Da una scheggia di “realtà”

Ripropongo dal post “Gico il lombrico:verme solo di fatto” questo scambio  tra me e Franco Nova per un approfondimento a più voci di ciò che accade attorno a noi e – mi pare –  ci sfugge. [E. A.]

Ennio Abate
9 ottobre 2015 alle 22:07
Non per provocare… Nel frattempo…

franco nova
9 ottobre 2015 alle 22:34

in che senso provocare? Non so nemmeno chi siano i “selvaggi” di questa scena disgustosa. Comunque, se uno di questi capita nelle mani degli avversari, vedresti che servizietto. Sarebbe in un certo senso vendetta. Tuttavia perché noi vediamo solo uno spaccato (di non so quale conflitto). Se lo vedessimo tutto? Fin dall’inizio? Con le sue varie “tappe” (o “stazioni” di Via Crucis)? Siamo delle belve, “da una parte e dall’altra”, facciamo schifo. Come sarei però io preso in mezzo ad una guerra simile? Quali sentimenti si andrebbero formando in me (magari perfino “deformandomi” profondamente come senso di umanità)? C’è solo da essere molto tristi; e anche umiliati (e offesi).

Ennio Abate
10 ottobre 2015 alle 9:03

@ Nova

Nel senso che anche una scheggia minima di “realtà” come quella che il video mostra *ci o mi provoca*, cioè m’inquieta, mi allarma, m’impaurisce, m’impone di stropicciarmi gli occhi, chiede al mio pensiero di darsi da fare.
Il video mi è stato segnalato da un amico su FB ed è tratto da una fonte araba che non so individuare (titolo e commenti sono in arabo). Perciò è difficile da contestualizzare la scena (quando è avvenuta, dove, ecc.). Ma pare di capire che alcuni delle squadre speciali israeliane (?), vestiti come i giovani palestinesi che si scontrano coi militari e mescolatisi con loro, ne catturino due, sparino sugli altri mettendoli in fuga e poi infieriscano sul giovane catturato e un altro, che mi pare svenuto, ne trascinino verso le camionette.
Dev’essere un episodio quasi *normale* e addirittura *secondario* rispetto a quanto sta ancora avvenendo in questi giorni a Gerusalemme e altrove. Per il resto le domande che ti fai, ce le dobbiamo fare tutti. Bisogna uscire dalla trstezza e dall’umiliazione. Ma come?

6 pensieri su “Da una scheggia di “realtà”

  1. Riporto qui quello che ho scritto nel post Gico il lombrico.

    Si esce dalla tristezza e dall’umiliazione solo continuando il gioco, cioè la ferocia? Sì, perché le buone ragioni stanno da tutte e due le parti.
    L’altra umiliazione, e rabbia, è quella che provo io, di chi non c’è, di chi assiste e non può far smettere, né parteggiando, né predicando, né ipotizzando una catena di pressioni da qui a lì che possano far cessare. Solo assistere e basta. E fare il possibile perché non accada anche qui, dove sono io.
    Il fatto è che qui e lì sono posti diversi, nonostante lo sguardo e l’informazione e le emozioni, e a questa diversità, mi sembra, teniamo tutti.
    C’è una opacità in questo mio discorso, che coincide con la necessità: “là” è così e non può essere diverso. Ed è inutile dire che tutto è collegato, in qualche modo è vero, ma là è là e io sono qui.
    Oppure no? Qualcuno mi mostri che invece c’è un’apertura, che qualcosa posso fare, che è possibile agire per fare cessare la ferocia senza diventare feroci.

