato il suo obbiettivo e Antonio Sagredo no.

      …I lettori di poesia sono già pochi… nessuno, fortunatamente, può arrogarsi il diritto di escludere dalla lettura, presente o futura, chicchessia, se non coprendosi di ridicolo…

      Un cordiale saluto ad Antonio Sagredo che, a mio parere, ha scritto brutte poesie, tutte mortali, come ogni cosa è mortale nell’universo.

    2. Boh, questa chiusa sembra scritta per la fretta di uscire: magari la si continuerà al bar; due frasi muscolari, come fanno i ragazzi di tutto il mondo, quindi anche a Lecce. Non si parla di poesia ( qualche verso con scommessa), di pensiero; non s’impara niente, tranne che ad avere pazienza. L’invettiva contro Paolo Ottaviani è in perfetto stile Carmelobene. Niente di nuovo.

  24. Ebbene sì, la poesia di Sagredo mi spacca la testa me la rompe in due parti nette ,che se ne vanno ,una fra i miei piedi per terra el’altra vola via e stenta a tornare.
    Sagredo , attraverso il terrore che mi incute il non capire anche dopo estenuanti lotte con il mio interesse nei suoi confronti, mi lascia persa in una via con il solo desiderio di cercare la fine l’ inizio che a volte mi sembra di avere trovati , in fondo , a ridere di me-
    Mi riprendo poi quando torna la metà della testa che era volata via. Ma non riesco a non subire il fascino di questo poeta.
    Sagredo, forse ho solo bisogno di trovare la macchina del tempo, lei, mi sembra, che l’abbia trovata.

    1. “Sulle rive invano cercheremo un albero, un oceano, un cantuccio…
      la distruzione sarà più che il nostro pane quotidiano…
      sarà una tendenza – senza… fine!
      Non si canta il nulla che non esiste – si canta quello che esiste – NOI!”

      Per questi versi resto in silenzio,
      quello della fine senza inizio.

  25. Io “vissuto conflittualmente in un regime sedicente comunista”? (non so nemmeno cosa significa!)
    Lei vive nel regno della Cretineria senza fine, come il numero dei suoi sudditi!
    —-
    Gentile Mayoor, prime di citare il nome del salentino, dovrebbe sapere tantissimo di teologia!

  26. “Un cordiale saluto ad Antonio Sagredo che, a mio parere, ha scritto brutte poesie, tutte mortali, come ogni cosa è mortale nell’universo”?
    Si azzardi a dirlo a chi si intende davvero di Poesia!
    ———————————————————————
    Liberati dal Tempo resteremo infine orfani felici
    in un dove che Padri e Figli non sapranno mai
    che quella riva è un altro uomo, ma una fiumana immobile
    scorre mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.
    ——————————————————————-

    1. “E tu, lenta ginestra,
      Che di selve odorate
      Queste campagne dispogliate adorni,
      Anche tu presto alla crudel possanza
      Soccomberai del sotterraneo foco,
      Che ritornando al loco
      Già noto, stenderà l’avaro lembo
      Su tue molli foreste. E piegherai
      Sotto il fascio mortal non renitente
      Il tuo capo innocente:
      Ma non piegato insino allora indarno
      Codardamente supplicando innanzi
      Al futuro oppressor; ma non eretto
      Con forsennato orgoglio inver le stelle,
      Nè sul deserto, dove
      E la sede e i natali
      Non per voler ma per fortuna avesti;
      Ma più saggia, ma tanto
      Meno inferma dell’uom, quanto le frali
      Tue stirpi non credesti
      O dal fato o da te fatte immortali.”
      (Giacomo Leopardi, La ginestra)

      … ma ci saranno sempre stolti e superbi che, “con forsennato orgoglio”, si crederanno immortali!

    2. Gentilissimo Sagredo,
      ecco qualcosa che avevo trascurato di delineare nel suo postmodernismo: la solitudine del protagonismo sessuale! Padri e figli, gli ad-versari sulle due ripe del fiume, un altro che è “uomo” anche dall’altra parte (e per forza, fanno la guerra!) e la storia immobile che scorre come una fiumana mentre il corpo si astrae nel non agire… il pieno immobile e la singolarità trasfigurata…
      per non parlare del corrivo milanesismo di la Cristiana, la Rita, la Annamaria…
      grande solitudine dell’Antonio!
      le suggerirei se crede di accostarsi alle riflessioni di pensatrici sulla nascita, dipendenza e parzialità

