Misantropia

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di Franco Nova

Che fastidio tutte quelle luci, pazienza per il consumo di energia, ma la visita dall’oculista avrebbe voluto risparmiarsela. E che rumore, il tutto per sparare scemenze fatte passare per battute di spirito. Sorrideva comunque, anzi abbandonava la bocca al riso, dondolandosi sulle gambe, quando avvertiva che qualcuno aveva detto qualcosa di particolarmente umoristico; dubitava fortemente che lo fosse, ma tutti intorno venivano colti da convulsioni epilettiche, e la buona educazione esige di essere sempre d’accordo con i più. Si accorse subito di una donnina, piccola e forse bruttina, che sembrava nella sua stessa finzione di intenso divertimento per compiacere quegli ottusi. Il viso era particolarmente sveglio, doveva essere intelligente; bruttina e intelligente, genere troppo pericoloso, meglio evitarla.
Sempre sorridendo, e sventolando ogni tanto la mano nel gesto di chi sta pensando: “questa poi mi fa quasi svenire da quanto è divertente”, riuscì ad eclissarsi dalla sala da pranzo passando in cucina, dove due camerieri stavano litigando attorno all’addobbo di un piatto su cui troneggiava un tacchino dall’aspetto non troppo invitante; probabilmente era invece buonissimo, ma sul poveretto e sul come era stato cotto si riversava il suo cattivo umore. I due camerieri sospesero la zuffa e gli sorrisero con untuosa cortesia; rispose forzatamente e, volendo essere insultante, con un sorriso di “alta condiscendenza” simile ad un padrone feudale con l’ultimo dei suoi servi. Andassero al diavolo anche loro, facevano parte di quella serata di festa che sarebbe forse rimasta memorabile per il cattivo gusto e l’insipienza dei suoi demenziali e schiamazzanti commensali.
Uscì in terrazzo e godé della ventata d’aria fresca che lo accolse benigna. Ringraziò per la prima volta con sincerità, pur se nessun essere animato era l’oggetto di questo suo spontaneo moto d’animo. Si sentì veramente sollevato pensando che il primo dono della serata non era merito di alcuno dei suoi simili; non lo avrebbe sopportato. E poi simili in che, per favore, non scherziamo! Non che si credesse superiore, ma senz’altro affatto diverso, privo di un qualsiasi punto di tangenza con quell’ammasso di carne sudata, avvolta in creme ed emanante zaffate di profumi nauseabondi, scelti con perfetto senso dell’orrido. Era disposto ad ammettere di essere perfino inferiore a quegli ebeti, tutti fatti in serie ad immagine del nulla; l’importante era non assomigliare loro, appartenere ad un altro genere animale.
Finalmente solo e nel buio; beh, si fa per dire, l’illuminazione della casa si spandeva tutto intorno non meno del chiasso di quegli esseri strani e provenienti da chissà quali mondi alieni. Quanto meno non si distinguevano le parole, si udiva solo un rumore confuso che avrebbe potuto ben essere quello di corpi finalmente lontani, da fantasticare ricoperti di squame cheratinose in continuo squassarsi reciproco. Bello pensare ad esseri mostruosi, al cui appetito era sfuggito appena in tempo e che adesso si mangiavano fra loro. Troppo bello per essere vero, ma era sufficiente saperli immersi nella vomitevole poltiglia composta dai loro discorsi e dai loro odori. Sicuramente, vi nuotavano dentro, sempre più invischiati e quindi via via impediti nei loro movimenti, respirando con crescente fatica fino a crepare d’asfissia come gli insetti quando, sadicamente, li hai investiti con lo spruzzo assassino. No, slittava ancora in un pensiero consolatorio ma irrealistico, non ci si curi più di questi esseri; ci si allontani da loro e non si udranno più.

