Moltinpoesia e poesia esodante

poliscrittori

di Ennio Abate

Travaso qui sul sito di “Poliscritture” da “Poliscritture FB”, gruppo gemello o quasi, i primi tre pezzi della rubrica “Moltinpoesia e poesia esodante”. Si tratta, come detto nel primo, di un ripensamento più rigoroso di un’esperienza di gruppo (quella – 2006/2012 – del “Laboratorio Moltinpoesia” di Milano). Sulla quale sto lavorando con Annamaria Locatelli e Cristiana Fischer  per vagliare i numerosi materiali allora prodotti in vista della pubblicazione  di un rendiconto.  Frammenti di quei materiali e riflessioni sui  tuttora problematici concetti-guida (moltinpoesia, poesia esodante) verranno mano mano proposti in modo da raccogliere suggerimenti o critiche. Non credo di riproporre qui sul sito degli inutili doppioni: i commentatori di   “Poliscritture FB” solo in parte sono gli stessi del sito; e poi  in ognuna delle tre stanze di “Poliscritture” (redazione del cartaceo,  sito, gruppo su FB)  si respira un’atmosfera  un po’ diversa. (Sullo sfondo, tra i tanti, resta anche il problema di come tenersi – elasticamente – insieme). [E.A.]

MOLTINPOESIA E POESIA ESODANTE (1)

Dal 2006 al 2012 alla Palazzina Liberty di Milano ho curato con vari amici e amiche un “Laboratorio Moltinpoesia” poi blog “Moltinpoesia” (http://moltinpoesia.blogspot.it/). Dalle *buone rovine* di quell’esperienza (discussioni, letture di poesie, mail dei partecipanti, riflessioni e saggi) vorrei ricavare un più rigoroso progetto per orientarmi e orientare altri/e che scrivono e riflettono sulla crisi della poesia. Per uscire innanzitutto dalla chiacchiera saputella. In questa rubrichetta su FB pubblicherò frammenti di quelle (per me) “buone rovine”: messaggi in bottiglia che spero qualcuno raccoglierà.

FRAMMENTO 1

Esodo

Dove andare? e correre ancora?
o ubriacarsi dondolandosi sulla soglia?
I troppo lucidati intelletti
hanno esaminato da vicino i corpi senza amore
e tramortiti ambiscono, in latino e in rancore
solo a quelli gloriosi.
Ma alla femminetta, all’animosa
guizza la capriola dell’esodo
quel dolce affanno che si brucia
nell’altro della contingenza.
E va, si consuma in sorriso
già più non oscilla.
Smesso l’assillo
al chiarore d’altra luna e altro sole
è sbucato accanto a lei
il muso dell’antica, buona bestia.
Nell’esodo, dunque.
La tana di sempre sfondata.
La gabbia approntata da secoli
aperta, finalmente deserta…

(da E. A, Immigratorio, CFR, Piateda 2011)

MOLTINPOESIA E POESIA ESODANTE (2)

Verso fine luglio (2015) ho seguito su vari siti il dibattito nato dall’articolo di Alfonso Berardinelli («Se la collana di poesie Mondadori chiude è perché non ci sono più poeti pubblicabili»). Questa fu la mia presa di posizione a favore dei *moltinpoesia* (e spero non sia intesa come difesa della loro mediocrità, che pure non manca; e che è però soltanto l’altra faccia di una eccellenza elitaria spesso arbitraria e altrettanto dannosa):

PER I MOLTI IN POESIA

Sta’ nell’anonima compagnia dei molti
che in sottoscala, in eremitaggio, in rivistine e siti
scrivono.

Sta’ in basso addosso a un mondo basso.

Vivi con loro: bollette da pagare
lavoretti coatti da sbrigare letture
da pausa mensa e a tarda notte
qualche amore d’assaggiare.

Una qualsiasi vita con corpi qualsiasi.

E però
metrica all’ingrosso
andatura sciancata
scrivi scrivi
non smettere
non importa dove andrai a parare
se le parole si dissiperanno
nel Gran Vuoto.

