Il Novecento passato a contrappelo (2, 3, 4)

1914 18

Qui di seguito le tre  schede già comparse sul gruppo POLISCRITTURE FB.  Le successive saranno pubblicate  sul sito e su FB  contemporaneamente. [E. A.]

di Ennio Abate

GRANDE GUERRA: Essere soldati nella Prima guerra mondiale (1914-1918)

Nel suo «Il secolo breve», lo storico Eric Hobsbawm presenta così i campi di battaglia dove i soldati al fronte venivano a trovarsi:

«Milioni di uomini si fronteggiavano dalle opposte trincee, protette da sacchi di sabbia, dove vivevano come animali in mezzo ai topi e ai pidocchi. Di tanto in tanto i loro generali cercavano di rompere la situazione di stallo. Giorni, perfino settimane, di incessanti bombardamenti di artiglieria – che uno scrittore tedesco chiamò più tardi «tempeste d’acciaio» (Ernst Jünger, 1921) – dovevano “ammorbidire” la resistenza del nemico e costringerlo a ripararsi nei cunicoli sotterranei, finché al momento giusto ondate di uomini scavalcavano il parapetto della trincea, in genere protetto da rotoli e reticolati di filo spinato, entravano nella «terra di nessuno» , un’area piena di fango e di pozzanghere, di crateri provocati dalle granate, di mozziconi di alberi e di cadaveri abbandonati, per avanzare sotto il fuoco delle mitragliatrici che li falcidiavano. E sapevano benissimo di andare al massacro» (Erich Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, pag. 38, Milano 1994).

Più diretta e vissuta è la testimonianza di un soldato francese, che nelle sue memorie descrive la vita terrificante sua e dei suoi commilitoni nelle trincee:

«Un odore sgradevole ci prende alla gola nella nostra nuova trincea. Piove a dirotto e troviamo dei teli da tenda sulle pareti. L’indomani, all’alba, constatiamo che le nostre trincee sono scavate in un carnaio, i teli da tenda nascondevano la vista dei cadaveri. Dopo qualche giorno, con il ritorno del sole, le mosche c’invadono, l’appetito è scomparso. Quando i fagioli e il riso possono arrivarci, li scaraventiamo oltre il parapetto. Solo il vino e la grappa sono i benvenuti. Gli uomini hanno un colorito terreo, gli occhi segnati».

E più oltre:

«Al secondo posto, fra i vari flagelli, venivano i topi e i pidocchi, moltiplicati dalla promiscuità di quegli uomini mai svestiti, raramente calzati e lavati, dall’abbondanza dei resti di paglia nei rifugi, dove l’odore dell’urina era indicibile e i rifiuti sparsi un po’ dappertutto».

(Testimonianza riportata da Marco Revelli in «Oltre il Novecento», pag. 280, Einaudi, Torino 2001)

Si sa che la prima “guerra totale” del Novecento non era più paragonabile a quelle del passato e che colse di sorpresa gli strateghi militari. Non era più guerra di professionisti. Questi, specie se appartenenti a ceti elitari affini, controllavano in qualche misura la carica di violenza che ogni scontro armato comporta. Ora, invece, esso diventava di massa e, quindi, oltremodo brutale e quasi incontrollabile. Di conseguenza la retorica di chi insistette a presentarlo ancora come una virile occasione per mostrarsi coraggiosi guerrieri apparve subito oscena (almeno agli occhi delle persone rimaste ragionevoli). Gli orrori, allora commessi da tutte le parti in conflitto, solo in parte sono stati documentati. E tra essi vi rientrano anche quelli contro i singoli o i gruppi di combattenti, che, per stanchezza o disperazione o presa di coscienza della vanità della guerra, trovarono la forza per ribellarsi, rifiutando o resistendo agli ordini dei superiori. Perché i comandi generali adottarono le “maniere forti” contro i loro stessi soldati. Il comandante in capo dell’esercito italiano, Luigi Cadorna, raccomandò agli ufficiali la fucilazione sul campo dei renitenti e la decimazione come strumento per governare le truppe. Dai dati dei tribunali militari italiani ricaviamo l’entità di quelle rivolte elementari contro la disumanizzazione crescente della guerra di massa. Essi, infatti, istruirono 100.000 processi per renitenza, 60.000 processi a civili e 340.000 a soldati (pari all’8% dell’esercito operante). Ci furono inoltre 750 fucilazioni regolari e diverse centinaia di esecuzioni sommarie, contro le 500 fucilazioni nell’esercito francese, che pure era assai più numeroso di quello italiano. Vanno poi considerati i danni fisici e psichici subiti dai combattenti. Che si fecero sentire a lungo, anche dopo la conclusione del conflitto.