  2. Siamo morti moltissime volte e ancora continuiamo a morire. Ecco un NOI reale ma religioso e filosofico allo stesso tempo. E ancora continuiamo a morire, perché se siamo vivi, siamo uniti anche organicamente. Non fosse così, queste immagini ci lascerebbero indifferenti. Non saremmo vivi, e forse sarebbe anche questa la realtà da considerare. Ogni violenza fatta all’uomo è violenza di genere, violenza sulla specie. Siamo morti un po’ tutti nei campi di concentramento nazisti, siamo morti di fame nelle carestie in Africa, morti negli attentati. Siamo morti ammazzati, e questi che vediamo sono pugni e calci che riceviamo tutti. Questa è realtà. Ma vale la pena considerare l’inevitabilità della guerra, quando gli eventi non sono più gestibili, controllabili, quando non si può evitare la sicura sconfitta di tutti, forti o deboli che siano. Arjuna, il protagonista del Mahābhārata (uno dei più importanti testi religiosi della tradizione induista) lo capì a fatica grazie agli insegnamenti di Kṛṣṇa: se la guerra è inevitabile sappi almeno a cosa vai incontro, e impara ad essere uno spettatore cosciente, non coinvolto dalle tue stesse azioni ( se inevitabili). In questo modo tutto finirebbe senza che vi sia un seguito. Ciò che era inevitabile non sarebbe più necessario. Un pacifista dovrebbe sapere che l’essere umano è capace di compiere qualsiasi nefandezza, è nella natura di ciascuno, è nella sua forza e nelle sue possibilità. Ma questo accade perché siamo coinvolti in una spirale animalesca di cui non abbiamo coscienza. L’arte della politica è arte della guerra, non ci si può fermare a questo livello.

  3. Rispondo qui ai commenti di Franco Nova (9 ottobre 2015 alle 21:30 ; 10 ottobre 2015 alle 10:43) e Rita Simonitto (9 ottobre 2015 alle 19:49 ), che mi hanno posto problemi sui quali mi pronuncio subito, anche se in modi forse un po’ contraddittori e combattuti:

    1. Personalmente stento a giudicare i personaggi pubblici. La distanza tra la mia condizione e la loro, la consapevolezza di rapporti talmente diseguali (a svantaggio mio e di altri che vivono più o meno nella mia condizione) sono tali da farmi sentire la vanità o l’ingenuità di cercare il dialogo con loro o di appellarsi ad essi per “fargli cambiare idea” (ricordo tempo fa una lettera a Napolitano di un mio conoscente scrittore). Trovo anche vane le invettive nei loro confronti se non possono essere raccolte da un *noi* veramente organizzato e visibile.

    2. L’«antipatia o simpatia» che si prova verso altri/e vorrà pur dire qualcosa. Ci avverte dell’esistenza di una tensione fra il nostro *io* e altri *io*. A quest’avvertimento se ne aggiunge un altro: quello ideologico. Tizio è cattolico, ateo, del PD, di FI, di “sinistra”, di “destra”, ecc. E anche questo – pur nel liquefarsi delle ideologie – vorrà ancora dire qualcosa. I due avvertimenti possono combaciare (e rafforzare la nostra simpatia o antipatia) o divergere (e crearci problemi). Tuttavia non mi pare mai possibile separare del tutto i due piani o contrapporli e cercare solo in uno l’*autenticità*. Nel rapporto tra individui *ai margini del contesto socio-politico-culturale* il sentimento può prevalere fino a un certo punto sull’ideologia (o la Legge o la Religione, ecc.). Faccio un esempio: quante donne italiane s’innamorarono di ufficiali tedeschi nazisti durante l’occupazione tedesca? E poi Antigone. E Giulietta e Romeo. E la monaca di Monza, ecc. Ma quanto esso può resistere? Prima o poi dovrà fare – drammaticamente o tragicamente – i conti col contesto che mette in primo piano l’ideologia. Per i più i rapporti tra individui o singoli sono *vincolati o schiacciati dal contesto socio-politico-culturale *. (Ancora un solo esempio: si pensi alle dinamiche all’interno di famiglie tedesche sotto Hitler e al rischio che un qualsiasi dissenso dall’ideologia ufficiale comportava). E allora mi chiedo: l’*autenticità* sta soltanto in quei momenti pur effettivi *ai margini del contesto* o resiste e si manifesta (ma in quali forme?) anche quando ci si trova *vincolati o schiacciati dal contesto* ?

    3. Mi pare un problema da non sfuggire quando consideriamo le esperienze inestricabilmente “individuali- politiche” della nostra generazione. Ci siamo, in fondo, dibattuti tra due poli. Oscillando ora verso quello dell’*autenticità* dell’individuo (es. Pasolini) ora verso il primato del *noi* e della *militanza* (in nome del Popolo, Partito, Classe, ecc.). In questa fase di revisione o ripensamento di alcuni concetti (rivoluzione, comunismo, democrazia, potere, ecc.) mi pare che tu, Rita, tendi oggi a dare valore soprattutto alla « funzione ‘universale’ dell’arte» (o della poesia: vedi il riferimento a Shakespeare…). Che permetterebbe « di leggere tra le righe, di riflettere sulla storia, sulla memoria ». Vero. Eppure dovrebbe essere chiaro, credo, che non troveremo mai nell’arte o nella poesia la possibilità di affrontare la questione del *politico*, del *che fare*.