Resta in allerta
nel ventre di questo Niente
dove – la carne della vita freddata
da mani omicide
la parola congelata dagli Intellettuali –
hanno condotto
– scrisse uno –
la mente.

Le avevamo baciate quelle carni.
Le avevamo amate quelle parole.

E poi ci siamo chinati
su corpi a botte svegliati e massacrati
o in altri modi straziati.

E poi cimiteri d’operai e compagni suicidati
la miseria planetaria delle periferie
le urla da Abu Grhaìb.

Sappiamo ora quale realtà c’era stata preparata.

Perciò raccogli i cocci di passato
liscia le tonde parole di pochi maestri
arràmpicati su pensieri scoscesi
forse Storia, forse Dio, forse Nulla.

E fievole e audace porta con te
il talismano dei molti in poesia.

Non temere la tua follia.
Ascoltane il brusio.

Prima o poi ritroveremo
i Santi Padri di Amelia
ci solleveremo al di là
degli amoretti alla Nanni Moretti
e questo corpaccio di un mondaccio
l’abbracceremo e lo diremo
in lingua semplice nuova levigata e saggia.

(20-26 luglio 2015)

* Rielaborazione di «Mi chiamo moltinpoesia», introduzione alla serata del 26 marzo 2009 alla Casa della Poesia di Milano – Palazzina Liberty

MOLTINPOESIA E POESIA ESODANTE (3)