Superò la passerella, ricoperta da pareti di glicini, che collegava il terrazzo al giardino, e si avviò lungo il sentiero ghiaioso che conduceva all’antica quercia. Era una delle parti più buie con alberi da frutto sulla sua destra. Dal viottolo deviò verso il prato rugiadoso per immergersi sempre più nell’oscurità da dove avrebbe meglio goduto del manto trapunto d’ori, che una nottata assai limpida sembrava garantire. Camminava, ma il chiarore delle luci della casa non accennava a diminuire; ancor più deprimente era l’analogo fenomeno per le voci chioccianti degli osceni, che non voleva più udire. La loro querula permanenza lo inseguiva con immutato fragore di risate sgangherate, che lasciavano intendere a quali mostruose spiritosaggini si stessero indefessamente prostituendo. Si guardò indietro mentre continuava a camminare verso il buio; in effetti, la casa con la sua aureola di voci e di luci non si allontanava di un metro, così come la vecchia quercia, visibile nel lucore della notte, non si avvicinava, era sempre lì quale immota meta irraggiungibile, simile ai desideri confusi che nottate simili avevano sollevato in lui, bambino, in tempi infinitamente distanti eppur sfavillanti nella memoria.
Il terreno scorreva sotto i suoi piedi, l’erba umida, stropicciata, emetteva lamenti dolci e avvolgenti. Era molto strano, ma così: punto di partenza e d’arrivo stazionavano immobili, sempre incombenti nella loro fissità severa. Le gambe funzionavano, i piedi percorrevano spazi veloci. Il presente dunque fluiva, dimostrava uno strano stirarsi in dimensioni sempre più ampie sebbene incerte nel loro inseguirsi. Passato e futuro erano opprimenti visioni: ben vivido il passato da cui non ci si poteva allontanare d’un infinitesimo, più incerto nei suoi contorni il futuro privo tuttavia d’un qualche movimento. Lampi improvvisi e ritmici cominciarono ad aprire il buio ai suoi fianchi, senza alcuna simmetria tra loro; così, a casaccio, e nemmeno con cadenze di eguale durata. Ogni lampo illuminava una scena; eppure, dopo una frazione di secondo che s’era spento, non avrebbe saputo descrivere il paesaggio intravisto. Provava solo sensazioni, serenità e insieme tenera nostalgia; erano perdite di se stesso, diminuzioni piccole e grandi che avviano allo zero finale.
Sapeva che erano scene della sua vita, sapeva la loro disposizione in una serie dalle più vicine a quelle immerse nell’instabile terreno dei suoi primi anni, passati quasi costantemente nel giardino in giochi solitari, sempre fonte di vera gioia e sentimenti di completezza. Nessuna scena precisa, semmai rumori. Al primo posto quello del silenzio che avvolge l’intero mondo. Poi il lavoro domestico della madre attorniata dalle “persone di servizio”, e poi ancora tante canzoni e musiche, voci e risate, gemiti di genere commisto. Insomma tutto, salvo immagini precise. Non importava, contava solo il senso d’una vita nel complesso facile ma piena d’imprevisti spesso non imprevedibili, piuttosto feconda e vivace; il resto diventava orpello e materia grezza pesante gravante sull’anima. Solo nella scena finale, ben salda nella sua infanzia, vide un monticciolo di sabbia molto secca, in cui si affannava con una rudimentale paletta a scavare gallerie; compito assurdo in quelle condizioni, tutto crollava miseramente.
Quella scena gli sembrò definitiva; poteva staccare l’attenzione dai lampi, che infatti cessarono subitamente. Si guardò di nuovo avanti e indietro. Tutto come prima: casa con luci e schiamazzo osceno, così come la quercia solenne nella sua pallida luminescenza, non si erano spostate d’un niente, la prima era a portata di ….. piede con completa certezza, la seconda era altrettanto certa a distanza non esattamente calcolabile. Che fare? Non ci si liberava per quella sera dai grevi di turno; e del resto quanti turni aveva già fatto in vita sua? Ritornò sui suoi passi. A dir la verità, scioccamente, si convinse di poter evitare di ricalcare esattamente i luoghi dove prima aveva lasciato l’orma. L’erba era umida, ma le impronte su di essa non ben segnate. Sulla ghiaia era poi pressoché impossibile lasciarle, il sentiero poco visibile alla luce pur intensa, che feriva gli occhi, accentuava il fastidio delle voci dei festanti, e tuttavia non illuminava il terreno. In ogni modo era soltanto un diversivo, per sentirsi quasi tanto fasullo quanto quelli alla cui insopportabile presenza stava tornando.