  27. SUL «REGIME SEDICENTE COMUNISTA»

    @ Simonitto

    Lascio da parte la questione se la poesia di Sagredo alluda o meno alle esperienze storiche dei regimi comunisti sovietici. (Si sarebbe potuto approfondirla *anche* con lui, ma non ci sta o crede di approfondirla “giocando” e quindi chiuso).
    Vengo a quel tuo ‘sedicente’, che non mi convince per altri motivi. È un termine che va approfondito. Seriamente. Viene dal gergo politico di sinistra, quando ancora si discuteva su una questione storica reale: cos’è accaduto in Urss dal 1917 alla sua implosione nel 1989 (due date solo simboliche)?
    E conserva una connotazione (emotiva e ideologica): dire ‘regime sedicente comunista’ equivale a fare una critica di quel regime. Come dire: voi vi dite comunisti ma in realtà non lo siete. Avete tradito il “vero” comunismo, quello intravisto-preconizzato- ipotizzato-profetizzato (metto in collegamento le varie sfumature che il termine ha avuto nell’area politica marxista) da Marx. Una discussione che è durata all’ingrosso per 150 anni e ha fatto emergere le posizioni – diverse e spesso in atroce contrasto – dei vari pensatori (Kautsky, Lenin, Luxemburg, Korsch, Stalin, Gramsci, Mao, ecc.) che a me piace classificare nelle due correnti del marxismo: la “calda” e la “fredda”. Che sarebbero tutte da ripensare oggi. Però non bisogna dimenticare che quella stessa critica aveva anche una versione “di destra”, cioè di quanti, borghesi-capitalisti-nazionalisti-fascisti-nazisti (anche qui faccio un’ammucchiata per comodità di discorso), hanno osteggiato l’esperienza della “costruzione del socialismo”, quando era solo un’idea, un’ipotesi, un progetto che voleva essere alternativo all’esistente o un primo tentativo; e non aveva già mostrato i suoi limiti o errori o difetti.
    Possiamo oggi, che “il comunismo è morto” e non più un «fantasma che si aggira per l’Europa», non tener conto di questa elementare distinzione, quando usiamo il termine ‘sedicente’? Possiamo cioè non distinguere le ragioni per cui “noi” usiamo ‘sedicente’ da quelle usate da “loro”?

    1. @ Ennio Abate

      Sto rileggendo molto attentamente GERMINAL di Zola.
      Quante risposte e quante verità in questo romanzo.
      Quanti popolo e quanto desiderio di giustizia….ma soprattutto quanta voglia di cambiare! Quanti sacrifici per raggiungere la libertà di vivere.
      Certe letture danno forza , quella forza che credevamo dimenticata.

  28. PERCHE’ EMILIA BANFI SE N’ESCE CON “GERMINAL”?

    Per far capire a quanti non stanno seguendo il neonato gruppo FB di POLISCRITTURE (così gli faccio un po’ di pubblicità e qualcun altro viene a ronzare operosamente anche là), Emilia si riferisce a questo passo di Fortini su Zola che vi ho pubblicato stamattina:

    7. ZOLA: I SUOI PERSONAGGI SONO «FUNZIONI IDEOLOGICHE»

    Si è frequentemente ironizzato sulla rozzezza psicologi-
    ca dei personaggi zoliani. Ma mi pare doveroso notare che,
    ‘almeno in *Germinal*, essi non sono quei nodi di fatto bio-
    logico e di determinazioni sociali che si crede di consueto.
    È molto significativo, ad esempio che Etienne Lantier abbia
    progressivamente perduto negli abbozzi e negli appunti
    che lo riguardano, la sua predestinazione all’assassinio con-
    nessa con l’alcolismo dei genitori. No, i principali perso-
    naggi sono vere e proprie funzioni ideologiche. Possiamo
    giudicarli, proprio per questo, rozzi e superficiali; ma non
    possiamo negare che, quella loro caratteristica rende rela-
    tivamente superfluo l’approfondimento psicologico: è una
    verità severa, nella semplificazione zoliana: i personaggi
    non sono solo opachi al lettore, lo sono a se stessi. Zola cre-
    de di farli agire in base a determinazioni biologiche o so-
    ciali ma ne fa in vero dei *ruoli*.
    Rasseneur, il possibilista; Etienne, il collettivista, l’au-
    . toritario giacobino; Souvarine, l’anarchico nichilista (e an-
    . che il rappresentante dell’Internazionale, Pluchart) ci in-
    teressano come persone ma altrettanto, e forse più, come
    forme diverse e fatali dell’ideologia rivoluzionaria. In que-
    sto senso si veda com’è esemplare la parabola di Etienne,
    con la sua aurorale coscienza di futuro funzionario, l’ine-
    vitabile incapacità a reggere non tanto la sconfitta quanto
    la reazione dei minatori, il suo ripiegamento. È lui che so-
    pravvive alla distruzione del Voreaux. È lui che nel mat-
    tino d’aprile dell’ultima pagina crede vedere nell’aria le fi-
    gure di Rasseneur e di Souvarine, i suoi due contraddittori,
    fra i quali dovrà farsi la storia del socialismo futuro. Ma
    non è altrettanto straordinaria di intuizione storica la figura
    del prete progressista Ranvier che vuole Iachiesa e gli operai uniti contro la borghesia dell’89? E con quanta ve-
    rità è veduta, dalla parte dei borghesi, il fenomeno della
    concentrazione capitalistica: la miniera Jean-Bart di De-
    neulin passerà fatalmente alla Compagnie, impersonale,
    anonima. Da questo punto di vista il romanzo ha una ar-
    chitettura interna eccezionalmente solida. Vi senti il socio-
    logo in lotta con il visionario. E non è detto (né necessa-
    rio), che quest’ultimo abbia sempre la meglio.

