Andava rovistando Uség (2)

 arturo-martini_gare-invernali

di Arnaldo Éderle

 Per tenere assieme i due poemetti, in un certo senso complementari, di Éderle li numero e anticipo la pubblicazione del secondo in modo che possa approfondirsi la riflessione su entrambi e si possa affiancarla – a me pare possibile – alla discussione su “comprensibilità”/”oscurità” della poesia  sorta dalla pubblicazione delle “ultime prove mostruose” di Sagredo. [E.A.]

Andava rovistando Uség, appena dopo
l’orribile confronto con Ánatas,
seduto di fronte alla giovane madre.
Indossava la nuova veste che Áiram
con santa premura gli aveva
approntato. La donna lo guardava
con occhi pieni d’amore e ancora
giustamente invasi dalla visione del
corpo nudo del carissimo figlio.

Andava rovistando Uség. E gli occhi
si trascinavano l’immagine orrenda di
Ánatas il suo corpo storpio e la faccia
del lupo dopo un pasto disgustoso.
Quando gli occhi si posavano sulla donna
che gli stava di fronte tornavano
lucidi e azzurri com’erano nella loro natura.
La madre continuava a guardarlo come
l’immagine della sua santa vita, ma dentro,
l’amore che la rendeva santa l’attirava
nel quadro della prima visione, quando Uség
le apparve nudo e triste in tutta la sua
purezza. Un brivido la colse e giunse
le sue belle mani sullo stomaco come
in preghiera. Temeva quella figura come
fosse un estraneo che la guardava, quasi
non fosse sua madre. Era tutto vero
non sbagliava Áiram, il tremore
delle sue braccia e la fiacca delle sue
belle gambe lo confermavano. Il figlio
della vergine provocava in lei
quello strano struggente brivido.

Scrivere di questo oggetto del piacere
fa tremare i polsi, un piacere sacro
consacrato sotto la volta d’una sacralità,
raggiunge la blasfemia, ma una santa blasfemia
che sfiora un sacro che impalma l’odore
della santità intrufolata nel sapore della
terra e di tutti i suoi piaceri le sue gioie
che sembrano proibite e dissacrate e
non sono che viatici d’amore sospiri di bontà.
L’amore non è mai proibito l’amore è lì
a chiamarci e unire i corpi e le anime dentro
i suoi vortici di esultanza e voglia di
enorme beltà di soprassalti di cura
del tutto, nel grande amplesso della
irresistibile volontà.

L’amore, sì, l’amore non cessa il suo turgore
nemmeno davanti al santo quando il suo
balzo il suo rossore invade le menti
e lo spirito s’innalza e penetra le sue stanze.
L’amore è un fuoco le cui lingue
accarezzano violente la pelle del prescelto
e il cuore
batte la sua tenace volontà di amare.

Áiram riprese poco a poco il tono della
sua santità e si dispose a superare
quello strano imprevisto assalto
naturale che prevedeva il suo turbamento.
Ma non ne ebbe alcun danno
né morale né fisico e si ritrovò
ancora nella sua positura nel suo
santo stato di vergine della terra
e del cielo detentrice della purezza e
della sacra innocenza. Ma quel fulgore
tutto terrestre ancora l’attorniava e
e le strofinava intorno la sua dolcezza
la sua bellezza come un velo rosso
che riverbera piacere e
sentore di beltà.

Uség se ne stava lì in quella stanzetta
calda afosa con gli occhi sempre rivolti
alla beata figura della madre, sorella
e compagna della sua vita attenta
al suo compito, mandato dal padre su questa
umida e scostante terra a battezzare il
peccato a riavvicinare a Dio le innumerevoli
pecore del suo enorme prato dei suoi
ciliegi e della loro contaminata
contaminata bellezza.
Oh, sicuro, bastava il suo celeste sguardo
a deglutire la nebbia che rendeva il santo
paesaggio un giardino d’ombre, tralci marci
e gli acini secchi dei rami. Ma lo sguardo di Uség
era centrato sul viso della madre,

(questo cane abbaiante non mi dà tregua, mi squarcia
le orecchie mi turba il cervello come un
martello elettrico, mi turba il cervello
e la mano mi imbrutisce mi scentra mi reca
un danno che non so come evitare)

se potessi scansarlo …
(Ah no! Scansarlo sarebbe il meno e tornare
a concentrarsi sul magnifico viso di Áiram.)

Ciò che lo frenava in questa sua
lunga adorazione erano le frange di santo
che si allungavano dal corpo di Áiram
e carezzavano via dal suo corpo intero la
sua inavvertita volontà.

Gli mancava la corrispondenza di amorosi
sensi l’esplicita volontà del grande piacere
il senso della carne consacrata all’amore.
Áiram seguitava a guardarlo con il desiderio
della madre che stringe il figlio tra le
sue braccia e lo bacia sulle guance e sui
capelli.
Si rabbuiò Uség, il suo viso non esprimeva
che ansia trattenuta e desiderio di fuga,
ma rimase ancora sulla sedia seduto come
in attesa d’un cenno palese della santa donna.
Che doveva aspettarsi dalla vergine madre?
La figlia della bontà l’uccello della gioia
il grappolo maturo della fraternità?

Si alzò e la incontrò a mezza strada, anche
lei s’era alzata, gli si era avvicinata
pacata e dolce come una madre, e con la mano
destra gli carezzò i capelli gli infilò
le sue trepide dita nel bruno
della sua capellatura, poi
molto dolcemente e tristemente
lo baciò sulla bocca.

29 pensieri su “Andava rovistando Uség (2)

  1. Caro Ennio, come accostare il Diavolo all’acqua santa? Si farebbe torto a Sagredo che, per quante gliene abbiamo dette, a parer mio resta comunque ad un’altezza ben superiore a Ederle. Tanto più che la storia si Uség sta rivelando il suo volto narrativo; intendiamoci, appassionante, struggente quanto si vuole, ma non basta il verso breve, allineato a sinistra per dire che è poesia.

  2. …questo secondo poemetto sembra rivisitare l’episodio biblico di Adamo ed Eva e il frutto proibito, dopo la tentazione del serpente, ed è anche qui la donna a spezzare gli argini di un potentissimo veto, in nome di una forza superiore che sarebbe l’amore…Il linguaggio sembra molto chiaro nell’esplicitare il contenuto, cioè il pesiero del poeta, con una narrazione ricca di particolari ed affermazioni, in un crescendo coinvolgente: “L’amore non è mai proibito…”tuttavia credo che si voglia arrivare a dissacrare proprio quest’ultima affermazione…L’amore, sembra dirci il poeta (in una forma “oscura”, nonostante la chiarezza apparente del discorso) si deve aprire alla considerazione di un noi più ampio, che comprenda la ragionevolezza e gli altri…Comunque è una poesia tanto bella per le immagini quanto inquietante perchè “ci cattura” e solleva veli sul nostro essere rimasti primordiali nel profondo, a un passo dal ritornarci…