Ma l’esperienza fatta in quella guerra influì anche nel modo di pensare e praticare la politica. Se era diventato così facile uccidere in guerra e non preoccuparsi più per il numero delle vittime, usando migliaia di uomini come “carne da cannone”, perché non adottare contro gli avversari politici quegli stessi metodi spicci e violenti imparati al fronte? Pertanto, alla fine di quel conflitto, se molti degli arruolati con la coscrizione obbligatoria maturarono un convinto rifiuto della guerra, molti altri dall’esperienza vissuta in trincea trassero un sentimento di selvaggia superiorità. Specie nei confronti delle donne e di chi non aveva combattuto al fronte. Adolf Hitler si formò in questo clima. Infine l’esperienza della guerra restò quasi impensabile per i civili che, accecati dalla propaganda patriottica governativa dispiegata con sapiente retorica da giornalisti già allora *embedded*, erano stati tenuti all’oscuro dei fatti che accadevano al fronte. Aumentò così nel dopoguerra l’incomprensione tra i reduci e la gente comune.

In this photo released by the Sigmund Freud Museum in Vienna former Austrian psychoanalyst Sigmund Freud is pictured in his working room in 1938. Austria and the world will be celebrating Sigmund Freud's 150th birthday on Saturday May 6, 2006. (AP Photo/Sigmund Freud Museum)
In this photo released by the Sigmund Freud Museum in Vienna former Austrian psychoanalyst Sigmund Freud is pictured in his working room in 1938. Austria and the world will be celebrating Sigmund Freud’s 150th birthday on Saturday May 6, 2006. (AP Photo/Sigmund Freud Museum)

GRANDE GUERRA: La «delusione» della guerra. Rileggendo le “Considerazioni attuali” di Sigmund Freud

