Silenzio bianco, silenzio nero

Introbio

da “Il ring degli angeli”, Robin&Sons 2015

di Stefano Paolo Giussani

Le montagne vigilavano silenziose sulla conca non ancora abbastanza fredda per conservare la neve. Su in alto, invece, ne era caduta talmente tanta che, quando il sole scaldava, dopo un po’ vedevi un pezzo di montagna scrollarsela di dosso alzando una nube di polvere. Allora sentivi il profumo del fresco fino giù alle case.
Introbio era adagiata sul torrente, appena dopo la piega che la Valsassina usa per abbracciare il Grignone e correre a buttarsi verso il lago. Nelle valli più nascoste l’inverno cominciava presto e durava tanto. Come nella conca di Biandino. Non vedevi la fine del solco tra le montagne. Dovevi andarci apposta, camminare a lungo prima su un traverso, poi oltrepassare una gola e solo dopo arrivavi in cima.
Se succedeva qualcosa oltre quella forra, lo scoprivi solo quando le voci che potevano raccontarlo erano scese a valle.

E qualcosa era successo quel dicembre. Ma non c’era nessuno che era potuto scendere a raccontarlo. Le miniere erano quasi tutte vuote perché, i giorni di buon tempo avevano incoraggiato tutti i cavatori ad andar giù a far provviste.
Un sordo boato aveva spazzato via una parete e cancellato i segni delle gallerie ancora visibili qualche giorno prima.
Erano rimasti in due. Sepolti nel nulla. Avvolti in un’assenza totale di rumore e di luce. Quando succedeva, ed era già successo, ti rendevi conto che non erano silenzio e buio, ma la tua mente che non aveva più orecchie e occhi su cui contare.
Loro erano lì da un’ora, un giorno o una settimana. Avevano perso la cognizione del tempo. Perfino le parole rimanevano sospese. Ferme dove erano appena state pronunciate.
«Hai sentito?»
«Cosa?»
«Un rumore… Da fuori… Forse ci stanno cercando.»
«Forse.»
«Sanno che siamo senza cibo e luci… Non ci lasceranno morire.»
«Certo che no», aveva risposto mentre ricordava che, solo due anni prima, la valanga caduta nella valle vicina si era portata giù anche un pezzo di montagna mischiando neve, carne e roccia. E ogni traccia dell’ingresso della miniera. Quando avevano iniziato a scavare, si trovarono per giorni di fronte a un muro di ghiaccio e roccia. Fu necessario un mese per raggiungere l’imbocco della galleria. Li trovarono che sembravano appena addormentati.

Quello sotto terra era un lavoro duro, ma almeno era un lavoro. Non diventavi ricco, ma ti pagava da vivere quando era inverno. E comunque non c’era niente altro da fare in paese. Se poi trovavi la vena giusta, riuscivi anche a mettere via qualche soldo.
Nessuno ricordava da quanto si lavorasse lassù. Chi diceva che si era sempre scavato, chi raccontava che già nell’antichità arrivavano da lontano per il minerale, chi sosteneva che finché ci sarebbero state le montagne avrebbero avuto di che campare. E che erano una benedizione del Signore. Ma se ci lavoravi, sapevi che era un anticipo dell’inferno. Tutti ti riconoscevano per le mani callose, che dopo qualche mese non si spaccavano più; i polmoni, che quando tossivi sul fazzoletto ti lasciavano l’impronta nera; la schiena, che curvavi quasi fino a spezzarla per caricarti il ferro e dopo qualche anno rimaneva piegata anche quando camminavi. La vampata davanti al forno dove rovesciavi il minerale la sentivi sulla pelle della faccia come se ti avessero buttato addosso il diavolo in persona. E non potevi togliertelo. Poi imparavi ad andare con i muli e imparavi che, se i muli decidono di fermarsi, non c’è bastone, calcio o bestemmia che possa farli ripartire.
Nel pieno dell’inverno lavoravi senza scendere, se non quando le riserve iniziavano a scarseggiare. Loro due erano su assieme ormai da tre settimane. Rimanevano per sorvegliare la miniera e gli attrezzi.
Era all’inizio dell’autunno che dovevi far bene i conti. Sapevi che per i sei mesi successivi ogni sacco portato ti sarebbe costato il triplo della fatica. Perfino i morti li tenevi su, nella neve, fino a primavera. Quell’anno se n’erano accoppati due. Sotto un crollo improvviso. Chissà se ora erano ancora sepolti là fuori dove i compagni avevano scavato la buca e detto una preghiera. Le valanghe non potevano ucciderli una seconda volta. Così tutti iniziarono a credere che fossero diventati sentinelle. Santi protettori che vegliavano le notti battute dal vento ghiacciato, che se ti prendeva ti segava la faccia mentre eri ancora vivo. Ma quando arriva la tua ora, i santi non ti proteggono a lungo dalla ghigliottina di neve.

