Non si ragiona con i piedi

piedi-pistoletto
di Franco Nova

Si era appena svegliato e si sarebbe dovuto alzare subito, lo sapeva bene. Non ne aveva alcuna voglia, il corpo esigeva d’essere sgranchito, la mente si adagiava piacevolmente in quel semitorpore, desiderava coccolare ancora i sogni ricevuti e poi riappropriarsi gradualmente della realtà. Cos’ha in fondo di bello questa realtà che un povero cervello, appena svegliatosi e uscito da gradevoli fantasie o incubi non banali, dovrebbe subito rientrarvi? Per carità, non se ne parla nemmeno, ancora una buona mezzora di pigro addentrarsi nei meandri del pensiero rappresenta una cura contro ansia e stress.Guardava il soffitto, vi erano giochi d’ombra e luce di cui cercò di capire la causa. Probabilmente, qualcosa si muoveva fuori dalla finestra e interferiva con i raggi di luce, che per la verità avrebbero dovuto essere incidenti dall’alto verso il basso. Comunque, non era interessante scoprire i motivi di fenomeni così poco importanti, mentre pensare a qualche avventura in luoghi lontani era più piacevole, soprattutto creandosi una compagna adatta allo scopo, anzi a più scopi, fra cui parlare, parlare, parlare. Invece era fastidioso, arrecava disturbo e distraeva, uno struscio sul pavimento, mai regolare, con arresti e cambi di provenienza. Si piegò leggermente sul fianco e guardò in direzione del lieve rumore. Fu sorpreso nello scorgere due piedi che, più che camminare, quasi strisciavano per terra.
La stanza era in penombra, tuttavia si sarebbe dovuto vedere il resto del corpo sopra quei piedi; invece niente, sembravano scivolare sulle mattonelle senza preciso orientamento, movendosi da soli privi di un qualsiasi manovratore. Si avvicinarono alle sue pantofole, esitarono ma poi non se le infilarono e continuarono a muoversi tutti nudi sul pavimento freddo. Già, era molto strano, avvertiva una sgradevole sensazione di fresco salirgli verso le ginocchia come se stesse camminando a piedi nudi. Cercò di alzarsi sui gomiti per capire quali gelidi oggetti stesse toccando, ma ricadde sfinito sul letto come avesse compiuto chissà quale sforzo. Era proprio indebolito, non sapeva nemmeno lui perché. Semplicemente aveva poca voglia di alzarsi; lo disturbava però che qualcun altro fosse nella stanza, e soprattutto che non riuscisse a vedere altro che i suoi piedi.
Adesso basta, l’importuno doveva andarsene; non prima di aver spiegato come aveva fatto ad entrare nella camera, che si ricordava di aver chiuso a chiave andando a coricarsi per riposare un paio d’ore. L’aveva fatto perché non voleva essere sorpreso da nessuno durante la pennichella e svegliato di soprassalto. In tutta la sua vita non gli era mai accaduto, ma qualche cretino della sua famiglia, una famiglia di mentecatti, avrebbe potuto cominciare un giorno qualsiasi. Adesso vera-mente basta; con uno sforzo si mise a sedere sul letto con l’intenzione di alzarsi e andare a vedere a chi appartenevano quei piedi. Sentiva però sempre il freddo salirgli verso i polpacci e le ginocchia, cercò quindi le pantofole per infilarsele.
Restò di stucco; non poteva infilare in esse alcunché, i suoi piedi non c’erano. Afferrò d’un subito la situazione che si era creata e s’incazzò. Sul primo momento, avvertì il preciso senso di un tradimento perpetrato ai suoi danni. Appena li avesse ripresi e rimessi…..beh, a questo punto attaccati alle caviglie, gliel’avrebbe fatta pagare assai cara. Perfetti idioti, perché andavano in giro senza prima avvertire il cervello che era l’unico deputato a comandarli e orientarli? Per forza si movevano a casaccio! Fra l’altro, nemmeno potevano vedere dove andassero, prima o poi avrebbero sbattuto e lui, sì, avrebbe sentito il dolore dell’urto. Maledetti imbecilli e indisciplinati!
Lo attraversò infine un pensiero razionale; come avevano fatto a staccarsi da lui senza che avvertisse alcun menomo fastidio, nemmeno un debole prurito per la ferita che doveva essersi aperta? Squinternati, anarcoidi, privi di un qualsiasi senso dell’ordine e delle gerarchie! Ma anche subdoli e malfidi, se n’erano andati quatti quatti approfittando del suo sonno pesante per la stanchezza accumulata la notte precedente, passata a leggere le scartoffie d’ufficio. Vide che il caminetto non era del tutto spento. Se avesse potuto afferrarli, li avrebbe scagliati nelle braci ancora ardenti. Bella idea! E dopo? Ecco che cosa significa aver bisogno perfino delle ultime propaggini, per di più legate da fibre nervose sensibili alla nostra parte più nobile e veramente decisiva. Tanti pensieri sempre più infuriati gli si affollavano caotici nella mente; dov’erano intanto finiti i malandrini?
Spariti? No, quel fruscio è inconfondibile, per di più sono talmente irresponsabili che nemmeno comprendono la mia rabbia, il mio desiderio di punirli, non si nascondono affatto. Però strusciano, non camminano con baldanza, non si alzano con orgoglio e non pestano con decisione sul pavimento. Tutto sommato, quindi, si vergognano dell’insubordinazione, intuiscono la loro irresponsabilità, cercano quasi di farsela perdonare con questo atteggiamento dimesso. Nient’affatto; semplicemente mancano i muscoli dei polpacci, che si sono rifiutati di seguirli. I muscoli loro rimasti non bastano alla bisogna, devono per forza strisciare. Bravi polpacci! Un plauso ed una carezza per il momento, anche perché sentite fresco per colpa di quegli sciagurati. Bisogna attendere che si siano scapricciati; chissà che gusto c’è a girare per questa stanza così disadorna e adesso anche raffreddatasi, visto che non è possibile andare a riattizzare il fuoco.
Eccoli, vanno verso la porta, mica vorranno uscire! Prese il libro sul comodino e glielo scagliò addosso, colpendoli. Avvertì il colpo in basso, non forte, il libro era per fortuna leggero. I piedi proseguirono nella stessa direzione, ma a zig zag poiché non potevano vedere e nemmeno sentire l’odore dei piatti prelibati che la madre stava preparando in cucina e che filtrava nella stanza. Avvertivano però evidentemente il filo d’aria che passava sotto e, animalescamente, per intuito, si avviavano verso la supposta “libertà”. Perfetti incoscienti, incapaci di capire che girovagando nel mondo esterno a casaccio, ciechi com’erano, avrebbero fatto una brutta fine in quattro e quattr’otto. D’altra parte, era anche impossibile trasmettere loro degli ordini o almeno dei consigli, farli ragionare e tornare “sui loro passi”.
Sostarono davanti alla porta alcuni lunghi minuti; poi, impossibile capirne i motivi o darne una qualsiasi logica spiegazione, ritornarono indietro, sempre zigzagando privi del minimo senso di orientamento. Si diressero verso il caminetto, salirono sul bordo, il loro padrone rabbrividì e strinse i denti, preparandosi a sentirli camminare sulle braci non ancora spente. Ma no, avevano appunto la loro sensibilità d’animali, probabilmente avvertirono il calore; non potevano afferrarne la causa, ma bastò per far loro invertire la marcia. Istintivamente, tesero ad allontanarsi sempre più dal caminetto; che gioia, si avvicinavano al letto, erano lì lì per arrivare a tiro, ma cambiarono ancora direzione. Che sfinimento! Quando sarebbe cessata quella tortura? Voleva immaginare la terribile punizione che avrebbe inflitto loro, voleva godersela con spirito eminentemente sadico. Non era possibile; non avrebbero in ogni caso provato alcun dolore, che si sarebbe tutto riversato nel suo cervello. Impuniti maledetti!
Un pensiero subitaneo lo colse. Nel cassetto del comodino aveva un intero pacco di zolfanelli, di quelli che restano accesi anche quando tira vento. I piedi erano in fondo molto vicini, non era necessaria una gran mira. Ne accese uno e lo tirò davanti ai piedi; successo! I dissennati si arrestarono e invertirono la direzione di marcia. Scagliò un altro fiammifero e un altro e ancora un altro. Non tutti i tiri erano perfetti, ma nell’insieme il gioco stava riuscendo; i suoi piedi, mutando l’orientamento non appena sentivano il calore della fiamma innanzi a loro, si avvicinarono al letto, ormai erano a portata di mano. Aveva le membra irrigidite, anche per la tensione di….chissà quanto tempo era passato; non importa, adesso erano lì. Uno sforzo per chinarsi, afferrarne uno con la destra, consegnarlo rapidamente alla sinistra e acchiappare pure l’altro.
Ebbero il coraggio di dibattersi, ma i piedi non hanno l’agilità e la capacità di movimento delle mani, cedettero infine e ristettero inerti. Li guardò feroce, aveva una voglia pazza di sbatterli sul bordo del letto, magari addentarli, metterli a contatto con la lampadina accesa sul comodino che era sicuramente bollente e….poi chissà quali altre sevizie. Non si poteva, era sempre la solita storia: avrebbe pagato lui per la loro insensata ribellione. Li odiava, gli facevano quasi ribrezzo, ma non c’era nulla da fare se non perdonarli e reinfilarli nelle loro caviglie. Ebbe un momento di panico: e se non avessero attecchito, fossero caduti a terra e la sarabanda fosse ricominciata? Non c’era scelta, provare e basta. Tutto andò liscio. Le caviglie non erano ferite, nessun moncherino sanguinante; era come se aspettassero le loro appendici per catturarle definitivamente. Avvertì chiaramente la contrazione dei fedeli muscoli dei polpacci, che strinsero in una morsa i piedi; per un minuto fu come avere i crampi, nulla poteva muoversi.
L’irrigidimento si sciolse infine, pur se avvertiva che i muscoli restavano vigili, pronti ad ogni mossa inconsulta dei ribelli. Si rese conto che in realtà i polpacci non decidevano nulla, ragionavano tanto quanto le loro estremità. Era il suo cervello che controllava la situazione, solo che quegli obbedienti non recalcitravano, non avevano dubbi, eseguivano il loro compito con assoluta decisione e fermezza. Un buon carattere da subordinati! Bene, ormai non c’era più da preoccuparsi, i piedi si andavano rilassando. Diede loro alcuni ordini, anche contraddittorî: li eseguirono, docili e senza sussulti di protesta. Finalmente poteva rilassarsi anche lui. Finalmente riusciva a gustare quell’odorino che filtrava dalla porta; fra un po’ avrebbe mangiato qualche leccornia.
Decise di alzarsi. Ma perché? Che fretta c’era? Era stata un’avventura lunga e snervante. Un buon riposino aggiuntivo se lo meritava; e comunque, meritato o no, se lo sarebbe preso egualmente. Forse avrebbe dovuto riaccendere il fuoco nel caminetto, ma perché sobbarcarsi quel fastidio? Aveva di nuovo i piedi, avrebbe potuto eseguire quel compito in ogni e qualsiasi momento; per adesso meglio riavvolgersi nelle morbide e tepide coperte, e distendersi. Un altro bel pisolino: che goduria, che dolce far niente. Si girò sul fianco, diede per prova un ultimo comando alle dita dei piedi e, rassicurato, scivolò nel cosiddetto sonno dei giusti. L’ultimo pensiero fu: perché ci sono degli scervellati che, con una simile prospettiva di sonno al calduccio, se ne vanno in giro senza ragionare, per semplice istinto bestiale? La mente umana è veramente una gran cosa, sa scegliere il giusto; dormiamo.

