Le forme del tempo nella poesia

KAIROS 2

di Rita Simonitto

Sono stata molto sollecitata dal post di Mannacio “L’innocenza del tempo” (qui) – e ci ho riflettuto a lungo anche perché di stimoli ne dava parecchi – ma anche dalla osservazione di Mayoor (nello stesso post): *Il tempo non sarebbe dato da quanto impiego per muovermi da A a B ma da quel che accade durante il tragitto. Ne consegue che Cronos è l’azione umana e concreta dell’esperire*.
Il che farebbe pensare che accanto all’esistenza di un tempo ‘quantitativo’ – basato sulle infinite segmentazioni per cui Achille non può mai raggiungere la tartaruga – ci sia ad un tempo ‘qualitativo’, quello delle relazioni, a fronte del quale viene invece perseguito l’incontro, il momento opportuno nel quale si incrociano gli eventi.
Mi è venuto spontaneo pensare al tempo ‘qualitativo’ del kairos, un tempo particolare che non è quello che, pur originandosi da un movimento, rimane eternamente identico a se stesso (aion), né un tempo che incarna la violenza del taglio che istituisce un prima e un dopo (chronos), ma è un tempo ‘creativo’, kairos, appunto.

Vediamo in che modo la poesia possa impastarsi con questi tempi ‘diversi’.

Gadamer sosteneva che l’essenza dell’esperienza temporale dell’arte consiste nell’imparare a ‘sostare’, nel caso della poesia a ‘udire’: è questo il modo che è stato concesso all’uomo di approssimarsi all’eterno. Pensiamo infatti al valore trascendente che veniva dato al suono prolungato della sillaba ‘om’ (o Aum) le cui vibrazioni mettevano in contatto gli adepti induisti con il suono cosmico che sarebbe il suono più vicino alla Verità.
In una sorta di sospensione temporale, la creazione artistica – poetica e non solo – presenta un carattere silenzioso: l’atto creativo dell’artista si svolge nel silenzio; egli, per conoscere e creare, sente la necessità di raccogliersi in un silenzioso colloquio con se stesso. Anche il dire originario della poesia – inteso come luogo del misterioso co-appartenersi di parola ed essere – si porrebbe in intimo e segreto rapporto con il silenzio: il linguaggio autentico del poeta si nutre per così dire di silenzio, tramutandolo in quella parola donatrice di senso che sta al fondo della parola stessa.
Ma, al giorno d’oggi, le espressioni di Gadamer le possiamo considerare come facenti parte di un mitologéma – una ‘leggenda’ che si è consolidata intorno alla Poesia e quindi vanno rigettate come non facenti più parte della nostra epoca – o possono ancora avere qualche cosa da dirci, cercando di aggiornare le parole adeguandole alla realtà che viviamo?
In che modo – e con quali trasformazioni interpretative – i tempi odierni si possono agganciare ai tempi del passato?

Nel Timeo, Platone, raccontando attraverso un mito la formazione del kosmos, distingue due tipi di tempo: aion e chronos, appartenenti rispettivamente a ciò che è sempre e non muta e a ciò che diviene senza mai essere.
La dimensione dell’aion, un eterno “è”, senza l’“era” e senza il “sarà”, attraverso la rotazione intorno a se stesso, crea, insieme col cielo, il tempo (chronos), che è lo svolgimento dell’“è” attraverso l’“era” e il “sarà”, quale immagine mobile, progressiva numericamente, dell’aion, che invece permane nell’unità.

Aion rappresenta dunque l’eternità, l’intera durata della vita, l’evo; è il divino principio creatore, eterno, immoto e inesauribile, mentre chronos indica il tempo nelle sue dimensioni di passato presente e futuro, lo scorrere delle ore, qualcosa che invece sorge e si corrompe. Nell’idea di eterno come sempre identico a se stesso, e di tempo come transeunte e in continua trasformazione, Platone non fa che riaffermare la “separazione” tra ciò che è e ciò che diviene, scavando un solco tra le cose come sono in se stesse, immutabili ed eterne, e i loro simulacri sublunari, destinati alla generazione e alla corruzione, trascinati da quello che Leopardi chiama il “tacito, infinito andar del tempo” (G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia).