Riattraversò la passerella e si beò un momento del profumo dei glicini. Rientrò in cucina titubante e svogliato; perfino gli odori, che in fondo erano abbastanza stuzzicanti, lo deprimevano, gli trasmettevano una sensazione di pollaio non ripulito da mesi del prodotto più comune e abbondante di tutto il mondo animale, quello che in ogni caso, ne era conscio, nutre la terra, la rende produttiva. I due camerieri, prima litiganti, erano in tranquilla chiacchierata fitta fitta; il tacchino doveva aver ormai terminato il suo breve iter terreno nello stomaco degli ingordi chiacchieroni nei saloni. Pensò a quel che si dice: chi non ha cervello gode solitamente di un’ottima digestione, mai disturbata dai prodotti tossici di quell’organo ingombrante.
Gli sembrava soltanto un luogo comune, nemmeno la loro digestione doveva essere esente da intoppi; l’unico argomento sul quale normalmente riusciva a dialogare con questi esseri erano le visite mediche e gli onorari, sempre troppo alti, ma pagati con evidente soddisfazione malgrado il lamento facile. Ognuno di loro vantava i migliori cardiologi, epatologi, urologi, dermatologi, ortopedici e fisioterapisti, oncologi (no, questi no, per carità, restavano nascosti). Naturalmente, non mancava mai l’esperienza con qualche omeopata o medico antroposofico o ancor più esoterico. Il medico di base, quello era sempre scadente, serviva solo per le ricette e la noiosa trafila delle visite specialistiche, in genere però evitata spendendo – o quanto spendendo! – ma fissando l’appuntamento in due giorni (bum!) con il miglior specialista della regione, forse del paese.
Tirò un grande respiro per immagazzinare ossigeno prima di immergersi nell’aria fetida dei sudori e delle creme, atteggiò le labbra al sorriso più cretino di cui fosse capace, ed entrò. Una zaffata lo fece indietreggiare; probabilmente era questo il primo effetto della raffica di mitraglia che accoglieva gli usciti dalle trincee per l’assalto nella Grande Guerra. Si fece coraggio e scatenò la seconda ondata entrando nel primo salone. Qualcuno si stava lanciando nelle danze al suono di una musica di cui non capiva la provenienza dato che non si sentiva nulla in quel brusio di mille alveari. Si vedevano corpi e piedi muoversi, ma sembrava che ogni coppia ascoltasse un disco proprio poiché non ve n’era una sola che ballasse il medesimo ritmo di un’altra. Il primo gruppo che incontrò gli chiese dove fosse stato tutto quel tempo; non si rendeva conto di che cosa avesse perso. Rispose più o meno come immaginava avrebbe borbottato un esquimese, evitò ogni sosta per non dover sapere che cosa aveva perso. Gli bastava averla persa, sentiva di essere salito di un gradino verso la salvezza.
Secondo e terzo gruppo si accontentarono di un suo sorriso; erano infervorati in uno squittio privo di modulazioni, del tutto uniforme e ininterrotto, che era probabilmente il miglior mezzo sonoro per comunicare tra inutili. Passò nel salotto e poi nel salone più grande, quello dei giovani (insomma….si fa per dire) dove finestre e grande vetrata di fondo erano spalancate senza che ne risultasse il minimo sollievo olfattivo. Nessuno però lo disturbava, nemmeno si accorgeva di lui, una sensazione di relativo riposo e quiete, tenendo conto di quel caotico e tempestoso andirivieni dei suoni più disparati e sgradevoli nel loro fluire così disarmonico. Il grande tappeto, che copriva quasi l’intero pavimento, era sollevato in pieghe un po’ dappertutto; sembravano onde irrigiditesi nel loro stupore di fronte allo sfarzo grossolano di quella sordida festa. Soprapensiero, così per far qualcosa, cercò di stirarne qualcuna con il piede; mossa insensata, evidentemente, o forse dettata inconsciamente dal desiderio di cancellare le tracce del casuale incrociarsi e scontrarsi di quei derelitti, simili ad animali orbati del capobranco.
Intravide, ancora una volta come eccezione incomprensibile in quell’orda indistinta, una ragazza alta, magra, con un viso lungo irregolare, non bella eppur gradevole per un “campo gravitazionale” di intelligenza e di immediata simpatia che le aleggiava intorno, e si spostava con i suoi movimenti. Non la ritenne pericolosa, ma evitò di avvicinarsi troppo a quel “campo”; tenerla presente per un’altra occasione meno dispersiva. Infine raggiunse un angolo dello stanzone, un po’ troppo illuminato ma munito di un piccolo divano a due piazze che sembrava solo e sperduto quanto lui. Lentamente e cercando, inutilmente però, di farsi notare, si chinò ad odorare i cuscini; sembravano mondi, la netta impressione era che nessuno di quei sederi li avesse violati. Si sedette allora tranquillo, osservò per un po’ i festanti, ormai meno scompostamente agitati perché un po’ intontiti e appesantiti da cibo e chiacchiere inudibili. Per un momento sembrò che volesse sedersi nell’altra piazza la ragazza alta e magra, ma preferì accompagnarsi con uno spilungone dal volto inespressivo di chi è fortunatamente privo di neuroni e la cui cadaverica serenità non è quindi mai disturbata da comunicazioni sinaptiche.

Pian piano si estraniò da quel movimento senza significato, non mai dimenticandolo però, poiché non a caso gli tornò in mente l’unica immagine realmente vista in giardino tra gli squarci luminosi del suo passato. Stava scavando buche e gallerie in un mucchio di sabbia secca, attività inconcludente come quella di Sisifo; costui era però afflitto da una condanna, lui se l’era scelta, almeno apparentemente. Solo bagnando abbondantemente la sabbia, avrebbe potuto raggiungere l’obiettivo. Difficile tuttavia, nella parte della vita dedicata a gettare le fondamenta delle costruzioni future, poter disporre di tanta acqua da inumidire l’intero monticello. Avrebbe dovuto, fin quando era in tempo, sceglierne una parte di congrue dimensioni, bagnandola per scavare e costruire in quella porzione; era stato certo frustrante dover rinunciare a tante occasioni, e tuttavia inevitabile.
Non aveva scelto, questo è tutto. Se ne deve concludere che, seguendo una decisione opposta, avrebbe trovato più salde amicizie e goduto di un più alto senso dell’umanità incontrata? Forse, tutto diventa possibile quando si ripensa una storia, individuale o collettiva, in base ai se, forse, chissà. Considerazioni abbastanza oziose. Non era in grado di risolvere quella sera, né per la verità mai, un simile problema. D’altra parte, perché scambiare quella stupida serata con la sua vita, che aveva speso pure in ben altre direzioni e con diverso significato? Semplicemente, quei festanti erano particolarmente disgustosi; ma lo erano anche perché visti in un’occasione particolarmente disgustosa. Era sufficiente dire basta a feste, odori, sudori, tacchini, camerieri. Restavano la piccola e bruttina (forse, nel ricordo lo era già meno), che non era probabilmente pericolosa come l’aveva avvertita nella sua irritazione crescente; e l’alta, magra, dal viso non bello ma gradevole e che sembrava sprizzare intelligenza, pur se, magari solo per un movimento casuale, non si era seduta vicino a lui e si era accompagnata ad un “cervello piatto”.
Qualcuno già cominciava ad andarsene; la notte portava stanchezza e difficoltà digestive per cibo e bevande ingurgitate. Restava comunque una lezione per il futuro: compiere una selezione, allontanare gli insopportabili, simili a quel mucchio di sabbia secca su cui nulla lasciava un qualsiasi segno, una qualunque presenza. Si alzò, gettò al vento, volutamente nel bel mezzo del fracasso, la buona notte, e si avviò verso il piano superiore dov’era la sua camera da letto. Qualcuno sarebbe rimasto a sopportare quei “bruconi”, e poi avrebbe chiuso le porte; avrebbe preferito fossero sprangate, ma non c’era pericolo che tornassero. Dal piano superiore non si sentiva o quasi il chiasso, del resto in progressivo indebolimento. Era una serata persa. Si sarebbe rifatto presto con più limitata compagnia.
Aveva augurato loro la buona notte, che nemmeno avevano udito. Adesso, prima di coricarsi, augurava a se stesso che quattro quinti di quegli esseri inutili fossero inghiottiti nell’oscurità. Domattina, al sorgere del Sole, il primo raggio di luce li avrebbe fatti rinascere in tutta la loro indigesta presenza. Si sarebbero di nuovo sparsi per le strade, gli uffici, i vari luoghi pubblici e poi, la sera, di nuovo nelle case. Niente paura, lui usciva poco; e a casa sua non sarebbero tornati, poco ma sicuro. Però, quelle due ragazze…..