Novembre 2010

45 pensieri su “Non si ragiona con i piedi

  1. I piedi questi plebei!

    P.s.
    Apologo di Menenio Agrippa

    « Una volta, le membra dell’uomo, constatando che lo stomaco se ne stava ozioso [ad attendere cibo], ruppero con lui gli accordi e cospirarono tra loro, decidendo che le mani non portassero cibo alla bocca, né che, portatolo, la bocca lo accettasse, né che i denti lo confezionassero a dovere. Ma mentre intendevano domare lo stomaco, a indebolirsi furono anche loro stesse, e il corpo intero giunse a deperimento estremo. Di qui apparve che l’ufficio dello stomaco non è quello di un pigro, ma che, una volta accolti, distribuisce i cibi per tutte le membra. E quindi tornarono in amicizia con lui. Così senato e popolo, come fossero un unico corpo, con la discordia periscono, con la concordia rimangono in salute. »

    Conseguenze dell’apologo

    Grazie alla mediazione di Agrippa Menenio, la situazione fu ricomposta ed i plebei fecero ritorno alle loro occupazioni, scongiurando così la prima grande rottura fra patrizi e plebei.

    (da https://it.wikipedia.org/wiki/Apologo_di_Menenio_Agrippa)

  2. …Un racconto di Franco Nova inquietante ma non troppo perchè si capisce subito che non si sta parlando davvero di un personaggio i cui piedi prendono l’iniziativa di abbandonarlo inerme nel letto…Purtroppo succede nella realtà con il sopraggiungere di malattie, ma allora il personaggio sarebbe angosciato, spaventato…Qui invece, quando l’uomo s’accorge che le sue propaggini strusciano sul pavimento, senza permesso alcuno, da veri insubordinati, per giunta stupidi a suo parere perchè privi di una guida intelligente, si irrita molto, si arrabia anche, pensa alla punizione da infliggere a quei “malandrini”…Quindi un racconto surreale, dove, credo, la mente umana e i piedi stanno ad indicare due classi sociali: quella di coloro che comandano e quella di coloro che devono sempre sottostare agli ordini…Eppure, secondo me, si vuole insinuare un ibrido nei ruoli proprio attraverso l’insolita immaginazione, quando i piedi si staccano dal corpo e, guidati da un istinto animale (ma si può davvero distinguerlo da quello razionale?), prendono ad esplorare, a modo loro, la stanza e forse avrebbero continuato accrescendo la loro “conoscenza” se non fossero stati richiamati con la forza dalla mente dominatrice. Una mente, inoltre, tutta tesa al suo benessere fisicoi(il sonno, il calduccio tra le coperte, il pranzetto della mamma) cioè animale… Il racconto sembra suggerirci che nel corpo umano, come in quello sociale , non esiste una rigida gerarchia di ruoli, ma un compenetrarsi vicendevole di intelligenza e di istinto…

  3. L’uomo aveva chiuso la porta per poter sognare, fantasticare, immaginare viaggi in piacevole compagnia e parlare parlare parlare.
    Ma l’inconscio… pedestre, va cercando libertà. Oppure è fuggito da un incubo non banale, risvegliandolo. (In questo secondo caso l’inconscio avrebbe una reale utilità, appartenendo a una dimensione strana, non penetrabile, giochi di ombra e di luce. “Raggi di luce, che per la verità avrebbero dovuto essere incidenti dall’alto verso il basso. Comunque, non era interessante scoprire i motivi di fenomeni così poco importanti”… )
    L’istanza superiore, la mente della volontà e dell’immaginazione, deve ricorrere al cervello-sistema nervoso per mettere sotto controllo l’anarchia insensata di quel vagare (” Avvertì chiaramente la contrazione dei fedeli muscoli dei polpacci, che strinsero in una morsa i piedi”).
    Viene da ricordare le tre istanze freudiane ma, come spesso, in Nova è ferocemente rappresentato e deriso il Superio, antipatico, misantropo, centrato narcisisticamente su piaceri corporei e fantasie.
    Nova assicura di rappresentare un personaggio che è il contrario della sua persona, quindi questo personaggio ricorrente è la sua vera accusa e critica all’antropologia del cinismo dominante. Devo dire che la trovo una critica efficace e convincente.

  4. “La mente umana è veramente una gran cosa, sa scegliere il giusto; dormiamo.” Questo è un passo cruciale: “il sonno della ragione”. Per Woody Allen, il cervello è il “secondo organo preferito” (battuta ne “Il dormiglione”). Tuttavia, abbastanza spesso non ragiona meglio del “primo preferito”, cioè non ragiona affatto né pensa nulla oltre il suo piacere più immediato ed effimero.

  5. Uh uh! infatti di ragione nessuna traccia. La mente immaginaria, il cervello esecutivo, i piedi (striscianti) del Trieb…
    Ragione di nulla (o del nulla?). Antropologia del cinismo dominante o domina il cinismo? Avevo optato per la prima che ho detto, ma forse sbagliavo.

    1. Si dice vivere coi piedi per terra. Sano detto. Così si deve fare …si dice.
      E’ quando l’istinto li lascia andare e la mente li segue che si hanno grandi sorprese. Ma il sonno dell’abitudine frena ogni essere, ogni magìa, ogni turbamento. Resta il fatto che dobbiamo essere uomini, donne, tutti d’un pezzo…
      un pezzo uguale ad altri pezzi noiosissimi pezzi. Franco Nova sei forte!

  6. “Non si ragiona con i piedi”, titolo emblematico quanto chiarificatore dell’arcano. E difatti facile non è mettere insieme mente e corpo alle volte. Franco Nova, qui, con la sua ironia, ce lo dice molto bene. Una storia a tratti agghiacciante, ma raccontata con molto spirito e con la giusta ironia.
    GDL

  7. I PIEDI QUESTI PLEBEI!
    Per una riflessione analogica e scherzosa tra piedi e mente a partire da questa risposta tratta da un’intervista a Giulietto Chiesa su Licio Gelli

    “Ideologicamente dove va collocato un personaggio come Gelli? Nel campo del mondialismo massonico?

    “Dal punto di vista storico si qualificava come fascista, ma non è essenziale questo per inquadrare la sua storia. Per usare un termine militare era un colonnello, un medio grado di una struttura di potere né di destra né di sinistra. Anche perché ora abbiamo un presidente del Consiglio di sinistra che fa le riforme che auspicava Gelli. D’altra parte quando tu hai un governo non eletto e una maggioranza parlamentare che vuole abolire la Costituzione e fare dell’Italia un Paese governato di fatto da una sola persona, beh questi come li chiamiamo? Non c’è un termine tecnico, è solo il potere che si manifesta come aveva descritto la trilaterale: la democrazia non serve nulla, è una perdita di tempo, un ostacolo alle decisioni del grande potere economico e finanziario mondiale. Quindi bisogna eliminare la democrazia. Ognuno li chiami come vuole. Io li considero i manovratori tecnici del potere mondiale”.”

    (da http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=124899&typeb=0&licio-gelli-un-colonnello-del-potere-mondiale)

  8. RIPASSO DI STORIA (SEZIONE ARCHEOLOGICA: LOTTA DI CLASSE).
    L’aspetto tragico del rapporto mente/piedi (=dirigenti/diretti).

    Andrebbe tenuto presente anche la soluzione purtroppo tragica e non dunque scherzosa e in fin dei conti di “ritorno all’ordine” (come questa del racconto di Nova) della “schizofrenia” mente/piedi.
    Si pensi a come, ai suoi tempi, Rosa Luxemburg concepì il rapporto del partito rivoluzionario (mente) con le masse proletarie (piedi) in contrasto con Lenin.
    Per lei il rapporto doveva essere strettissimo. Nei suoi scritti pensava alla ardua ma possibile saldatura tra dirigenti e diretti: i primi non potevano pretendere di «comandare a freddo» ma dovevano puntare ad un «contatto il più stretto possibile con le disposizioni della massa». Perché per lei l’elemento della «spontaneità» aveva una grande importanza. ( Posizione affine a quella di Annamaria Locatelli, che ha scritto: « quando i piedi si staccano dal corpo e, guidati da un istinto animale (ma si può davvero distinguerlo da quello razionale?), prendono ad esplorare, a modo loro, la stanza e forse avrebbero continuato accrescendo la loro “conoscenza”»).
    Dov’è la tragicità?
    Nel fatto che quest’esigenza del pensiero di Rosa Luxemburg entrò in contrasto con quelle concrete impostesi alla lotta dei lavoratori e delle loro organizzazioni.
    Lenin puntò tutto sull’«iniziativa e la direzione cosciente» di fronte alla «massa informe e caotica» ( oh, quanto simile ai piedi di questo racconto!), fino all’eliminazione dei “piedi” che a Kronstadt si erano ribellati persino a lui («a Kronstadt non vogliono né le guardie bianche né il nostro Stato»). Rosa Luxemburg arrivò a scegliere la fedeltà ai “piedi” di Berlino nel gennaio 1919, pur nel dissenso sull’opportunità politica di quell’insurrezione mal preparata e peggio diretta.

  9. in effetti il “non si ragiona con i piedi” ha un duplice significato. Nel racconto appare che è inutile ragionare con i piedi che sono “spontaneamente” ribelli e non avvertono la voce del loro “padrone” né i profumini che provengono dalla cucina. Sentono solo uno spiffero d’aria che comunque li spinge a tornare indietro in piena confusione e a zig zag. Non ragionare con i piedi significa però anche che non bisogna agire alla carlona buttandosi in avventure pericolose (quindi anche in rivoluzioni impossibili) in modo scervellato. E non si può fare appello al rispetto della volontà delle masse, se queste agiscono in modo del tutto inconsulto e che conduce ad una disfatta nemmeno più sanabile se non con una “rivoluzione” del tutto opposta.

  10. vedi appunto “rivoluzione” spartachista del gennaio 1919, repressione nel sangue con piena complicità dei socialdemocratici (di Noske), poi Repubblica di Weimar e infine….. beh com’è ben noto: c.v.d.

  11. …mi sembra che il dilemma di cui si parla nel dibattito del post precedente , cioè di quel punto di equilibrio difficile da realizzare nell’incontro tra le istanze dell’io e quelle del noi si riproponga anche qui…Quella del racconto di Franco Nova potrebbe essere una delle tante situazioni in cui quell’equilibrio, che comunque sappiamo esserre instabile, non sia stato affatto raggiunto. La mente ragionante, in questo caso di un pigro personaggio teso al suo benessere fisico, potrebbe rappresentare una classe sociale che difende i suoi privilegi , ma non può fare a meno dei “subalterni” che lo assecondino: un io singolo o un macro io sociale egoista contro un noi senza risorse proprie e sottomesso. Il primo soggetto tiranneggia il secondo, sottomettendolo alle sue sole esigenze ( vuole continuare a poltrire, si pregusta il pranzetto…), il secondo, i piedi senza polpaccio, strascia il pavimento, come il bambino che gattona per esplorare lo spazio, ma istintivamente non si avvicina al fuoco e agli spifferi d’aria: finalmente fa delle prove di autonomia per la sopravvivenza. S’intende che viene riportato all’ordine, deve continuare a servire, non crescere e rendersi indipendente… In altri casi ( ma forse è lo stesso caso) “la ragion di stato” di un noi al potere arrogante potrebbe calpestare i diritti dei singoli cittadini, le coscienze e gli interessi…

    1. Annamaria, prova, ad aggiornare, se vuoi e ti sembra “logico”, il parametro della ragion di stato con la “ragion d’impero”, ovviamente altrui. Impero che concede, a una sua classe molto ristretta di piedi/servi (identificali via via nei vari nomi da prima repubblica fino all’attuale sempre prima e peggio della prima) una serie di privilegi e però, all’avvento di ogni scandalo e corruzione, lasciando scannarsi e dilaniarsi ogni piede della colonia, dal più eletto al meno rappresentato e anche “straniero” . Piedi che schiacciano altri piedi, perché la testa dei primi è altrove, e quella dei secondi continui a restare decapitata, comprese quelle che darebbero più possibilità di sopravvivenza.