L’aion, il tempo dell’essere, è un presente infinitamente pieno di contenuto, e può essere immaginato come un punto privo di estensione, “il punto / a cui tutti li tempi son presenti” (Dante, Paradiso, XVII, 17-18), mentre il chronos, il tempo del divenire, è una sorta di svolgimento che implica strutturalmente generazione e movimento, paragonabile a una linea retta.
Ma quell’“ora”, in cui permane l’essere aionico, non è un atomo del tempo, bensì la totale assenza di tempo, la “successione tolta”. Nell’aion l’essere è sottratto al divenire, cioè al rischio di scomparire nella transitorietà, e sfugge alla signoria del tempo chronos, in cui si cela il non-essere come “non più” e “non ancora”. (1)
Contemporaneamente, aion indica anche la ‘potenza’ vitale inesauribile e dunque, in senso traslato, può far pensare all’“eterno ritorno” della “fecondità agricola” e del susseguirsi delle stagioni. Eccoci all’idea di un tempo eternamente fecondo (Aion è spesso raffigurato con la cornucopia, simbolo di un tempo colmo di beni e di fecondità) contro l’idea di un tempo “saturnino”, edax, divoratore e distruttore che sarà poi sostituito dal tempo ‘della falce’, il tempo del chronos.
Quel Chronos (appellato dai Greci di epoca più tarda “il Padre Tempo che avanza inesorabile con la sua falce e con un corvo al fianco”) e che rappresentava sia l’eternità ma anche colui che separava da essa introducendovi la mortalità a quindi la storia.

Il tempo storico è il tempo del conflitto. Un conflitto legato al potere (scrive G. Mannacio): solo che nella teomachia si trattava di un potere gestito tra ‘pari’. Ricordiamo che Chronos (Saturno per i romani) non poteva uccidere i suoi figli in quanto immortali ed era per questo che li ingoiava. E anche Zeus, una volta sconfitto il padre Chronos, lo relegò nell’Isola dei Beati, amministrando poi ‘con giustizia’ il mondo dell’Olimpo. (2)
Un potere inteso anche come espressione di un ‘ordine’; pertanto il conflitto era legato al passaggio da un ordine ad un altro ordine (matriarcale versus patriarcale, ad esempio), tra un Kosmos e un altro Kosmos e, come corollario, tra Chaos e Kosmos, il Chaos che si produceva appunto nell’interregno.

Ed eccoci al concetto del kairos, genericamente definito come il tempo opportuno, la buona occasione, il momento propizio per l’accadere delle situazioni e per le trasformazioni.
Per quanto concerne la poesia mi sembra possa essere un indicatore rispetto alla sua ‘ostensione’, nel suo farsi ‘atto poetico’, che è il momento in cui esce dall’esperienza solipsistica dell’io per confrontarsi con un io-noi e, infine, con l’altro da sè, un passaggio dal privato al pubblico.