  3. Continua in “andava rovistando” lo scavo nell’umano dei due sessi per rintracciare le scintille divine. E’ Uség che va rovistando nella sua natura maschile quelle tracce, egli le deve ri-conoscere, ché gli si rivelano potenti ben oltre la sua coscienza. Mentre la madre le possiede in arresa beatitudine, in accordo tra corpo e divino che conosce per la sua natura generativa (occhi pieni d’amore e ancora/giustamente invasi dalla visione del/corpo nudo del carissimo figlio).
    Poesia teologica e duecentesca, direi, dio si è fatto uomo maschio, una particolare umanità incarnata che deve lavorare per scoprire la divinità nella propria natura (questo cane abbaiante non mi dà tregua mi squarcia…). La madre in quel secolo già conosceva la divinità dell’incarnazione, ed è allora che si discute tra immacolisti e non immacolisti, cioè sulla immacolata concezione che sarà proclamata un sette secoli dopo. L’immacolata concezione vuole dire che il corpo è divino, abitato da dio, che nascere è divino. Dopo l’incarnazione nel figlio, l’immacolata concezione completerà (un po’ in ritardo, dovuto alla società patriarcale…) la divinità dell’essere umano.
    Non direi che questa poesia sia “narrativa” il che suona un po’ come svalutazione…, il ritmo d’altra parte crea l’andamento, non certo gli a capo!
    La poesia è tutta qui: nel rendere idee (nella cultura cristiana così assimilate da essere diventate “trasparenti”, le respiriamo e non ci accorgiamo delle implicazioni teologiche del nostro comune pensare) di spessore teologico in forma di favola, favola come ne ha scritto Cristina Campo, con tutto lo spessore mitico e simbolico necessario.
    Sul tema comprensibilità/oscurità si può fare senz’altro un accostamento alla poesia di Sagredo. Ederle potrebbe apparire fin troppo semplice rispetto alla complessità di Sagredo. invece non è così. Dal punto di vista della riflessione antropologica e spirituale no di certo.

    1. Mi dissocio dal “nostro comune pensare”. Da sempre, direi. E non mi va di provare rispetto per i fedeli credenti, di qualsiasi religione. Ma da religioso vi dico che se allineate i versi, togliendo gli a capo, ne trarrete un magnifico brano di narrativa.

      1. Il comune pensare, Mayoor, è quello che abbiamo in comune, la lingua in cui parliamo e pensiamo.
        Ederle non so se sia o no credente, o religioso. Ma la teologia è affare culturale e razionale, non necessariamente religioso. E se toglierai gli a capo, sempre prosa ritmata (non lo stesso ritmo!) ti verrà fuori, il che non è proprio della prosa, o meglio non di tutta.

  4. Non credo molto all’utilità delle parafrasi.
    La poesia ha una sua forza dalla quale è bene lasciarsi attraversare, senza la pretesa di volerla racchiudere o spiegare dentro i parametri delle nostre conoscenze, per quanto grandi, profonde e fascinose esse siano.
    Più il testo poetico è potente più continuerà infatti a provocare attraversamenti e “mutamenti”, consapevoli e oscuri, nel nostro essere.
    Più potente e grande la poesia più grandi e duraturi quindi i “mutamenti” dentro di noi.
    Questo secondo poemetto – ma dieci o dodici “stanze” fanno già un “poemetto”? – di Arnaldo Ederle – che ringrazio vivamente del suo dono -, mi sembra un po’ meno potente del primo. Ho avvertito meno attraversamenti e “mutamenti” nel mio spirito e nel mio corpo…

  5. @ Ottaviani: non riesco a individuare una presunta “sua forza” della poesia che motu proprio provocherebbe “attraversamenti e mutamenti”: come se la poesia fosse la creazione di una magica sostanza (che c’è o non c’è o c’è un pochino) liberatrice però non si sa come di effetti prodigiosi.
    Fanno parte della forza della poesia una energia individuale più la sua cultura di riferimento, più la padronanza (raffinata o immediata) della lingua, più il mondo interiore emotivo del poeta.
    Dante mette tutta la sua energia politica le sue passioni e la sua cultura nella sua opera, Leopardi pure, Montale anche ecc.
    Voglio dire che la ricchezza del poemetto (o non-poemetto) di Ederle comprende anche le implicazioni teologiche che io ho esplicitato, che Ederle suggerisce soltanto, tratteggiando in modo articolato (con il sospetto dei personaggi sul tema e le contraddizioni del caso) l’amore tra la madre e il figlio lungo tutta questa seconda parte del suo lavoro.
    E’ questa la forza di questa seconda parte, i dubbi di Uség, ma anche di Ariam, su quell’amore carnale tra il figlio e la madre. Chiunque può rintracciare questa problematica, possieda o no informazioni storiche perché è una “esperienza” che ogni madre e ogni figlio possono avere avuto in modi più o meno coscienti, il poemetto aiuta a metterla in luce.
    Non è una poesia-peana, anzi, è una poesia che fa un arduo cammino sulle uova, per questo suo tono cauto e problematico, eppure certo di sé, io la ho apprezzata davvero.

  6. …se per ” attraversamenti” si possa intendere un coinvolgimento (più o meno forte) emotivo, sentimentale e del pensiero, le sfere del nostro sentire, del lettore o critico alla prima lettura della poesia mi sta bene…Che possa determinare “mutamenti”: perchè no? Sottintendendo tuttavia tutto quanto Cristiana dice nella sua prima parte dell’intervento…In genere la sola lettura non basta, ci si interroga su molti aspetti dell’opera, sull’autore, sul periodo storico…Certo può presentarsi l’arbitrarietà d’interpretazione in quanto la lettura è sempre anche un incontro di sensibilità, di culture fra il poeta e il lettore…Il critico ha più strumenti, ma deve comunque affrontare il problema della comprensibilità/oscurità del testo poetico… Secondo me, per esempio, la poesia di Ederle offre una chiarezza apparente e anche la bellezza va ricercata, anche se sembra abbondantemente profusa nelle immagini…c’è credo, come semplice lettrice, un intento demitizzante nell’autore…

    1. Gentilissima Cristiana Fischer,
      in tutta onestà non capisco perché si rivolge a me per svolgere le sue legittime e interessanti riflessioni sulla poesia di Arnaldo Ederle.
      Lei non crede che la poesia possa essere “la creazione” – non solo individuale – “di una magica sostanza” capace di “effetti prodigiosi”? Benissimo. Io invece lo credo fermamente. Lei vede “implicazioni teologiche” in questa poesia? Altrettanto bene. Ma perché le preme farlo notare a me e soltanto a me? Le mie scarne considerazioni, giuste o sbagliate che fossero, io le ho messe a disposizione dei lettori del blog,… non chiamando però nessuno “a singolar tenzone”.
      Mi stia bene e mi creda cordialmente suo
      Paolo Ottaviani

      1. Gentilissimo Paolo Ottaviani, mi sono rivolta a lei appunto per dirle che non condividevo la sua idea che la poesia abbia una forza, una potenza capace di operare attraversamenti e mutamenti “senza la pretesa di volerla racchiudere o spiegare dentro i parametri delle nostre conoscenze”. Credo invece che la potenza della poesia vada approfondita e indagata, senza però con questo pretendere di racchiuderla o di spiegarla.
        Lei ha ulteriormente chiarito che non pensiamo allo stesso modo.
        Probabilmente mi sono sentita coinvolgere anche dal resto della frase “per quanto grandi, profonde e fascinose esse siano”, le conoscenze. Ma queste sono solo idiosincrasie psicologiche.