      Prova, se vuoi, rischiando di persona l’esilio anche da questa specie di noi, ovvero nonostante il conflitto con tutti coloro che addirittura si sentono “democratici” contando (o semplicmente squalificando) con i piedi, pardon con la loro testa, il numero dei “pensieri”/commenti del post precedente che giustamente metti inrelazione con questo, per ritornare , immediatamente dopo, nel loro costante e assordante silenzio, salvo poi riapparie ogni volta per sfancularsi , ovviamente, e democraticamente, tutti coloro che, a loro avviso, non danno le loro impronte o generalità o che intervengono, per loro, con i piedi . E lo farebbero , sostenuti da altri piedi , in nome di una non meglio precisata bandiera anticinica di cui i molti, dei piedi, o della bontà, si sentirebbero unici e migliori portatori.

      Può essere troppo sovversivo permettersi di “insinuarsi” in questo gruppo di lavoro, aggiornando le categorie dell’ io io io io superio, relative ai classici vizi da società decadente di fine ‘800, con nuove categorie così tanto compatibili con la ragion d’impero, riferibili alle nuove virtù(alità) da pseudo sinistra di fine ‘900 che fanno stare almeno in pace il proprio io . Tuttavia, forse tu, Annamaria, puoi farti carico, nelle migliori tradizioni scapigliate dell’anticonformismo aggiornato fino ad oggi, di squarciare il telone dall’interno di questo cerchio (magico, come già gli spiritisti di fine ‘800, ma nobilitato dal contatto con altri spiriti), senza troppi riti, panegirici, calci da piede a piede, compresi quelli da tavolino su cui si preparano i duellanti di questo o quell’intervento. Dunque, potresti superare tutto questo nell’autentico rispetto della relazione conflittuale/produttiva piedi/testa, come da logiche che contenendo l’autodistruzione, sembrano assai lontane da questo noi e da questp io, ma che più a oriente sono note fin da ogni segmento dell’alluce e che qui, fino a questo nostro improbabile noi, conterrebbero virtù(alità) da tavolino, slanci di punta di bontà per la vetrina del proprio io, o preparati ad arte (delle proprie utopie e demagogie) .
      Buone vigilie, Annamaria 🙂

  12. Sì, non si *ragiona* con i piedi, perché la loro funzione è un’altra (cioè muovere il corpo). Ma senza piedi non ci si muove.
    Qui il dilemma, il rompicapo. E anche il “muro del rischio”, di fronte al quale di solito o si torna indietro ( il “ritorno all’ordine” reazionario/conservatore: nazista, fascista, ma anche pseudo democratico) o ci si va a spiaccicare agendo «alla carlona buttandosi in avventure pericolose (quindi anche in rivoluzioni impossibili) in modo scervellato».
    Per portare esempi colti di questi modi del pensiero: Hobbes, Schmitt e Heidegger da una parte; Rousseau e Nietzsche e lo sfondamento verso la spontaneità e la follia dall’altra. (Non me la sento di metterci anche Spinoza…). Si ritorna, cioè, alla parzialità. C’è la rinuncia – ragionata o istintiva – alla totalità. O alla dialettica, che viene negata.
    La sia pur provvisoria *quadratura del cerchio*, avvenuta in alcuni momenti rivoluzionari (tra mente e piedi, tra dirigenti e diretti) – che so: nella rivoluzione americana, francese, sovietica – appare ora impossibile da farsi, pura o sciocca utopia.
    E così la ragione *senza piedi* s’immobilizza, si fa *fredda*, diventa cinismo realistico. E i piedi (bisogni, desideri) *senza ragione* delirano, vaneggiano, farneticano, impazziscono.
    La stessa memoria del passato (storico o generazionale) viene stravolta. Analizzate dalla “fredda” ragione ( o “a freddo”), le rivoluzioni appaiono esclusivamente come frutto di complotti e intrighi di élite, di cupole massoniche. E il loro risultato – per la considdetta eterogenesi dei fini – appare risibile (socialismo? Puah!) o una brutta copia del mondo che si voleva abbattere o cambiare. «All’apparir del vero/tu, misera, cadesti: e con la mano/
    la fredda morte ed una tomba ignuda/mostravi di lontano»…E
    una catasta di cadaveri (Cfr. Il libro nero del comunismo). La storia è vista esclusivamente come ripetizione insuperabile di meccanismi che si possono solo ribaltare ma non cambiare: far torto o patirlo (Manzoni), struggle for life (darwinismo sociale).
    Ora il vero problema aperto e insoluto (e forse anche insolubile, non lo escludo…) è se sia davvero possibile raggiungere quel *punto d’equilibrio* proclamato da chi (come me) rigetta le due soluzioni parziali: la fredda ( realistica ma spesso cinica o perfino nichilista) ragione; l’entusiasmo dionisiaco, ingenuo e cieco. E, sul piano dell’indagine storica, se sia stato veramente raggiunto in quei momenti rivoluzionari (e con quali proporzioni o miscela di direzione e di spontaneità). E per quali motivi non si sia prolungato o conservato e abbia dovuto ben presto cedere a qualche forma di “ritorno all’ordine”.

  13. senza piedi non si cammina certamente. I piedi hanno il compito di far muovere il corpo, di sopportarne anche il peso, ecc. Tuttavia, devono obbedire ai comandi centrali. Se cammino per una via e davanti a me si apre una voragine, i miei occhi la vedono, trasmettono l’informazione al cervello e questo deve prestamente dare ordine ai piedi di compiere una deviazione. Se questi se ne impipano e continuano dritti, disobbedendo, cadranno nella voragine. Avranno solo la “soddisfazione” di annientare tutto il corpo assieme a loro. Le “masse” devono supportare il “movimento”; tuttavia, devono capire che c’è chi vede meglio “dall’alto” e chi prende le decisioni più congrue per la salvezza dell’insieme. Non obbediscono, fanno solo casino? Va bene, saranno giustamente massacrate da chi ragiona, magari solo per conservare l’esistente senza mai voler mutare nulla dell'”ordine costituito”; per stare insomma al calduccio e prepararsi, “riposati”, a succulenti pranzetti. Brecht e Mao dicevano idiozie sulle “masse” come eroi. Invece Shakespeare, nei discorsi di Bruto e poi Marc’Antonio al “poppolo” romano nel “Giulio Cesare”, è di una lucidità accecante. Quelle sono le masse; e quello è chi riesce con estrema facilità a subornarle. Inneggiamo alle masse come alla colata incandescente dell’acciaio fuso. Dopo però bisogna capire in quali stampi deve andare a finire, quali forme deve prendere nel mentre va raffreddandosi. E solo quando è forgiato e freddo, solidificatosi, finalmente serve a scopi determinati. Prima gli si possono solo gettare dentro tanti bei “nemici” da far fondere. E’ pur sempre utile, ma solo in una prima fase di eliminazione di chi si oppone al cambiamento; poi bisogna che si fabbrichi infine qualcosa di appropriato a quel determinato uso scelto in anticipo, prima ancora della colata.

    1. …poter esprimere un movimento testa piedi (comandi di arresto o di direzione inclusi) di qualità, implica per il Tao, più che per Mao ( o qualsiasi altra ideologia e propaganda delle masse come eroi), l’acquisizione di posture corrette al fine di evitare o comunque contenere che i piedi pensino a improbabili ali, o che , di male in peggio, la testa ragioni con i piedi ( vedi nostre attuali classi dirigenti, intellettuali etc etc). Così come il corpo fisico, singolo, anche quello sociale può dotarsi di tecniche e motivazioni per armonizzare sopra e sotto o viceversa, onde evitare l’esplosione delle tragedie, che condivido, centrano appieno le corna (altro che ali) con cui le masse si sono autoinfilzate, così ben rappresentate nelle tragedie (ma anche nelle commedie) del grande “poeta” di ogni “tempesta” qui trattata e che in nome di altre trame scoordina i due estremi del corpo, mandando peraltro in tilt (caos) tutti gli altri componenti (organi vitali) dello stesso processo di sopravvivenza.

  14. @ Nova

    Molto dipende però anche dalla qualità e capacità dei “comandi centrali”. Al di fuori di certi schemi ideali ,si è ben visto e si vede che non sempre i “comandi centrali” vedono meglio “dall’alto” e prendono « le decisioni più congrue per la salvezza dell’insieme». Basti pensare ai disastri compiuti dai “comandi generali” nel preprare e condurre la Prima guerra mondiale; e a quanto oggi avviene nella gestione della crisi dell’economia.
    Nel commento precedente ho riportato l’opinione di Rosa Luxemburg sulla necessità di uno strettissimo rapporto tra mente e piedi (dirigenti e diretti) e sulla pericolosità – ma per entrambi ! – di «comandare a freddo».
    Se il rapporto viene meno o non è quello giusto, perché prendersela solo coi piedi? I casini possono farli (anzi li hanno fatto, li fanno) anche i “comandi generali”. E enfatizzare il ruolo della mente, dei dirigenti, sminuendo al contempo quello dei diretti, mi pare unilaterale: si vede solo un aspetto di un problema complesso.

    Il confronto poi tra Brecht e Mao da una parte e i personaggi shakespeariani del mondo antico (Bruto e Marco Antonio) non tiene conto dei diversi contesti storici e dei diversi ruoli dei personaggi messi a confronto. I ”piedi” del mondo antico non sono gli stessi del mondo novecentesco. I soldati comandati da generali non sono la stessa cosa dei lavoratori o delle masse guidate da capi politici. Il peso delle decisioni esclusivamente militari rispetto a quelle politiche ( o se si vuole il peso del «comandare a freddo» rispetto al peso dell’ideologia e della persuasione e della chiarezza dello scopo da raggiungere) profondamente diverso nei due contesti. Brecht e Mao avranno detto qualche o molte idiozie sulle masse, ma esprimevano un punto di vista “socialista” sul rapporto dirigenti/diretti (mente/piedi) in continuità con quello espresso dalla Luxemburg che teneva in gran conto la cosiddetta “spontaneità” delle masse.
    Che poi andrebbe capita meglio – sempre storicamente – in cosa consisteva e consiste in relazione anche ai processi di alfabetizzazione, delle comunicazioni di massa e oggi dell’informatizzazione.
    Sarà stata un’esagerazione o una sciocchezza presentare le masse come eroi, ma altrettanto è presentarle come folla di ebeti manipolabile sempre a piacimento o malleabile come creta o cera da parte del capo, come diceva Mussolini.
    A me pare insomma che oggi il rapporto dirigenti/diretti (o forma/contenuto o stampi/colata d’acciaio fuso) vada ripensato profondamente al di fuori dagli schemi più logori del passato: populistici, militaristi e irrazionalisti (quest’ultimi alla Le Bon*).

    *
    Le Bon dipinge le folle come una forza di distruzione, priva di una visione d’insieme, indisciplinata e portatrice di decadenza, esaltando invece le minoranze come forza capace di creare. Nella sua visione, la massa – permeata da sentimenti autoritari e d’intolleranza – crea un inconscio collettivo attraverso il quale l’individuo si sente deresponsabilizzato e viene privato dell’autocontrollo, ma che rende anche le folle tendenti alla conservazione e orientabili da fattori esterni, e in particolar modo dal prestigio dei singoli individui all’interno della massa stessa.( https://it.wikipedia.org/wiki/Psicologia_delle_folle)

    1. Proprio questo intendevo con “mettere le ali ai piedi” – Uscire dagli schemi e prendere strade anche faticose ma diverse e utili al cambiamento. Spesso il cambiamento non viene accettato, non solo dalla politica ,ma anche dal nostro miglior amico , che data la sua postura resta sempre in piede ma spinto da idee e comportamenti da gregge sottomesso al pastore e al suo cane.
      Oggi mi sembra non sia più così per le masse, non perché si è acquisita una vera coscienza individuale o politica e neanche per uscire da uno schema, ma solo per una sonnolenza (da sonnifero iniettato lentamente) che ci vede sdraiati e con i piedi al caldo scaldati dalle mani di chi ci preferisce in questa posizione .
      Insomma detto nel mio dialetto suonerebbe così:
      -Ti sta lì , sùgùta a durmì che al rest che pensi mi-
      (Tu stai lì continua a dormire che al resto ci penso io)
      Quando dovremo rialzarci sarà terribilmente dura.