    4. In poesia o in arte c’entriamo solo mettendoci *fuori o ai margini del contesto*. Dopo aver riconosciuto più o meno amaramente che interlocutori reali, compagni di lotta, non ce ne sono più. E che forse noi stessi sentiamo meno l’urgenza della lotta o la possibilità di lottare. Siamo cioè fuori gioco. (Dante in esilio!). E ci siamo convinti che sia possibile soltanto lasciare ad incerti lettori (futuri) una testimonianza del nostro modo di sentire o vedere gli eventi della storia. Sperando che questi, in circostanze diverse dalle nostre, potranno trovare nelle nostre parole spinte ad agire politicamente. Perciò « quella di fare chiarezza il più possibile» può essere «la nostra parte», ma nel senso che non possiamo più averne un’altra. Siamo noi – anziani o vecchi però – a essere spinti a questa riflessione. Perché i giovani hanno altre questioni e le nostre le vivono, quando se le pongono, in altro modo. Per la semplice ragione che non hanno il fardello di sconfitte e delusioni nostre.

    5. In coincidenza con l’inizio del lavoro sulla scaletta “Guerra&guerre” di Giulio Toffoli, che ho appena pubblicato, ho ripreso in mano un vecchio libro di Asor Rosa, «La Guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana» ( Einaudi 2001). E vorrei notare che, al di là delle distanze che ci separano dall’autore, vi ho trovato espresso questo sentimento che mi pare sia diffuso oggi in tutti noi (anziani o vecchi): che, essendosi imposto – lui diceva – l’Impero (gli USA), la nostra sconfitta e «miserabilita’» non possono più essere eliminate ” né per via politica né per via ideologica (le due strade che portavano o alle riforme o alla rivoluzione). Per cui «il pensiero e’ solo» e può allora solo «pensarsi» e – dice ancora – obbligare l’Occidente a «pensarsi». Asor Rosa scriveva esplicitamente: il compito fondamentale in questo momento non è, dunque, «fare politica», ma costringere l’Occidente a «vedersi». Le su affermazioni non mi convincono. Mi chiedo perché solo il pensiero sarebbe stato preservato dalla sconfitta catastrofica. E se, essendoci precluso il *che fare?*, la politica, noi, non sforzando neppure più la mente in tale direzione, come potremmo intravvedere un ipotetico, futuro, possibile *che fare* (politico). Poiché, in effetti, i massacri avvengono soltanto nei nostri televisori ( li “vediamo” da lì) ma non *qui* (come dice Fischer).

    6. Se poi, come, dici tu, Nova, ci troviamo davanti a «una tipica epoca “di mezzo”; mettiamo come quella tra Congresso di Vienna (1814-15) e moti del ’48-’49» e non sappiamo quando torneranno possibili (con altri segni, con altri nomi forse) le « grandi scelte ideologiche che furono possibili nel ‘900»; e, quindi, non ci resta che schierarci solo con il “meno peggio”, non vedo perché mi sarei dovuto schierare « contro la “primavera araba”», pur disapprovando « tutta la stolta “sinistra” (anche detta radicale o estrema o non so quale altro termine usare) che inneggiò a quegli eventi e all’infame linciaggio del “tiranno” Gheddafi». «Tiranno» comunque però.
    «I tempi non si prestano a grandi “trascinamenti” ideologici»? Ma che ce ne facciamo di questa separazione tra sentire e pensare (geopoliticamente) che ci rattrista e logora?