Certamente, in Aristotele il kairos è connesso alla teoria dell’azione e, come si legge nell’Etica Nicomachea (1096a 27), kairos è la declinazione del ‘bene del tempo-proprio’: “l’agire deve allora riferirsi al kairos, al momento opportuno; cioè deve afferrare il tempo debito quando esso viene a maturazione e decidere l’azione”. E’ un momento breve, quasi istantaneo, irripetibile e che ci dice che c’è un tempo di compiutezza e pienezza in ogni cosa.
Kairos veniva raffigurato come un giovane che sta sulla punta di piedi alati, è fornito di ali anche sulla schiena, tiene nella mano destra una bilancia che lui stesso però disequilibra appoggiandoci il dito, non ha capelli sulla nuca ma solo un lungo ciuffo che gli pende di lato. Questa la raffigurazione nel mito, abbastanza chiara nella sua simbologia. E, visto che oggi questa terminologia va tanto di moda, potremmo definirlo anche come il ‘momento strategico’. Però, nell’applicarlo alla poesia – e alla visione ‘poietica’ della realtà – io intenderei connetterlo di più alla valenza creativa di questa ‘congiunzione felice’.
Il kairos può far richiamare, nella teorizzazione del matematico-filosofo Henry Poincaré, il concetto del “fatto scelto”, quel ‘fatto’ che serve a dare un ordine di senso a dati disordinati presenti nel campo analizzato che, di conseguenza, si presenta con una nuova e inedita configurazione.
In questa accezione, il ‘fatto’ riguarderebbe più un cogliere creativamente il nesso nascosto che permette una nuova visione di eventi ‘già presenti’ nel campo; mentre il tempo del kairos ha poco a che vedere con l’ordine, mettere ordine in una situazione di Caos, bensì con il cogliere una ‘armonia’ interna della ‘cosa’ nel suo mettersi in relazione con le altre ‘cose’. Una specie di ‘affinità elettiva’ nello stabilire quel legame e non un altro. Non è solo un sapere delle circostanze e di contesto (che atterrebbe di più alla metodica scientifica), ma vi si aggiunge una intima conoscenza delle cose stesse nel loro ‘essere mancanti’. Esprime una attenzione sia alla singolarità dei casi e sia una capacità di riconoscere la complessità del reale la cui molteplicità (e multiformità, come diremo successivamente), armonizzandosi con ciascun oggetto, diventa unità; mentre l’unità gretta, che con tutti applica la stessa misura, non produce unità vera ma discordanza.
Per i pitagorici l’unità vera è armonia, ma non si tratta di qualcosa di semplice bensì di molteplice e risulta dalla conciliazione degli opposti da cui le cose sono costituite. Analoga cosa succederebbe con la giustizia, che quindi non significa dare a tutti il medesimo, ma a ciascuno secondo i meriti e le qualità. Differenza nell’uguaglianza. Questo è il significato della bilancia ‘sbilanciata’ che si vede nell’antica raffigurazione del kairos: la giustizia è tale se è capace di adattarsi all’occasione, sbilanciando eventualmente il rigore del principio per venire incontro alla poliedricità dei casi possibili.

Più complesse sono le riflessioni che ci vengono dagli scrittori E. A. Poe e S. T. Coleridge in merito alla capacità di cogliere il kairos. E. A. Poe ne diede una interessante esposizione nel suo racconto (anzi, se non ricordo male, nell’introduzione al racconto stesso) “I delitti della Rue Morgue”, introducendo una significativa differenza tra ‘molteplicità’ e ‘multiformità’ della realtà. Non si tratta dunque di chiamare in causa un calcolo, ma di sollecitare un’osservazione degli aspetti multiformi e un cogliere ciò che non rientra nelle pure e semplici regole. Ed è stimolante (e ‘moderna’!) questa distinzione in quanto mette a confronto la qualità (il multiforme che può essere sia indefinito che infinito) con la quantità (il molteplice). Non si tratta di parlare di ingegnosità. Anzi, lo scrittore afferma che a volte l’ingegno può essere inetto ad attivare questa modalità, in quanto troppo preso dalla consapevolezza delle proprie percezioni.
Poe chiarisce che detta facoltà è assimilabile all’ “imagination” e la distingue immediatamente dalla fantasia (di cui sarbbe provvista anche la persona ingegnosa). Egli precisa che sia fantasia (‘fancy’) che immaginazione (‘imagination’) appartengono a registri esenti dal calcolo, anche se poi la fancy tenderà a lavorare sempre in collaborazione col calcolo, espressione dell’ingegno, al fine di trovare varianti meno praticate ma sempre all’interno dello schema dato.
Questa differenziazione tra fancy e imagination richiama l’analoga distinzione resa celebre nel mondo inglese (ben conosciuto da Poe) da S. T. Coleridge.
Nella teorizzazione di quest’ultimo, la fantasia rappresentava un modo della memoria soggetta comunque ad una scelta in cui in qualche modo veniva implicata la volontà. Insomma, la fantasia definita da Coleridge sarebbe una specie di attività ordinatrice degli oggetti fatti propri da una memoria, anche se svincolata dalle categorie di tempo e spazio.
Ciò che raccoglierebbe la fancy avrebbe a che fare con elementi che restano esterni gli uni agli altri: si tratterebbe di un potere di aggregazione oppure di semplice ricombinazione; l’ imagination, invece, formerebbe esseri nuovi e vivi, in virtù di un potere di unificazione e totalizzazione organica (una specie di reverie psicoanalitica ante litteram).
L’imagination sarebbe capace di uscire dallo schema, quasi si riferisse a qualche cosa di originario, l’origine stessa del pensiero, quella che contiene tutti gli schemi e la negazione di questi.