Questo scritto del fondatore della psicoanalisi, pubblicato nel 1915, rimane (purtroppo) sempre attuale e varrebbe la pena di rileggerlo interamente. In esso Freud fa suo il sentimento dei molti che, ricredendosi dei loro entusiasmi militaristi, riconobbero nella Grande guerra una rottura epocale. Era avvenuta una distruzione irreparabile del «prezioso patrimonio comune dell’umanità» e la stessa idea di progresso, che aveva alimentato l’Ottocento positivista, era crollata. L’attualità e l’acutezza dello scritto sta proprio nella spietata diagnosi di tale crollo. Che per Freud non è stato causato da un pericolo proveniente dall’esterno (ad es. dall’ostilità di nazioni «meno progredite»), ma dall’interno della stessa civiltà europea. Come non constatare la «mancanza d’intelligenza rivelata anche dai migliori» rappresentanti delle stesse «grandi nazioni di razza bianca dominatrici del mondo, nelle cui mani è affidata la guida del genere umano»? Proprio gli stati tecnicamente più progrediti e con solide tradizioni (giuridiche, culturali, artistiche e scientifiche) avevano finito per azzuffarsi l’un l’altro invece di affrontare malintesi e contrasti d’interesse senza cedere ad «odio e orrore». Era la prova per Freud che, nelle vicende umane, l’intelligenza non è affatto una forza autonoma e sicura, perché dipende fin troppo dalla «vivacità del sentimento».E che, dunque, «gli argomenti logici sono privi di efficacia contro gli interessi effettivi». E, dunque, che la civiltà è conquista davvero fragile, avendo soltanto represso ma non eliminato la «naturale disposizione pulsionale» dei suoi membri all’aggressività e alla violenza, che con troppa disinvolta arroganza è attribuita ai soli popoli meno “civilizzati”. No, diceva Freud: la barbarie è sempre in agguato nella civile Europa! Ed è a stento occultata dall’ipocrisia degli Stati, i quali interdicono al singolo cittadino l’uso della violenza, ma non per sopprimerla, bensì per monopolizzarla loro «come il sale e i tabacchi». Infatti, quegli stessi stati, che condannano ingiustizie e violenze all’interno delle loro nazioni, le dichiarano poi del tutto lecite in guerra verso gli altri. Ed è in guerra che appunto gli uomini si sbarazzano della moralità faticosamente acquisita e soddisfano le pulsioni che la civiltà riesce a tenere (soltanto) a bada. Tuttavia, per Freud la guerra resta inaccettabile e va contrastata. Contro ogni cinismo realistico e/o nichilista (à la guerre comme à la guerre), egli riteneva comunque indispensabili e irrinunciabili i processi d’incivilimento, pur trattandosi di un «incivilimento ipocrita» e “di superficie”. Freud non pensava a soluzioni più o meno utopiche (la “pace perpetua” di Kant), ma invitava a riconoscere questo «disagio della civiltà» e ad auspicare «un po’ più di franchezza e sincerità reciproca, nei rapporti degli uomini fra loro, e specialmente nei rapporti fra governanti e governati» in vista di una sia pur incerta «ulteriore evoluzione progressiva».
Ecco un brano delle “Considerazioni attuali”:
È come se, per il solo fatto che una moltitudine, o milioni di uomini, si riuniscono, tutte le acquisizioni morali dei singoli si annullassero, lasciando sussistere soltanto gli atteggiamenti psichici più primitivi, più antichi e più rozzi. […] Ci sembra che mai un fatto storico abbia distrutto in talmisura il prezioso patrimonio comune dell’umanità, seminato così profonda confusione nelle più chiare intelligenze, abbassato tanto radicalmente tutto ciò che è elevato. Anche la scienza ha perduto la sua serena imparzialità; i suoi servitori, esacerbati nel profondo, cercano di trar da essa armi per contribuire alla lotta contro il nemico. L’antropologo è indotto a dimostrare che l’avversario è un essere inferiore e degenerato; lo psichiatra a diagnosticare in lui perturbazioni dello spirito e della mente. […] Tra i fattori che più sono responsabili della miseria spirituale in cui è piombato chi è rimasto a casa, e contro cui è tanto difficile lottare, due ve ne sono che vorrei mettere in rilievo e di cui intendo qui occuparmi: la delusione provocata da questa guerra, e il mutamento impostoci da questa, come da ogni altra guerra, nel nostro atteggiamento verso la morte. Dicevamo sì a noi stessi che le guerre non avrebbero potuto scomparire fintanto che i popoli vivono in condizioni di esistenza così diverse, fintanto che il modo di valutare la vita individuale differisce fra loro tanto notevolmente e che gli odi che li separano sono alimentati da così potenti forze motrici psichiche. Eravamo dunque preparati ad attenderci che guerre tra popoli primitivi e popoli civili, tra razze divise da differenze di colore, persino guerre con o tra nazioni europee meno progredite o civilmente in regresso avrebbero tenuta occupata l’umanità ancora per lungo tempo. Ma ci si cullava in un’altra speranza. Dalle grandi nazioni di razza bianca dominatrici del mondo, nelle cui mani è affidata la guida del genere umano, che si sapevano intente a perseguire interessi estendentisi al mondo intero, e a cui erano dovuti i progressi tecnici per il dominio della natura, oltre a tanti altri valori culturali, artistici e scientifici, da questi popoli almeno era legittimo attendersi che giungessero a risolver per altre vie i loro malintesi e i loro contrasti di interessi. All’interno di ciascuna di queste nazioni erano state instaurate, per il singolo, norme morali elevate, e ad esse il singolo individuo doveva uniformare la sua condotta di vita se voleva partecipare ai beni comuni della civiltà. Queste norme, spesso troppo rigorose, esigevano molto da lui: un forte dominio di sé, una vasta rinuncia al soddisfacimento pulsionale.Gli era sopra tutto interdetto di approfittare dei grandi vantaggi che si posson trarre dall’uso, nei confronti dei propri simili, della menzogna e della frode. Lo Stato civile considerava queste norme morali come il proprio stesso fondamento, interveniva inflessibilmente contro chi cercasse di attentarvi, dichiarava spesso illecito anche soltanto il sottoporle a esame critico, in sede teorica. Si poteva perciò pensare che lo Stato intendesse rispettare per parte sua tali norme e che non le avrebbe mai violate, non foss’altro che per non contraddire alle basi stesse della sua esistenza. […] La guerra a cui non volevamo credere è scoppiata, e ci ha portato la delusione. Non soltanto è più sanguinosa e rovinosa di ogni guerra del passato, per i tremendi perfezionamenti portati alle armi di offesa e di difesa, ma è anche perlomeno altrettanto crudele, accanita, spietata, di ogni altra anteriore. Essa infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e costituenti quello che si diceva il diritto delle genti, disconosce le prerogative del ferito e del medico, non distingue fra popolazione combattente e popolazione pacifica, viola il diritto di proprietà. Abbatte quanto trova sulla sua strada con una rabbia cieca e come se dopo non dovesse più esservi un avvenire e una pace fra gli uomini. Spezza tutti i legami di comunità che possono ancora sussistere fra i popoli in lotta e minaccia di lasciare dietro di sé un tale rancore da rendere impossibile per molti anni una loro ricostituzione.