Gennaio 2011

15 pensieri su “Misantropia

  1. Per affrontare con slancio , come merita ogni volta la novella supernova siderale, in silenzio o a commento, questa volta occorrerebbe un buon prof di lettere antiche e moderne, in modo da comparare querce a grotte e così via, dal primo misantropo di Aristofane a quello più noto di Molière, fino a questo più recente di Effénne. Ma, visto che sono da eterno ritorno a scuola e leggerei volentieri ancora analisi e comparazione di testi, passo all’invito, da cogliere o cestinare, verso i lettori di questa n(u)ova, in tema quanto mai vitale, a certe curve dei discorsi emersi qualche pagina fa.

    Premesso che non sia così determinante, stabilire, come da precedenti tormentoni su altre novelle, se l’autore franco e sincero di se stesso, sia o meno un lupo solitario e pure misantropo, oppure se l’abbia solo messo in scena di una notte d’inverno di un anno da odissea per un’altra alba, sarà possibile concentrarsi sul perché e per come io e i miei simili , tacchini compresi, siamo, almeno in questa dimensione terrena, senza alcuna salvezza, se non al massimo quella di non prendere, almeno se stessi per i fondelli?

    E, d’altra parte, sarà possibile pensare all’arietta, alla quercia o alla rugiada sul campo, come un quid dematerializzato da qualsiasi ideologismo di naturismo e ambientalismo?

    E ,sempre d’altra parte di castello e un’altra parte che si gretola sotto le mani, l’altra metà del cielo si sentirà aggiunta? o, al contrario diminuita? dato l’elenco in cui almeno ben due esemplari entrano nell’arca di salvataggio di questo misantropo?

    E, tutto sommato, la domanda delle domande iniziale e finale, almeno per me, è : chi cazz’è il contrario del misantropo? Quante tipologie? Quante in nome della salvezza o della sicurezza, dell’integrazione e del multinc.cooleight, quante baldorie… quanti”rumori” di filantropi che dando una mano al proprio simile, corrono subito a lavarsene due mandando meglio i simili del secondo, mai del primo, a morire ammazzati. Quanti , in nome dei propri simili in Libia, si sono bevuti le panzane che Gheddafi li affamava, sottosviluppava, annientava? Quanti, ancora adesso, all’alba del 2015, ancora vogliono salvare i siriani, credendo ancora al lupo cattivone di Assad? Quanti applaudono come claque, al loro arrivo in Baviera? Quante e quante Laura filantrope in Boldrini ha ingravidato il filantropo dei filantropi employer Soros multiculturalism development corporation?

  2. …il misantropo di Franco Nova nei suoi pensieri e moti di ripugnanza verso il genere umano in occasione di un “lieto” ritrovo da lui stesso organizzato nella sua casa si fanno assoluti e, a tratti, caricati, raggiungendo sfumature di comicità…tutto quanto provenga da un corpo umano di fisiologico, compreso il pensiero, è oggetto di totale antipatia e disprezzo…il giardino sembrerebbe ridargli sollievo, nei tranquilli ricordi dell’infanzia, ma anche qui non può sostare, rimane equidistante tra il luogo dell’attrazione, l’antica quercia, e il luogo della repulsione, il consesso umano, finchè non ritornerà sui suoi passi, per rivivere lo stesso disgusto e rammaricarsi di alcune occasioni perse…Il misantropo puro allora si allontana, raggiunge il suo letto, ai piani alti e, come già morto in una bara, rimugina amaramente sui fatti della sua vita…A colpirmi in questo personaggio è la sua evidente infelicità per una realtà che non gli piace e, nello stesso tempo, la mancanza di un vero progetto per vedere di modificarla, anche lavorando su se stesso.
    Nel tuo discorso, Ro, mi sembra che prendi le distanze dalla misantropia manifesta, ma ancor più da quella mascherata da Filantropia, giustissimo, tuttavia, tra le tante tue denunce di quello che non è e dovrebbe essere e di quello che è e non dovrebbe essere, non mi riesce di capire il tuo progetto costruttivo, se ne hai uno, fosse anche “un compitino” che ti proponi e proponi…Criticare soltanto è facile…