Ecco qui rientrare l’aion (l’eterno) e il chronos (la scelta che ‘decapita’ l’unità).
Ed ecco inserirsi il kairos. Qui si gioca il suo lavoro di cogliere, in quella totale ‘assenza di tempo’ (aion), la successione tolta, quell’essere sottratto al divenire. E, nello stesso momento, tollerare la sfida di chronos, la transitorietà che non accetta di essere tale, in cui si cela il non-essere inteso come ‘non-più’ e ‘non-ancora’.

E che cosa può arrivare là se non il pensare poetico? Dove l’immaginazione è la facoltà specifica della parola poetica?
L’immaginazione, intesa in questi termini, deve per forza essere qualche cosa di ‘separato’, qualche cosa di ‘altro’ rispetto allo schema del reale conosciuto e quindi non una sua ‘copia’; dev’essere luogo di contraddizione, altrimenti sarebbe uno schema razionale tra i tanti possibili e che la fantasia può rappresentare. E’ un luogo che attinge al nulla originario, quello che è alla base di tutte le creazioni possibili.
Mentre stavo scrivendo queste riflessioni sono stata colpita da un testo poetico di Lucio Mayoor Tosi (che riporto in calce) e da una sua comunicazione in merito al medesimo. Mayoor scrive: “Il mio è un blog che cambia silenziosamente, nel tempo. Quel che pubblico oggi, tra un mese potrebbe essere diverso. Su alcune poesie ci lavoro piano, episodicamente, mentre nessuno se ne accorge. BIG è tra queste, non è ancora nella forma definitiva”.

BIG

Grandi dolori e immense felicità, di questo è fatta la solitudine che cammina a piccoli passi dove Tutto è abitato
e OGNI cosa parla, muovendosi e rilucendo, tanto Che Non servirebbe darsi da fare per cercare altra attenzione.

Darsi un’immagine unica, come fossimo reliquie o prodotti Che nascono Sugli scaffali del supermercato
pronti per Essere venduti, per intraprendere viaggi senza ritorno. Andare via e moltiplicarsi, la nostra Faccia lontana

dal Cuore, come Corpi smembrati, fiori senza profumo, ritratti della mancanza, della nostra assenza Che libera
la strada al vento delle automobili, al cielo che cambia luci, Agli odori che sembrano arrivare da lontano,

da paesi dove grossi animali Vivono assuefatti, rannicchiati Vicino Alle industrie, Dove c’è da fare, Lavorare
e lasciarci la vita, come fosse Una bellezza di poco Conto. Così la si regala a quei pochi Che ci ameranno.

Che si arrangino il sole e la luna se a stento Facciamo due metri e ci supera Qualsiasi pianta. Questa è la misura dei tetti,
delle case abitate Dai pensieri, chiuse da buone serrature. Coi gerani alle finestre.

Mentre leggevo questa poesia sentivo dentro di me, in accompagnamento ai versi, alla loro scansione, le note della musica sincopata di Paolo Conte.

Le rime, gli ‘a capo’ (che un tempo segnalavano simbolicamente le cesure o l’unione nei testi poetici), qui sono sostituite da un ritmo altro o da maiuscole che sembrano non rappresentare un ‘dettato’ proveniente dal poeta o da regole esterne al poeta, ma è come se il tutto fosse richiesto dalla disposizione delle parole stesse o dal senso poliedrico delle parole. E, comunque, non sembrano ‘voci’ in caos che cercano ordine. Non è una ‘forma’ che nasce da un informe. E, allora….?

Quelle parole: che cosa le faceva stare assieme? visto che i nessi logici sono azzerati? Il tempo di una armonia? Forse per questo le ho sentite come una canzone di Conte?

Note

(1) In questa “successione tolta”, mitologicamente rappresentata da Saturno che ingoia la sua ‘successione’, non vediamo anche rappresentata una certa quotidianità in cui – complice un sistema che ha introdotto alla grande un azzeramento della memoria storica – i genitori vivono in un eterno presente costituito o dell’ansia della pagnotta o dal godimento pieno, e quindi non vedono (o non permettono) un futuro per i propri figli?

 (2) Nella Cosmogonia vediamo il succedersi di 3 generazioni.

– la 1^, rappresentata da Urano e Gea come coppia progenitrice da cui nascono Titani, Centimani ovvero le ‘forze potenti dell’universo’. Urano ricaccia questi figli nel ventre della madre Gea, la Terra, la quale, alleandosi con l’ultimo nato Chronos, ordisce l’evirazione di Urano.