«Pensi che ho fatto male a salire?»
«Se rimanevi giù non avresti patito questo buio.»
«Non è poi così buio se ti sono a fianco.»
Era la prima stagione del giovane. Quando aveva saputo che l’amico avrebbe iniziato a lavorare nella montagna aveva chiesto di seguirlo, ma aveva braccia troppo leggere per impugnare pala e piccone, spalle gracili per spingere il carrello e gambe ancora immature per le gerle delle provviste. Quindi era rimasto in paese. A scuola e in stalla. Ancora chissà per quanto. Ma non gli andava bene.
Così un dicembre decise che da quel momento la sua infanzia era finita e si accodò agli uomini che ben prima dell’alba si erano incamminati per la mulattiera. La cascata era ridotta a una pisciata che graffiava solitaria l’aria del bosco. Le lanterne ondeggiavano, punteggiando le sagome in lenta salita verso la gola. Non le avresti dette persone, ma demoni ingobbiti dalle spalle gonfie di sacchi. Le ombre si allungavano fra i tronchi scheletrici, bagnando di luce fioca le foglie morte del sottobosco.
Il compagno si stupì di vederlo arrivare, ma sapeva che stare in paese era inutile.

«Non dovevi venire.»
«Sono qui con te… Mi basta.»
«Moriremo.»
«No… Se succederà sarò morto con chi ho voluto.»
«Sei matto.»
«Si… Di te.»
«Se lo scoprono in paese moriremo due volte.»

Il giovane ricordava l’arrivo al limite del bosco con la carovana. Era una giornata limpida. La gola era la porta per passare dalle rocce intorno al fondovalle ai pascoli delle conche più a monte. Dai toni del secco invernale al regno del freddo con tanti colori, tutti bianchi. Nell’alba dell’alta valle c’era il brillare dei cristalli ghiacciati che ti stavano vicino, il riverbero accecante del pendio assolato, il riflesso tenue della pendenza lontana che mescolava la montagna al cielo, fino al tono della parete in ombra dove il mondo aveva rallentato.
Era ancor più impressionato da come tutto fosse sospeso in un silenzio cadenzato solo dai loro passi soffici nella neve.
Il bianco era davvero un colore senza rumore, pensava camminando nella quiete che sommergeva palizzate e baite. Rimanevano fuori la punta della chiesa nel centro della piana e la cima della montagna che la sovrastava. La stessa forma con due stature diverse. La miniera era a metà strada tra la croce sul tetto e la vetta. Non stava più nella pelle di riabbracciare l’amico e avrebbe voluto correre avanti. Ma ogni passo gli costava una fatica enorme. Non mancava ormai molto, ma la neve fresca inghiottiva gli scarponi e un pezzo di gamba. Da quel momento era certo che non lo avrebbero più mandato indietro.