    (F. Fortini, Questioni di frontiera, Einaudi, Torino 1977, pagg. 287-288)

  29. @ Emilia in primis
    anche se leggo adesso il commento esplicativo di Ennio delle 15.02, comunque vivissimi complimenti per la ri-lettura di Germinal: vi si trovano molte analogie con l’oggi!

    @ Ennio
    E’ senz’altro necessario fare degli approfondimenti in merito alle implicazioni storiche-emotive che quegli anni hanno lasciato in noi. Anche se non si può limitare alla singola esperienza raccontata in un veloce commento in un Blog, pure qualificato come Poliscritture.
    Il termine ‘sedicente’ io l’ho utilizzato nel senso stretto del suo etimo: “che (auto)afferma delle cose su di sé” e quindi né con una accezione di ‘sinistra’ né di ‘destra’.
    A quello che tu scrivi: * voi vi dite comunisti ma in realtà non lo siete. Avete tradito il “vero” comunismo, quello intravisto-preconizzato- ipotizzato-profetizzato (metto in collegamento le varie sfumature che il termine ha avuto nell’area politica marxista) da Marx*, io aggiungerei la mia versione, valida ora come allora.
    Non ero una credente . I miei ‘mallevadori’ (a quei tempi non ci si poteva iscrivere al Partito Comunista se non si avevano le opportune credenziali certificate da una specie di esame) non mi diedero il placet in quanto venni ritenuta ‘troppo individualista’ e ‘poco fiduciosa nei destini vittoriosi della classe operaia’. Pertanto, non avendo mai pensato in termini di “vero comunismo”, di “vero Marx” intesi come Vangelo, ecc. ecc., non posso dire che là, in URSS, c’era il comunismo che poi si è dissolto a causa dei tradimenti, delle varie ‘purghe’. A mio parere c’era sì l’idea che là si potesse costruire un nuovo ordine sociale, che c’erano embrioni di questo tentativo, a cui erano favorevoli una teorizzazione ‘forte’, quella di Lenin, e complici le vicissitudini belliche che avevano bisogno di una forza ideologica per vincere. Ma le guerre portarono anche altro: i semi dei compromessi capitalistici che non era sufficiente demonizzare perché quelli servivano, eccome! E un certo passato, buttato troppo frettolosamente fuori dalla porta, rientrava dalla finestra.
    Traditori per me non sono stati quelli che hanno tradito il comunismo o il marxismo (molti non ne avevano nemmeno approfondita conoscenza) , ma coloro che hanno usato questo ‘progetto’, anche i suoi aspetti propulsivi, ai fini di costituire un ‘altro potere’. E che non hanno permesso di uscire da un modello ‘liturgico’ per poter pensare laicamente.
    E, a proposito della critica proveniente da destra , mi ricordo l’avvilimento di quando lessi il libro “Una giornata di Ivan Denisovic” di Aleksandr Solzenicyn (prima zarista, poi marxista, infine ripudiò il marxismo…). Uno scrittore che osarono paragonare a Tolstoj, a Cechov non certo per le sue capacità letterarie – senza dubbio aveva una grande facilità di penna! – ma solo perché minava le illusioni della propaganda sovietica che occultava la realtà terribile del gulag. Mi sembra che fu anche insignito del premio Nobel! Ma non fu tanto la ‘realtà’ dei gulag a sconvolgermi quanto l’uso manipolatorio che veniva fatto della realtà stessa.

    R.S.

  30. L’intervento di Sagredo del 3 Settembre u.s. dovrebbe riposizionare negatività ( o perplessità ) di molti commenti . Ma , a parte questo , la diatriba dovrebbe ( credo ) tener conto dell’assunto del buon Poe “i poeti hanno bisogno di creare delle lontananze”, e dell’aforisma di Blanchot “vale la pena di trasmettere solo l’intrasmissibile “. Sagredo non bara , non recita a soggetto , non si preoccupa minimamente di comunicare e di “piacere”, di sedurre . Poi , se la sua poesia o parte della sua poesia “arriva”e ottiene un riscontro , credo che il suo ego – com’è umano che sia – ne sia gratificato . Credo in definitiva nella buonafede della sua scrittura e non mi sento di penalizzare cripticità oscurità ecc. perché sono fisiologiche e vanno rispettate . La sua poesia non andrebbe proposta come un cadavere da vivisezionare criticamente . Occorrerebbe solo abbandonarsi alle suggestioni del testo , alla lettura .
    leopoldo attolico –

    1. Grande Leopoldo!
      Non vivisezioniamo la poesia, è un lavoro inutile, dannoso, impossibile da fare.
      La Poesia deve stare e vivere sempre nella sua interezza.