  3. Più che di misantropia mi pare si tratti di misandria. Certo il protagonista detesta anche le donne accoppiate, ma lo interessano quella dal viso non bello ma gradevole, e che sprizza intelligenza, e alla fine persino la bruttina intelligente (che è una copia della prima: bruttina-non bello) che forse non sarà nemmeno pericolosa.
    Forse il misantropo non è misogino in quanto le donne belle sarebbero quelle già maritate quindi catalogabili nel mondo maschile? Rilevo il dato che le due donne non-belle sono sole (anche se una già s’involerebbe…) come il misantropo.
    Bellezza e intelligenza paiono in opposizione, come intelligenza e socialità, sembra quindi che nel racconto si stringano insieme solitudine-nonbellezza-intelligenza.
    La meta del misantropo è l’infanzia irraggiungibile, la quercia non si avvicina e suoi passi non avanzano all’indietro. Bisogna ricordare che nell’infanzia “ogni scarrafone è bello a mamma sua”, non necessariamente agli altri: si può ipotizzare che sia lì la causa di quella misantropia maschile?
    (Il racconto è scherzosamente esagerato e anche il mio commento lo è.)

  4. Il titolo di questo racconto di Nova mi pare sviante. Il tema della misantropia, pur significativo e ricorrente, mi pare secondario. Il suo solido nucleo, mascherato forse dal titolo, consiste, invece, in un bilancio di vita. Rileggiamo con attenzione questo passo:

    « Stava scavando buche e gallerie in un mucchio di sabbia secca, attività inconcludente come quella di Sisifo; costui era però afflitto da una condanna, lui se l’era scelta, almeno apparentemente. Solo bagnando abbondantemente la sabbia, avrebbe potuto raggiungere l’obiettivo. Difficile tuttavia, nella parte della vita dedicata a gettare le fondamenta delle costruzioni future, poter disporre di tanta acqua da inumidire l’intero monticello. Avrebbe dovuto, fin quando era in tempo, sceglierne una parte di congrue dimensioni, bagnandola per scavare e costruire in quella porzione; era stato certo frustrante dover rinunciare a tante occasioni, e tuttavia inevitabile.
    Non aveva scelto, questo è tutto. Se ne deve concludere che, seguendo una decisione opposta, avrebbe trovato più salde amicizie e goduto di un più alto senso dell’umanità incontrata? Forse, tutto diventa possibile quando si ripensa una storia, individuale o collettiva, in base ai se, forse, chissà. Considerazioni abbastanza oziose. Non era in grado di risolvere quella sera, né per la verità mai, un simile problema. D’altra parte, perché scambiare quella stupida serata con la sua vita, che aveva speso pure in ben altre direzioni e con diverso significato? Semplicemente, quei festanti erano particolarmente disgustosi; ma lo erano anche perché visti in un’occasione particolarmente disgustosa. Era sufficiente dire basta a feste, odori, sudori, tacchini, camerieri».

    E teniamo presente anche la morale suggerita:

    «Restava comunque una lezione per il futuro: compiere una selezione, allontanare gli insopportabili, simili a quel mucchio di sabbia secca su cui nulla lasciava un qualsiasi segno, una qualunque presenza».

    Non c’è un Io (borghese) che si erga contro tutto il genere umano, ma solo contro «gli insopportabili», paragonati a «sabbia secca» intrattabile, non malleabile. Che, in un altro passo, vengono persino quantificati: « Adesso, prima di coricarsi, augurava a se stesso che quattro quinti di quegli esseri inutili fossero inghiottiti nell’oscurità». Al centro, invece della misantropia, sta piuttosto una visione elitaria, abbastanza rigida e che non contempla confronti o dialettiche se non limitati. L’io protagonista, infatti, vuole affacciarsi oltre il quotidiano repellente in cui sostano gli altri. E lo fa staccandosi – in un moto quasi mistico, da eremita – dallo «sfarzo grossolano di quella sordida festa», dove si agitano insensatamente gli altri per proiettarsi verso la natura, che appare però già ridimensionata a giardino.

    Perché gli altri vengono, sì, sadicamente descritti come «appesantiti da cibo e chiacchiere inudibili» o immaginati come «esseri mostruosi, al cui appetito era sfuggito appena in tempo e che adesso si mangiavano fra loro»? Non ci viene svelata la ragione di tale rifiuto da parte dell’Io. Ne ha forse paura? È stato ferito o danneggiato in qualche occasione da loro come gruppo? Possiamo supporre che l’immagine odiosa e insopportabile dei partecipanti alla festa si sia costruita nel tempo e che essi siano temibili o disprezzati perché rimasti in fondo ignoti o conosciuti solo in superficie. E si può intuire che l’Io, pur standoci in mezzo se ne sia tenuto in disparte.
    Quando, infatti, il racconto piega verso la rammemorazione alla Proust, nella quale tempi remoti e tempi presenti finiscono per coincidere, viene svelato qualcosa d’importante della natura di questo Io. Egli, staccandosi dagli altri, si ritrova in un dove (tempo/spazio) nel quale «punto di partenza e d’arrivo stazionavano immobili, sempre incombenti nella loro fissità severa». E, possiamo aggiungere: dove un adulto/bambino si ritrova in una dimensione “strana”, “poetica”, rivelatrice di “altro”:

    «la casa con la sua aureola di voci e di luci non si allontanava di un metro, così come la vecchia quercia, visibile nel lucore della notte, non si avvicinava, era sempre lì quale immota meta irraggiungibile, simile ai desideri confusi che nottate simili avevano sollevato in lui, bambino»

    « Il presente dunque fluiva, dimostrava uno strano stirarsi in dimensioni sempre più ampie sebbene incerte nel loro inseguirsi. Passato e futuro erano opprimenti visioni: ben vivido il passato da cui non ci si poteva allontanare d’un infinitesimo, più incerto nei suoi contorni il futuro privo tuttavia d’un qualche movimento».