        1. Quando ho scritto che “più il testo poetico è potente più continuerà infatti a provocare attraversamenti e “mutamenti”, consapevoli e oscuri, nel nostro essere” pensavo, tra l’altro, anche all’influenza diretta e indiretta che hanno avuto e hanno sui comportamenti materiali e spirituali degli uomini gli anonimi e collettivi testi poetici presenti nella Bibbia – i cosiddetti Salmi -, a quanto, nell’antichità e non solo, possano aver influenzato gli uomini altri testi poetici anonimi e collettivi conosciuti come “poemi omerici”, all’influenza che hanno avuto nel modo rurale e pastorale i poemi cavallereschi – ho conosciuto personalmente pastori semianalfabeti che recitavano a memoria stanze dell’Ariosto ed erano fieri di rispettare scrupolosamente le prescrizioni cavalleresche, ecc. ecc….

  7. Mi sembra però che lei richiami dei testi che avevano una parallela o preminente vita orale e collettiva, erano testi organici a una cultura ben individuata e condivisa, spesso avevano anche funzioni rituali. Questo non si può dire delle poesie di cui qui si parla, sparse dappertutto in rete o in letture o in pubblicazioni a poca tiratura e affidate solo al debole raggio delle loro gambe…
    Per questo credo che il loro impatto richieda necessariamente una notevole attenzione per ricavare -a tu per tu, senza la mediazione della collettività- le implicazioni contenute, necessariamente stratificate, quasi scavando nella minuta e plurima segnaletica del testo quello che l’autore vi ha inserito.
    Per questo più che a una forza o potenza im-mediata io mi appello alle mediazioni che mi permettano di decodificare quanto posso.

  8. …sono d’accordo: sembra strano ma l’alfabetizzazione di massa, così come è stata impostata, non è sempre stata amica della poesia…La tradizione poetica orale e il suo apprendimento mnemonico trasmesso di generazione in generazione erano culla e salvaguardia di una cultura…Poteva incidere profondamente negli animi, anche promuovere cambiamenti, una maggiore coscienza collettiva e a volte il desiderio di comporla, trasferendovi semplici e difficili vissuti…la solidarietà nelle classi più povere viveva nelle ballate, nei canti di lavoro, di rivolta…Una poesia adattata alla vita che però non trascurava la tradizione…Persino le terzine della Divina Commedia circolavano per le vie e nelle osterie…

  9. Concordo con quest’ultimo commento di Annamaria e con l’osservazione precedente di Cristiana rispetto a * testi che avevano una parallela o preminente vita orale e collettiva, erano testi organici a una cultura ben individuata e condivisa, spesso avevano anche funzioni rituali. Questo non si può dire delle poesie di cui qui si parla, sparse dappertutto in rete o in letture o in pubblicazioni a poca tiratura e affidate solo al debole raggio delle loro gambe…*.
    Questo ci dà da pensare non solo alla funzione della poesia, presa a sé, ma anche a come si colloca nel substrato culturale-sociale.

    R.S.

  10. NOTE

    1.
    È questo viaggiare veloce ( Ottaviani 7 settembre 2015 alle 23:40) della poesia di Éderle che andrebbe indagato più criticamente. Se l’effetto della poesia dovesse essere che tu, lettore, «non sai più distinguere dov’è la vita reale e dov’è l’arte», il mio sospetto verso la poesia aumenterebbe. Non credo che sempre «la poesia illumin[i] la vita» né che « la ferocia della vita […] d[ia] vita alla poesia». Credo che la buona critica ci avvicini alla poesia, mentre un atteggiamento indefinito di “ascolto”, pur necessario e apparentemente più rispettoso, se ne tenga a distanza e rischi di farne un feticcio. Non si tratta di mettere « lacci» alla poesia o di “spiegarla”, ma di accostarla con tutte le facoltà di cui disponiamo.

    2.
    D’accordo con Annamaria Locatelli: nei due componimenti abbiamo la «rivisitazione di una pièce religiosa», ma cosa aggiungono o svelano di più rispetto all’immagine di una Maria “pura” o “immacolata”, come ci è stata consegnata dalla tradizione spirituale cattolica? In Éderle, come dice ancora bene Annamaria, « madre e figlio riconoscono la reciproca attrazione, superando in qualche modo il timore ancestrale dell’incesto». Hai detto niente! Non so se vi ricordate – io sì, e ne avevo anche accennato ad Éderle – le polemiche seguite al film di Godard, «Je vous salus Marie» (qui un link con notizie: https://it.wikipedia.org/wiki/Je_vous_salue,_Marie), che rielaborava alla luce della psicanalisi e trasportava nel mondo moderno d’oggi la figura di Maria madre e vergine. Se in Éderle è in gioco un capovolgimento o una “dissacrazione” di quella tradizione, ma in modi velati e cauti (dice bene Fischer: « egli fa un arduo cammino sulle uova»), bisogna pur discuterne.

    3.
    E a discuterne ci pensa Fischer in vari commenti. Capisco perché il poemetto di Éderle la «fa ballare di gioia». Si direbbe che sia giunto per lei come un invito a nozze. Sono i temi della sua riflessione e lei li volge in direzione “teologico-femminista”. Ci trova «lo scavo nell’umano dei due sessi per rintracciare le scintille divine». Ci trova la teologia: « Voglio dire che la ricchezza del poemetto (o non-poemetto) di Ederle comprende anche le implicazioni teologiche che io ho esplicitato, che Ederle suggerisce soltanto».
    E poi, quasi senza contrasto, la carnalità: «quell’amore carnale tra il figlio e la madre. Chiunque può rintracciare questa problematica, possieda o no informazioni storiche perché è una “esperienza” che ogni madre e ogni figlio possono avere avuto in modi più o meno coscienti».
    O in altro passo: «« Mentre la madre le [cioé le tracce divine] possiede in arresa beatitudine, in accordo tra corpo e divino che conosce per la sua natura generativa (occhi pieni d’amore e ancora/giustamente invasi dalla visione del/corpo nudo del carissimo figlio».
    È un’interpretazione sublimante, non so se incoraggiata o forse addirittura combaciante con quella, altrettanto sublimante, di Éderle. E in quest’ottica anche lei, come Annamaria, può accogliere senza batter ciglio l’incesto, come se fosse cosa normale. Tanto – dice – « non c’è [da avere] paura dell’incesto perché l’amore tra i sessi è l’amore della madre che scende nelle generazioni». Oppure: « il giovane Uség e la madre si uniscono (così è l’umanità) in amore».
    E riconferma la visione cattolica, recuperandola in versione femminista: «La madre in quel secolo già conosceva la divinità dell’incarnazione, ed è allora che si discute tra immacolisti e non immacolisti, cioè sulla immacolata concezione che sarà proclamata un sette secoli dopo. L’immacolata concezione vuole dire che il corpo è divino, abitato da dio, che nascere è divino.». Più avanti sempre in questa logica sublimante e divinizzante scrive: «l’immacolata concezione completerà (un po’ in ritardo, dovuto alla società patriarcale…) la divinità dell’essere umano». Così torniamo, mi pare, a prima dell’umanesimo e, dando per scontato che religione e teologia, siccome sarebbero entrate nella « lingua in cui parliamo e pensiamo», tanto che « non ci accorgiamo delle implicazioni teologiche del nostro comune pensare) di spessore teologico in forma di favola », si sorvola sulla rottura dell’illuminismo o la rivolta di Nietzsche. Per non parlare di Freud e della psicoanalisi.
    Ma poi mi chiedo anche: il conflitto tra madre e figlio e uomo e donna è forse superato? Non è proseguito per tutto questo «paio di milioni di anni di vita» e non prosegue? A mio parere né le religioni né il femminismo hanno trovato una soluzione o un punto d’equilibrio sodisfacente. Il conflitto permane, a volte dichiarato e a volte velato nella realtà; ed in poesia abbiamo sia poeti che lo velano (come Éderle) sia poeti che lo svelano o vi insistono ( e farò più avanti il nome di Sagredo).