Lacerba_1913

GRANDE GUERRA: Nazionalismo, vitalismo, razzismo

L’ immaginario* bellicoso del primo Novecento ha strette parentele con l’ideologia del nazionalismo, che da ristretti circoli militari e intellettuali si diffonde nelle società europee in contrapposizione all’ideologia internazionalista prevalente nel movimento socialista. All’aborrita «lotta di classe» dei socialisti si contrappone l’idea di una «selezione della specie» e della «necessaria formazione di un’élite borghese contro la marea minacciosa delle masse proletarie» (Tranfaglia). Per il nazionalista i valori del proprio paese (la Patria) sono al di sopra di quelli delle altre nazioni. Il nazionalismo proclamò vigorosamente di essere una forza “nuova”, “moderna”, che signmificava al passo con il crescente sviluppo industriale. In Italia varie riviste («Leonardo», «Marzocco», «Il Regno», «Lacerba ») furono influenzate dal nazionalismo ed esaltarono il ruolo delle élites, l’“energia” giovanile, l’odio antidemocratico. Questa cultura presto si saldò con quella futurista, che dall’esaltazione della “macchina” passò facilmente a quella bellicista e imperialista. La guerra fu presentata come una «forza rinnovatrice» che avrebbe unito popolo e stato, “masse” e “potere”. E Giovanni Papini, fondatore nel 1913 con Ardengo Soffici di «Lacerba», rivista in prima fila nel propagandare l’interventismo, affermava: «Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai… La guerra è spaventosa – e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi». In moltissimi documenti e nei libri di memorie dell’epoca si parla apertamente anche di guerra “razziale”, necessaria ad affermare la superiorità culturale della Nazione e il suo diritto a soggiogare popoli ritenuti inferiori. ( E ciascuna Nazione aveva da sottomettere i suoi: ad esempio, per i tedeschi inferiori erano gli slavi del sud). Del resto tutte le imprese coloniali in Africa e in Asia fra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento erano avvenute all’insegna di questa ideologia imperialista, un formidabile strumento che rafforzava a un tempo nei ceti dirigenti ma anche tra la gente comune il sentimento di superiorità della propria civiltà e della (complementare) necessità di attuare, anche ricorrendo ad azioni militari, una “missione civilizzatrice” verso i popoli di colore.