Narratorio: il punto di vista alla Orbilius*

Samizdat mi parlava continuamente di questi *moltinpoesia*. Sì, sì, gli dicevo, è vero che sono spuntati come funghi dopo che nel tuo Paese – in ritardo, eh! – c’erano state (quasi insieme) scolarizzazione di massa e acculturazione provocata da giornali, radio e televisione. E posso anche ammettere che questa gente comune non è più analfabeta o semianalfabeta come lo erano i loro nonni e spesso i loro genitori. Ma che novità è mai questa? Scribacchiano come possono, rovistano tra le vaghe memorie che gli restano del mondo contadino e artigiano. O si perdono nelle pieghe del loro *io* alle prese con la vita quotidiana e sentimentale. Che poi non è neppure più quella dei piccoli borghesi di una volta. Almeno quelli erano vicini alle élites politiche e culturali (Chiesa, Partiti) e capaci di un certo contegno e stile. Ma ora, che sbracamento! Tutti scrivono, tutti scrivono “poesia”, tutti vogliono pubblicare! Quanti ne avevo visti di questi “bassi cetomedisti” alle presentazioni di libri, ai reading di poesie, nelle redazioni di riviste e rivistine o, più tardi, nelle “foto-santini” sui social network (blog, siti, FB, ecc.). Che ridicoli, servili e spesso presuntuosi imitatori! Entravano in questi “bazar della Cultura” come prima andavano a messa o nelle sezioni dei partiti. Coltivando micragnosi e petulanti i loro minuscoli sogni di riscatto! E sempre pronti a farsi solleticare i cuoricini dall’ultima novità editoriale, dall’ultimo film vincitore a Venezia o a Cannes. O a sorbirsi seminari, convegni, conferenze, apparizioni fulminee di *maîtres à penser*, di cui annotavano – sempre ossequiosi! – anche le sputacchiate. Per citarle subito dopo su FB.
A me non parevano un granché. Anzi, a tirar fuori il rospo, proprio non li sopportavo. Non avevano idea di cosa fosse stata, e non solo in questo Paese, la Poesia! Ne avevano appena intravisto il Seno, appunto, sui banchi di scuola, mostratogli da insegnanti bacchettoni e pure loro sempre meno preparati. Eppure, dopo quella Visione, si ostinavano a masturbarsi e a produrre surrogati rimasticati. «Simil-poesia», «righe a capo», «parapoesia»: ah, quanto lungimiranti erano stati Raboni, Majorino e Kemeny! Che, sì, incontravano questa pletora di sgomitanti ogni tanto, ma con discrezione, concedendosi solo per qualche ora ai loro corteggiamenti. E perciò davo ragione a tutti quelli che con giusto sprezzo li definivano *sottobosco * o *ceto medio semicolto*. Per me era chiaro che il loro destino sarebbe stato quello di rimanere sulla soglia della Vera Cultura. A orecchiare, commentare, fare magari anche la domandina intelligente o provocatoria a quelli che davvero di Poesia se ne intendevano. Ed era del tutto giusto che, di fronte alla pressione di tale marmaglia, i Veri e Pochi Poeti adottassero la strategia del custode kafkiano di «Davanti alla legge»: tenerli a bada, tenerli nell’incertezza; e, allo stesso tempo, lanciargli di tanto in tanto anche qualche cifrato invito. (Si «potrà però entrare più tardi. – È possibile, dice il custode, – ma ora no -»).
Samizdat, secondo me e malgrado i miei avvertimenti, si era mescolato troppo con loro e prendeva sul serio quei loro confusi bisogni. A volte mi pareva davvero uno di loro. Miope e sciocco come loro, insomma. E, pur considerandolo mio amico, sentivo che cedeva alle loro bassezze. Non aveva la postura giusta! S’immaginava cose ingenue, infantili, utopistiche, fuori dal mondo. Pensava che quella gente comune potesse *maturare*! E prima o poi produrre qualcosa di buono e di suo, *in proprio*. Magari pure con l’aiuto dei Veri e Pochi Poeti, che secondo lui non dovevano chiudersi nelle loro Case della Poesia. Ma potevano mai quei malcapitati esercitare le stesse funzioni – studiare, immaginare, ideare, oggettivare in opere, divulgare – dei Veri e Pochi Poeti, cioè di quella èlite necessariamente ristretta e iperselezionata che il nostro Sistema – l’unico esistente e reale – assorbe e riconosce e giustamente onora (e paga)? Impossibile. Samizdat proprio non capiva certe cose! Che, ad esempio, era un bene che quei suoi *moltinpoesia* rimanessero ai margini, in armonia con le loro condizioni economicamente precarie o fragilmente garantite; e che esaurissero il meglio delle loro energie per nutrirsi, pagare le loro abitazioni, amoreggiare e fare, sì, anche i “poeti”, ma al massimo la domenica. Né intendeva che era sempre un bene che fossero alla mercé dei Veri e Pochi Poeti (e dei Veri e Pochi editori), che li tirassero invano per la giacca e che invano li scegliessero come santi protettori, guide, guru, maestri. A forza di sgomitare e magari lavorare gratis prima o poi avrebbero imparato la lezione: che erano troppi a scribacchiare, che dovevano stare al loro posto e che solo ogni tanto si poteva pescare in mezzo a loro il beniamino degli Dei da cooptare. Per dimostrare che anche dalla marmaglia può sorgere miracolosamente il Meglio e che il Sistema era sano, realistico e persino generoso. Ma a patto che i restanti rimanessero buoni buoni, cioè pubblico (possibilmente pagante).
Come s’illudeva il povero Samizdat a pensare che da questa gente comune sarebbe uscita prima o poi quella che lui – un’altra sua fissa! – chiamava *poesia esodante*. Ma dove voleva esodare, andare, migrare? Non capiva che non c’era più nessun *fuori*? Che non era più neppure pensabile una “comunità altra” o più “civile” (neppure di soli poeti)? Ancora attaccato alle defunte idee comuniste dello Scriba, riteneva irrinunciabile la *funzione critica universale* della poesia! Che in passato sarebbe stata svolta – diceva – dagli antenati dei *moltinpoesia* (quali poi?); e che ora essi avrebbero dovuto ereditare come compito. Che “cattivo soggetto” s’era inventato! Questa gente comune, questi “bassi cetomedisti”, più o meno poetanti e scribacchianti, mai avrebbero preso il posto dei mitici Soggetti ritenuti in passato “forti” (quali la classe operaia o “i lavoratori” o “il Partito” e – loro complementare – gli “intellettuali”)! Io glielo ripetevo: ma non vedi che i tuoi stessi amici e conoscenti hanno tutti ripiegato su forme di collaborazione con le Istituzioni che volevano “abbattere” o “cambiare”? Io di questi *moltinpoesia* decisi ad esodare (o che avessero maturato il bisogno di farlo, staccandosi dalle Istituzioni) proprio non ne scorgevo. E poi: per andare dove? Qual era la Terra Promessa che Samizdat indicava? Dov’erano i Mosè e compagnia bella? Infine se – pensa un po’! – Samizdat stesso ammetteva che di Terra Promessa non se vedeva all’orizzonte e che la strada da imboccare bisognasse costruirsela da soli (sì, magari al buio, perché non se ne vedeva né la direzione né lo sbocco!) sai che incoraggiamento passava alla sua pigra marmaglia!
* Ho rubato il personaggio di Orbilius a Carlo Oliva (1943-2012), che avevo intervistato sulla sua «Lettera a una studentessa» qui: https://immigratorio.wordpress.com/2011/07/30/su-carlo-olivalettera-a-una-studentessa-savelli-roma-1978/