    4.
    Posso cercare di capire che questo incontro madre/figlio, che poi nei commenti di Annamaria diventa (troppo semplificando) rapporto donna/uomo ( «La madre(ma anche semplicemente la donna) dalla soglia della capanna accompagna trepidante il figlio (ma anche semplicemente l’uomo) in quella nuova esperienza e lo incoraggia, i suoi sentimenti sono velati ma identici…Entrambi ne escono arricchiti di consapevolezza e di coraggio…L’abbraccio tra loro è comprensivo di una conoscenza reciproca più ampia e completa») accade in una dimensione poetico-sacrale molto elementare ed essenziale, che Éderle sa ben evocare.
    E’ vero pure, come nota ancora Annamaria, che è come se fossimo trasportati in «un dipinto infantile», dove agiscono «statuette arcaiche dai movimenti impacciati». ( E non a caso, nel cercare l’immagine d’accompagnamento ai due complementari componimenti ho pensato alle statuine in terracotta di Arturo Martini), ma non ci dovrebbe sfuggire – e torno ad insistere che la poesia va interrogata con tutte le nostre facoltà in modi vigili e critici – che cosa, così facendo, viene rimosso e cosa viene posto in primo piano nei componimenti di Éderle.

    5.
    E per capirlo a me è venuto in mente di stabilire un confronto con Sagredo, che ha toccato una tematica simile in modo però molto diverso da quello di Éderle. Accosterei così diavolo e acqua santa, come dice Mayoor? Direi che confronto due modi di porsi rispetto alla leggenda cristiana: un modo violentemente dissacrante contro un modo sublimante e cautamente dissacrante dell’elemento incestuoso che quella tradizione pur contiene.
    Ecco alcuni versi di una poesia di Sagredo intitolata « Canto per Maddalena» :

    «e ancora mi scrive…

    Mi ha spedito una lettera dal set del Golgotha,
    mi scrive che è stufo delle ripetizioni e che i ciack lo stancano,
    che è spossato dal fittizio martirio, dal rosso mirtillo che attira le mosche,
    e ancora mi scrive che invece d’aceto hanno vodka e whisky,
    e lui è astemio, anche se quella sera a cena ha bevuto primitivo di Manduria!
    Che vuole una notte d’amore, ma non sa con chi: Maria o Maddalena?

    Ha accettato la parte per ridere un po’’ e piangere dopo, che gli hanno messo accanto due coglioni,
    e non sopporta le comparse che, invece di soffrire, davvero ridono perché non sono ben pagate…
    ma non sanno… la morte di chi… l’hai visto? Su un letto è coricato e beve acqua pura!
    Allora Maria, l’adultera, sciolse la benda che copriva i suoi seni e presi, io, possesso della sua Grazia…

    e ancora mi scrive…

    che quando Dante leggerà Shakespeare
    lo specchio mostrerà le sue ossa,
    che i poeti si premiano tra di loro
    come al trucco più bello,
    come tra puttane!»

    antonio sagredo

    Vermicino, 20-21-25 luglio 2006

    Il confronto con Éderle, che qui accenno soltanto, mi pare utile sia sul piano formale che del contenuto: la forma sarcastica e teatrale di Sagredo dissacra la leggenda cristiana in modi più violenti e urtanti; la forma narrativa di Éderle pure dissacra ma celando, sublimando e addolcendo.

    1. Mi spiace Ennio, ma hai davvero equivocato quanto ho scritto, evidentemente non sono riuscita a raggiungerti, nè forse altri. Mi chiedo se a volte non ci sia la necessità di tenere lontane da sè certe riflessioni, che chiamerei laiche, per il loro valore di pensiero, solo per la paura di cadere dentro il cattolicesimo istituito, con i catechismi i riti i poteri e l’armamentario che segue.
      Io non raccolgo senza batter ciglio l’incesto! e quindi non faccio interpretazioni sublimanti!
      La riflessione “teologica” riguarda il corpo, e il fondamento dell’amore umano nella maternità -che è anche comune agli animali- e infatti c’è un continuo andirivieni tra i due e il “bestiale”, che è del resto nella doppiezza di Anatas.
      Il senso di liberazione che mi ha dato la lettura del primo poemetto, che mi ha fatto “ballare di gioia”, era la liberazione dalla bestialità di Anatas, che era anche la tentazione di Negrura, per raggiungere l’amore, l’amore in sè vorrei dire, infatti Airam assorbe in sè anche Negrura che è amore e non più tentazione.
      Nei due poemetti si tratta dell’Amore, e si dice che è fondato in un nucleo originario, che è quello materno. E che c’entra l’incesto? E perchè dovrebbe essere sublimante questa idea dell’amore?
      Che poi la teologia intorno al duecento si sia occupata di questo, be’, è solo un fatto. Un po’ più tardi Dante ne dà conto, no? Vergine madre ecc.
      In quel secolo c’è una grande fioritura di mistica femminile, anche questo è solo un fatto.
      La riflessione sul corpo si collega al fatto che moltissimi si sono da sempre chiesti se con la morte tutto finisce o se c’è una qualche continuazione. Fa parte di una solida corrente di pensieri l’idea che il corpo sia un livello inferiore rispetto alla natura spirituale che sola continuerebbe post mortem. Ci sono invece filosofi cristiani che valorizzano proprio il corpo, del resto anche nel Credo si parla della resurrezione dei corpi, e l’incarnazione implica la valorizzazione dell’esistenza terrestre in quanto tale. Questo insieme di pensieri, anche contraddittori, tutti noi li assorbiamo fin da piccoli e non ci rendiamo neanche conto di possederli. Io credo invece che sia meglio andarne a fondo, anche se si vuole liberarsene.
      Le altre questioni, il conflitto tra i sessi, o i lavori di dissacrazione, sono realissimi ma stanno, direi, su un altro piano. Non sono piani di discorso paragonabili, per cui uno sarebbe esplicito e l’altro invece reticente. Con il camminare sulle uova di Ederle mi riferivo alla delicatezza con cui ha trattato i sentimenti tra madre e figlio, e non all’elusività nel trattare il tema del desiderio incestuoso!
      Spero adesso di essermi fatta capire mostrandoti che hai imboccato, nel leggere i miei commenti, una strada sbagliata.

