C’era una volta il «Gabellino»

il gabellino

di Walter Lorenzoni

«Il Gabellino» (1999-2006) nacque come semestrale della Fondazione Luciano Bianciardi di Grosseto ed interpretava l’esigenza di un gruppo culturale, già attivo da diversi anni, di continuare il proprio percorso di lavoro dotandosi di uno strumento che fosse, nel contempo, uno spazio di riflessione e un’occasione di interlocuzione con altri soggetti. Fin da subito, fece proprio il duplice profilo, istituzionale e militante, che caratterizzava la Fondazione, impegnata sia nella conservazione che nella produzione culturale. La rivista, per un verso, gravitava intorno alla figura di Bianciardi e alle varie attività dell’istituzione di riferimento e, per un altro, invece, ricercava un’autonoma proposta intellettuale, nella direzione di uno sguardo «civile» sulla realtà, tentando così di allargare i propri orizzonti culturali al di fuori dell’ambito specifico di competenza. La scommessa fu quella di un periodico che sapesse muoversi tra radicamento nel territorio d’origine – cercando di valorizzarne le risorse presenti e di sviluppare competenze – ed apertura verso l’esterno, in direzione della intellettualità diffusa nata dai processi di scolarizzazione del secondo Novecento e dislocata, prevalentemente, negli ambiti dell’insegnamento, dell’editoria, del giornalismo e dell’informazione in genere; quell’intellettualità di massa strutturalmente divisa tra i ruoli subalterni ad essa imposti dall’industria della comunicazione e l’urgenza di liberarsi da questa posizione subordinata. L’obiettivo, neanche troppo sottinteso, era dunque di creare, in una realtà fortemente periferica, un luogo di aggregazione e di dibattito culturale che sapesse interpretare e stare dentro la stagione dei grandi movimenti del tempo, impegnati contro la guerra e nella critica alla globalizzazione neoliberista.

Il titolo, tratto da un topos bianciardiano presente nel romanzo Aprire il fuoco, alludeva al confine, allo spazio di frontiera, marginale e insidioso, ma, allo stesso tempo, anche capace di guardare oltre e quindi ricco di potenzialità; voleva indicare una sorta di paradigma della condizione in cui la Fondazione Luciano Bianciardi si trovava a riflettere e ad operare. L’idea che la marginalità potesse essere trasformata in risorsa, che costituisse un punto di osservazione in qualche modo privilegiato per portare lo sguardo oltre l’imperante omologazione mediatica e rappresentasse un luogo speciale per cogliere le trasformazioni in atto e per proporre un discorso pubblico alternativo a quello dominante, ricorrerà costantemente – forse, a volte, ripensandoci ora, con qualche ingenuità di troppo –  dal primo all’ultimo numero del «Gabellino». Il profilo istituzionale, per la rivista, risultava, al tempo stesso, limitante e fecondo. Da un lato, infatti, dover dar conto di tutte le questioni legate alla vita della Fondazione portava via tempo ed energie preziose. Spesso, poi, risultavano necessari anche dei compromessi (solitamente di tipo qualitativo), non potendo rifiutare ospitalità a chi si muoveva entro le coordinate istituzionali da noi tracciate e che era nostro compito stimolare e far crescere. Dall’altro lato, però, l’essere istituzione era una sorta di garanzia di credibilità, apriva porte che altrimenti sarebbero rimaste chiuse, permetteva una molteplicità di contatti intellettuali che sarebbe stato difficile avere presentandosi come semplice rivista. Alcuni progetti, ad esempio il Fondo autori contemporanei, prima, e il Fondo riviste di cultura, poi, favorirono una serie di «agganci» che ci consentirono di avviare, all’interno del periodico,  dibattiti e riflessioni che, di volta in volta, riuscivano addirittura a coinvolgere interi blocchi di interlocutori (insegnanti, redattori, autori). Tutto questo rese possibile l’apertura del semestrale a collaborazioni sempre più numerose e a tematiche diverse: la scrittura femminile, l’intercultura, l’editoria, la scuola, il «far rivista», l’intellettualità di massa. Il cuore del «Gabellino», ciò che ne incarnava lo spirito militante, divenne sempre di più il «Dossier» (allegato ad ogni numero) che cresceva o diminuiva a seconda delle partecipazioni e delle iniziative via via intraprese.