11 pensieri su “Moltinpoesia e poesia esodante

  1. “Io di questi *moltinpoesia* decisi ad esodare (o che avessero maturato il bisogno di farlo, staccandosi dalle Istituzioni) proprio non ne scorgevo. E poi: per andare dove? Qual era la Terra Promessa che Samizdat indicava? Dov’erano i Mosè e compagnia bella? Infine se – pensa un po’! – Samizdat stesso ammetteva che di Terra Promessa non se vedeva all’orizzonte e che la strada da imboccare bisognasse costruirsela da soli (sì, magari al buio, perché non se ne vedeva né la direzione né lo sbocco!) sai che incoraggiamento passava alla sua pigra marmaglia!”

    Ho letto con gioia questi scritti, le due poesie che ricordo bene; scritti con cuore e ragione, non con uno o l’altra soltanto, ché questa è la cifra che contraddistingue il lavoro poetico e letterario di Ennio Abate, nonché il suo impegno sociale e intellettuale.
    Che gioia sapere che “la strada da imboccare bisognasse costruirsela da soli (sì, magari al buio, perché non se ne vedeva né la direzione né lo sbocco!)”, per non dire di quel “decisi ad esodare (o che avessero maturato il bisogno di farlo, staccandosi dalle Istituzioni)”. Mi chiedo quindi in cosa consista quel “costruirsela da soli”, e perché questo debba essere inteso come una mancanza di incoraggiamento da parte di Samizdat, il condottiero.
    Dal mio punto di vista, l’essere soli, il prenderne atto, l’averne coscienza, e quindi la scelta di voler operare iniziando su questa base, è da considerarsi un buonissimo inizio; perfino salutare perché è una constatazione coraggiosa, ma onesta e veritiera, per chi sia arrivato almeno al punto di considerare con sospetto persino le proprie abitudini quotidiane. Quindi, io, il confine della ricerca lo allargherei fino alle estreme conseguenza, fino alla minuteria di quel ‘sociale’ che tutto ingloba e che basta niente perché diventi unicamente ideologico. Cuore e ragione, appunto, non uno o l’altra soltanto. Questo significa per me “staccarsi dalle istituzioni”: iniziare a prendere le distanze da tutto ciò che è stato costituito e che per forza, per rassegnazione o per passiva comodità, abbiamo finito con l’accettare; giocandoci con questo la nostra libertà e tre quarti della nostra intelligenza, per non dire della nostra umanità.

  2. “Dal mio punto di vista, l’essere soli, il prenderne atto, l’averne coscienza, e quindi la scelta di voler operare iniziando su questa base, è da considerarsi un buonissimo inizio”. Condivido, ma soltanto se “l’essere soli” si riferisce esclusivamente all’atto creativo e personale del poetare… Ho riletto anch’io Ennio Abate. Ma dovrò rileggere ancora e ancora… “Sappiamo ora quale realtà c’era stata preparata”… non mi convince infatti fino in fondo questa idea che ci sia qualcuno che prepara realtà disastrose e altri, fessi e poeti, che se ne accorgono sempre solo dopo… c’è anche chi intuisce già fin da bambino che il mondo dove ci è toccato di vivere è un insieme di inferno e paradiso e che, in fondo, si è sempre e – “giustamente” – soli nel trovarsi una strada…

  3. Mi unisco all’elogio di questa sintesi profondamente abatiana, per come mi è stato dato di conoscerlo dai pochi scambi diretti ed indiretti sul web poetico degli ultimi dieci anni, e mi riprometto di leggere i vostri materiali fino alla forma definitiva. Saluti.