  11. Ancora due note:
    1 la mia “logica sublimante e divinizzante” sorvolerebbe “sulla rottura dell’illuminismo o la rivolta di Nietzsche. Per non parlare di Freud e della psicoanalisi”: ma tu sembri credere a uno sviluppo storico del pensiero per cui l’umanesimo supera il medioevo della scolastica e l’illuminismo e Nietzsche il cristianesimo, usw. Al medioevo appartiene anche Averroè, molti umanisti erano cristiani, e dopo Nietzsche altri pregevoli filosofi sono tornati a temi cd “medievali”.
    2 il mio femminismo addirittura recupererebbe la visione cattolica! Ti chiedo se cercare la radice dell’amore e della socialità umana nella generazione e nella cura parentale, animale oltre che umana, sia una specificità del cattolicesimo, o se sia una ricerca femminista.
    Mi pare che gli attributi “sublimante e divinizzante” servano ad hoc per un vade retro nei confronti del cattolicesimo. Sarebbe come dire che uno che fa studi strategici sia per forza un generale o almeno un guerrafondaio.
    So per certo che chi fa studi filosofici studia anche la filosofia medievale, e che il fatto che molti filosofi medievali fossero anche credenti o monaci o preti non impedisce di studiarli “filosoficamente”. Socrate, pensa un po’, si faceva i ragazzini, eppure si ragiona ancora sul suo pensiero.

  12. @ Ottaviani ma pure a Sagredo (con la solita stima polemica)

    RILEGGENDO MIEI APPUNTI DI LETTURA DEL 1993 SU “ATTRAVERSO PASOLINI” DI FORTINI

    – la poesia [per Fortini]: e` un genere da distinguere da quello degli scritti teorici e critici. Essa “non ha né torto né ragione ma presenza” [VII], mentre gli altri scritti vanno valutati secondo le categorie logiche ed etiche [“sono giudicabili in logica e in etica”].
    La poesia viene cosi` sottratta alla valutazione?
    Ci si puo` appellare all”irresponsabilita` del nume poetico”[XII], come faceva [secondo Fortini?..] Pasolini, che “non tollerava limiti alla legislazione del suo piacere e infuriava accusando tutti di moralismo e di intellettualismo”[XII]?
    No o solo in parte, perché Fortini riconosce che la poesia [“altro sistema di segni” rispetto agli scritti teorici e critici..] e` sottoposta alla “traduzione critica che ogni recettore inevitabilmente ne compie”, e` traducibile in altri sistemi di segni e in questo ambito valutabile [XI].
    Come dire: non valuto la poesia, ma la sua “traduzione”. La poesia non e` ineffabile, non e` la “santita`”[XII].
    In quella di Pasolini “la forma dice alcunché di altro e di diverso da quanto intendesse dire l’intelligenza autocritica del nostro autore” [VIII]; dice cioè delle verita`[quali?] “che balenavano dentro i suoi errori logici e ideologici” [XII]. A quelle verita` si deve “atterrito rispetto”[solo?]. Agli errori logici e ideologici [ titanismo pasoliniano, vitalismo] no.
    [ma il confine fra poesia-piacere e errore chi e come lo stabilisce?….]
    Si deve evitare la tendenza a considerare “le affermazioni erronee (e magari le sciocchezze) ideologiche, politiche, filosofiche, critiche e cosi` via” riscattabili “dalla, e nella.. complessiva opera e biografia” [XII]

    1. Ringrazio di cuore tutti i commentatori del blog. Tengo sempre in gran conto le loro opinioni. A tutti, e in particolare ai poeti Alberto Di Paola e Rita Simonitto, dedico i versi di questa nuova “cometa” – “Sorride in punto di morte” – (“cometa” è il nome che ho attribuito a un tipo di composizione poetica a forma chiusa). Credo che anche qui si confermi come per me la poesia, indipendentemente dalle epoche storiche, dai circuiti nei quali si è manifestata, dalle funzioni, rituali e no, che può avere svolto, quando incontra l’altro, sia pure uno sporadico lettore di blog, può provocare – quasi impercettibili, ma per me essenziali – “mutamenti” … e ad Ennio Abate dico che non mi convince quel passaggio “…non valuto la poesia, ma la sua “traduzione”. La poesia non è ineffabile” … proprio perché, attraverso la teoria e la critica, se ne può valutare solo la “traduzione”, la poesia resta, almeno in parte, “ineffabile”…

      SORRIDE IN PUNTO DI MORTE

      Sorride in punto di morte la madre.
      È l’ora inquieta più incline a l’andare.
      Precipitano rondini leggiadre

      contro l’azzurro d’acciaio del mare.
      – “Mi sembra di morire” – e sorridente
      se ne va nella luce ad irrigare

      di pianto il cuore più ricco, più ardente
      di sabbia. Ma nessuno qui s’inchina
      a pregare, nessuno veemente

      bestemmia il cielo di quella collina.
      Se ne va pensieroso
      un ragazzo lunare
      e terrestre assai lieto del petroso,
      suo arduo cammino. – “Perché separare
      il mio libero cuore
      dai quei sassi che Caso, Odio o Amore
      hanno liberamente
      tutti liberamente,
      scagliato qui? Non sono muti i sassi
      se svelano la madre e la mia prassi” -.

    2. E’ innegabile che certa poesia abbia una sua potenza atta a * provocare attraversamenti e “mutamenti”, consapevoli e oscuri, nel nostro essere* come dice Ottaviani.
      Ed è anche buona prassi che *la potenza della poesia vada approfondita e indagata, senza però con questo pretendere di racchiuderla o di spiegarla* come scrive Cristiana.
      E, seppure V. Majakovskij sosteneva che l’arte è costruzione della vita (nello specifico quella rivoluzionaria), Ennio ci mette in guardia quando segnala che * Se l’effetto della poesia dovesse essere che tu, lettore, «non sai più distinguere dov’è la vita reale e dov’è l’arte», il mio sospetto verso la poesia aumenterebbe. Non credo che sempre «la poesia illumin[i] la vita» né che « la ferocia della vita […] d[ia] vita alla poesia». Credo che la buona critica ci avvicini alla poesia, mentre un atteggiamento indefinito di “ascolto”, pur necessario e apparentemente più rispettoso, se ne tenga a distanza e rischi di farne un feticcio. * E sono d’accordo.

      Ma, venendo al poemetto di Ėderle, capisco Cristiana quando scrive *Il senso di liberazione che mi ha dato la lettura del primo poemetto, che mi ha fatto “ballare di gioia”, era la liberazione dalla bestialità di Ánatas, che era anche la tentazione di Negrura, per raggiungere l’amore, l’amore in sè vorrei dire, infatti Áiram assorbe in sè anche Negrura che è amore e non più tentazione.
      Nei due poemetti si tratta dell’Amore, e si dice che è fondato in un nucleo originario, che è quello materno*.