      1. Quindi intendevi elevare dalla condizione senza testa, rendendo possibile , con le ali, un movimento ascendente, verso il capo, in modo da rimettere l’alluce superiore al suo posto, rispetto a classi dirigenti subalterne che tutto hanno avuto tranne che testa?

        1. Mettila come vuoi, cara ro.
          Io la intendo come spinta propulsiva che rispetti però oltre la testa anche il cuore…ma sembra che io parli una lingua sconosciuta, che tu, una volta ,capivi molto bene.

          1. La lingua che parli, e che metto in gioco anch’io, fa riferimento a un rapporto limitato a un solo organo vitale. Fra te e me, come fra te e il tuo conduttore “straniero”,potrai/possiamo permetterci l’esclusiva di questo organo e del suo apparato. Non in altre relazioni, però. Infatti tanto all’inizio, quanto ora, siamo sempre rimaste su piani assai assai lontani tanto che con il tempo sembrano ancor più distanti.

  15. …sono d’accordo con quanto dice ora Ennio almeno in riferimento all’ultimo secolo… a grandi linee queste menti superiori che dirigono cosa sono stati capaci di fare? Secondo me, ai fini di un profitto perverso, non hanno esitato a sfruttare e a stravolgere la natura, ora in agonia, per lo stesso scopo consumistico a ottundere i cervelli delle masse e infine a scatenare guerre per il dominio sulle genti e sul mondo…Le masse se mai oggi sono così manipolate che, come i piedi del racconto, si trovano senza una vera guida e si muovono rattrappite e senza quella spontaneità che potrebbe forse convertire in meglio la situazioe…Se i capi sono sbagliati..

  16. Pare che il racconto vada inteso solo per l’analogia piedi-cervello con masse-dirigenti.
    A me pareva che già tra mente e cervello non ci fosse identità, non-identità che Nova conferma nell’ultimo suo commento con la frase “chi ragiona, magari solo per conservare l’esistente senza mai voler mutare nulla”: tra conservazione dell’esistente e direzione del movimento non c’è identità, come è evidente. Alla conservazione penserà un sistema di controllo e funzionamento dell’apparato, mentre a guidare il percorso -a vedere e interpretare i segnali quindi scegliere e ordinare le azioni- penseranno funzioni superiori come l’immaginazione e la volontà.
    (E’ vero però che la mente del signore che dormiva desidera ancora sognare e fantasticare, carezzata insieme da stimoli piacevoli come i profumini di cucina. In questo atteggiamento “regressivo” del sognatore individuavo una critica che Nova faceva alle caratteristiche di dominio dei ceti/funzioni superiori. )
    Anche l’identificazione dei piedi con la massa non funziona tanto bene. I piedi sono tagliati alla caviglia, le masse invece, a parte quelle di Le Bon, sono frastagliate, esistono varie agenzie di attivazione delle masse, i partiti (una volta…) oggi rimonta la chiesa cattolica a livello mondiale (i gesuiti), l’ampia scolarizzazione pubblica lo è stata (oggi la si riduce, mentre si rafforza quella elitaria e settoriale).
    E del resto quando mai sono esistite solo masse informi e globali? Neanche nel fascismo nazismo e stalinismo, sempre c’è stata -diffusa e persino articolata- altra visione, e lotta.
    Perché fissarsi in questa sterile formalità dirigenti-masse?

  17. Sono più giovane di Bertolt Brecht di quasi mezzo secolo, (44 anni per l’esattezza) e alla visione delle masse di stampo socialista ho creduto anch’io. Pazienza se arriva qualcuno ad affermare che il drammaturgo di Augusta ha detto molte idiozie, di conseguenza idiota sono anch’io che le ho condivise, pazienza. Pazienza se il concetto di valutare persone e fatti nel preciso contesto storico è andato a farsi benedire. A proposito di benedire, provenendo io dal campo scientifico, lì i dogmi fortunatamente non esistono e ben vengano idee e principi più coerenti e validi. Resta il fatto che per me Bertolt Brecht resta un grande anche per le grandi illusioni in cui ha vissuto. Oggi è troppo facile riconoscerne il fallimento. Ma guardiamoci intorno quante cose sono fallite! La Scrittura per prima, ( poesia in testa): non muta niente, non incide minimamente sul cammino di m. di questa società.
    Ubaldo de Robertis

  18. Bruto e Marc’Antonio, al funerale di Cesare, parlano a plebi (e non solo), ma non specificamente a soldati. Parlano appunto alle “masse popolari”. Troppo facile poi rifarsi sempre ai diversi contesti storici. Questi mutano la presentazione empirica di certi fenomeni, di certi processi. La natura sostanziale degli stessi è molto simile. Altrimenti perché possiamo godere delle tragedie greche così come se parlassero di sentimenti e pensieri dell’oggi? Dire “il contesto storico è diverso” è un po’ come dire, in altre contingenze e con altre finalità, “la situazione è complessa” quando non si sa bene indicare le linee generali di detta situazione. Inoltre (come mi sembra aver compreso la Fischer), ci sono comandi centrali che vogliono conservare l’esistente (appunto l'”ordine costituito”) anche quando questo è in fase di sbriciolamento e non regge più; altri afferrano la necessità di mutamenti e agiscono con l’intento di “dirigere” ampie masse in scomposto sommovimento (che si manifesta appunto per lo sbriciolamento del “vecchio ordine”) secondo finalità diverse. Non è mica però detto che conseguano quelle che erano le loro intenzioni di partenza (ad es. la “costruzione del socialismo”); tuttavia, trasformano egualmente molti dati delle vecchie situazioni e fanno entrare in una fase storica che presenta aspetti differenti. Proprio per questo, è sbagliatissimo considerare fascismo e nazismo come “reazione”. Non volevano affatto mantenere il vecchio ordine. Anche semplicemente dal punto di vista economico (punto di vista parziale), certi settori industriali “più strategici” sviluppati dai due regimi (in specie in Germania) corrispondevano all’intenzione di svecchiare ampiamente la precedente struttura già corrosa dalla crisi. Troppo facile e limitativo dire che si dedicarono (in specie i tedeschi) ai settori delle armi; manco per gnente. Fascismo e nazismo erano “rivoluzioni” tanto quanto il “comunismo” (orrenda semplificazione di ciò che era solo “costruzione del socialismo”). Le finalità erano nettamente differenziate, ma nessuno di questi movimenti voleva mantenere l’ordine precedente com’era invece nelle intenzioni di liberali e socialdemocratici (con cui i “comunisti” si allearono e iniziò la loro fine, solo nascosta per un’ampia fase storica dalla vittoria dell’URSS, assieme al “capitalismo” anglosassone, nella seconda guerra mondiale). Sono tutte “rivoluzioni” alla fine fallite, ma solo per chi pensa che una rivoluzione debba conseguire le finalità iniziali (e che falliscono sempre per motivi che spiegherò parzialmente, almeno spero, in un prossimo saggio teorico). In realtà, il “mondo è cambiato” comunque; da qui nascono i “contesti storici diversi”. Oggi siamo in una delle cosiddette “età di mezzo” (ad es. come quella tra il Congresso di Vienna del 1814-15 e gli anni ’40 del secolo); e non siamo in grado di capire bene dove stiamo andando. Quindi, siamo tutti più vicini ai “piedi” che alla “testa”; per ragioni oggettive che non si superano con il solo volontarismo soggettivistico.
    Ultima notazione. Io amo svisceratamente Brecht a tutt’oggi; e certo ho sempre ammirazione per Mao. Ogni tanto anche i grandi personaggi amano un po’ di demagogia. Un difetto sopportabile. Del resto, pure in tal caso, bisogna tenere conto del contesto storico in cui si fanno certe affermazioni; non è sempre detto che si pensino veramente, ma è importante sostenere in quel frangente certe posizioni. Del resto, alla fine, è notoria la malinconia di Brecht di fronte a certi processi del “socialismo” nella DDR. E allora? Qualcuno gli ha chiesto cosa pensasse in quel momento delle masse del suo paese? E, nel contempo, dei suoi “comandi centrali”? Nel mio racconto, si è in piena “età di mezzo”: la testa preferisce dormire e afferma (vergognosamente per come la penso io) che la “ragione” è grande proprio perché sceglie il sonno. E i piedi non sanno da che parte dirigersi e infine vengono ricatturati.

    1. Non sappiamo dove stiamo andando?
      Ma quando riusciremo a capire che stiamo andando verso un pericoloso vuoto accompagnati da leggi e leggiucce che vorrebbero far luce su una strada dove i piedi corrono disperati senza pensare a tutto il resto del rimorchio che ormai è nelle mani di altri.
      Sto cercando di ritornare sui miei passi per recuperare qualcosa che ho perso e mi sembra di sapere dove trovarlo se la memoria non mi inganna.

    2. Oh bene: ” la ‘ragione’ è grande proprio perché sceglie il sonno”: bella dichiarazione che non sceglie tra il cervello e la mente, tra il mantenimento dell’ordine esistente e l’immaginazione di un “ordine nuovo”. Che debolezza della nostra età, della nostra cultura, della nostra marginalità!, a non sapere immaginare che tutto continuerà anche dopo di noi. Davvero quello che è un tratto individuale tipico, il mondo finisce con me, è diventato un tratto collettivo, il mondo sta finendo con noi.