    7. Il video in cui mi sono imbattuto e che mi sono sentito di proporre come *provocazione* a me pare ci ricordi proprio questo: siamo col cuore con quei due giovani strascicati e picchiati dai loro nemici, ma la mente ci spinge a riflettere – rimando alle vecchie discussioni ai tempi del bombardamento di Gaza del 2014 – sulla realtà più complessa, le cause di quello scontro che dura ormai da quasi un secolo irrisolto. E finisce per bloccarci. «Le buone ragioni stanno da tutte e due le parti» (Fischer). Ma se si è tanto accentuata la distanza ( emotiva e intellettuale) tra il *là* e il *qui*, l‘attesa del “qualcuno” che « mostri che invece c’è un’apertura, che qualcosa posso fare, che è possibile agire per fare cessare la ferocia senza diventare feroci» mi pare un altro modo del nostro essere *ai margini del contesto*. Schierati o meno.
    Insomma tra freddo ragionamento geopolitico e istintiva (e problematica) simpatia per le vittime dei “sevaggi” è impossibile trovare una mediazione?
    E nel frattempo….95 morti ad Ankara ad un corteo per la pace in modi non dissimili dalle nostre stragi italiche…

    https://www.facebook.com/fr.euronews/videos/896097390439646/

  4. Ieri ho scritto questa poesia, intorno a quei pensieri che Ennio stende al punto 4, ma -forse con sciocca ingenuità- nell’ultima parte voglio credere che si dovrà saldare qualcosa, tra “il fardello (non solo) di sconfitte e delusioni” nostre e… i giovani (? una categoria anche questa)

    noi nel futuro e nel passato
    e quelli che al presente si afferrano
    come a un salvagente
    salvatutti il presente

    famelica di spiegazioni mi allargo
    con lo sguardo dove non sto
    non so le condizioni il segreto
    del vivere bene del lieto
    godere il sole

    immoto lontano assassino
    e sorgente di vita divino
    suscitatore di forme nell’ombra
    freme il legislatore
    la bestia feroce

    il presente è così veloce
    che non c’è tempo per sognare
    e i ricordi son quelli di tutti
    si allaga la mente in campi di nuovi colori
    in sentimenti primari violenti
    in voci gutturali

    lotta e ritiri siamo in guerra
    contro i nemici a vista
    la resistenza nei boschi
    non scende ancora dai monti
    le correnti dei tempi non si incarnano
    nei fuochi della pianura

  5. …”faccio un esempio: quante donne italiane s’innamorarono di ufficiali tedeschi nazisti durante l’occupazione tedesca?” (Ennio), secondo me quella descritta è una situazione di confine dove hanno potuto succedere cose interessanti, se non si sono consumati tradimenti ai danni del proprio popolo…Anni fa incontrai, come conoscenza casuale, una persona nata da madre francese e padre tedesco, durante l’occupazione nazista; ricordo che senza che nessuno glielo chiedesse ad un certo punto disse : ” Io, come persona, ho ereditato il meglio dei due popoli…” e questo con un certo orgoglio, una conquista che faceva trapelare quanto le era costata in termini di conflitto interiore e di accettazione …I due piani contrapposti del sentimento e dell’ideologia hanno trovato una sintesi superiore nel figlio tanto da generare un nuovo “noi”, in evoluzione positiva… Le differenze culturali (che non sono certo la stessa cosa dell’idealogia, ma rappresentano comunque degli ostacoli) nella vita delle coppie cosidette miste possono diventare un arricchimento per la società e appianare i conflitti, a lungo termine..I vecchi e i giovani chissà poi se riusciranno ad intendersi: i primi con il loro fardello da dopo sconfitta e i giovani da prospettiva di sconfitta?

  6. *Trovo anche vane le invettive nei loro [i personaggi pubblici] confronti se non possono essere raccolte da un *noi* veramente organizzato e visibile.* (Ennio)