  4. …”Dal mio punto di vista, l’essere soli, il prenderne atto, l’averne coscienza, e quindi la scelta di voler operare iniziando da questa base, è da considerarsi un buonissimo inizio…” parto da questa considerazione che condivido per sviluppare una riflessione sulla solitudine: c’è “l’essere soli” come “atto creativo e personale del poetare” (Paolo Ottaviani), ma ad esso possono confluire sia “l’essere soli” come dimensione esistenziale umana (Leopardi…), sia quel sentirsi soli che si declina in tanti modi diversi quanti siamo noi e deriva dai nostri particolari vissuti, sia “l’essere soli”, come dimensione di una coscienza che prende atto dei conflitti e si colloca a fianco dei deboli della Storia…le solitudini sono interagenti e non…Solitudini dell’io che possono diventare un noi anche nel fare poesia…Questo, secondo me, il significato della poesia esodante

  5. Concordo pienamente con queste belle e sagge considerazioni di Annamaria Locatelli, in particolare con quel “essere soli, come dimensione di una coscienza che prende atto dei conflitti e si colloca a fianco dei deboli della Storia”, … e tuttavia debbo confessare che ancora non mi è ben chiaro cosa davvero sia questa “poesia esodante”… ma continuerò a studiare…

  6. Variazioni sull’essere soli: nell’ascolto, nell’ascolto della propria forma, nell’ascolto del proprio essere soli… certi di saper ascoltare.

  7. Senza dubbio interessanti (e importanti) certe sottolineature nel discorso del personaggio di Orbilius. Solo che questo artificio retorico – che fa sempre intendere “ma le cose stanno veramente così’? – non so quanto giovi alla comprensione del progetto di ‘poesia esodante’ su cui pure si era incominciato a parlare con delle puntualizzazioni precise da parte di Ennio stesso.
    A differenza della pregnanza delle due poesie (però insufficienti, da sole, a gestire una problematica di tale portata), di fronte a questa ‘morte’ o ‘uccisione’ della Poesia, la formula retorica di questo testo (“Narratorio: il punto di vista di Orbilius”) mi ha fatto venire in mente la famosa orazione funebre di Antonio nel “Giulio Cesare” di Shakespeare in cui vengono sì dette delle verità, ma poi, nel sottinteso retorico, negate o messe in dubbio (“Non è che amo Cesare di meno, ma è che amo Roma di più”…. “ma Bruto dice che [Cesare] fu ambizioso; e Bruto è uomo d’onore …” [e quindi bisogna credergli]).
    Vagamente intuisco che c’è bisogno di altro, non lo so bene, o di ‘un altro pensiero’ ma non per uscire dalle incertezze ma per affrontarle.

    R.S.

  8. Riporto qui
    http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=47040&IDCategoria=1&MP=true
    lo stralcio di un’intervista fatta a Francesco Arena, un artista concettuale, dove si parla di memoria, collettiva e individuale. L’artista spiega come l’esperienza e la testimonianza individuale avvalori la storia; non dice che in assenza dell’individualità la storia sarebbe una messa inscena, ma ne sottolinea il valore comprovante.