      Ripeto, capisco il suo punto di vista, ma mi vengono alla mente alcune osservazioni.
      Quello che non ho percepito rispetto a questa rivisitazione religiosa è il conflitto tra il desiderio, la carne (e il diavolo, parafrasando M. Praz (1)).
      Come nota anche Ennio: *E poi, quasi senza contrasto, la carnalità: «quell’amore carnale tra il figlio e la madre*
      Nel secondo poemetto – troppo attraversato dalla ‘santità’, a mio parere -, Ėderle scrive:
      *L’amore non è mai proibito l’amore è lì
      a chiamarci e unire i corpi e le anime dentro
      i suoi vortici di esultanza e voglia di
      enorme beltà di soprassalti di cura
      del tutto, nel grande amplesso della
      irresistibile volontà.*

      e Cristiana sottoscrive: *in accordo tra corpo e divino che conosce per la sua natura generativa (occhi pieni d’amore e ancora/giustamente invasi dalla visione del/corpo nudo del carissimo figlio)*.

      Invece, a mio vedere, la gestione della ‘carnalità’ tra Gesù (Uség) e Maria (Áiram) avviene comunque in presenza della tentazione di Satana (Ánatas): quindi, tanto tranquilla la situazione non è nonostante il perdurare della proclamazione della ‘divinità’ che dev’essere sempre lì a testimoniare della bontà e della purezza di quell’amore. Amore sempre insidiato, però. E quindi è come se fosse, l’amore, sempre esposto agli attacchi da chi è ‘rimasto fuori sede’ (da qui, l’insidia, la tentazione).
      Però Cristiana sostiene che *infatti Áiram assorbe in sè anche Negrura che è amore e non più tentazione*.
      Ma la tentazione sta proprio nelle spinte pulsionali che si appoggiano al corpo per quanto ‘divino’ esso sia.
      Anche se non si dovrebbero fare paralleli di questo tipo – rispetto all’intervento del corporeo come fonte del desiderio e delle sue implicanze – mi sono venute in mente due analogie: il Cantico dei Cantici e, sull’incesto fra fratello e sorella, “Tamar e Ammone” di F. Garcia Lorca

      A) Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio
      e un fremito mi ha sconvolta.
      Mi sono alzata per aprire al mio diletto
      e le mie mani stillavano mirra,
      fluiva mirra dalle mie dita
      sulla maniglia del chiavistello.
      Ho aperto allora al mio diletto,
      ma il mio diletto gia se n’era andato, era scomparso.

      B) Ammone geme nella tela
      freschissima del letto.
      Edera del brivido
      copre la sua carne bruciata.
      Tamar entrò silenziosa
      nella muta alcova,
      color vena e Danubio,
      torbida di orme lontane.
      Tamar, cancellami gli occhi
      con la tua alba fissa.
      I miei fili di sangue tessono
      volanti sulla tua gonna.
      Lasciami tranquilla, fratello.
      Sulla mia spalla i tuoi baci sono
      vespe e venticelli
      in doppio sciame di flauti.

      Infine, rispetto a quanto scrive Ennio: *Il confronto con Éderle, che qui accenno soltanto, mi pare utile sia sul piano formale che del contenuto: la forma sarcastica e teatrale di Sagredo dissacra la leggenda cristiana in modi più violenti e urtanti; la forma narrativa di Éderle pure dissacra ma celando, sublimando e addolcendo*, sono d’accordo. Aggiungo che, a mio parere, Sagredo procede per rotture mentre Ėderle per composizioni.

      (1) M. Praz, 1930, “La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica”

      R.S.

  13. @ Fischer

    Non credo di aver imboccato una strada sbagliata con il mio precedente commento. Magari ho messo troppo “i piedi nel piatto”. Vediamo…

    1.
    Equivocato? Non mi sembra: ho letto e riletto e citato frasi tue e d’altri con precisione…. Ma forse gli elementi per equivocare ci sono nei tuoi commenti, in quelli di altri/e e – a dirla tutta – nello stesso impianto “filosofico-teologico” che *sottostà* ai componimenti dell’amico Éderle. È su questo che sono intervenuto, poco preoccupandomi di chi dovesse darmi dell’”ideologico”.

    2.
    Sull’incesto. O nelle pieghe tenere, arcaizzanti, delicate di questi componimenti ce lo vedo solo io; e solo a me è venuto in mente di collegare (sbagliando ancora?) la loro tematica a Godard e al suo film «Je vous salue Marie». O – «’l vero condito in molli versi» – c’è: ben mascherato, ben sublimato, “tradotto”, come la poesia sa fare. (Potremmo persino dire: senza che l’autore se ne sia avveduto o del tutto…). Ma un occhio “non sublimante” lo scorge presto.

    3.
    Tu non lo chiami con questa parola cruda (incesto), che rimanda subito a territori controversi, a tabù ancestrali e di complessa spiegazione, ma lo chiami «Amore» (noto la maiuscola…).
    Secondo te, «il camminare sulle uova di Ederle», la sua «delicatezza», riguarderebbe soltanto i «sentimenti tra madre e figlio», e non «il tema del desiderio incestuoso». Troppo semplice. Per quel che ricordo, Francesco Orlando ha parlato con grande dottrina del «ritorno del represso» in letteratura ( e in poesia). E questa lezione non la dimentico. Posso perciò anche riconoscere che Ederle nello scrivere i suoi poemetti all’incesto manco ci ha pensato, ma questo non impedisce che dei lettori – e non necessariamente dei bacchettoni o dei cattolici ultraortodossi come quelli che presero d’assalto i cinema dove si proiettava «Je vou salue Marie» – possano con buone ragioni vedere in queste tenerezze, in questi baci un vero e proprio atto sessuale tra madre e figlio. Che, fuori di poesia – da “svegli”, da “intellettuali” – si chiamerebbe proprio così: incesto.

    4.
    Evocando questa parola e quel che di problematico essa trascina con sé, si “perderebbe ogni poesia”? Non credo. Spero si capisca che se “scovo” il tema dell’incesto in questa poesia, il mio intento non è di censurarla, ma di capire e far capire meglio in quali zone – anche interdette o represse o temute – la poesia sa (coraggiosamente o addirittura inconsapevolmente da parte dello stesso autore!) spingersi.

    5.
    Chiamando invece semplicemente Amore quello che avviene tra madre e figlio in questi componimenti, a me pare che tu imbocchi – ma anche questo è legittimo! – una precisa strada: quella della teologia che «intorno al duecento si [è] occupata di questo [Amore]»; quella della «grande fioritura di mistica femminile»; quella ancora delle riflessioni dei filosofi cristiani sul corpo e la «resurrezione dei corpi».
    Che tale strada rientri pienamente nella storia del cattolicesimo è per me indubbio. Né mi scandalizza. Né puoi pensare che io voglia censurare lo studio di queste esperienze da parte di credenti o non credenti o da parte di femministe o non femministe. Vadano fino in fondo. Poi vedremo i risultati, il valore di questi studi, ecc.