– la 2^, rappresentata da Chronos e Rea (sua sorella). Chronos ingoia i figli nel timore di essere spodestato da loro. Rea, aiutata da Gea, gli nasconde l’ultimo figlio, Zeus, dando al padre da ingoiare, al suo posto, una pietra infagottata.

– la 3^ generazione, quella olimpica, vede la vittoria di Zeus che, alleandosi con i Titani sconfigge il padre e lo relega nell’Isola dei Beati. Zeus è l’amministratore della giustizia ed è aiutato in ciò da Meti (‘la prudente’ e ‘la perfida’) sua amante, anch’ella regolarmente ingoiata e che gli dà consigli dall’interno.

R.S.

Conegliano 15.08.2015

21 pensieri su “Le forme del tempo nella poesia

  1. @ Simonitto

    Cara Rita, duplice grazie. Per l’attenzione dedicata al mio vecchio testo. Per le osservazioni contenute nel tuo. Ricordi – a proposito del tempo che divora i suoi figli – che questi ultimi non possono essere distrutti perchè anch’essi immortali. Nel cogliere questa tua meditazione – e conservando la mia – mi piace vedere nella loro relazione il pensiero che non vi è mai un vincitore assoluto e definitivo e che anche costui deve ad un certo punto e in un certo modo nutrirsi del vinto. Hai fatto bene ad introdurre nel discorso l’argomento di Kairos, nel senso di tempo opportuno, o tempo delle occasioni o – come credo tu stessa pensi – l’Occasione tout court. Questo senso non riguarda il godimento dell’attimo fuggente in cui non ci si preoccupa più di tanto del futuro (Orazio: carpe diem quam minimum credula postero ) ma – al contrario – l’assunzione del momento propizio di una scelta di cui si conoscono e si vogliono le conseguenze quasi che siano. Kairos è dunque l’attimo in cui – quasi paradossalmente – si costruisce un futuro che, come tempo, non esiste ancora.
    Questo significato ci conduce, mi pare, a parlare del Tempo nella poesia che è sempre un fare del quale spesso ci sfugge la “ intrinseca moralità “. A ben guardare del Tempo nella poesia si può parlare in tanti modi e di differente contenuto. Ma al Kairos si deve fare sempre riferimento. Come occasione per fermare il meccanismo dell’oblio congelandolo in una nuova creatura ( il testo ); come occasione per programmare le tappe di questa operazione secondo uno schema coerente agli effetti che ad essa si vogliono attribuire; come occasione per stabilire un nesso di fedeltà tra il nostro operare e l’opera che si vuole attuare. In questo senso mi sembra che la posizione di Coleridge sia sostanzialmente corretta. Infine per ultima ma non ultima l’indagine del rapporto tra il tempo fisico necessario per comporre un testo e il tempo – quasi metafisico – della teoria ( visione ) degli oggetti rappresentabili. A questo proposito hai fatto bene a ricordare il pensiero di L.M.T il quale interrogandosi osserva come ciò che ha scritto oggi potrebbe essere diverso domani. Direi che non può essere se non così se si considera come ci modifichiamo ad ogni istante che passa. L’incontro di cui parla ancora L.M.T “ non avviene nel tempo ma lo crea ”. Almeno così penso. Un cordialissimo saluto. Giorgio.

    1. Grazie a Rita e a Giorgio con le mie parole

      Tempo

      Questa estate i monti
      insegnavano il tempo
      superavano limiti cambiamenti
      La rosa perdeva colore
      il torrente cambiava ritmo
      le strade in salita erano
      vene chiare e poi scure
      fino al sole dietro la vetta
      Cambiava anche la quercia
      al vento insicuro del tramonto
      Un mattino un uomo si chiese
      perché il canto del gallo
      non cambiasse mai.

      emi

  2. …anch’io ringrazio Rita e Giorgio per le riflessioni sul tempo in poesia e commento con una poesia, che a volte è più semplice…

    Come per silenzio
    è assente il tempo
    s’illumina la scena
    da buia che era prima
    e vedi e senti
    cose palpitare
    spostarsi per incanto
    nello spazio del reale
    ma è la prima
    sì, la prima
    difforme tra le forme,
    a governare il movimento
    di un’armonica sonora
    che abbina
    luminosa
    la parola alla cosa…