    In una sequenza progressiva («Ogni lampo illuminava una scena») l’Io ritrova «scene della sua vita». E in essa al primo posto c’è un «silenzio che avvolge l’intero mondo. Poi il lavoro domestico della madre attorniata dalle “persone di servizio”». Fino all’affiorare del ricordo più significativo, perché l’adulto/bambino vi scorge un dato del suo futuro, che viene convalidato nella sua importanza proprio dall’essersi già presentato nel suo passato, nella sua infanzia:

    «Solo nella scena finale, ben salda nella sua infanzia, vide un monticciolo di sabbia molto secca, in cui si affannava con una rudimentale paletta a scavare gallerie; compito assurdo in quelle condizioni, tutto crollava miseramente».

    Scena decisiva, perché «definitiva», perché gli svela il suo amaro destino (simile a quello di Sisifo). E infatti gli torna in mente anche quando rientra nella festa dove s’aggira annoiato e sprezzante:

    «gli tornò in mente l’unica immagine realmente vista in giardino tra gli squarci luminosi del suo passato. Stava scavando buche e gallerie in un mucchio di sabbia secca, attività inconcludente come quella di Sisifo».

    Lì, dunque, «nell’instabile terreno dei suoi primi anni, passati quasi costantemente nel giardino in giochi solitari, sempre fonte di vera gioia e sentimenti di completezza» si è costruito e fissato l’atteggiamento solitario. E la solitudine gli è talmente congeniale da viverla come «salvezza» (termine del tutto religioso):

    «evitò ogni sosta per non dover sapere che cosa aveva perso. Gli bastava averla persa, sentiva di essere salito di un gradino verso la salvezza».

    Ci si può chiedere a questo punto: ma la solitudine è misantropia? il solitario è in parte già inconsapevolmente misantropo o portato alla misantropia? Se ne può discutere.
    Quel che più spicca, nel racconto, sono due elementi: – l’intensità del conflitto tra solitudine e socialità, tra le piacevoli sensazioni di una vita che permetteva una solitudine protetta (quella dell’infanzia) e le sensazioni o gli stati d’animo che vengono dallo stare in gruppo o in società; – il fatto che i comportamenti sociali non vengono mai indagati con curiosità ma sempre e solo soggettivisticamente respinti e svalutati:

    « Rientrò in cucina titubante e svogliato; perfino gli odori, che in fondo erano abbastanza stuzzicanti, lo deprimevano, gli trasmettevano una sensazione di pollaio non ripulito da mesi del prodotto più comune e abbondante di tutto il mondo animale, quello che in ogni caso, ne era conscio, nutre la terra, la rende produttiva».

    «unico argomento sul quale normalmente riusciva a dialogare con questi esseri erano le visite mediche e gli onorari, sempre troppo alti, ma pagati con evidente soddisfazione malgrado il lamento facile»

    E si vedano anche certi paragoni che rimandano ad mmagini/incubi di morte collettiva:

    «ed entrò. Una zaffata lo fece indietreggiare; probabilmente era questo il primo effetto della raffica di mitraglia che accoglieva gli usciti dalle trincee per l’assalto nella Grande Guerra.»

    O a situazioni d’insensatezza e di alienazione:

    «e scatenò la seconda ondata entrando nel primo salone. Qualcuno si stava lanciando nelle danze al suono di una musica di cui non capiva la provenienza dato che non si sentiva nulla in quel brusio di mille alveari. Si vedevano corpi e piedi muoversi, ma sembrava che ogni coppia ascoltasse un disco proprio poiché non ve n’era una sola che ballasse il medesimo ritmo di un’altra».

    È come se l’Io non concepisse in alcun modo la possibilità di partecipare in modo non diplomatico e non ipocrita a quella festa; o magari la possibilità di contestarla, di entrare in conflitto con le norme che la regolano, di scuotere quei comportamenti e di ritrovarsi alla fine in un *noi* (composto da lui e almeno da una parte degli invitati).
    È come se non riuscisse a liberarsi di sé (delle sue paure? del suo imprinting o della sua vocazione da solitario?). E quella realtà (sociale) potesse essere letta solo soggettivisticamente e solo sadicamente.
    E se avesse una sua sensatezza? O ci fossero delle ragioni in quei comportamenti così odiosi? Se quelle conversazioni apparentemente o realmente sciocche, rispondessero ad altra logica rispetto a quella dell’io razionale?

    Mi vengono in mente scrittori (Sterne, mi pare, ma anche Goldoni) che hanno indagato i riti sociali con maggiore disinvoltura e ironia e mimetismo o sarcasmo benevolo. (Vabbè, appartengono ad altre epoche più ottimistiche forse…).
    Qui, invece, l’io rifiuta di affacciarsi con altro stato d’animo sul “paesaggio umano” nel suo insieme, lo respinge. E al massimo ne “ruba” alcuni dettagli per lui più “sopportabili” che lo confermano nella sua identità.
    In questa sua enciclopedia psicologica e culturale (tutta novecentesca) rientra, con varie sfumature di attrazione/repulsione, il rapporto uomo/donna:

    «Si accorse subito di una donnina, piccola e forse bruttina, che sembrava nella sua stessa finzione di intenso divertimento per compiacere quegli ottusi. Il viso era particolarmente sveglio, doveva essere intelligente; bruttina e intelligente, genere troppo pericoloso, meglio evitarla».