    Io distinguo la memoria in due tipi: una personale e una collettiva. Quella collettiva legata ai grandi eventi che casualmente un numero di persone si trovano a condividere, memoria che viene tramandata attraverso la storia, poi nello stesso tempo ci sono milioni di memorie personali tante quanti sono gli esseri umani. Tutte queste piccole memorie personali si inseriscono nel racconto collettivo della memoria condivisa. Ed è interessante per me pensare che durante l’accadimento di un evento tragico, ognuno di noi probabilmente ha vissuto qualcosa di bello e di forte che lo lega a questo evento, ma che si differenzia da esso. Per esempio cosa stavi facendo tu l’11 settembre 2001 quando sei venuta a conoscenza della caduta delle Torri Gemelle? È molto probabile che quel giorno, o la sera prima, c’è stato un momento piacevole che ricorderai insieme a quella tragedia. La tua storia personale non ha niente a che vedere con la storia condivisa da tutti, quella collettiva. Proprio questo mi interessa, questa schizofrenia che ognuno di noi vive. Questo sguardo strabico che ci permette di osservare gli eventi della storia e contemporaneamente la nostra storia. Il punto di vista è il fulcro del mio lavoro. Il rapporto che si ha verso un fatto accaduto rispetto al proprio aspetto anche fisico, perché noi percepiamo la realtà attraverso una somma di esperienze, attraverso il nostro background culturale ma anche attraverso ciò che siamo fisicamente ed emotivamente in quel dato momento. La storia del singolo può interessarmi perché è l’esempio della storia di tanti altri. Io cerco la moltitudine. Anche quando ho lavorato sul caso Moro, o su Pinelli, o quello di Carlo Giuliani, non ho provato una particolare affezione nei confronti di questi personaggi, sono dei personaggi in un certo senso irreali, diventati dei simboli anche loro, raccontati come un coacervo di sensazioni e avvenimenti. Ecco perché mi interessava la cella di Moro, la cella è il luogo della trasformazione, il luogo dove Moro smette di essere quello che era per diventare un’altra cosa. Da un personaggio disumano della politica diventa attraverso la cella una vittima umana. E noi abbiamo bisogno di questi simboli per una questione di empatia con un fatto accaduto».

  9. @ Simonitto

    Orbilius in fatto di moltinpoesia (e poesia) esodante è l’antagonista di Samizdat (che si sta preparando a replicare…). È la sua “anima nera” o la sua “ombra”. Mi sono scostato (provvisoriamente?) dal genere discorso saggistico (quello di chi si rivolge ad interlocutori che ritiene di poter persuadere, smuovere, provocare in vista di un *noi*) sviluppato qui (http://www.poesia2punto0.com/2012/09/25/appunti-per-una-poesia-esodante-sulla-ex-piccola-borghesia-o-ceto-medio-in-poesia-di-ennio-abate/) e qui (http://www.poesia2punto0.com/2012/09/08/quattordici-tesi-per-una-poesia-esodante/) avendo ricevuto solo poche risposte dubbiose, generiche e spesso reticenti. E me ne sono tornato a rimuginare da *io/noi* in poesia (belli o brutti che siamo i versi, Ezio!) o in quello che chiamo *narratorio*. Che è semplicemente un modo più appartato e (con meno speranze di ascolto?) di approfondire il medesimo discorso. Se altri/a possono farmi intravvedere «un altro pensiero», quello di cui c’è più bisogno, lo sventolino; ed io correrò – detto senza sarcasmo o stizza – subito ad imparare.