  3. Ricamo un po’ sulla OM, che è AUM, ci spiegava la maestra di yoga che i tre suoni racchiudono la gamma degli organi fonatori, dalla gola alle labbra, passando per lingua-palato. Tu ricordi il valore trascendente attribuito nell’induismo a un suono cosmico che sarebbe il più vicino alla Verità. Mi sembra in perfetto accordo con (ora Ennio si arrabbia!) all’inizio era il verbo e il verbo era presso dio: mi sembra che in tutti e due i casi si alluda al nominare il mondo, che è della voce-parola umana.
    Non solo un nominare simbolico quindi creatore (e divino per questo, ma divino è attributo, nel senso che trascende il singolo e la singola comunità, come ha bene spiegato Feuerbach), ma l’accordo tra suono e cosmo è nelle vibrazioni, è un accordo fisico, è l’armonia che riconosci nella poesia di Mayoor e della musica di Conte.
    I miti a cui ricorri spesso nei tuoi commenti hanno lo stesso contenuto delle successive metafisiche e filosofie. Ma anche gli astrofisici non scherzano… E questo buco nero del rapporto tra poesia e silenzio (: del corpo rispetto alla voce) tu lo indaghi sempre.

  4. Io indago il mito ma per cercare di capire non per ripetere. (Come sosteneva Freud in “Ricordare, ripetere, rielaborare”: siamo costretti a ripetere ciò che non abbiamo fatto mentalmente nostro, elaborato con la capacità critica.)
    E non solo per capire ma per istituire le opportune differenze: ciò che può funzionare in poesia (o nella musica, proprio per il rapporto voce-silenzio) non è detto che funzioni nell’ambito dei rapporti sociali. Sarebbe (e oggi lo stiamo vedendo) una sovrapposizione fatale!

    Έφφαϑἀ

    E se quando soffiasti “effeta” avessimo taciuto?
    perché non ci si apre sull’onda dell’inganno
    Adesso, soli, lo sappiamo dopo che il pus del veleno
    ha ammorbato ogni cellula minuscola di vita
    come accade con lo spino della rosa che entra nella carne
    e poi si chiude e infetta la ferita.

    Le mie porte al mondo e a quelle dei sodali
    si aprirono ingenue e trovarono mattanze.
    Ormai senza parola una inutile Cassandra
    sta lì ritta sul cassero solo a testimoniare.

    31.08.2012

    R.S.

  5. Un grazie di cuore, davvero commosso, a Rita Simonitto. Leggere il suo saggio mi ha anche ringiovanito. Sono tornato agli anni splendidi e formativi del mio liceo quando un professore di filosofia ci spiegava le stesse identiche cose… poi l’Università me le fece in gran parte dimenticare!

  6. …”effeta”…eppure Rita non è stato pronunciato invano perchè noi ti stiamo ascoltando pieni di ammirazione. C’ è molta amarezza nella tua voce, ma non è la sconfitta che ci stai testimoniando bensì tanto coraggio e un’eredità di sapere antico quanto intramontabile…ciao e grazie

    1. @ Annamaria
      ti ringrazio moltissimo per la sensibilità e attenzione.
      Ma l’ “io” di cui parlo nella poesia, non è (soltanto) un “io” personale ma coinvolge tutti coloro che credettero alla Verità del Verbo portatore di luce senza tenere conto dell’esistenza della sua parte oscura (che viene invece vista da Cassandra, ma non è creduta).

      R.S.
      p.s. per Ottaviani….. belli i tempi del liceo, eh?

  7. Rita c’azzecca sempre. E’ come una gatta…pronta,costante e…zac fatto!
    E se gatta è io le mando anche una carezza.

  8. @ Annamaria (e anche a Emy)
    Cara Annamaria, mi spiace se inavvertitamente – ma Emy, dal suo coté felino, se ne è accorta – ho ‘graffiato’ la mano solidale che tu mi tendevi.
    E’ che mi premeva sottolineare quanta ideologia ci stava dietro e dentro la presunta forza del Verbo a prescindere dalle relazioni sociali in cui si collocava e delle relative differenze.
    Ma verrà modo di parlarne in seguito più dettagliatamente.
    Grazie comunque della sollecitudine.

    R.S.