    2. @Ennio Abate
      Caro Ennio, come Rita Simonitto ha cercato già di dire “sedicente” non è un termine che “viene dal gergo politico di sinistra, quando ancora si discuteva su una questione storica reale: cos’è accaduto in Urss dal 1917 alla sua implosione nel 1989”, come tu scrivi. Ha origine ben più lontane. La parola “sedicente” infatti sembra essersi diffusa in Italia nella 2a metà del Settecento, trovando fortuna dapprima nella libellistica antigesuitica d’influenza francese, in frasi quali la “sedicente Società o Compagnia di Gesù”, i “sedicenti gesuiti” ecc.
      Faccio questa precisazione storico-filologica perché mi sembra che, se si continua ad assumere, consapevoli o meno, il comunismo storico (1917-1989), come mi sembra che tu fai non soltanto per esemplificare, come uno sparti-acqua del pensiero, un “punto sine qua non” dell’intera storia dell’umanità, ebbene allora ogni discussione rischia di partire viziata in partenza e gli esiti, se mai ce ne saranno, ancor più annebbiati e incerti…
      Fai bene a rileggere Zola e il romanzo “Germinale” che precedette di vent’anni la catastrofe mineraria di Courrières, dove persero la vita 1099 minatori… ancor meglio se vi unirai la rilettura degli Evangelisti, uno dei quali, Giovanni, è riportato in epigrafe nella Ginestra leopardiana, il mio moderno vangelo laico… riletture che possono aiutare a capire passato e presente, forse anche a immaginare più correttamente il futuro… e perfino a distinguere i poeti dai poetastri. Un caro saluto. Paolo

  31. A VARI

    @ Simonitto

    Credo che il doveroso approfondimento sulla *storia del comunismo* vada condotto sul piano storico. Penso, ad es., ai libri di Luigi Cortesi, Storia del comunismo, manifesto libri, Roma 2010; di Rita Di Leo, L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e Viceversa, EDIESSE, 2012; ai volumi del già citato P.P.Poggio nella collana «Altro Novecento» della Jaca Book; agli accenni storici presenti negli scritti di vari autori (Fortini, Cases, Preve, La Grassa, Panzieri, Montaldi, ecc.) e ad altri che nel frattempo fossero usciti a me ignoti. Dei libri citati io ho letto completamente solo quello di Cortesi, alcuni saggi del volume «Il comunismo sovietico» curato da Poggio e finora solo le recensioni di quello della Di Leo. Ritengo significative le testimonianze del nostro approccio o invaghimento o confronto/scontro con l’ideologia comunista italiana, che può essere avvenuto in vari modi e tempi ma credo nell’arco anni Cinquanta-Settanta soltanto se ben contestualizzate in quella storia e nell’immaginario che essa produsse in Europa. Se no, temo che si rischi grosso: una testimonianza romanzata o intimimistica o impressionistica. Magari con tratti vivaci e veritieri, ma da considerare frammentari e provvisori. Anche perché il traguardo di questa ricerca dovrebbe essere un giudizio su quella storia, quanto mai difficile e controverso, vista la marea di ideologismi che subito affiora appena l’argomento viene sfiorato.
    Quanto alla critica al comunismo proveniente da destra ti suggerirei di leggere in «Questioni di frontiera» di Fortini il saggio «Del disprezzo per Solženicyn», che rivela ancora oggi bene quanto fosse difficile per chi militava a sinistra cercare la verità sull’Urss al di là delle manipolazioni ufficiali.

    @ Attolico e Banfi

    No, non credo che Sagredo non bari e non reciti a soggetto e non voglia sedurre. È stato lui stesso attore e amico di un Grande Baro e di un Grande Seduttore come Carmelo Bene. E molte erano con lui le *affinità elettive* e molto da lui ha appreso. E poi è la filosofia della vita (nicciana e stirneriana ripeto), scelta o a cui “naturalmente” ha aderito, che gli fa privilegiare questi atteggiamenti anche nei rapporti con gli amici/lettori/avversari.
    Del tutto errato poi mi pare l’invito a non «vivisezionare criticamente» la sua poesia. Chi mai qui l’ha fatto? La vostra mi pare una formula rituale ed esorcistica che concede a priori al poeta un lasciapassare che invece deve conquistare.

    @ Ottaviani

    1. Eh, sì, so che il tema *storia del comunismo* t’infastidisce così tanto da attribuirmi un atteggiamento che davvero non ho («uno sparti-acqua del pensiero, un “punto sine qua non” dell’intera storia dell’umanità»). Certo sono convinto che quella storia vada indagata e non cancellata.

    2. Ben venga la precisazione storico-filologica sul termine ‘sedicente’, ma il mio «viene dal gergo politico di sinistra» intendeva solo dire che a me è venuto da quell’ambiente.

    3. “Germinale” lo sta leggendo Emilia Banfi, non io. Però se ha tutte queste virtù rivelatrici, proverò a rileggerlo.

  32. il ricorrere a Leopardi (la Ginestra)per zittire Sagredo (cosa vana, se lo conosco bene) è significativo dell’impotenza del signor Ottaviani, che tra l’altro è lui stesso stolto e superbo se insiste a credere d’ essere un poeta… conosco bene Sagredo dall’età di 17 anni e posso affermare che è davvero stolto e superbo come è stato sempre un Poeta e deve essere … che non crede d’essere un poeta,- lo è, e basta! – Leopardi stesso, quando non fa pedagogia, sa di essere stolto e superbo… qualità necessarie ad un poeta… se non fosse stato stolto e superbo non avrebbe mai scritto una poesia stolta e superba quale noi la conosciamo, e la riconosciamo proprio per questo… per la sua sublime saggezza e grandezza: qualità che includono e fanno grandi sia la stoltezza che la superbia.
    Sono intervenuto dopo tante mie riflessioni sui commenti; e posso dire che la Poesia di Sagredo, se definita “inclassificabile” e ora “incommentabile”, acquista e acquisterà sempre di più Valore proprio a causa di queste definizioni… m’ha riferito per telefono che ringrazia i suoi detrattori di tanta attenzione… inutile.
    A. C.