  19. Anche se immediatamente veniva alla mente l’apologo di Menenio Agrippa, come ha segnalato Ennio, in realtà la situazione in questo racconto è ben diversa.
    Ennio riporta: * … apparve che l’ufficio dello stomaco non è quello di un pigro, ma che, una volta accolti, distribuisce i cibi per tutte le membra. E quindi tornarono in amicizia con lui*, mentre in questo caso non c’è nessuna ‘ribellione’ da parte dei piedi, i quali ‘strisciano’, appiattiti sul pavimento, con movimenti del tutto casuali. Né si capisce da che cosa si siano resi indipendenti. Piuttosto è il ‘signore’ (*Un buon riposino aggiuntivo se lo meritava; e comunque, meritato o no, se lo sarebbe preso egualmente*) o, meglio, il suo ‘cervello’ (*Era il suo cervello che controllava la situazione, solo che quegli obbedienti non recalcitravano, non avevano dubbi, eseguivano il loro compito con assoluta decisione e fermezza. Un buon carattere da subordinati!*) ad irritarsi quando qualche cosa si sottraeva al proprio potere (*Appena li avesse ripresi e rimessi…..beh, a questo punto attaccati alle caviglie, gliel’avrebbe fatta pagare assai cara. Perfetti idioti, perché andavano in giro senza prima avvertire il cervello che era l’unico deputato a comandarli e orientarli? Per forza si movevano a casaccio!*)
    Quindi, il punto di vista non è incentrato sulla dialettica dominato-dominante (patrizi e plebei – *i piedi, questi plebei* – come titola Ennio), ma è incentrato su una struttura di potere che non si capisce come si sia determinata, e che tuttavia ‘governa’ senza la minima capacità di governare. Dove ‘governare’ significherebbe avere un minimo di contatto con la parte governata anziché mantenere il legame con l’autodefinito *sonno dei giusti*, ovvero di coloro che non sono *scervellati*, che sanno riconoscere il piacere degli agi (*finalmente riusciva a gustare quell’odorino che filtrava dalla porta*) e che, soprattutto, non *se ne vanno in giro senza ragionare, per semplice istinto bestiale*.
    Sembra raffigurato il cosiddetto-governo Renzi, dove fare opposizione sarebbe, appunto, da scervellati!
    E anche il titolo è sviante (anche se, indubbiamente fa parte di un modo di dire, come quando, delle donne, si diceva che pensavano con l’utero!): sarebbe come continuare a credere che il pensiero, la ragione, il ‘luogo delle decisioni’ stazionino “nei piani alti”, mentre nei “piani bassi” c’è la semplice esecutività degli ordini ricevuti dall’alto, la mera materialità quando non anche la bieca volgarità.
    E ciò secondo una visione ‘concreta’ per cui la mente viene equiparata al cervello. E, ancora, che la parte ‘bassa’ è mero istinto e che, dunque, deve sublimarsi, salire verso l’alto. *Nel racconto appare che è inutile ragionare con i piedi che sono “spontaneamente” ribelli e non avvertono la voce del loro “padrone” né i profumini che provengono dalla cucina* (F. Nova). Come si fa a ‘parlare/ragionare’ con l’irrazionale?
    Ennio riporta una osservazione di Annamaria: *« quando i piedi si staccano dal corpo e, guidati da un istinto animale (ma si può davvero distinguerlo da quello razionale?), prendono ad esplorare, a modo loro, la stanza e forse avrebbero continuato accrescendo la loro “conoscenza”»).
    La conoscenza non avviene facendo ‘lavorare’ solo l’istinto o solo la ragione. Essa è l’esito di un processo che avviene attraverso lo scambio tra le due parti, attraverso una ‘relazione’.
    Quindi, nulla dell’apologo di Menenio Agrippa in cui vengono a confliggere contrapposte rappresentazioni del mondo (di quell’epoca, ovviamente).
    Nulla nemmeno sul rapporto tra ‘masse’ e potere (*Perché fissarsi in questa sterile formalità dirigenti-masse?* si chiede Cristiana).
    E’ troppo corriva la metafora che le masse siano sempre qualche cosa di informe che può essere plasmata a piacimento. Non è così. Molte volte sono le masse (anche se sarebbe opportuno differenziarle al loro interno, individuandone i precisi interessi, perché anche al loro interno ci sono dei conflitti: questo era ciò che si evidenziava nel monologo di Marco Antonio nel Giulio Cesare di Shakespeare, come avevo già segnalato in un altro intervento) a ‘scegliersi’ i loro rappresentanti.
    F. Nova scrive: * Le “masse” devono supportare il “movimento”; tuttavia, devono capire che c’è chi vede meglio “dall’alto” e chi prende le decisioni più congrue per la salvezza dell’insieme*, e poi aggiunge: *Brecht e Mao dicevano idiozie sulle “masse” come eroi.*
    Ma questo era ciò che Brecht e Mao, dall’alto del loro tempo, vedevano e ritenevano opportuno dire! Era davvero ‘meglio’ o invece ‘quelle masse’ avevano bisogno di credere in quelle ‘idiozie’? Oltretutto, in parte, ci avevamo creduto anche noi!

    R.S.

  20. Le masse, se lo sono veramente, stanno da tutt’altra parte rispetto alle élites. Prendiamo come esempio il gruppo bolscevico: i dirigenti erano in gran parte all’estero. In ogni caso, essi erano decisamente separati dal popolo anche nel proprio paese. Si sono mai letti i grandi dibattiti – non solo teorici, pure eminentemente politici e che avevano spesso quale oggetto la politica di quella data fase, considerata cruciale – tra i dirigenti bolscevichi (o anche in altri gruppi rivoluzionari)? Si parla certo anche del popolo e di ciò che “vorrebbe” (nell’interpretazione dei dirigenti “in dibattito” accanito), ma l’interesse di gran lunga prioritario, che schiaccia tutti gli altri, è il discutere di questioni strategiche cruciali, di cui il popolo non capisce un acca. Il problema più rilevante – che non può essere dibattuto “coram populo”, altrimenti i compiti e i disegni rivoluzionari sono subito smascherati e spazzati via – è qual è il momento più opportuno per sferrare l’attacco decisivo, e in quale direzione, verso quale “nodo” del potere avversario. Occorre un’attenta valutazione dei rispettivi rapporti di forza, momento per momento; e, come messo in luce da Lenin e Mao (due rivoluzionari vittoriosi), il problema è soprattutto capire i punti di debolezza dell’avversario più ancora che i propri punti di forza. E le masse sanno fare tutto questo lavoro? O sanno scegliere quali sono i capi più adatti e preparati a tale scopo? Cerchiamo di non renderci ridicoli. Sono i capi che, se sono autentici rivoluzionari, sanno scegliere i momenti in cui gli “umori spontanei” (cioè ciechi e inconsulti) delle masse sono tali per cui è favorita l’aggressione ai punti deboli del potere da abbattere; e sono appunto soprattutto questi ultimi che vanno individuati dall’intelligenza delle élites.
    E quando, nei momenti di massima crisi dei vecchi poteri costituiti – tipo lo zarismo ma anche i gruppi borghesi che pretendevano di sostituirlo; e anche in ogni altro momento di grave crisi istituzionale in dati paesi – entrano nei gruppi dirigenti, quali mosche bianche, dei veri elementi popolari (mettiamo, ad es., gli operai in certi gruppi dirigenti dei vari partiti comunisti), questi hanno sempre ruoli e funzioni nettamente marginali; rarissime le eccezioni. E quando emergono anche un poco, non sono più popolani, “operai”, ecc; assumono tutt’altra mentalità, che si sforzano di rendere simile a quella delle élites dirigenti. In “Germinal”, molto brillantemente Zola descrive l’operaio intelligente che si stacca dal resto dei suoi “simili” e diventa uno dei capi sindacali. Non si sente più proprio eguale agli altri, si ripulisce bene, si pettina con la scriminatura dei capelli in mezzo, assume un aspetto ben ordinato e molto misurato e “rispettabile”. Comunque, per carità, si può discutere su questo argomento fino alla fine del mondo, così come si discute sul bene e sul male, sull’esistenza o meno di Dio, su ciò che ci rende felici o infelici, ecc. ecc.

  21. …resto convinta che le cosidette masse, intendo quelle di una volta, siano state caratterizzate da istinto e razionalità, in varia proporzione, ma imprescindibili e inseparabili nell’uomo, e che abbiano in qualche modo scelto chi potesse rappresentare il loro dissenso o in letteratura o in politica quando ne presero matura coscienza contro, ad esempio, il regime zarista, la dittatura nazista o il medioevo dell’impero cinese con Lenin, Brecht e Mao…Purtroppo contro le false e feroci “democrazie” di oggi sembra essere più difficile una mobilitazione di massa…i leader mancano, se non di covinzione, di forza e la popolzione è stata aggiogata con sistemi pù sofisticati e ingannevoli, meno capace di ascolto e di memoria …

  22. “Non tutti i gatti fanno ‘miao’”

    Ci sono anche quelli che fanno ‘mi’, quelli che fanno ‘ao’, quelli che fanno ‘mm’. Hanno le loro individualità, eppure queste vengono azzerate da noi ‘umani’ quando le includiamo nella massa dei gatti. Ma mentre, anche nel gruppo, i gatti non perdono la loro individualità, fra gli esseri ‘umani’ le cose non vanno così. I gruppi tendono, con la forza della loro ‘massa’, a livellare quelle spinte individuali che tenderebbero a introdurre delle novità, quali esse siano. Proprio perché ‘acefale’, le masse, fintantoché non sono orientate verso un compito che ‘fa da organizzatore’, vivono il cambiamento come un rischio. A meno che non ci sia ‘un capo’ che ‘risponda’ alle corde che in loro stanno vibrando in quel dato momento. Corde che le masse non si costruiscono da sé, ma che in esse vengono orientate dalla presenza di fatti esterni la cui lettura sta nelle mani di alcune élites le quali però possono avere punti di vista differenti sulla stessa realtà.
    Ėlites che possono anche fare alleanza con alcune individualità isolate all’interno di certi gruppi di base, o che invece si alleano con altre élites di grado superiore o diverso.
    Quindi è riduttivo – anche se capisco che questa semplificazione possa essere fatta per spiegare meglio – sostenere che *Le masse, se lo sono veramente, stanno da tutt’altra parte rispetto alle élites* (F.N.) e, oltretutto, può indurre a fraintendimenti non da poco. Nel senso che anche nei gruppi èlitari funzionano le stesse dinamiche presenti nei gruppi più estesi. Desideri, bisogni, rivalità, idiozie, carenze mentali, ecc. ecc. non mancano di certo!

    Non voglio contestare quanto afferma Franco Nova, lui ne sa di gran lunga più di me e, sapendone più di me, dispone più facilmente di buon materiale argomentativo. Ma – va da sé, nulla da eccepire – il rapporto dialogico parte già contemplando uno svantaggio che corre il rischio di trasformarsi in una dicotomia ai limiti della non risoluzione – *Comunque, per carità, si può discutere su questo argomento fino alla fine del mondo, così come si discute sul bene e sul male, sull’esistenza o meno di Dio, su ciò che ci rende felici o infelici, ecc. ecc.* – tra chi ragiona e chi non sa, o non ha gli strumenti per ragionare: la ‘testa’ che sa, e i piedi che non sanno e che devono soltanto ‘muoversi’. O, per ribadire ancora, *Le masse, se lo sono veramente, stanno da tutt’altra parte rispetto alle élites.* (F. Nova).
    F. Nova, nel suo sapere, apparterrebbe ad una élite, anche se lui allontanerebbe sdegnato da sé questo attributo (così come allontana da sé l’attribuzione di ‘intellettuale’) e bisogna pur credergli perché, parafrasando l’orazione di Marco Antonio, egli è un uomo d’onore, ovvero sa quello che dice e se ne assume la responsabilità.
    Io che invece non so, che ho dei dubbi, o perlomeno posso non pensarla allo stesso modo di F. N. sarei dunque confinata da tutt’altra parte? Che speranze ho di dire la mia?
    Allora provo a selezionare alcuni punti che non mi sono chiari:

    *Si parla certo anche del popolo e di ciò che “vorrebbe” (nell’interpretazione dei dirigenti “in dibattito” accanito), ma l’interesse di gran lunga prioritario, che schiaccia tutti gli altri, è il discutere di questioni strategiche cruciali, di cui il popolo non capisce un acca* (F.N.) (*)

    Ciò starebbe a significare che il ‘poppolo’, proprio perché non capisce un’acca di strategie cruciali, è facilmente manovrabile, è il cosiddetto ‘popolo bue’. E che, quindi, l’assunzione dei suoi bisogni da parte degli ‘strateghi’ non sarebbe altro che una parte della strategia per rendere più manovrabile il ‘poppolo’ credulone. Il massimo dei massimi sarebbe poi quello di far fare agli altri (al ‘poppolo’, in questo caso) delle scelte, convinti di essere stati loro ad averle volute, come insegna il famoso brano di Mark Twain nell’episodio della tinteggiatura dello steccato nel libro “Le avventure di Tom Sawyer”.
    Come logica conseguenza si sostiene che *il problema è soprattutto capire i punti di debolezza dell’avversario più ancora che i propri punti di forza. E le masse sanno fare tutto questo lavoro? O sanno scegliere quali sono i capi più adatti e preparati a tale scopo? Cerchiamo di non renderci ridicoli. Sono i capi che, se sono autentici rivoluzionari, sanno scegliere i momenti in cui gli “umori spontanei” (cioè ciechi e inconsulti) delle masse sono tali per cui è favorita l’aggressione ai punti deboli del potere da abbattere; e sono appunto soprattutto questi ultimi che vanno individuati dall’intelligenza delle élites* (F.N).