    Quello signore/servi:

    «e gli sorrisero con untuosa cortesia; rispose forzatamente e, volendo essere insultante, con un sorriso di “alta condiscendenza” simile ad un padrone feudale con l’ultimo dei suoi servi».

    Quello individuo/masse:

    «suoi simili; non lo avrebbe sopportato. E poi simili in che, per favore, non scherziamo! Non che si credesse superiore, ma senz’altro affatto diverso, privo di un qualsiasi punto di tangenza con quell’ammasso di carne sudata, avvolta in creme ed emanante zaffate di profumi nauseabondi, scelti con perfetto senso dell’orrido. Era disposto ad ammettere di essere perfino inferiore a quegli ebeti, tutti fatti in serie ad immagine del nulla; l’importante era non assomigliare loro, appartenere ad un altro genere animale»

    Chi l’attira e spicca nella massa è comunque sempre e soltanto la donna:

    «Intravide, ancora una volta come eccezione incomprensibile in quell’orda indistinta, una ragazza alta, magra, con un viso lungo irregolare, non bella eppur gradevole».

    Ed è sintomatica una annotazione al riguardo: «Non la ritenne pericolosa». Il che fa dedurre che gli altri (perché maschi, come ha sottolineato ro?) siano pericolosi? E perché? Non ci viene spiegato.

  5. Mi piace molto la tua analisi , Ennio. Non perchè io possa concordare punto su punto, ma perché complessivamente cogli lo spirito, mi consenta Annamaria, “costruttivo”, di un ‘analisi “altra” rispetto a ciò che potrebbe apparire (fin dal titolo esca )…l’unica cosa su cui non concrodo moltissimo è la tua chiusa finale, la trovo anche un pochino in contrato con quanto da te illustrato. Tu dici “non ci viene spiegato”, ma tutto , dalla puzza dei pensieri ad altro ancora, è estremamente tossico /pericoloso per il protagonista, ovviamente tutto ciò che appartiene allla natura della sabbia secca. Perchè il protagonista è uomo, non donna, e di fronte a un uomo secco o a una donna secca, il suo seme non può fecondare. Lui è fecondo ma è costretto alla sterilità viste le condizioni di baraonda secca attorno sé. Non c’è nulla di più pericoloso per un uomo fertile di essere condannato alla sterilità. Ma non è un suo destino, le sue considerazioni per la forza del raccont in sé sono quasi fuori di lui, per l’entropia del carnevale della storia. E dunque, le antinomie, misantropia o filantropia, non possono aiutare. Sicchè, visto l’amaro in bocca, visto che i rapporti di forza e neppure di violenza , potrebbero ingravidare un carnevale del genere, di nuove maschere, meglio ricordare il dolce umido di due labbra che si sarebbero potuto incontrare senza altra sabbia di torno, impossibile da scavare e inumidire. Altre gallerie. Senza tunnel grotteschi. Senza bisogno di forza per inutili dispersioni di energie e di se-me.

  6. Proseguo nella mia lettura femminista del racconto, femminista in quanto sottolinea il diverso rapporto del protagonista con le donne e gli uomini.
    Acquisita, credo, la “misantropia” come reale misandria, acquisito il nocciolo che la scelta della solitudine si radica nel rapporto del piccolo figlio maschio con la madre, le note che Ennio sparge, secondo me, portano ora a far emergere una questione non da poco: il rapporto tra la cultura materna mediterranea e la cultura capitalistica mercantile-industriale tra maschi.
    Due tratti da sottolineare: 1 che il bambino non si applichi che a gallerie nella sabbia (non proprio progetti tecnologici raffinati: ma si potrà, bagnando la sabbia, costruire gallerie? suvvia…; 2 che nella festa (non in un cda, per esempio!) si accenni a “comprare” eccellenti cure mediche che non migliorano di un pelo la laidezza di quei corpi gonfi di cibi e di odori, che mai più avranno la leggerezza del bimbo.
    Ma che società è quella? Capitalistica? o tardo borbonica?
    Per sintetizzare: Quale società naturale sta dietro al capitalismo? Maschile, egualitaria, individualistica (nel senso dei cloni).
    Quale il passato irraggiungibile del solitario misantropo? La sua eccezionalità la sua unicità per la madre.
    Ma il tabù verso la madre impera: “Il viso era particolarmente sveglio, doveva essere intelligente; bruttina e intelligente, genere troppo pericoloso, meglio evitarla”, ed ecco che il povero figlio-della-madre è uno spostato, non può né essere riassorbito, né entrare nel gruppo degli uguali. Estraneo ormai per ragioni storiche alla antica cultura materna, estraneo anche alla cultura maschile illuministica.