  33. mi si perdoni il continuo….
    l’insistere poi sui trascorsi di Sagredo, sulle sue amicizie e sulle sue influenze, sul suo carattere scostante (ma assicuro grandemente generoso), sulla maniera rozza di prenderlo di petto e di opporvisi senza adeguata conoscenza dei suoi versi, spesso davvero mirabili (e chi li definisce “brutti” è davvero invidioso!)… questo insistere sulla sua figura senza davvero conoscere la persona distrugge la sua umiltà che, testimonio, è senza confini e comprensiva dei suoi stessi limti più che quella degli altri.
    Vi ringrazio, A. C.

  34. @ Attolico e Banfi

    Ho scritto:

    “E poi è la filosofia della vita (nicciana e stirneriana ripeto), scelta o a cui “naturalmente” ha aderito, che gli fa privilegiare questi atteggiamenti anche nei rapporti con gli amici/lettori/avversari”

    Ecco la conferma da attanasio cavalli, che dice ( “e cce credo”) di conoscerlo BENE (e) Sagredo:

    ” Leopardi stesso [*e quindi in automatico Sagredo?], quando non fa pedagogia, sa di essere stolto e superbo… qualità necessarie ad un poeta…[* si badi a quel ‘necessarie’: equivale alla relazione strettissima che un certo pensiero romantico stabilì tra genio e sregolatezza…] se non fosse stato stolto e superbo non avrebbe mai scritto una poesia stolta e superba quale noi la conosciamo [* Avvertenza: qui ‘stolto e superbo’ equivale a ‘geniale’, perché – nella logica di Cavalli ( e Sagredo) è troppo normale (e adorniano) pensare che la genialità o la grande poesia venga ottenuta bloccando stoltezza e superbia o follia e non mescolandola ad esse], e la riconosciamo proprio per questo… per la sua sublime saggezza e grandezza: qualità che includono e fanno grandi sia la stoltezza che la superbia.” [*Ecco Nietzsche…]

    @ attanasio cavalli (continuo)

    Ma “noi” sappiamo che il “carattere scostante” di Sagredo è una figura (una maschera) fin troppo esibita e perciò la critichiamo. E’ essa che danneggia o occulta la sua “umiltà” ben più delle nostre (discutibili quanto si vuole) critiche.

  35. @Ennio Abate… La “storia del comunismo” non m’infastidisce, anche io penso che vada indagata e non cancellata (si dice infatti che cancellare ciò che è avvenuto non sarebbe concesso neppure a un dio!) … e prendo atto volentieri che la mia valutazione dell’importanza che quella storia potesse avere per te sia una valutazione del tutto erronea…

    Chiedo scusa anche a Emilia Banfi per l’errata attribuzione della rilettura di “Germinale”, rilettura se non proprio “rivelatrice” certo assai proficua…

  36. Accreditare a priori il mix stoltezza superbia e follia come imprescindibile per esperire talento , mi sembra un po’ troppo , un po’ esagerato . Emilio Villa , che ho frequentato per tanti anni , proponeva – linguisticamente – solo genio e sregolatezza ; e come artista era l’antitesi della superbia . Ripeto : il postulato di cui sopra non credo si presti a generalizzazioni e radicalizzazioni .

  37. Io credo che si dovrebbero scrivere poesie comprensibili. Per questo non amo molto il fare poetico di Sagredo; non che non gli riconosca una forza espressiva notevole, solo ritengo che sia su una strada sbagliata. L’esasperazione metaforica, condotta fino ai limiti dell’enigma più astruso, rivolta a chi può interpretare e agli altri una fumosa bellezza… sembra l’opera di un artista geniale. Peccato però, vivere nell’eclisse! proprio mentre la mente dei contemporanei sta mutando in direzione della concretezza ( più cultura, più disagio sconomico, più bisogno di sicurezza, di praticità), noi poeti andiamo a proporre ( con Sagredo, ma non è l’unico), il non plus ultra della rottura con la modernità: l’uso sconsiderato e reiterato della metafora, una delle più grandi complicazioni della semantica. E scommettere sul fatto che l’autore festeggerà il suo compleanno allo scadere di ogni secolo. Invece potrebbe trattarsi di uno sbandamento intellettualistico nel periodo di passaggio tra un’epoca e un’altra, tra moderno, post-moderno e post-post-moderno; di cui non resterà quasi traccia, se non su qualche volumetto per le Università ( se va bene). Socialmente parlando, un fatto insignificante.
    Gentile Sagredo, spero troverà abbastanza ampia anche la mia visione del tempo e dello spazio ( di cui la storia sarebbe la parte dell’inferno): non solo riesco a vedere la sfera luminosa della poesia, ma anche quel che c’è attorno.
    Io credo che si dovrebbero scrivere poesie comprensibili, nelle quali la metafora torni a fare il suo servizio; perché oltre una certa misura ( vedi Bertoldo) il linguaggio diventa strazione, pura emotività. E dunque cosa ci aspettiamo? Che la poesia si dissolva in un fremito, e quindi ci mostri il suo vero volto? Oppure decidiamo di voler parlare alle menti in evoluzione che abbiamo intorno?