    Tralasciamo la battuta che viene spontanea di fronte a questa illustrazione di ciò che avviene (o dovrebbe avvenire) nelle alte sfere e cioè: “io so’ io e vvoi nun zete un cazzo” (**). Il problema che allora si pone sarebbe non tanto quello di capire i bisogni delle cosiddette masse – le quali, poi, più che da bisogni, sarebbero guidate da *umori spontanei* -, quanto capire che cosa frulla in testa ai decisori, ipotizzare le loro mosse strategiche, valutare se sono autentici rivoluzionari oppure raccontano frottole.
    E chi può farlo, questo lavoro? E per conto di chi?
    Non le masse che, come già asserito, non sanno capire un’acca.
    Nello stesso tempo il quadro si fa fosco perché anche coloro che emergono dalle masse sembrano essere corruttibili dal sistema: * E quando emergono anche un poco, non sono più popolani, “operai”, ecc; assumono tutt’altra mentalità, che si sforzano di rendere simile a quella delle élites dirigenti. In “Germinal”, molto brillantemente Zola descrive l’operaio intelligente che si stacca dal resto dei suoi “simili” e diventa uno dei capi sindacali* (F.N.).
    E allora chi?
    Le èlites? Che pagano già il privilegio di essere ‘pochi eletti’ stringendo i ranghi per non essere detronizzati?
    Si rischia la paralisi.
    Oltretutto, l’idea di un Golem dominato dall’alto non ha avuto molta fortuna (***)
    Dalla cima di una altura si possono certo vedere molte cose ma non si possono vedere le talpe che, lavorando da dentro, rischiano di farla crollare.
    Sapere dove si poggiano i piedi è importante perché anche essi, nonostante tutto, hanno una loro autonomia e delle loro leggi interne a prescindere dal desiderio onnipotente della ragione di voler comandare tutto, sottomettere tutto.
    La ‘cultura’, la sua funzione, non serve a liberarci dalla ‘monnezza’ (l’operaio di Germinal che si *ripulisce*), ma a riconoscerla e capire in che modo ce la stiamo giocando.
    Presentare questa dicotomia (dirigenti-masse) come esente da trasformazioni, rende sterile ogni discussione. Capisco che possa essere fatto per comodità di analisi, come la scelta di isolare un solo aspetto della complessità sociale per lavorare esclusivamente su quello.
    Concentrarsi, ad esempio, sulle contraddizioni all’interno del sistema dei decisori. Ma questo non implica ‘tagliare via’ o denigrare le parti basse.

    (*) ‘acca’, purtroppo, è femminile… non capisce un’acca….

    (**) da “Li soprani der monno vecchio”, G. Belli, 1831.

    “C’era una vorta un Re cche ddar palazzo
    mannò ffora a li popoli st’editto:
    ‘Io so io, e vvoi nun zete un cazzo,
    sori vassalli buggiaroni, e zzitto”.

    (***) Stralci da Wikipedia
    – La storia del Golem prende vita dal nome di Dio o da altre lettere (con valore e significato particolare) che gli vengono scritte in fronte o, scritte su un foglio, infilate in bocca; col procedimento inverso è possibile invece farlo ‘morire’, togliergli vita e movimento.

    – Nella Polonia del ‘600 la leggenda, documentata in una lettera datata 1674, raccontava di un Golem che crebbe a dismisura, diventando una minaccia ingovernabile per il suo padrone. Allora questi, il Rabbi Elija Ba’al Schem di Chelm, pretese che il Golem gli togliesse le scarpe, e nel mentre gli cancellò dalla fronte l’aleph. Il Golem ‘morì’ e ricadde su se stesso, travolgendo però il Rabbi con la sua massa informe.

    – Il Golem, una massa priva di forma, era dotato di una straordinaria forza e resistenza ed eseguiva alla lettera gli ordini del suo creatore di cui diventava una specie di schiavo, tuttavia era incapace di pensare, di parlare e di provare qualsiasi tipo di emozione perché era privo di un’anima e nessuna magia fatta dall’uomo sarebbe stata in grado di fornirgliela.

    R.S.

    1. Paradossi della nostra situazione. Inutile fare rassegne storiche rivoluzionarie, de te fabula narratur. Oggi io e chi qui commenta è forse élite? è plebe? né l’una né l’altra in senso stretto – rispondo per me. Le élites saranno allora quelle che sottilmente mi inducono pensieri, o me li svuotano? Il mio commentare avrà effetti analoghi su altri che legge?
      Quello che si può dire, che è stato detto, è che siamo nel dilemma tra l’io-cervello guida e i (due) piedi – per estensione: le mosse e gli andamenti possibili.
      Gli insulti del signore ai malandrini, la scelta del signore di dormire, l’impresa di riattaccare more solito i piedi alle caviglie ma non per muoversi, mettono in scena il vuoto tra la testa e i piedi, il collegamento meccanico-nervoso (corde e tenaglie) il “dilemma” che, nella discussione, si è trasformato in polarità. Altra figura, altra spazialità.
      Non so se ha senso cercare nel racconto stesso di Nova indizi di un’altra dimensione, un altro piano su cui riproporre il problema… il freddo, le luci, lo strascinìo, i fiammiferi gettati intorno… cenni che parlerebbero di altro, forse.

  23. mentre scrivevo il racconto, non mi è venuto mai in testa per un solo minuto il rapporto capi/masse o simili. E’ dopo che tutto questo è saltato fuori. Una volta uscito, ne ho parlato esprimendo la mia opinione in merito. Comunque non ho mai pensato – mi sembrava chiaro – a élites di un solo tipo. Come minimo ci sono i conservatori e gli innovatori. Ma adesso non mi diffondo sull’argomento, è solo per ricordare che non vedo le élites come il “meglio” che ci sia al mondo. Certamente, considero invece nel complesso negativamente le cosiddette masse lasciate ad una presunta loro spontaneità. In ogni caso, le popolazioni sono formate da individui che, in quanto individui, sono spesso capaci e ammirevoli un po’ in tutti i gruppi sociali. Comunque ho detto quello che dovevo dire. Mi fermo qui. Non leggete in ogni caso i miei racconti come se avessero intenti politici o sociologici. Cerco solo la stranezza, l’irrealistico, se possibile. O almeno l’eccesso.

  24. GROTTESCO
    1.
    aggettivo
    Deforme e innaturale, paradossale e inspiegabile, tale da suscitare reazioni contrastanti (dal riso all’indignazione): aspetto g.; una scena g.; anche s.m. con valore neutro.
    “cadere nel g.”
    2.
    sostantivo maschile
    In letteratura, uno degli aspetti del comico, fondato su una voluta sproporzione degli elementi costitutivi di un momento drammatico.

    S’era già detto? Di solito la definizione di genere tende a seppellire le istanze, ma funziona: in questo caso ha provocato la separazione della mente (del lettore) dal corpo del racconto; mente che se ne va per conto suo, come i piedi del racconto. Il grottesco, rivalutato da Nova, è una freccia appuntita, avvelenata quel tanto che basta. In dose omeopatica. Agisce sulle abitudini: producendo sogni induce al risveglio.

  25. Date le premesse imposte da F. N. nel suo racconto Non si ragiona con i piedi si potrebbe senza difficoltà proporre una seconda conclusione non necessariamente pacificante e falsamente ovvia come quella offerta dall’autore …

    Liberiamo i piedi dalla tirannia

    … I piedi stavano provando un crescente senso di paura. Da ogni lato giungeva una imprevista sensazione di calore e di luce. Quel “cerebro” criminale, che li aveva da sempre tiranneggiati, nel tentativo di imporre una volta di più la propria arrogante preminenza, stava lanciando in giro per la stanza una serie di zolfanelli.
    Che fare?
    Al primo senso di timore subentrò un momento dubbio e poi una decisione d’istinto.
    Vi erano due possibilità, cedere e tornare a sopravvivere nella propria condizione di eterni strumenti o …
    Improvvisamente i piedi ebbero una qualche strana sensazione, come se tornasse una antica memoria che aveva lasciato un suo segno nelle loro carni. Infatti quell’“intellettuale” di padrone, quando era giovanissimo, era rimasto affascinato dalle pratiche della giustizia di cui si erano servite le culture postclassiche prima fra tutte la cosiddetta “prove di Dio” compreso il passaggio sui carboni ardenti. Come dimenticare quel discettare sugli eretici del medioevo e sulle torture a cui erano stati sottoposti. Anzi i poveri piedi erano stati costretti a fare alcune prove di resistenza; in particolare “l’intellettuale” si era divertito a simulare un rapido passaggio su dei tizzoni ardenti. Erano rimaste, mute testimoni di quelle intemperanze giovanili, alcune piccole piaghe, segno di una antica storia mai del tutto dimenticata.
    In quell’attimo il piede sinistro decise che no, non si poteva tornare semplicemente all’ovile.
    Con un piccolo passo in avanti si posò sullo zolfanello spegnendolo. Il gesto coraggioso del piede sinistro mise in movimento il fratello e, quasi nulla fosse, si allontanarono rapidamente dal letto.
    Dopo questo primo gesto era necessario chiedersi quale altra mossa compiere, preso atto che la porta della stanza era chiusa. Quasi di istinto i due piedi si resero conto che era presente una sola possibile alternativa, infatti era rimasta aperta, unica via di fuga, la porta del bagno di servizio.
    I due piedi si misero in movimento sentendo dietro di loro l’insopportabile borbottare del “padrone” a cui si erano dovuti nei decenni abituare. Il bagno era piccolo ed allora con un balzo salirono sulla tazza del water e poi con un successivo passo giunsero a posarsi sul lavandino. Era stato un movimento difficile ma in qualche modo entusiasmante.
    Avevano di fronte a loro la finestre che fortunatamente era rimasta aperta.
    Per un’ultima volta si trattava di rispondere al quesito: ora che fare?
    Si poteva tornare in dietro ma allora bisognava piegarsi e accettare di sentire l’infinita tiritera che costituiva il nocciolo di ogni discussione, si trattava di sentirlo pontificare sul dovere di “rispettare l’autorità”, di sottostare alle norme della “disciplina”, di accettare e rispettare la “gerarchia” e sentirlo stigmatizzare l’intollerabile tendenza alla “insubordinazione”, segno di infantilismo e immaturità come affermava il Sempre Razionale Maestro, Compagno L****.
    Non ci si sarebbe potuti esimere dall’ascoltare una volta di più la barbosa e infinitamente ripetuta critica nei confronti di tutti coloro che non sono sufficientemente “responsabili” e “razionali” … Ci mancava solo, rimuginarono all’unisono i due piedi, che, vecchi come siamo, ci vengano imposti degli stivaletti di foggia militare e ci venga “razionalmente” ordinato di muoverci secondo gli indiscutibili valori stabiliti dalla sacra triade: “Dio, Patria, Famiglia”.
    No …
    I due piedi si lanciarono nel vuoto e fortuna volle che cadessero sulla capote di una automobile senza farsi alcun danno significativo.
    Con un ultimo balzo finirono a terra e si misero a zampettare liberamente.
    Basta …
    Era proprio ora di farlo.
    Si trattava semplicemente di lasciare quell’insopportabile retore continuare a sentenziare sul presunto primato della “ragione” che poi altro non era se non lo sfogo del suo ego iper-narciso.
    Se solo qualche altro arto avesse seguito il loro esempio. Sarebbe stato bello vederlo blaterare della necessità di ragionare come vuol lui essendo privato di quegli umili ma necessari strumenti la cui mancanza rende il vivere un vero e proprio calvario. Gli altri però sono più deboli, hanno paura, pensano che si possa sostituirli con protesi e che sarebbe la stessa cosa per una “cervice” sempre più arrogante, rendendone l’esistenza inutile.
    Pazienza per ora bastava questa piccola lezione. Che continuasse il “padrone” a restare a letto e poi si alzasse senza l’ausilio dei piedi. Sarebbe stato bello vederlo disimpegnarsi smoccolando senza requie…
    Loro ormai erano liberi e potevano avviarsi a conoscere il mondo.
    Il resto era ormai alle loro spalle …

  26. E SE I PIEDI AVESSERO LE LORO RAGIONI CHE LA MENTE NON CONOSCE?
    Appunti sui commenti di F. Nova

    «Nessun maggior dolore
    che ricordarsi del tempo felice
    ne la miseria»
    o

    ( Dante, Inferno, Canto V)

    Uno (poeta o narratore o altro), quando scrive, segue i suoi pensieri. E può non avere affatto «intenti politici o sociologici» o cercare, come dice Nova, «la stranezza, l’irrealistico». Le sorprese giungono al momento in cui il racconto (in questo caso) s’incontra con i pensieri o le intenzioni degli altri, i cosiddetti lettori. Ora forse il racconto si prestava davvero a far da spunto a una discussione sul rapporto capi/masse. O forse commentatori/trici di Poliscritture hanno una particolare sensibilità politica anche di fronte a un testo letterario. Fatto sta che mi assumo volentieri la responsabilità di aver deviato l’analisi di questo racconto dal piano letterario a quello politico: la questione sollevata mi pare particolarmente sentita e carica di echi per molti di noi ed è bene andarvi a fondo. Lo dico da epigone di una vecchia storia da cui tento di uscire, ma non in un modo qualsiasi, per semplice insofferenza o stanchezza. Il *come* uscirne mi pare decisivo e le posizioni finora emerse sono interessanti, anche se portano i segni delle nostre difficoltà.