    1. L’uomo eterosessuale può ingravidare la pancia dei pensieri di un altro uomo,ma in assenza di tale possibilità non può salvare le sue labbra …al contrario con la donna sono aperte entrambe le possibilità, quelle stesse che infatti, nello stesso numero, delle due donne, mette in salvo il protagonista del racconto

  7. …le note di Ennio, Ro e Cristiana sul personaggio “misantropo” mi offrono la possibilità di altre riflessioni. Sembra che il personaggio del racconto di Franco Nova arrivi ad un sentire misantropo non per scelta, inoltre che di esso si renda pienamente conto, vista l’autoironia quasi canzonatoria con cui lo presenta. L’infanzia solitaria potrebbe essere stata semplicemente conseguente alla mancanza di fratelli o di amici coetanei tra i parenti o i vicini, quando il bambino si sarà sforzato di adattarsi serenamente alla situazione, vista anche la presenza rassicurante e proptrettrice ( e magari adorante) della madre…Un bambino intelligentissimo, capace di inventarsi mille passatempi, ma pur mancante di una dimensione…e lo scopre quando si ingegna di costruire gallerie in un monticello di sabbia secca e non sa ricorrere all’acqua per inumidirla, nè ridemensionare il suo progetto. Il gioco solitario l’ha abituato poco ad affrontare questioni pratiche e gli aiuti ma anche gli ostacoli che la presenza degli altri pongono sul cammino personale…Da qui, forse, le difficoltà successive del personaggio in età adulta a relazionarsi con gli altri, convicendosi che i suoi “giochi”, studi o esperienze, gli venivano meglio in solitudine: la sua “salvezza” o rifugio. Nondimeno verso le donne nutre una certa fiducia (la figura materna?) non si sente in pericolo (o si sente?) o in competizione con loro, ricerca una vicinanza, ma si lascia sfuggire le occasioni…Alla fine sembra che la misantropia del personaggio sia una corazza per vincere la paura… Se certi strumenti non li acquisisci da piccolo, poi fai fatica.

    1. Sì, Annamaria, per me la madre di questo protagonista é stata il motore della sua fertilità. Potremo chiamarlo amore, ma sviliremo un quid sia più basso sia più alto , di questa parola

  8. Vado un po’ a casaccio perché i temi sarebbero troppi e poi ho letto tutto abbastanza velocemente. In effetti, ho solo sorelle distanti da me come età. Ho passato un’infanzia solitaria e con molte fantasticherie (e incantamenti). Però sapevo inumidire la sabbia, fare costruzioni di creta, ecc. Con acqua e sabbia in un porticato con lastroni di marmo rigati che formavano una rete di canalicoli, ho imparato, bambino, come si costruisce una strategia “liquida” (o del caos) che si riesce solo parzialmente a guidare, dirigendo lo scorrimento dell’acqua all’incirca verso l’obiettivo prefissato, ma con molte diramazioni di lato, cioè molti imprevisti da mettere in conto perché l’acqua è decisamente sfuggente, s’infiltra dappertutto. Poi, all’improvviso sono entrato a far parte di una “banda” con lotta accanita tra bande, scorribande un po’ “banditesche”, ecc. Dalla scuola superiore in poi sono diventato molto socievole e “compagnardo”. E ritengo di avere avuto veramente tanti amici, molti (troppi) dei quali persi (anche semplicemente di vista, ma non solo). Per un lungo periodo della mia vita ho dato fin troppe feste con decine e decine di invitati. Tuttavia nessuna festa laida come quella che ho descritto, tutte esattamente il contrario; e le ricordo con nostalgia. Stimo in effetti di più le donne (come media), ma i 4/5 dei miei amici sono (stati) maschi. Ho vissuto in una famiglia di industriali medio-alto borghesi, quindi di fatto nel capitalismo; e tuttavia il capitalismo di allora e di quei luoghi, campagnolo e denso di “servitù”, poco aveva a che vedere con quello odierno. Forse nel famoso triangolo industriale d’allora – Milano/Torino/Genova – era diverso, ma non so.
    In ogni caso, si tenga presente che io, salvo rare eccezioni, scrivo cose esattamente contrarie a quelle che mi sono accadute; scrivo pensieri e considerazioni del tutto opposte a ciò che effettivamente pensavo e penso. Trattavo con i “domestici” (in genere sulle 3-4 persone) in modo molto amichevole, che mi veniva rimproverato (anche se non duramente) perché non si doveva dare troppa confidenza. Restano certe fantatischerie fiabesche (anche in età relativamente avanzata), resta certo l’ascolto infantile, dal giardino e d’estate, del lavoro nella cucina della villa, con mia madre che dirigeva “l’opre dei servi”. Non sembri adesso troppo presuntuoso, ma non so che farci: quando leggo “Le Ricordanze”, avverto un’atmosfera vagamente familiare. A partire dalla prima adolescenza, però, la mia vita è stata un bel po’ diversa da quella che emerge dai racconti. Non saprei che altro dire.

  9. Che rapporto tra il racconto della vita di Nova con il racconto della vita del misantropo? Questo: “la mia vita è stata un bel po’ diversa da quella che emerge dai racconti. Non saprei che altro dire.”
    Che significa, non saprebbe che altro dire? E i racconti?

  10. i racconti significano appunto proprio il contrario di ciò che normalmente penso e faccio. Certuni diranno che il mio subconscio “rivela” un’altra personalità. Per me resta il fatto che mi diverte dire cose che ritengo pressoché assurde, esagerate, spesso pazzoliche. Il prossimo racconto (“sui piedi”) sarà ancora più “balordo” e “irreale”. Un racconto realistico, magari sofferto e malinconico o nostalgico e dolce, ecc., mi farebbe venire solo i nervi. Tuttavia, non riesco ad essere sgradevole e fuori di testa come vorrei. Purtroppo non sono un ottimo scrittore; quindi non riesco a raggiungere le vette che mi metto in testa di scalare, resto sempre a metà strada.

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