    6.
    Non capisco, però, perché «le altre questioni [io ci aggiungerei anche il tema dell’incesto], il conflitto tra i sessi, o i lavori di dissacrazione, sono realissimi ma stanno, direi, su un altro piano».
    Che senso ha questa separazione di piani? Cosa dissacro allora? I risultati dei ricercatori e delle ricercatrici su Amore nel Duecento, mistica, resurrezione della carne dovranno o no essere confrontati con i risultati di altri ricercatori e ricercatrici ( che so psicanalisti, biologi, medici, psichiatri, ecc) che parlano di Eros e Thanatos, ormoni, ecc.?
    Perciò ho avvertito: imboccando quella tua strada, sorvoli su illuminismo, Nietzsche e Freud. E ammetterai che i risultati provenienti da questi ricercatori cozzino più o meno con la tua impostazione.

    7.
    No, non propugno una visione “progressista” della storia della filosofia. Non credo affatto « a uno sviluppo storico del pensiero per cui l’umanesimo supera il medioevo della scolastica e l’illuminismo e Nietzsche il cristianesimo». Non considero più bravi i filosofi ( o gli scienziati o i poeti) che vengono dopo. Non giudico i moderni superiori agli antichi o i postmoderni superiori ai moderni. Penso che nel passato e non solo in quel che ci offre il cosiddetto “presente” (anche filosofico) ciascuno debba cercare quello che serve per costruire un progetto più valido etico e politico

    8.
    Ultima precisazione . Non so dire con certezza quanto il femminismo d’oggi recuperi o stia dentro «la visione cattolica del mondo». Schiettamente (e leggendo soprattutto la Muraro): lo sospetto. Ma la constatazione non mi serve a darti addosso. Veniamo quasi tutti/e in Italia da quella tradizione; e abbiamo con essa dei conti più o meno irrisolti o in sospeso.

    P.s.
    Sono nato a Salerno, mi sono formato da ragazzo e adolescente nell’Azione Cattolica in una città che nell’immediato dopoguerra era clerico-fascista. Posso dimenticarlo o cancellarlo? No, ci faccio i conti ancora oggi da vecchio. Poi sono arrivato a Milano, ho fatto il mio apprendistato politico in AO. E non devo fare anche i conti con quest’altro pezzo della mia vita? Se torno a scrivere sull’infanzia o sull’adolescenza torno al “medioevo», torno “cattolico”? Se invece torno agli anni Settanta avanzo verso il “moderno” e il “comunismo”? No. Mi muovo tra i vari tempi della mia esistenza e tra le ideologie e i sentimenti che in tali tempi mi hanno attraversato. Ho letto Marx e leggo Ranchetti, che di Marx non s’è mai occupato e però ha studiato la storia della Chiesa cattolica a fondo. Cerco di non fissarmi in uno di questi tempi, cancellando gli altri, ecc. Miro a un decente e comprensibile mosaico del vissuto e pensato.

  14. Non voglio negare che chi legge pensi all’incesto, ci ho pensato anch’io, ovviamente. Invece penso che l’amore è più dell’incesto, più del desiderio fisico, quindi può o no comprenderlo, ma, in un certo senso, è indifferente. Diventa amore tout court e basta.
    Si capisce bene cosa voglio dire se si pensa alla doppia presenza di Negrura: in Anatas è lascivia e tentazione (tentazione del bestiale, Anatas ha le piernas non i piedi), poi in Airam è amore che è anche fisico. Allora, nell’amore tra Useg e Airam, si può chiamarlo incesto, o è riduttivo?
    Nella peccaminosa coscienza occidentale l’incesto è un abominio, ed è tentazione carnale, quindi in fondo bestiale, cioè non controllata dalla cultura.
    In una visione amorosa si chiama amore e basta, fisico, morale, spirituale e così via, ma non si può chiamarlo “incesto” in quanto è un termine spregiativo e peccaminoso, sostanzialmente riduttivo.
    Io posso dire che quell’amore lì, quello che ho segnato con la maiuscola, non esiste, ma nel paradiso Dante è di quell’amore che parla, e anche Teresa d’Avila parla di quello. Si possono fare illazioni su Teresa, ovviamente… Ma sono illazioni che appartengono a un’altra cultura, non a quella di Teresa. Leggendo Ederle mi è parso chiaro che non intendesse né l’amore freudiano, fondamentalmente sessuale, né l’idea sublimante propria di molto cristianesimo, dell’amore da colpevolizzare perché del corpo.

  15. Nel Paradiso gli spiriti ardono, e anche Teresa arde. (Ho dimenticavo anche di collegare Dante alla poesia trobadorica, quella dell’amore come assenza…) Si può ridere di quell’ardere senza contatto fisico reale, e richiamare tutta l’isteria che si crede, io trovo più appropriato riconoscere che si tratta di una cultura diversa. E che “interpretare” quella cultura con la nostra -la sublimazione è un meccanismo di spostamento per Freud- non sia produttivo.
    Per questo, ripeto, che l’incesto materialmente ci sia o no è irrilevante, anzi c’è probabilmente, ma è sbagliato chiamarlo così, è un nome solo nostro.

  16. Chiedo scusa se continuo, ma non avevo visto il commento di Rita. Ha ragione, in questa seconda parte è presente il contrasto tra la carne e… la santità: “bastava il suo celeste sguardo/ a deglutire la nebbia che rendeva il santo/ paesaggio un giardino d’ombre, tralci marci/ e gli acini secchi dei rami. Ma lo sguardo di Uség/ era centrato sul viso della madre”.
    C’è conflitto in Useg tra il corpo e il compito, il bacio di Airam alla fine è dolce e triste perché lo avverte. Non mi sembra un conflitto sotto il segno del peccato, di Anatas, mai alla naturalità viene data connotazione negativa. Il conflitto resta aperto e basta.

    Sembra però logico che tra natura non colpevole e compito si debba inserire sublimazione da una parte e repressione dall’altra, con la colpa e il peccato… Occorrerebbe una terza parte per sciogliere i nodi.

    1. Esprimo piena solidarietà a Ennio Abate. Lo incoraggio vivamente a portare avanti tutte le sue indagini, incesto compreso. La natura infatti non solo è “non colpevole”, come dice Cristiana Fischer, ma è tutto ciò che è. L’uomo e la sua storia sono solo natura in divenire, natura nel grado di una incerta autocoscienza, natura che chiede sempre di conoscersi meglio…

  17. …penso anch’io che in questi due pemetti di Ederle sia presente sia il tema dell’amore carnale tra uomo e donna, sia quello dell’incesto: come se la madre stessa da cui, per il figlio,provengono tutti i buoni insegnamenti in quanto rappresenta la bellezza e la santità in assoluto, lo sdoganasse, con dolcezza e tristezza insieme… come se dicesse a Useg, baciandolo: “…si, figlio mio, siamo fatti così! La nostra natura partecipa anche all’animalità di Anatas, l’amore lo comprende…” del resto in un verso Ederle dice : “Scrivere di questo oggetto del piacere/fa tremare i polsi…”…
    L’idea dell’incesto inteso come origine stessa del piacere sessuale tra l’uomo e la donna, e si sviluppa nella mitica figura diNegrura, donna-angelo incarnata, dove la distinzine scompare, riportandoci a un mondo primitivo senza l’idea del peccato…

  18. @ P. Ottaviani
    Grazie per la stima e simpatia che, per parte mia, ricambio con affetto.
    Non mi è chiaro, ma forse è irrilevante, il concetto di *composizione poetica a forma chiusa*: (*“cometa” è il nome che ho attribuito a un tipo di composizione poetica a forma chiusa*).
    Mi è piaciuta la concezione della ineffabilità del sorriso della madre, sorriso collocato sul limite dell’*ora inquieta*, tra la vita e la morte. Inquietudine rappresentata nella poesia attraverso il ricorso ai contrasti (*Precipitano rondini leggiadre/contro l’azzurro d’acciaio del mare*) o le antitesi (*un ragazzo lunare/e terrestre…*).