La redazione era composta, principalmente, da insegnanti, ma, per quanto riguarda i più giovani, anche da qualche lavoratore precario del settore intellettuale. Tutti vivevano e operavano nel nostro territorio. L’organizzazione redazionale prevedeva, innanzi tutto, due riunioni collegiali: la prima in fase di progettazione del numero e la seconda al momento della chiusura. L’apertura alle diverse collaborazioni e l’esistenza di rubriche fisse sul «Dossier» faceva sì, tuttavia, che il fascicolo potesse modificarsi significativamente in corso d’opera. Il lavoro più importante, poi, fatto in maniera continuativa (per email, per telefono, o in occasione della riunione settimanale della Fondazione) era svolto da me (direttore editoriale) e da Velio Abati (direttore del comitato scientifico della Fondazione). Gli altri redattori partecipavano, in prevalenza, per le parti loro assegnate inizialmente o per le rubriche fisse di cui si occupavano. Accanto alle attività specificamente legate al semestrale, la redazione si impegnò poi, nel corso degli anni, nel promuovere forme di coordinamento tra le riviste di cultura che presentavano prospettive intellettuali simili e avevano un comune orizzonte di riferimento. L’intenzione era di provare a realizzare un percorso condiviso di crescita in termini organizzativi e di riflessione intorno alla questione del «far rivista», proprio sfruttando la peculiare posizione istituzionale che ci consentiva di diventare un punto stabile di riferimento in un contesto, quello delle riviste di cultura, segnato da frammentarietà, precarietà organizzativa, incertezze economiche e di altra varia natura. Nacquero così numerose iniziative (incontro alla Fiera del libro di Torino, mostra e convegno sulle riviste di cultura a Grosseto, seminari sulle e tra le riviste, spazio del «Dossier» appositamente dedicato al confronto critico tra redattori e riviste), anche se, però – come forse già allora avremmo dovuto prevedere –, proprio per la peculiarità che ci contraddistingueva, la nostra spinta militante fu spesso trasformata dagli interlocutori in semplice aspettativa istituzionale.

Statisticamente, le riviste di cultura muoiono o per forza d’inerzia, per il graduale esaurirsi delle motivazioni e delle attese iniziali, oppure per conflitti di vario genere (personali, intellettuali, organizzativi) che vengono a crearsi tra i redattori. In ogni caso, a venir meno sono le basi di quella che, al di là delle molteplici differenze, si configura sempre come un’impresa collettiva. Nel caso del «Gabellino», invece, le circostanze furono completamente diverse, perché la sua fine coincise con un momento di maturità e di crescita ed avvenne a causa di un traumatico defenestramento politico che riguardò tutto il gruppo di lavoro della Fondazione. Il paradosso è che la cacciata si verificò in corrispondenza del ritorno del centrosinistra al governo del comune, dopo dieci anni di amministrazione di destra. La Fondazione Luciano Bianciardi era nata nel 1993 su iniziativa della CGIL locale, della famiglia dello scrittore e di altri soggetti economici; ad essa avevano aderito poi, tra gli altri, anche il comune e la provincia di Grosseto, gli enti che garantivano le risorse più significative. Durante il decennio di amministrazione comunale berlusconiana, aveva dovuto sopportare tagli cospicui ed era stata costretta a muoversi con prudenza di fronte ad un assessorato alla cultura che, in certi frangenti, interpretò in maniera molto aggressiva la vulgata allora ricorrente, approdata anche sulla stampa nazionale, della caduta di Grosseto, amministrazione ininterrottamente «rossa» dal 1945 in poi, come testa di ponte per la futura conquista dell’intera Toscana. Nonostante tutto ciò, a nessuno venne mai in mente, però, di occupare e smantellare la Fondazione per farne una propria piazzaforte. La bella idea, purtroppo, ce l’ebbe la nuova giunta di centrosinistra che, sfruttando il malumore di alcuni componenti della famiglia Bianciardi per un’attività, a loro giudizio, troppo debordante rispetto al tranquillo orticello bianciardiano, trovò una sponda per lanciare, sui compiacenti giornali locali, una diffamatoria campagna di stampa che chiedeva, tout court, l’azzeramento del vecchio gruppo di lavoro. Chi, per ruolo istituzionale, avrebbe potuto bloccare questa deriva, vuoi per insipienza vuoi per opportunismo, o tacque o saltò rapidamente sul carro dei vincitori.