  38. Gentili locutori del blog,
    vorrei eccepire qualcosa circa la “comprensibilità” della poesia di Antonio Sagredo. Innanzitutto, non esiste una comprensibilità assoluta, come non esiste una incomprensibilità assoluta. Per intendere la poesia sagrediana dobbiamo necessariamente uscire dalla tradizione recente del Novecento italiano e dai mini canoni che hanno imperversato in questi ultimi decenni. E’ lo stesso Sagredo che ci mette sulla retta via quando ci parla di una poesia che deve ripartire dallo stadio zero; il poeta ci vuole dire che ha tagliato tutti i ponti di collegamento con la tradizione italiana. E’ questo il distinguo che fa da fondamento alla sua poesia. Indicarlo come uno “stolto” o come un “superbo” significa non aver compreso il lavoro di raschiatura compiuto da Sagredo. Dirò di più, Sagredo è più che “stolto” e “superbo”, è anche autoritario e dittatoriale, la sua poesia si pone come un assoluto di estraneità, come un anacronismo vivente, tende alla assoluta alterità. Ma questo dato di fatto è, di fatto, un punto di enorme vantaggio della poesia sagrediana rispetto a quella dei poeti che scrivono alla maniera della poesia maggioritaria di oggi, quello sì un gergo insignificante e, in quanto tale, comprensibile a tutti. Ma in questo caso si tratta di una comprensibilità che non buca che il presente, la comprensibilità del banale e del quotidiano. La poesia di Sagredo ha il suo centro di gravità, la sua base, il suo fondamento nella “immagine”, è questa la chiave per entrare dentro i suoi meccanismi segnaletici molto complessi e sfuggenti. E’ come se si volesse capire Transtromer senza fare riferimento alle sue fittissime reti di immagini. La poesia di Sagredo non può essere compresa se non si entra all’interno del suo sistema segnaletico e del suo sistema semaforico, entrambi sistemi basati sulla polimorficità della “immagine”. Ergo, l’io del poeta passa in secondo piano, ridotto com’è ad un sistema di specchi che rimandano l’un l’altro, un caledoscopio di immagini che impongono all’io poetante di ritrarsi sullo sfondo, di sottrarsi. Insomma, ritengo la poesia sagrediana come una delle cose più interessanti che si scrivono oggi in poesia in Italia proprio per la sua capacità assumere un vestito linguistico assolutamente singolare e irriconoscibile…

  39. @ Mayoor

    Se tutti accettassero il tuo invito a scrivere poesie comprensibili, dove finirebbe la «forza espressiva notevole», che riconosci (come me) alle poesie “oscure” o “incomprensibili” di Sagredo? Temo che, messa al bando, non si manifesterebbe più o si manifesterebbe come sintomo in altre attività. L’inconscio, l’oscuro non può essere abolito. Ora nei versi di Sagredo si esprime in «esasperazione metaforica, condotta fino ai limiti dell’enigma più astruso, rivolta a chi può interpretare e agli altri una fumosa bellezza»? Embè, ne viene danneggiato forse qualcuno? Questo «fare poetico di Sagredo» viene imposto con la violenza persuasiva di cui è capace la grancassa dei mass media o è entrato come materia di studio nelle scuole?
    Sta lì, c’interroga. Possiamo incuriosircene, tentare di capirlo, irritarcene, fare orecche da mercanti.

    Mi permetto di dire che stavolta hai preso una cantonata. Dal sapore tardo-zdanoviano. Rischi di censurare le spinte – abnormi, ambivalenti, teatralizzanti quanto si vuole, ma non dannose e anzi chissà forse feconde – dell’Io (nicciano-stirneriano alla fonte…) di Sagredo. E appellandoti a un noi, che a me pare del tutto improbabile. (Dove la vedi questa progressiva « mente dei contemporanei» che starebbe mutando in direzione della concretezza?).
    Penso che ci siano varie strade in poesia: quella di Sagredo, la tua, di Ottaviani, ecc. Il confronto con quella oscura e enigmatica di Sagredo per me deve continuare. La critica alla sua poetica o alla sua visione del mondo non può fare della «comprensibilità» il criterio centrale di giudizio. Possiamo preferire la poesia comprensibile, ma dobbiamo continuare a interrogare la poesia che ci appare incomprensibile.