    @ altri
    Quanto alla sessualità e ai suoi tabù (anche prescindendo dalle teorizzazioni freudiane che, a partire dal complesso di Edipo, hanno cercato di mettere alcuni punti fermi) il tema ha sempre colpito l’immaginario umano proprio per i molti aspetti di ‘mistero’ e di ‘incontrollabilità’ di cui sono portatori. E dove corpo e mente hanno giocato la loro partita.
    Il desiderio: da dove arriva?; il piacere: come si configura? come si controlla?; la procreazione: qual è il momento ‘x’ nel quale si produce il contatto creatore?.
    E queste forme di ‘assoggettamento’ vengono dalla parte divina o dalla parte diabolica?
    E’ comprensibile che la figura materna addensi su di sé tutto questo mistero fin dalle ‘culture’ primitive.

    Nello stesso tempo penso che non sia sufficiente il processo di ‘assorbimento’, come afferma Cristiana: *infatti Áiram assorbe in sè anche Negrura che è amore e non più tentazione*.
    Credere a questo significa esercitare un atto di fede. Sarei più propensa a pensare che l’amore materno possa essere in grado di contenere, ma ognuno con le sue specificità, sia l’amore che la tentazione, la quale rimane tentazione. Così come il ‘male’ rimane ‘male’, non si trasforma in ‘bene’.
    Quanto al peccato e alla colpa ci troviamo di fronte ad un bel problema.
    Cristiana: *Non mi sembra un conflitto sotto il segno del peccato, di Ánatas, mai alla naturalità viene data connotazione negativa. Il conflitto resta aperto e basta. Sembra però logico che tra natura non colpevole e compito si debba inserire sublimazione da una parte e repressione dall’altra, con la colpa e il peccato… Occorrerebbe una terza parte per sciogliere i nodi.*
    Non voglio addentrarmi in discussioni teologiche – oltretutto sto già esondando dal testo poetico di Ėderle – , ma partire da una natura ‘non colpevole’, da una natura che sarebbe di per sè ‘Amore’, rischia di portarci fuori strada. Non si tratta né di andare alla ricerca del colpevole né di abolire il senso di colpa, quanto di capire la funzione della colpa stessa nella gestione delle relazioni sociali e dei dominii (e, pensando al passato, sarebbe storia lunghissima e atroce!).
    Pertanto non si tratta di cancellarla (già oggi molti giovani non hanno molto chiaro di che cosa si tratti!) ma di trasformarla in responsabilità, passando da una visione arcaica, punitiva (e funzionale al potere) ad una più matura rispetto ai nostri comportamenti e alle loro conseguenze.

    R.S.

    1. @ Rita Simonitto
      Grazie dell’attenzione, della stima e della simpatia che ricambio di cuore.
      Non so se sia del tutto “irrilevante” – e non vorrei annoiare con i tecnicismi – ma le “comete” (tra le quali anche “Sorella mia ginestra” già pubblicata in questo blog) seguono scrupolosamente quanto si dice in questa “avvertenza tecnica” (…magari nell’illusione che il “Verbo”, così incatenato e rimato, aumenti il suo “potere”!):

      – Con il nome di “cometa” ho voluto indicare una composizione poetica a forma chiusa di 20 versi, composta da tre terzine di endecasillabi e da una stanza di cinque settenari e sei endecasillabi. I primi dieci versi ripetono il modello dantesco delle rime incatenate. Poi, dall’undicesimo al ventesimo verso, gli endecasillabi si alternano ai settenari, rispettando sempre questo schema metrico e rimico:

      A-B-A // B-C-B // C-D-C // D-E sett.-F sett.-E-F-G sett.-G-H sett.-H sett.-I-I

    2. Anche se non sembra, ho cercato di restare sempre all’interno del testo di Ederle. In questa seconda parte ci sono due momenti, uno per la madre e uno per il figlio, in cui avviene un passaggio, una rottura. Per la madre, da

      ” … una santa blasfemia
      che sfiora un sacro che impalma l’odore
      della santità intrufolata nel sapore della
      terra e di tutti i suoi piaceri le sue gioie
      che sembrano proibite e dissacrate e
      non sono che viatici d’amore sospiri di bontà”

      quindi da un mondo di piaceri terreni, che *sembrano* proibiti e dissacrati, ma *sono* amore e bontà, un amore che è corpo (turgore che non cessa davanti al santo), da quel luogo, momento, punto di arrivo, Airam passa a
      “riprese poco a poco il tono della/ sua santità” e, in successione

      “non ne ebbe alcun danno
      né morale né fisico e si ritrovò
      ancora nella sua positura nel suo
      santo stato “

      e alla fine

      “… quel fulgore
      tutto terrestre ancora l’attorniava e
      e le strofinava intorno la sua dolcezza
      la sua bellezza come un velo rosso
      che riverbera piacere e
      sentore di beltà.”

      Il passaggio è tra l’amore materno e carnale, che è comunque bene, al santo stato. Non è un passaggio auspicato o dato per certo da me, è nella poesia.
      Anche per Useg avviene lo stesso passaggio, dall’amore per/con la madre e per la bellezza della terra al suo compito

      “mandato dal padre su questa
      umida e scostante terra a battezzare il
      peccato a riavvicinare a Dio le innumerevoli
      pecore del suo enorme prato dei suoi
      ciliegi e della loro contaminata
      contaminata bellezza”

      la terra è bella ma contaminata due volte, e il suo compito lo tormenta “(questo cane abbaiante non mi dà tregua, mi squarcia/ le orecchie mi turba il cervello…”. Useg potrebbe anche scansare questo cane

      “Scansarlo sarebbe il meno e tornare
      a concentrarsi sul magnifico viso di Áiram”

      ma qui è la madre che frena questa sua adorazione

      ” … erano le frange di santo
      che si allungavano dal corpo di Áiram
      e carezzavano via dal suo corpo intero la
      sua inavvertita volontà.”

      Il passaggio di ambedue avviene dall’amore al santo. Si incontrano poi a mezza strada, lei è madre del figlio, lui è avviato al suo destino.
      A me non pare che questo passaggio avvenga ancora con la presenza del male e della tentazione, ma dal bene al santo. Nel testo di Ederle, dico.
      Il fatto è che, per noi, nella nostra cultura non religiosa, ogni passaggio avviene nella contraddizione tra bene e male, mentre Ederle immagina (e fa immaginare) un passaggio, come dire, dal bene al meglio.
      Siccome questo passaggio dal bene al meglio la nostra cultura lo reinterpreta sempre come contraddizione tra bene e male, sentivo il bisogno di una terza parte del poemetto che affrontasse questo nodo.
      Invece Ederle lascia il conflitto aperto, un conflitto che è però quello culturale nostro.

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