    1. Alla “presunta forza” del Verbo si può dare credito se si usa la maiuscola, ma il verbo, la voce-parola umana, ha la sola forza di dare nomi.

  9. …ma dai, Rita! il graffietto di una simpatica gattina, sempre accompagnato dal sorriso che sai tu, può solo farmi piacere…grazie

  10. Il verso, la poesia, è un edificio fatto di parole. Intorno è punteggiatura, altra poesia.
    Il tempo è sereno, di solito tenuto o sostenuto, sia lento che veloce; insomma, funziona per la poesia quel che vale per la musica. Ma la mia è musica indiana, anche se è vero, il Raga indiano somiglia molto alla musica Jazz. Li accomuna l’uso dell’improvvisazione in tempi stabiliti. Ma il Raga non si basa su quattro e i quarti di battuta, bensì su sedici. Un tempo lunghissimo dove trovano spazio anche le risonanze armoniche; come se ogni nota fosse dotata di eco, ma un’eco differente. L’importante, per i poeti musicisti, è che si arrivi al sedicesimo, al punto; oppure all’a-capo, se l’aria lo richiede. Forse per questo alcune mie poesie “non sembrano ‘voci’ in caos che cercano ordine”. Hanno una loro impostazione: un tempo che è dato dal verso lunghissimo, adatto all’improvvisazione. Questo è quel che fa stare insieme le parole. E “Non è una ‘forma’ che nasce da un informe” perché è stata scelta (nell’informale che è stato ormai riconosciuto e in qualche modo anche codificato). Infatti è così che dipingo anche i miei quadri; però hanno tutti un titolo, una direzione, un’immagine che non lascia spazio ad equivoci. Quanto all’azzeramento dei nessi logici: è certo una disarmonia a cui andrebbe posto rimedio, cosa a cui cerco di provvedere ogni volta… ma dopo, dopo aver saltato. Mi piacerebbe tanto sapere che ne pensava in proposito Dexter Gordon.
    La poesia è un edificio: ogni verso una stanza, ogni porta è fuga e abbandono, ogni stanza è nuova e diversa. Non moltiplico planimetrie, non costruisco villette a schiera. Mi aiuto, sì, con la prosa, ma questo è un altro discorso.

    Dexter Gordon suonava il sax come parlasse, Paolo Conte suona con le parole. Ognuno ha il suo strumento. Certo, è più facile soffiare in un tubo di ottone che usare parole che abbiano senso.
    Per ringraziare Rita scelgo un video malinconico, ben lontano dalla gioia che mi ha dato l’aver letto il suo saggio sul tempo della poesia; che considero ben più di una lezione scolastica perché entra nella critica: pone domande alle quali non si dovrebbe rispondere perché le risposte porterebbero a stabilizzare quel che è in movimento, quindi porta il rischio della ripetizione. Il mio maestro interiore fa quel che può.
    https://youtu.be/rD3jE9MoRqs

    Il tempo è sereno. L’oscurità del dolore ci fa piangere, ridere, cantare e scrivere.

    Le mie poesie non sono villette a schiera, non moltiplico planimetrie; una stanza è qua, l’altra in oriente. Qui è triste, abbiamo un solo Dio, uno per tutti e tanto ci deve bastare. Persi a contare anche gli spiccioli non crediamo ai regali, né, spesso, li sappiamo vedere. E’ l’oscurità del dolore che ci fa piangere, ridere, cantare e scrivere.

    1. oh, ho dimenticato di togliere dei pensieri che avevo lasciato in coda (dopo il video di Dexter Gordon). Prego di non tenerne conto.

  11. *non voglio togliere la coda* (Cristiana) …. e nemmeno io!

    Così, pensieri alla spicciolata rispetto agli altri interventi su cui non ho commentato:

    @ Mannacio
    *Nel cogliere questa tua meditazione – e conservando la mia – mi piace vedere nella loro relazione il pensiero che non vi è mai un vincitore assoluto e definitivo e che anche costui deve ad un certo punto e in un certo modo nutrirsi del vinto. (G. Mannacio)*