A bocce ferme, dopo circa tre mesi dagli eventi, Donatello Santarone, sul «Manifesto» (12 ottobre 2006), tratteggiò con rara lucidità quello che era successo, ipotizzando l’aprirsi, a sinistra, di una nuova stagione che, per certi versi, si sta dispiegando completamente sotto i nostri occhi solo oggi:

La prima, istruttiva, lezione dell’affaire riguarda la natura dei partiti politici trasformati in «puri» comitati elettorali. Il loro comportamento, seppur aggiornato, ricorda l’esperienza ottocentesca dei partiti di notabili. E come in passato mal sopportano non solo conflitti, ma anche voci dissonanti rispetto al loro operato. L’autonomia intellettuale e organizzativa è dunque vista come un’«inefficienza sistemica», mentre l’accentramento dei poteri e dei ruoli è considerato funzionale al controllo delle idee, della «distribuzione razionalizzata» delle risorse e delle conseguenti strategie elettorali. In quest’ottica, non c’è spazio per un lavoro in profondità capace di sedimentare competenze e valorizzare i «giacimenti culturali» e le reti sociali presenti a livello locale. Le fondazioni e le istituzioni culturali devono semmai funzionare come macchine produttrici di eventi che abbiano come «effetto collaterale» variazioni significative sul consenso elettorale. Da questo punto di vista la crisi della Fondazione Luciano Bianciardi può essere interpretata come il fatto che il lascito del berlusconismo sia ancora presente non solo nella società, ma anche nella sinistra politica, incapace di sviluppare un proprio «ordine del discorso» autonomo dalle logiche del mercato, sia quando attestano l’avvento di una generica società dell’informazione o quando annunciano la fine delle «grandi narrazioni».

L’eliminazione del vecchio gruppo non significò la chiusura della Fondazione, quindi, formalmente, il periodico sarebbe dovuto continuare con i nuovi arrivati. Anche se tentativi in questa direzione ci furono, e lo sappiamo per certo, i fatti, ad ogni buon conto, non andarono così, perché «Il Gabellino» era diventato ormai una macchina complessa, che richiedeva un impegno costante, giornaliero quasi, e non lasciava spazio a improvvisazioni o velleitarismi di sorta. Non si riuscì a proseguire neanche con un semplice bollettino istituzionale, rigorosamente vincolato alla figura di Bianciardi, cosa che poteva rappresentare, comunque, una valida alternativa dopo che erano state allontanate le componenti troppo militanti, sempre nel senso culturale del termine, che costituivano la redazione precedente.

E noi, i «destituiti», non avremmo potuto provare a continuare con una nuova testata? Certamente non con il cartaceo, per un problema di costi, ma senz’altro con una rivista online, tenuto conto anche che, come qualcuno fece notare, eliminata la «zavorra istituzionale», si sarebbero potute liberare nuove forze ed energie. Da una prima ricognizione, emerse subito, tuttavia, che si sarebbe trattato di una soluzione del tutto diversa, con un prodotto finale molto distante dall’originale. E questo proprio perché la rivista, nella sua cifra specifica, si reggeva, per l’appunto, su quell’equilibrio particolare tra profilo militante e istituzionale che fin dagli inizi era stato, per «Il Gabellino», non un elemento di ambiguità, ma un ingrediente vitale. Tolto uno dei termini della coppia, quella rivista, su cui tanto avevamo scommesso ed investito, non esisteva più. E così si preferì lasciar perdere, facendo poi ognuno scelte individuali differenti.

A distanza ormai di dieci anni, credo che quell’esperienza possa essere ora maggiormente apprezzata, per il tentativo fatto, in un contesto periferico e di oggettiva marginalità, di costruire un luogo e un gruppo di riflessione capace di interloquire in modo autentico con una molteplicità di soggetti intellettuali distribuiti sull’intero territorio nazionale ed anche oltre. Oggi, anche se il tempo trascorso non è poi molto, appare del tutto impensabile, in una realtà come la nostra – e forse non solo come la nostra – un’avventura come quella del «Gabellino». E segni che qualcosa del genere possa avvenire in un immediato futuro qui non si vedono.

Walter Lorenzoni

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