    Sono d’accordo parzialmente perchè l’invettiva comunque ci serve a stornare da ‘noi’ quanto di veleno, di sporco ci viene prepotentemente buttato addosso in questo mefitico processo di disumanizzazione.
    Oltretutto quel ‘noi’, prima di diventare *veramente organizzato e visibile*, dovrebbe incominciare ad avere un pensiero, una idea, un programma. E intanto che facciamo? E’ qui che mi sento di chiamare in causa la necessità di un pensare che implichi il confronto non tanto con quello che c’era ed è stato distrutto, ma con qualche cosa che è ‘disfunzionante’ oggi. Con le mancanze dell’oggi (ovviamente non rinunciando alla memoria storica).
    Non ho letto il libro di Asor Rosa e pertanto non so che senso dare alla sua affermazione che *il compito fondamentale in questo momento non è, dunque, «fare politica», ma costringere l’Occidente a «vedersi»*.
    Ma “vedersi” che cosa significa? Le autoanalisi che l’Occidente ha fatto su se stesso sono numerose, i maîtres à penser – che a questo sistema appartengono – si sono sprecati e non hanno portato ad un granchè perché, comprensibilmente, hanno sempre cercato di salvarsi per il rotto della cuffia.
    Qui c’è una osservazione importante di Ennio: *perché i giovani hanno altre questioni e le nostre le vivono, quando se le pongono, in altro modo. Per la semplice ragione che non hanno il fardello di sconfitte e delusioni nostre.* Appunto! E perché dobbiamo riproporgliele? Non corriamo il rischio di diventare reazionari?
    Certo, quello che possiamo dire, sulla base della nostra esperienza, è: “Il mio pensiero è questo. Il tuo qual è?”. Se ci troviamo d’accordo, bene, possiamo fare un pezzo di strada assieme, altrimenti, no.
    Anche perchè non possiamo aspettare che ‘prima la teoria e poi la rivoluzione’ stando con le mani in mano. Però dobbiamo essere consapevoli che stiamo ‘facendo politica alla cieca, muovendoci per tentativi’, costruendo nuove mappe.
    Nemmeno mi va l’idea di schierarmi con il ‘meno peggio’, così come principio preso, ex ante, ma valuterò volta per volta. Imparando volta per volta.
    E tantomeno mi va di immaginarmi, aspettandoli, grandi “trascinamenti ideologici”.
    Devono prima crearsi delle specifiche condizioni.
    Ma allora, chiede Ennio, *che ce ne facciamo di questa separazione tra sentire e pensare (geopoliticamente) che ci rattrista e logora?* e anche * Insomma tra freddo ragionamento geopolitico e istintiva (e problematica) simpatia per le vittime dei “selvaggi” è impossibile trovare una mediazione?*.
    Perché si deve sempre ‘agire’? Non si ha il coraggio di stare un po’ con il proprio dolore, la propria impotenza?
    Mi richiama tanto lo slogan della ‘politica del “fare”’!
    Slogan che gioca sul sicuro anche perché l’attesa è una situazione che non ci piace molto.

    Infine, a proposito della considerazione di Ennio *In poesia o in arte c’entriamo solo mettendoci *fuori o ai margini del contesto*, mi è venuta in mente questa poesia del giugno 2011 (che a suo tempo avevo inviato a Moltinpoesia). Sembrerebbe di attualità, eppure oggi non mi sento del tutto in sintonia con quei versi. Il dramma è che non saprei in che altro modo esprimermi (ed esprimere ciò di cui sono testimone), mi mancano le parole per dirlo. Da un lato sento che dovrei forzarmi per trovarle e dall’altro penso che fare delle forzature sarebbe più una forma di ”costruzione” che una forma di “autenticità”; un ‘compito’ da assolvere ma niente di nuovo da dire, nulla che si possa leggere tra le righe!
    Ecco, appunto, una semplice invettiva!

    Impresentabile presente

    Corrose le mie vene
    strade di febbre i passi
    le stoppie ai margini di polvere
    o marcite di piogge
    piegati gli equiseti orgogliosi
    e il sole che comunque splende
    e il mio urlo si fa roco
    e in-audito perché altri muoiono
    in battaglia
    e cadono le bombe
    e il martirio di un nemico sempre alle porte.

    Quale elegia può sostenere il ritmo di un cuore spezzato?
    Racconteremo delle perse lucciole di maggio
    con la stessa attitudine con cui si crea
    la ‘stabilizzata’ rosa, così perfetta
    che non invecchia mai, ma non profuma?

    E quando mi si dice “Come puoi piangere tu
    che qui e non là stai e che non sai
    che cos’è morire”, invece io so.
    So che ci sarà un’epica a tenere
    con canzoni di battaglia il posto delle lacrime.

    Perché io so, vigliaccose canaglie, che avete ucciso
    ogni memoria e senza indugi sui vuoti
    avete steso le trappole del politically correct.
    E perché so di queste subdole morti
    che non ne faccio un’abitudine.
    Di potere. O un gioco. O un rischio.

    R.S.

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