    Riassumerò tali posizioni dal mio punto di vista. A me pare siano due: – quella di Nova, che sottolinea il ruolo decisivo delle élites (che possono essere – ha precisato – di conservatori e di innovatori); e giudica – uso le sue parole – «nel complesso negativamente le cosiddette masse lasciate ad una presunta loro spontaneità». Chi viene da quella storia (diciamo di sinistra, socialista e/comunista, senza sottilizzare sui termini per ora) coglie in queste parole la matrice leninista (o persino ultraleninista) di tale posizione. L’altra è la mia, che mi pare per alcuni versi vicina a quelle espressi con varie sfumature da Fischer, Locatelli e Simonitto. Sempre chi viene da quella storia potrebbe ritenerla di matrice luxemburghiana, ma ci terrei a sottolineare che non sono né per un’esaltazione assoluta della spontaneità né per una cancellazione del ruolo delle élites. Semmai mi lascio ancora tentare dall’ipotesi che ho chiamato della *quadratura del cerchio*, consistente cioè nella ricerca di in uno stretto rapporto tra élite (rivoluzionaria) e masse (in movimento). Il che mi pare sia pur fugacemente avvenuto in alcuni momenti della storia e– penso di poter dire – fu condivisa e ritenuta indispensabile – almeno in teoria (altra cosa, purtroppo, fu la pratica…) – sia da Lenin che da Rosa Luxemburg.
    Aggiungo, però, che oggi tutti noi abbiamo l’impressione (se non la convinzione) che il contesto storico sia profondamente mutato. E che, se ancora rivendichiamo il merito di tener desta nella nostra memoria quella storia (ed infatti siamo oggi in Italia tra i pochissimi che ancora ne dibattono e non l’hanno disinvoltamente cancellata), sappiamo che essa è insufficiente, non è riproponibile tale e quale (ammesso che sia possibile una resa obbiettiva e neutra di essa) o nelle versioni apologetiche o mitiche che da giovani ci hanno sfiorato o abbiamo assorbito. Nel nuovo contesto sentiamo che c’è bisogno di uno scatto di originalità nel ripensarla. E per ora non lo si vede. Col rischio, quando tentiamo di rileggerla o di compiere il cosiddetto «balzo di tigre nel passato» (W. Benjamin), di rimanere catturati da quel passato e dai modi come lo pensarono i suoi protagonisti; e di non saperne riemergere, se non ripetendo appunto la posizione di Lenin o della Luxemburg o qualche variante. (E considero tale anche la mia posizione che vorrebbe ricongiungere le due posizioni di Lenin e della Luxemburg, riavvicinando, se non proprio rimescolando, la “corrente fredda” e quella “calda” della nostra storia, invece di potarne drasticamente – come mi pare facciano di solito altri – uno dei due tronconi, mirando al massimo di realismo o al massimo di utopismo.

    Chiarito il mio punto di vista, passo alle osservazioni particolari (per ora solo sulle posizioni di Nova, poi, se ce la faccio, replico anche agli altri commenti):

    1. Contesti storici: continuità e discontinuità.

    Credo che distinguere i vari contesti storici in cui gli attori concreti, che noi con termini astratti (e necessari per pensarli) chiamiamo élites e masse, sia irrinunciabile. Non si esagera mai a muoversi in tale direzione, perché è fin troppo facile generalizzare. L’altro difficile compito è quello di individuare gli elementi sia di continuità che di discontinuità tra i vari contesti storici e gli attori che vi hanno agito e vi agiscono. Quali attori scompaiono? Quali ricompaiono in nuove figure o travestiti? Gli «strateghi del capitale» statunitensi, di cui parla ad es. La Grassa in un suo libro, non sono più i capitalisti della rivoluzione industriale inglese ma qualcosa hanno ancora in comune tra loro o no? E gli operai delle filande e poi quelli delle industrie metalmeccaniche e oggi il cosiddetto «neoproletariato» o i cosiddetti «lavoratori della conoscenza» informatizzata? O il «ceto medio» rispetto alla «piccola borghesia»? Cosa hanno in comune e cosa distingue queste figure?
    C’è un lavoro enorme di riflessione che, anche quando iniziato da singoli studiosi (io ricordo il libro di Braverman o varie ricerche di Sergio Bologna), non è detto che sia conosciuto né tenuto presente da quanti si occupano di questioni sociali o politiche. E penso che tale lavoro d’analisi vada compiuto sulle trasformazioni storiche che hanno coinvolto sia le élites ( tutte: conservatrici e innovatrici) sia le cosiddette «masse». Farlo solo per uno dei due “soggetti” ( o potenziali soggetti) è limitativo, parziale. Non coglie la realtà delle dinamiche tra loro ( élites e masse) nella sua totalità. Che a me pare ancora indispensabile conoscere.

    2. Complessità.

    Definire «complessa» la situazione odierna o l’epoca in cui viviamo non è un trucco o un sotterfugio. Non possiamo semplificarla arbitrariamente, leggendola secondo le forme (o gli “stampi”) desunti dai contesti storici precedenti o adagiandoci addirittura in strutture quasi archetipiche. Le forme in cui agiscono le élites sono specifiche nei diversi contesti storici. Ma lo sono anche quelle in cui agiscono le cosiddette masse, che non possono essere annullate e ridotte a “idiozia” o a caricature ( il “poppolo”). In certe situazioni le “masse” o il “popolo” non può più “scendere in piazza”. In certe situazioni l’astensionismo di massa, anche se non smuove i rapporti politici è una forma solo apparentemente abnorme di agire politico. E poi ci sono certe forme di resistenza in modi carsici e sotterranei che andrebbero indagate e non lo sono più. E, aggiungo, non è detto che inforcando gli occhiali delle élites le si capisca, perché da quell’ottica appaiono come forme di semplice sottomissione. Insisto anche su un altro punto: ci sono limiti precisi nell’agire delle masse, anche nelle situazioni più favorevoli, ma non è detto che ne manchino in quello, che pur si pretende sempre razionale, delle élites. (Io ho sottolineato i difetti dei “comandi centrali” durante la Prima guerra mondiale; e fa bene Nova nell’ultimo commento a precisare che non vede « le élites come il “meglio” che ci sia al mondo»). Ho anche parlato di “corrente calda” e “corrente fredda” della storia da cui veniamo. E se il limite della corrente calda è di sboccare nell’utopismo a tinte religiose, il limite della corrente fredda è quello di sminuire l’indagine sulle masse, di ritenerla irrilevante, tanto da esse ci si aspetta sempre e soltanto uno «scomposto sommovimento».

    3. Separazione dirigenti/masse.

    In questa discussione il mio intento non è di smentire la distanza o la separazione tra dirigenti e masse (o direi: tra saperi specialistici e saperi di massa o cultura di massa). Ma di porre ( o riporre) un problema, che per me rimane aperto: essa va considerata immodificabile, insuperabile, o no?
    Nel primo caso, si dovrebbe concludere, secondo una teoria chiaramente elitista (alla Michels), che la lotta per il cambiamento (delle istituzioni, dei rapporti sociali, ecc.) è riservata esclusivamente alle élites (conservatrici o innovatrici); e che le masse delle società contemporanee non sono in una condizione tanto diversa dai sudditi degli antichi regni; o che anche i lavoratori venuti fuori dalla rivoluzione industriale e organizzatisi in «movimenti operai» si distinguerebbero solo da un punto di vista formale, giuridico, dagli antichi servi ma, come quelli, *non contano* in politica e mai conteranno: sono «anime morte».
    Nel secondo caso i movimenti (quelli operai che hanno agito dalla industrializzazione in poi, quelli studenteschi e piccolo borghesi – più o meno eversivi come quello del ’68 e – perché no – quelli interventisti e poi fascisti d’inizio Novecento – o quelli che oggi, dopo lo “sbriciolamento” delle classi, vengono definiti “antisistemici”) introducono una variabile imprevista e non certamente “fisiologica” (o gradita ai dominatori); che può essere o è stata numerose volte sconfitta, ma che continua e continuerà a *far problema*; non può essere cioè ignorata; e che, anche quando si ritenesse campata in aria una sua potenziale autonomia, costringe le élites a darsi da fare, a intervenire, a tener conto della sua capacità o potenzialità di dire no, di sabotare, di opporsi, di mettere il bastone tra le ruote ai potenti; i quali sono costretti a tener conto di tali reazioni nelle loro strategie per il mantenimento o la conquista del potere tanto da aver dovuto accrescere le operazioni di controllo, persuasione, strumentalizzazione, manipolazione, addomesticamento, educazione, pedagogia, propaganda.

    4. Innovazioni e rivoluzioni.

    Certo ci sono “comandi centrali” che vogliono conservare e altri che vogliono innovare. Ma non tutte le innovazioni sono rivoluzioni. E anche le rivoluzioni vanno distinte. Non ho parlato io di fascismo e nazismo come semplice “reazione”. E non stento ad ammettere che i movimenti nazisti e fascisti (ai loro inizi) siano stati movimenti che volevano cambiare l’esistente. Ma in che senso si può o si vuole cambiare l’esistente (cioè i rapporti sociali tra gli uomini)? Perché, secondo me, la distinzione gramsciana tra rivoluzioni dall’alto o dal basso resta valida. (Preciso: non dico che le rivoluzioni dall’alto le facciano soltanto le élites e quelle dal basso le facciano il popolo o le masse da soli. M’interessa quel che può scaturire da un *certo* tipo di relazione che si stabilisce tra *certe* élites e *certe* masse).
    Trovo poi un po’ ambiguo o almeno incompleto dire che «fascismo e nazismo erano “rivoluzioni” tanto quanto il “comunismo”». Una rivoluzione può tendere a mettere tanto, anzi troppo, l’accento sull’elemento élitario, fino a farne un assoluto (fino a sintetizzare il tutto sociale e politico nel Capo). Com’è avvenuto per nazismo e fascismo e in Urss ai tempi di Stalin. Ma considero ancora « il “comunismo” (orrenda semplificazione di ciò che era solo “costruzione del socialismo”)» cosa diversa dal fascismo e dal nazismo. La costruzione del socialismo non è stata una variante o un parto gemellare del nazionalsocialismo. Proprio perché «le finalità erano nettamente differenziate». Il che è decisivo. Anche se il progetto non è stato realizzato o ha deviato. Dunque, è vero che « nessuno di questi movimenti voleva mantenere l’ordine precedente com’era invece nelle intenzioni di liberali e socialdemocratici», ma se confrontiamo il progetto del socialismo e quello del nazionalsocialismo, a me pare che sia enorme la conservazione di una quantità di «ordine precedente»: né liberale né socialdemocratico ma ancora più precedente, visto che Hitler si fece sostenere da Hindenburg , un esponente dell’aristocrazia terriera prussiana (“Junker”), ritenuto un conservatore, che auspicava una restaurazione della monarchia tedesca.