  40. @ canciani

    D’accordo – l’ho appena detto – sul non fare della “comprensibilità” il criterio principale in poesia. Ma cos’è, esiste poi davvero, questo «stadio zero» da cui la poesia oggi dovrebbe ripartire? E quella di Sagredo è forse poesia che da tale stadio zero già riparte o è ripartita?
    Sagredo batte di sicuro altre strade rispetto alla poesia del Novecento italiano e si tiene (anche troppo) sdegnosamente in disparte dalla poesia degli ultimi decenni. E spesso, quando non gioca da attore a mescolare capricciosamente “stoltezza” e “superbia”, spesso esagera col la maschera del “dittatore” (senza esercito però!). È imbevuto semmai di altra tradizione, di altre visioni. Che molto hanno a che fare con la sua rispettabile cultura di slavista e con un barocchismo pugliese-meridionale, terrestre, passionale ma anche tetro. Ora magari sente venir meno questi pilastri della sua ricerca. E allora vorrebbe ricominciare da uno «stadio zero». E’ una buona intenzione (come lo è l’idea di una poesia *esodante* su cui tento di riflettere io), ma non di più. Se non la si assolutizza, se non si pretende cioè « un assoluto di estraneità» o un’ « assoluta alterità» (che poi è la stessa cosa») o che questa sua poesia sia l’unico «anacronismo vivente» ( perché un po’ tutti e in parte lo siamo rispetto alle trasformazioni in corso).
    Se difendo, dunque, la “non comprensibilità” (apparente o reale, provvisoria o definitiva) della poesia di Sagredo e insisto a interrogarla e mi rifiuto di censurarla o svalutarla, non sopporto invece la squalifica in toto e sempre in termini “assolutistici” delle altre ricerche poetiche che battono la strada della “comprensibilità”. Ci può essere poesia sulla strada battuta da Sagredo e su quella battuta dai poeti che si vogliono “comprensibili”. Il difficile è riconoscerle nella loro specificità. Ma evitare contrapposizioni falsanti e settarie è la prima regola per arrivare a tale riconoscimento.

    1. @laura canciani

      Per me le poesie di Sagredo sono fin troppo comprensibili. Le ho definite “brutte” perché partono da un assunto teorico errato che ne inficia l’interna struttura. Queste poesie nascono infatti non da un “oscuro inconscio”, come crede, forse un po’ ingenuamente, l’amico Ennio Abate, ma da un supposto Iperuranio, ritenuto da Sagredo l’unica vera realtà esistente. Di qui, come è stato ben detto, il suo essere “autoritario e dittatoriale”, e quindi stolto e superbo. L’accesso all’inesistente Iperuranio – non a caso ritorna insistentemente la parola platonica “immagine” – sarebbe infatti riservato solo agli immortali come lui! Ma già il caro Bernardino Telesio ci aveva avvertito che sono in molti a dipingersi il mondo a loro immagine e somiglianza… e poi è venuto Galileo…

  41. Quando scrissi il mio commento non avevo certo in mente il realismo socialista. Esprimevo il mio personale disappunto: sconcerto nei confronti della poesia di Sagredo, e insofferenza verso altri, se complicano la vita al lettore più nella forma che nella sostanza. Che la comprensibilità possa essere associata alla medietà, qui intesa come scadimento (la lingua media … non ha saputo mantenere la sua «medietà» e si è scissa in due direzioni, una verso l’alto, una verso il basso. – Pasolini ), è cosa che capisco. Inoltre la gentile Laura Canciani fa notare, giustamente, dove si tenti l’eroico azzeramento con la tradizione italiana (raschiamento), e questo, unitamente al fatto che non avevo intenzioni censorie, potrebbe bastare a ridimensionare la mia opinione. Ma ho anche spiegato che, secondo me, “la mente dei contemporanei sta mutando in direzione della concretezza ( più cultura, più disagio economico, più bisogno di sicurezza, di praticità)”; tutte cose da dimostrare, d’accordo, ma poniamo: al clima di povertà, economico e intellettivo, non si rimedia creando nuove distanze. Questo mio è l’atteggiamento dei Bodhisattva, o dei San Francesco: non esiste una via maggioritaria, né socialista né conservatrice; come il realismo non è realtà, l’astrazione non è fantasia. Ma non è vero che tutto ciò che è comprensibile sia già stato detto, sia risaputo. Pochi hanno memoria di quel che sanno, l’azzeramento è esistenziale prima che intellettivo. E forse è sempre stato così. Vada pure Sagredo con il suo caravanserraglio di rovine, io preferisco salutare da qui. A piedi scalzi. Amichevolmente.

  42. …resta il fatto che se una poesia è incomprensibile e dobbiamo considerarla poesia, perché così è, allora per conoscere “l’inconscio e l’oscuro” (come dice giustamente Ennio Abate) dovremmo conoscere a fondo il poeta e a questo si arriva solo con una attenta analisi soprattutto psicologica e uno studio profondo delle sue opere. Ma è così anche per il “comprensibile”, spesso questa forma nasconde ben più incomprensibile di quanto si possa pensare.
    Belli questi approfondimenti (quando la bellezza è conoscere).