* Nota
Parole chiave: L’IMMAGINARIO

Il termine immaginario, tipicamente novecentesco e collegabile alle dimensioni di massa della vita contemporanea, si è andato affermando recentemente anche nel linguaggio comune. (Si parla, infatti, spesso di immaginario artistico, poetico, cinematografico, erotico, architettonico, ecc.). Il concetto di ‘immaginario’ andrebbe distinto dal termine ‘ideologia’, che può essere considerato il suo “antenato” ottocentesco, ma anche dal termine ‘mito’, che dovrebbe richiamare ere antiche o arcaiche. Messo a fuoco mano mano grazie agli studi in campo sociologico, antropologico e psicoanalitico, s’impose anche in campo storico soprattutto con la grande scuola francese delle «Annales» che condusse approfondite ricerche sulla mentalità e l’immaginazione collettiva. L’immaginario indica, dunque, un insieme di esperienze (speranze, paure, desideri), che radicate nella profondità dell’inconscio collettivo di una società o dell’umanità in generale prendono la forma (o l’immagine) spesso potente di *simboli* o, secondo alcuni, di veri *archetipi* dai significati complessi e ambivalenti. Proprio per il suo stretto legame con l’inconscio e l’emotività, l’immaginario viene distinto dal concetto di ideologia, che differisce dal primo proprio per una maggiore vicinanza o dipendenza dalla coscienza e dalla razionalità. E, infatti, quando parliamo di *ideologia* (per esempio di «ideologia cattolica», di «ideologia socialista» o di «ideologia nazionalista»), ci riferiamo più che a delle immagini con la loro forte carica emotiva spesso oscura e poco sondabile a un sistema di idee non chiare e distinte (“scientifiche”) ma abbastanza consolidate e diffuse; e, dunque, a una certa *visione del mondo* fondata su determinati *valori*.

6 pensieri su “Il Novecento passato a contrappelo (2, 3, 4)

  1. Mi pare di ricordare che queste schede fanno parte di un prossimo testo di storia per le scuole superiori, se è così, da ex insegnante, le trovo utili per gli studenti: chiare da leggere, informano sui fatti, sulla coscienza che se ne aveva all’epoca, sullo sguardo più ampio degli storici di oggi. Immagino che sarà un lavoro di più autori, per questo mi auguro che sia coinvolta anche una storica per le condizioni e i movimenti femminili del 900.

  2. Sono mie schede (riviste per l’occasione) di un manuale già pubblicato nel 2009, “Di fronte alla storia” diretto da Pietro Cataldi per la Palumbo. Sì, fu dato ampio spazio ai movimenti femminili del ‘900.

  3. …trovo anch’io i testi raccolti sulla prima guerra mondiale molto chiari e coinvolgenti anche con testimonianze dirette di soldati nelle trincee…Ricordo che su un testo scolastico della scuola media si diceva che alle potenze europee, dopo essersi spartito il mondo ( anche a tavolino come in Africa) senza trovare quasi resistenza da parte delle popolazioni locali, non restava che affrontarsi direttamente in una guerra frontale, scatenando i loro nazionalismi…Per questo penso che il discorso di Freud che dimostra tanta delusione nei riguardi delle nazioni europee assurte ad un grado elevato di civiltà e poi cadute in un conflitto spaventoso che aveva visto violare leggi morali “molto rigorose “:” Gli era soprattutto interdetto di approfittare dei grandi vantaggi che si possono trarre dall’uso, nei confronti dei propri simili, della menzogna e della frode…” sia una visione parziale ( del resto penso che quello che succedeva fuori fosse poco documentato)in quanto quelle stesse potenze avevavano già dimostrato il loro volto odioso, ma fuori dal loro continente…Dalla deportazione degli schiavi neri in America, ai genocidi di Indios in America Latina o in Congo…Certo durante la prima guerra mondiale l’Europa ha tolto la maschera

  4. complimenti Ennio per questo lavoro che se fosse inserito in qualche libro di scuola
    forse forse potrebbe aiutare qualche mente in formazione.