    Mi hai fatto venire in mente l’oraziano “Graecia capta ferum victorem cepit” (La Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore) a cui credetti fermamente!
    Che idiozia! Adesso mi rendo conto di quanto i Romani snaturarono (verso il basso) la cultura greca proprio rendendola ridondante. Complici successive anche le infiltrazioni religiose ebraiche (monoteismo) e, buona ultima, quella cristiana con la (enunciata) separazione dei poteri “dare a Dio quello che è di Dio e a Cesare quello che è di Cesare”.
    Rispetto al *nutrirsi del vinto*: le iene lo fanno apertamente; certi vincitori, invece, mascherano ciò contrabbandandolo per “integrazione”.
    Per questo è importante il concetto di Kairos con la sua ‘bilancia sbilanciata’, perché introduce differenze e non eguaglianze tout court: come mai, in quel momento lì, il suo dito fa pendere il piatto da una parte anziché dall’altra? Che cosa sta succedendo? Ci apre alle domande non ci precostituisce le risposte!

    @ Cristiana
    *all’inizio era il verbo e il verbo era presso dio: mi sembra che in tutti e due i casi si alluda al nominare il mondo, che è della voce-parola umana*. (Cristiana)
    * Alla “presunta forza” del Verbo si può dare credito se si usa la maiuscola, ma il verbo, la voce-parola umana, ha la sola forza di dare nomi.* (Cristiana)

    Sì, concordo. L’equivoco nasce proprio a partire dall’uso (ideologico) delle maiuscole!!

    @ Mayoor
    *Ma il Raga non si basa su quattro e i quarti di battuta, bensì su sedici. Un tempo lunghissimo dove trovano spazio anche le risonanze armoniche; come se ogni nota fosse dotata di eco, ma un’eco differente. L’importante, per i poeti musicisti, è che si arrivi al sedicesimo, al punto; oppure all’a-capo, se l’aria lo richiede.* (Mayoor)

    Quanto invidio questa tua ‘competenza musicale!’ che mi fa sentire straniera in un territorio che amo moltissimo: non ci capisco niente di note, di righi, di toni e semitoni , di crome ecc. ecc. Forse devo vincere il mio stupore di fronte a tanta armonia ‘rinchiusa’ in uno spartito! So che, in parte, è così anche per la poesia ma, nonostante tutto, non riesco a capacitarmene.

    *Dexter Gordon suonava il sax come parlasse, Paolo Conte suona con le parole. Ognuno ha il suo strumento*.(Mayoor)

    Dexter Gordon, in questo brano – che amo molto assieme al “Lover Man” di Charlie Parker -, fa stare male perché è una incessante (quindi un movimento senza tempo eppure costretto dal tempo musicale) ricerca di parola. Appena ne trovi una sai che non è quella che serve a rappresentare la tristezza e la sofferenza di quel momento perché quello è già passato.
    E poi stai male (bene) anche perché: * E’ l’oscurità del dolore che ci fa piangere, ridere, cantare e scrivere.*

    Grazie a tutti per i vostri contributi.

    R.S.

      1. La mia competenza musicale è pari a zero, almeno stando a quel che ne dicono certi miei amici. Ma sono stato a Mumbai, allora Bombay, ospite di uno studente di musica classica orientale, e mi spiegò parecchie cose. Avresti potuto benissimo mettere una tua poesia, Rita, al posto della mia: scrivi con musicalità, sei molto intonata nel verso; ho cercato di dirtelo altre volte ma forse nel modo sbagliato, o non nel momento opportuno. Affinità. Poi per me ha contato la lettura di Tranströmer, poeta non so quanto musicale perché tradotto, e tutto si è scombinato. Non penso alle melodie del sitar mentre scrivo, e neppure a Dexter Gordon. Fosse così ne scriverei. Penso che nemmeno la Rosselli, considerata la miglior musicologa tra i poeti di fine novecento, perdesse tempo a fare distinzioni tra un genere e l’altro: scriveva, come fan tutti i poeti.

  12. @ Simonitto
    Non mi pare che la mia osservazione potesse dare luogo ad equivoci. Volevo dire e voglio ribadire che l’immagine del padre che divora i figli NON POTENDOLI UCCIDERE si presta anche all’interpretazione dell’impossibilità di eliminare le esperienze passate. Se vi è in essa una notazione positiva è a favore dei vinti. Del resto quanta della riflessione greca è passata – indenne nonostante tutta la ferocia del vincitore ( che non ho dimenticato affatto nelle mie considerazioni ritenendola già compresa nel discorso ) – a noi….Un esempio tra tutti: il materialismo di Epicuro. Un saluto. G.

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