  10. @ Ennio Abate

    A prescindere dal sorriso che ti viene strappato a fronte della battuta di G. Mannacio: *Quanto,poi, al “ luogo della poesia “,mi sembra indovinato il termine “ esodanti “ che richiama alla memoria una collettività sfrattata che si muove verso…. Vi è – nel titolo – un briciolo di ironia , non so quanto volontaria , che non guasta. I poeti sono,infatti,una schiera e tutti si sentono sfrattati da una terra che pretendono appartenga loro*, c’è un po’ da pensarci su, appunto, ironia a parte.
    E qui si pone la domanda: in che modo la terra (quale terra?) appartiene a loro? L’hanno ‘scoperta’, ‘dissodata’, ‘lavorata’, ‘resa fertile’? E in che modo questo ‘lavoro’ è stato fatto? Con quale ‘terra’ si trovano oggi a fare i conti?
    Perchè la ‘terra’ di cui si potrebbe parlare non ha una costituzione “terragna”, per lo più statica, bensì una costituzione “relazionale”, dinamica, soggetta al tempo, alle configurazioni socio-economiche e al predominio di certi cosiddetti valori (non voglio esprimermi qui in termini di ‘classe’) su altri. Valori che sono espressione culturale ‘operativa’ del potere che viene esercitato, come correttamente segnala Mannacio:
    *Per parlare aforisticamente , i mecenati nel glorificare l’arte glorificano anche loro stessi.
    L’arte e la cultura sono state sempre e da tutti accolte con fanfare e vessilli ? I “ valori universali “ non sono creazioni di una oligarchia ? Non intendo dare una risposta definitiva,ma introdurre – nel discorso – un elemento di demistificazione che,forse, aiuta se si ha la forza , che è insieme drammatica e consolatoria , di cambiare la prospettiva con la quale si guarda il mondo ( che cambia a velocità impressionante e con esiti imprevedibili )*.
    Si tratta dunque di ripensare a quanto riportato da Mannacio, citando Fortini: *“ la classe rivoluzionaria si può anche definire come quella che sa rifiutare le continue proposte di essenza che le vengono dalla cultura del capitalismo cioè della cultura(Verifica dei poteri,pag. 186 ).

    Per tutto quanto detto sopra, mi sembra che il punto 14 delle tesi di Ennio per una poesia esodante, sia altamente esplicativo e che su quello si possa (e si debba) discutere:
    *14. La poesia esodante è critica continua, intelligente, tenace, di tutto quanto ci impedisce di accedere a una maggiore comprensione della realtà (e della poesia e delle forme e delle tecniche per dir meglio e con più efficacia quello che abbiamo da dire su noi e sul mondo). Tale critica è in parte accompagnamento (musica di sottofondo) dell’atto poetico e in parte svolta proprio tramite esso. La poesia esodante non si dà perciò un fine astratto da raggiungere (fosse la bellezza, la morale, l’impegno politico o altro) Essa critica di fatto i Valori se si presentano come astrazioni pericolose, ideologie, impedimenti della stessa ricerca poetica. Per poesia esodante non s’intende la propaganda di un valore qualsiasi, né una forma laico-borghese di religione o un’autoterapia o un’autoconsolazione. S’intende, invece, un’attività intuitiva-pensante in sintonia per quanto è possibile (come accade anche per le scienze e altre forme di conoscenza) con le trasformazioni del mondo reale (preciso: interno ed esterno; soggettivo e oggettivo)*. (Abate)

    Quanto ad Orbilius, proprio per la presenza di questo doppio, non ho citato a caso Shakespeare nel suo Giulio Cesare. Antonio ‘usa’ Bruto per istituire un nuovo ordine di dominio e il suo discorso ‘retorico’ rappresenta il tipico modello per ‘incantare’ la plebe. Ovvero, molti possono dire le stesse cose di Orbilius, come molti se-dicenti rivoluzionari che volevano trasformare il mondo invece hanno solo trasformato le poltrone su cui appoggiare il loro posteriore! Ragion per cui dobbiamo esercitare un doppio senso critico che sappia tenere a bada la parte ‘lacrimosa’ (traslando: *gli inutili piagnistei* di cui parla Mannacio) senza però annullarla.

    p.s. Le citazioni di Mannacio sono tratte da http://www.poesia2punto0.com/2012/09/25/appunti-per-una-poesia-esodante-sulla-ex-piccola-borghesia-o-ceto-medio-in-poesia-di-ennio-abate/

    R.S.

  11. Orbilio lo conosco, è l’anima nera e l’ombra che segue me e altri.
    Interessante l’intervista proposta da Mayoor, l’artista segnala la sua collaborazione con l’artigiano e il tempo dell’esecuzione “parto da alcuni dati certi per arrivare alla fine ad altri dati certi, legati alla forma, che sono il come è fatto il lavoro”.
    C’è un richiamo per un lavoro esodante, per cui occorre tempo e co-laborazione: “E in questo passaggio c’è un importante livello di astrazione, il mio modo di vedere le cose, che crea distorsione”.

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