  43. …sono d’accordo con quanto qui dice Emilia: “il comprensibile” quanto l'”incomprensibile ” possono nascondere o velare “altro”: che non si è capaci di dire, non si vuole dire o si vuole mascherare (a sè o agli altri)…La chiarezza e il suo contrario non sono lo spartiacque che porta alla poesia…”L’inconscio, l’oscuro non può essere abolito…”, come il confronto con la realtà di tutti…e il loro intrecciarsi continuo, inevitabile, anche perchè spesso uno è lo specchio dell’altro…Questo mi fa pensare che possano esistere “…varie strade in poesia: quella di Sagredo, la tua (Mayoor), di Ottaviani, ecc”, come dice Ennio… senza esclusioni reciproche, fatto salvo per le preferenze

  44. @ Ottaviani

    1. Anche il “brutto” può insegnare. Picasso , etc.;
    2. Un assunto teorico giudicato errato ( da alcuni o dimostratosi errato col tempo) non automaticamente impedisce che venga fuori poesia da chi “ci crede” o “lo vive”;
    3. Tra “oscuro inconscio” (se l’incoscio non scherza a oscurità) e l’ Iperuranio che pur s’intravvede nei versi di Sagredo non c’è poi questa chiara distinzione che tu sembri stabilire;
    4. L’ essere “autoritario e dittatoriale” o un mix di stoltezza e superbia non è l’*essenza* della poesia di Sagredo ma la sua *sovrastruttura*, la sua *maschera* (è attore e si diverte a farlo anche da pensionato), ma prenderlo sulla parola, ritenere che siccome usa “insistentemente la parola platonica “immagine” o dichiara di aver già un posto riservato tra gli immortali come lui, questo sì mi pare ingenuo.
    5. Sagredo va criticato ma non demonizzato.

    1. Ora ricordo perché non mi piaceva Avanguardia operaia: non puoi mai sapere dove andrà la sua parte ragionante. Scherzo, dai.
      Spero che questo scambio possa servire a definire ulteriormente la posizione critica della poesia esodante. Ringrazio Sagredo.

    2. @Ennio Abate

      D’accordo su tutti i tuoi cinque punti di risposta. Non mi sembrava di aver detto cose diverse da quelle che tu hai voluto precisare.

  45. Concordo con quanto scrive Laura Canciani: * La poesia di Sagredo ha il suo centro di gravità, la sua base, il suo fondamento nella “immagine”*.
    Mi convince meno che il *sistema di specchi che rimandano l’un l’altro, un caledoscopio di immagini* significhi (Ergo… scrive Canciani ) che l’io del poeta passi in secondo piano, si ritragga sullo sfondo e si sottragga.
    Non solo perché è “ontologicamente” impossibile, ma perché invece è una distanza gnoseologica tra il poeta e la realtà che viene messa in campo. Il che, dalla parte della realtà, ne dice la sua equivalenza, la sua intercambiabilità, la sua irrilevanza alla fine.
    Qui il fondo nichilista interno alla sua poetica.
    Che male c’è? si potrebbe chiedere. Il nichilismo è una tradizione ben nutrita ecc. Filosoficamente si sa, invece, che il nichilismo è ideologico (perché è una posizione paradossale e logicamente contraddittoria). A questo punto, sul piano dell’ideologia, si possono assumere posizioni di adesione o di distanza, e si svela che in poesia l’ideologia conta, eccome, la poesia non è ipeuranica, né pura, come si diceva una volta.
    Eccoci nel “garbuglio”!

  46. @Sagredo.
    L’analisi delle poesie di Sagredo ha dato luogo ad un dibattito vivace e – a mio giudizio – estremamente interessante. Ne sono rimasto colpevolmente estraneo perché lontano, in un luogo tecnologicamente primordiale e del quale non è voluto profanare la sacralità.
    Che dire delle poesie proposte da S. ? Sono sempre più convinto che la critica letteraria è essenzialmente ideologica e quindi essenzialmente contingente se non – a volte – casuale. Perciò mi terrò distante da ogni giudizio che si pieghi – più o meno esplicitamente – a siffatto metodo.
    Forse la critica “ meno ideologica “ è quella testuale. E’ un metodo che esige tempo, pazienza e preparazione teorica. I primi due elementi non mi mancano, del terzo sono scarsamente dotato.
    Attraverso da moltissimi anni ( sono ben più anziano di Sagredo ) un territorio di inattualità e non appartenenza. Come potrei – in queste condizioni – non ammirare incondizionatamente e cioè senza sì e senza ma ( come si usa dire nel linguaggio della tribù ) – la sua posizione
    “ morale “ ( retoricamente : coraggio ) ? Egli scrive come vuole, come sa e come – conseguentemente -“ deve scrivere “. Penso che la strada che ha percorso, percorre e percorrerà sia irta di rovi, ma è certo l’unica strada che può dare buoni frutti se è vero quello che dice Nietzsche e cioè che vi sono ancora molte aurore che debbono risplendere.
    @ Rita Simonitto
    A margine, ma non poi tanto, voglio rendere omaggio a Rita Simonitto che col solito ma non per questo meno sorprendente acume osserva quanto segue : “ E meno male che non c’è continuità …( scilicet: tra mito e storia )…E’ per non stare nel delirio….”
    Dice Merleau- Ponty : “….Ciò che garantisce l’uomo sano dal delirio o l’allucinazione non è la sua critica ma la struttura del suo spazio…”
    Ora, se metaforicamente, poniamo tra mito e storia “ uno spazio “ l’osservazione di R.S. è perfetta. Almeno per me che credo che l’artista autentico sia tutt’altro che pazzo. Un cordiale saluto a tutti. Giorgio Mannacio.

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