  5. Condivido appieno i commenti che hanno sottolineato l’importanza di questo lavoro di Ennio e che meriterebbe una divulgazione maggiore, non solo nelle scuole ma anche in iniziative che coinvolgano menti più desiderose di sapere che ‘obbligate’ a sapere, oppure ‘sedotte’ da un sapere sempre più mercificato.
    Nello stesso tempo non posso non tenere presente il problema sollevato da Freud rispetto all’intelligere dove * l’intelligenza non è affatto una forza autonoma e sicura, perché dipende fin troppo dalla «vivacità del sentimento”* la cui forza sottomette la stessa intelligenza al suo dominio.
    Per questa ragione sia le osservazioni tratte da E. Hobsbawm in “Il secolo breve” (*sapevano benissimo di andare al massacro*), e sia le testimonianze citate in M. Revelli in «Oltre il Novecento” – verso le quali si muove lo stesso (se non aggravato dalla reiterazione) orrore che sperimentiamo di fronte ai massacri di oggi -, rappresentano la drammatica e cruda descrizione di fatti già perpetrati. Ovvero ci troviamo di fronte agli esiti della *distruzione irreparabile del «prezioso patrimonio comune dell’umanità». E la stessa idea di progresso, che aveva alimentato l’Ottocento positivista*, e che era fondata su una visione onnipotente dell’Io, ha subìto una grossa regressione. Siamo continuamente presi nel groviglio di ‘effetti’ che si succedono a ritmi impressionanti mentre le cause – che so bene essere molteplici e complesse da individuare – continuano a rimanere in ombra.
    Per questo mi sembrano utili le osservazioni freudiane la cui *spietata analisi* ci porta a riprendere in considerazione il difficile rapporto tra la problematica evoluzione del soggetto (il quale, per vivere civilmente, deve imparare a mediare con le sue pulsioni, cosa non facile perché innanzitutto deve riconoscerle anziché negarle) e l’ancora più difficile ‘evoluzione’ delle ‘masse’, acefale per loro natura e quindi pronte a prendere la ‘forma-guida’ (idea o leader che sia) più rispondente ai loro bisogni già sollecitati da un immaginario collettivo (inconscio) che varia a seconda delle situazioni storiche. Accade dunque, nelle situazioni di gruppo, che non sempre il leader rappresenti la persona più capace (in termini di ‘maturità’), bensì quella che risponde alle aspettative della mentalità di gruppo di quel momento (ad esempio, un bisogno di a-conflittualità oppure, all’incontrario, di belligeranza) che può, essa mentalità, non essere adeguata al contesto ‘reale’.
    Le ‘masse’ rappresentano – nella loro concretezza esterna – anche quel magma di pulsioni primitive interiori con le quali, nel suo farsi ‘individuo’, l’essere umano ha cercato di venire a patti ma che poi, con la loro forza di massa e con il richiamo a comportamenti psichici arcaici, rischiano di annullare quanto di governabilità il soggetto è riuscito a raggiungere: *È come se, per il solo fatto che una moltitudine, o milioni di uomini, si riuniscono, tutte le acquisizioni morali dei singoli si annullassero, lasciando sussistere soltanto gli atteggiamenti psichici più primitivi, più antichi e più rozzi*.
    Nello stesso tempo, è proprio in quel magma che si trovano anche le scintille di creatività e originalità a cui l’individuo deve attingere per una crescita più armonica e non cadere nel solipsismo. Ma non è una relazione facile!

    R.S.

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