«Avrai una donna un giorno?»
«Non lo so… Forse.»
«Mi piacerebbe continuare a stare assieme.»
«Ci staremo, assieme, noi due.»
Si girarono come per guardarsi e, anche immersi nel buio, si videro con gli occhi dell’anima. Qualche stagione e poi avrebbero avuto soldi abbastanza per l’America. Se ne sarebbero andati. Sul ponte di una nave, uno a fianco all’altro e l’oceano di fronte.
Nel ventre della montagna le parole continuavano a scivolare sospese a un filo tra le loro bocche. Immobile tra i due capi, nello spazio ovattato senza dimensioni. Anche quello era il silenzio. Un silenzio pesante, avvolgente, nero come i tronchi bruciati. Distante una vita da quello bianco e leggero, rimasto chiuso fuori.
Erano vicini, il giovane accovacciato al fianco del compagno. Appoggiandosi con la guancia sentiva il suo corpo, il pelo che lo rivestiva, la forza sotterranea dei muscoli. Ne respirava il calore e gli piaceva. Qualcosa gli suggeriva anche il battito del cuore, ma forse era solo immaginazione.
Avvertì il braccio di lui alzarsi e passare attorno al suo collo, stringendolo mentre con l’altra mano gli toccava i capelli. Erano folti e scuri. In quel momento sentiva per la prima volta che ogni suo sospiro era per lui, solo per lui.

«Anch’io.»
«Cosa anche tu?»
«Anch’io mi trovo bene quando sto con te» si sentì dire, mentre percepiva il calore delle grosse dita carnose tra le ciocche.
Sapevano entrambi che, se qualcuno li avesse ascoltati, li avrebbe presi per matti o malati. Ma il buio della galleria non aveva orecchie. Il silenzio della miniera era fedele. Un nemico, ma fedele.
Il più anziano gli baciò la testa e, quando fece per ripetere il gesto, si accorse che il ragazzo aveva alzato la faccia e il loro fiato si fondeva in un unico respiro.
Fu lì che le loro labbra si incontrarono. E in silenzio stettero bene fino ad addormentarsi.

2 pensieri su “Silenzio bianco, silenzio nero

  1. Con precisione sono indicati i luoghi ostili e difficili della montagna, il passo che affonda nella neve scarpone e mezza gamba, le variazioni del colore e del silenzio del bianco e della neve (bianco e neve non coincidono, la neve è materiale), solo le due punte del campanile e del monte soprastante emergono dalla neve e precisano il tema del due, della coppia, che chiuderà la fine.
    La montagna contiene una cavità scura e morbida, in cui si può anche morire, come si sa che sono morti insieme altri due, tra fatiche e lavoro. Questo spazio interno ha un forte carattere uterino materno.
    L’opposizione tra la prima parte, tutta all’esterno, uno spazio aperto bianco con tratti a punta di stilo, e lo spazio interno morbido e scuro della fine, disegnano alla fine un quadro parentale alla emozionalità del rapporto, bisognoso e devoto, protettivo e rassicurante, contemporaneamente isolato da tutto il resto e dagli altri.

  2. …fuori, tra le montagne più impervie, nella stagione più difficile, l’inverno, c’è tutto quanto è “reale” , cioè deve affrontare chi vive in quei luoghi, soprattutto se lavora aspramente nelle gellerie di una miniera e da essa trae la possibilità di sopravvivenza…Non parlano molto i montanari minatori, le loro parole si perdono nel silenzio bianco delle nevi, nella convinzione che “…le montagne…erano una benedizione del Signore. Ma se ci lavoravi, sapevi che era un anticipo dell’inferno”…e ci guadagnavano davvero da vivere, ma anche un corpo sempre più provato dalla fatica e dalla malattia, non di rado la morte…ma in questo bel racconto Stefano Paolo Giussani ci introduce in una sfera ancora più profonda di una galleria sotterranea, piuttosto in quella che appartiene al cuore…Nel silenzio nero della grotta interiore, le parole di due amanti non si disperdono nelle convenzioni umane, persino la morte non fa più paura, si fanno di pietra e possono liberamente esprimersi…più reali del reale, come il loro amore

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