    5. Finalità.

    «Sono tutte “rivoluzioni” alla fine fallite, ma solo per chi pensa che una rivoluzione debba conseguire le finalità iniziali» (Nova). Sì, il mondo cambia «comunque». Ma non è che se si parte con l’idea di costruire il socialismo e poi vien fuori un’*altra cosa*, tutto fa brodo e tanti saluti alle «finalità iniziali». (Qui il discorso sarebbe enorme e lo salto).

    6. Dove siamo finiti oggi.

    Non credo che « siamo tutti più vicini ai “piedi” che alla “testa”», né che la scissione tra testa e piedi del racconto possa essere spiegata ricorrendo all’«età di mezzo» che stiamo attraversando. Credo, invece, che per la “doppiezza” (corrente calda e fredda) della tradizione da cui veniamo e per l’assenza di un progetto capace di mettere assieme un certo tipo di élite e un certo tipo di masse, prevalgano tuttora spinte o troppo populiste o troppo elitarie. Abbandonato da quasi tutti il progetto socialista/comunista di matrice marxista e caduta anche la vecchia distinzione tra destra e sinistra, si è andati – mi pare – più verso una dialettica “debole” tra “due destre” ( Revelli) sempre più complici o “consociate” tra loro. Direi che è stata più la ex- Sinistra ad accostarsi alla ex-Destra che viceversa. E che le stesse spinte populiste (M5S, Lega) siano più vicine alla vecchia tradizione di Destra che alla vecchia tradizione di Sinistra, prevalendo in esse più l’elemento di continuità che quello della discontinuità ( o dell’innovazione).

    7. Strategie e tattiche.

    Quando certi leader come Mao fanno «certe affermazioni», davvero «non è sempre detto che le pensino veramente», ma le fanno, perché «è importante sostenere in quel frangente certe posizioni»? Non so dire, perché qui Nova sembra dar credito a una *doppiezza* più o meno machiavellica degli stessi leader rivoluzionari quasi illimitata. Ora, per evitare la solita notte hegeliana in cui tutte le vacche appaiono nere (e cioè rivoluzionari e controrivoluzionari fanno in pratica “le stesse cose” al di là delle ideologie e dei progetti contrapposti), mi pare che si debba precisare che comunque c’è un filo abbastanza coerente tra le affermazioni strategiche fondamentali e certe affermazioni tattiche o propagandistiche. Che non tutto è cioè possibile ai rivoluzionari. «Morale è ciò che serve alla rivoluzione», disse Lenin. Ora posso ammettere che è arduo definire in certe circostanze «ciò che serve alla rivoluzione», ma mi pare di poter dire che, se finisce per prevalere una sorta di schizofrenia o una mera e capricciosa doppiezza tra ciò che si proclama e ciò che si pratica, la rivoluzione va a farsi benedire. Né credo, infine, che il Brecht “malinconico” della vecchiaia, se avesse potuto parlare fuori dai denti, avrebbe imputato le degenerazioni del socialismo nella DDR esclusivamente alla apatia o idiozia delle masse.

    8. Saperi di massa e saperi d’élite.

    «Le masse, se lo sono veramente, stanno da tutt’altra parte rispetto alle élites» (Nova). Io preciserei quanto segue: le masse stanno nello stesso *mondo* in cui stanno le élites; e però in posizione subordinata, non di dominio; e non con quel tipo di consapevolezza o cultura delle élites (e in genere dei dominatori). Ma non stanno mai nel “vuoto”, o nell’”ignoranza” o nell’”idiozia” o nella “buaggine”. Una volta si parlava di *cultura delle classi subalterne*, che era comunque una cultura, per quanto subalterna; e veniva individuata come una ricchezza di sapere pratico e legato all’esperienza diversa dai saperi (specialistici) delle élites. (Qui andrebbero accennate tutte le ricerche della scuola storica delle Annales o quelle del filone “meridionaista” e della storia sociale o le ricerche di Stefano Merli ,etc.). E mi pare che anche la separazione dal popolo dei bolscevichi non fu mai assoluta. Lenin per quel che ne so rifletteva seriamente sulla condizioni delle masse del suo tempo ( e ricordo di aver letto di una sua inchiesta sulla classe operaia in Russia). E poi si può essere «separati dal popolo anche nel proprio paese» ma soffrirne o vederlo come condizione da superare. Oppure accettare la separazione come insuperabile e farne addirittura ragione di vanto e distinzione. Dell’esperienza leninista a me pare che Nova accentui fin troppo gli elementi elitari, mettendo quasi sempre in secondo piano l’elemento correttivo, che secondo me in Lenin non mancò mai. Quando scrive: «Si parla certo anche del popolo e di ciò che “vorrebbe” (nell’interpretazione dei dirigenti “in dibattito” accanito), ma l’interesse di gran lunga prioritario, che schiaccia tutti gli altri, è il discutere di questioni strategiche cruciali, di cui il popolo non capisce un acca», dice una cosa vera. Ma a me pare sottovaluti che questa assoluta priorità data alle questioni strategiche ebbe sempre più gravi conseguenze (specie dopo la morte di Lenin) nella comprensione di quel “terra terra” su cui i piedi (e non solo plebei ma anche delle élites) dovettero marciare. Non è che la eccessiva attenzione per catturare il « momento più opportuno per sferrare l’attacco decisivo» o per « capire i punti di debolezza dell’avversario più ancora che i propri punti di forza» accentuò lo stacco tra mente e piedi e portò alla lunga non questi piedi del racconto , ma altri piedi alle varie Kronstadt e altre tragedie “inevitabili”? E poi c’è un’obiezione elementare e non aggirabile: se la politica è solo quella dei professionisti della politica o della rivoluzione, non si vede perché i piedi (gli umani che restano nella condizione di “piedi”) debbano occuparsene. Rivelatrice mi pare la domanda polemica che Nova fa: «e le masse sanno fare tutto questo lavoro?». Ma a me pare evidente e giusto rispondere: «e le élite forse conoscono davvero le condizioni di vita e le forme di lotta che le masse possono mettere in atto? Sanno fare inchiesta davvero o la trascurano per occuparsi esclusivamente di strategia? Rientrano queste inchieste nella loro strategia»?
    Dico questo perché o si riconosce teoricamente e non strumentalmente che entrambe le cose sono indispensabili e i saperi delle élites vanno raccordati ai saperi delle masse oppure le politiche si divaricano, come ho detto; e ci sarà sempre chi accentuerà il ruolo della teoria e delle strategie e chi quello della spontaneità, ecc. Posizioni che a me paiono unilaterali e monche. Se Lenin e Mao sono stati in qualche modo vittoriosi, è proprio perché hanno in qualche modo raggiunto quella certa “quadratura del cerchio” facendo entrare nella loro strategia i bisogni delle masse, addirittura quelle contadine.

    9. Gli «autentici rivoluzionari».

    Una fiducia cieca (e non confermata dai fatti) sulla funzione indispensabile delle élites a me è parsa sempre pericolosa. E poi chi dà la patente di «autentici rivoluzionari» a certe élites? Dice Nova:« Cerchiamo di non renderci ridicoli». Ma per non esserlo credo che si debba proprio evitare di riproporre la vecchia contrapposizione tra Lenin e la Luxemburg in un presente in cui non ci sono né élites capaci di dirigere né masse in qualche modo in movimento. Se la situazione è davvero mutata, vanno rivisti come ho detto sia gli schemi riguardanti le masse sia quelli riguardanti le élites. E come non vedere che se in passato entrarono «nei gruppi dirigenti, quali mosche bianche, dei veri elementi popolari (mettiamo, ad es., gli operai in certi gruppi dirigenti dei vari partiti comunisti)» e vi ebbero « sempre ruoli e funzioni nettamente marginali» con «rarissime le eccezioni», questo fatto non svela soltanto un limite delle masse da cui quegli operai d’avanguardia o di quelle loro individualità, ma della stessa forma o “stampo” partitico troppo rigido in cui essi erano immessi? E come non vedere che anche l’esempio tratto da Zola [1] non prova soltanto la voglia di assimilazione e di arrampicamento sociale del personaggio che «si ripulisce bene, si pettina con la scriminatura dei capelli in mezzo, assume un aspetto ben ordinato e molto misurato e “rispettabile”», ma anche e soprattutto la incapacità strutturale dell’ambiente che lo cooptava come “fiore all’occhiello” e la inadeguatezza di quella forma-partito, niente affatto “rivoluzionaria” ma condizionata dalla prevalenza di elementi conservatori capaci al massimo di un populismo paternalistico.
    Il povero Germinal «si ripulisce bene»! Sì, proprio come quei neri disprezzati da Malcom X che si stiravano i capelli per somigliare ai bianchi. Magari nel partito circolavano anche discorsi rivoluzionari ma l’ organizzazione restava quella “vecchia”, che “stirava” i cooptati proletari secondo il vecchio “stampo”.

    [1] «quando emergono anche un poco, non sono più popolani, “operai”, ecc; assumono tutt’altra mentalità, che si sforzano di rendere simile a quella delle élites dirigenti. In “Germinal”, molto brillantemente Zola descrive l’operaio intelligente che si stacca dal resto dei suoi “simili” e diventa uno dei capi»

  27. a questo punto, scusatemi, vi leggerò più attentamente quando mi sarò liberato di una situazione di emergenza in casa. Tanto state parlando di altre cose vostre, che non c’entrano con quello che ho raccontato. In ogni caso, sono però lieto che il racconto, sia pure del tutto indirettamente, abbia stimolato in voi una buona disposizione a discutere di una serie di problemi non irrilevanti. Con il mio raccontino non c’entrano, secondo la mia opinione e le mie intenzioni originarie. Tuttavia, non importa. Se si mettono in moto discussioni vivaci e interessanti, è pur sempre positivo.
    Il socialismo, in specie nella visione di Marx, c’entrava ben poco con la rivoluzione d’ottobre e con la proprietà statale e la pianificazione centralizzata, che hanno promosso l’industrializzazione accelerata dell’Urss a partire dal ’29. Il socialismo era un’illusione ideologica, ma è ben servito ad altri scopi, non certamente di poco conto.

  28. @ Simonitto ( 20 dicembre 2015 alle 17:48)

    Forse nel caso del racconto di Nova, come tu dici, «non c’è nessuna ‘ribellione’ da parte dei piedi», anche se un po’ si sono sottratti ai loro doveri di piedi («andavano in giro senza prima avvertire il cervello che era l’unico deputato a comandarli e orientarli»), ma nel caso dell’apologo di Menenio la questione in fondo a me pare proprio quella del rapporto dirigenti/ diretti, che qui ci appassiona e un po’ ci divide. Lì in effetti la ribellione dei plebei c’è. O meglio c’è già stata, essendo il presupposto implicito dell’apologo stesso, tant’è vero che Menenio è andato da loro per convincerli a desistere dallo sciopero. Proprio come un buon sindacalista che sa abbindolare i lavoratori ribelli.

    D’accordo, invece , quando contrasti «la metafora che le masse siano sempre qualche cosa di informe che può essere plasmata a piacimento». E nel precedente commento appena pubblicato ho già detto che si tratterebbe di cambiare ottica di studio: bisognerebbe cioè riprendere o aggiornarsi sullo studio della mentalità e dei comportamenti delle masse (o delle società definite di massa?) in modi più empirici. Sicuramente ne verrebbero sorprese, che non riguarderebbero soltanto i conflitti al loro interno. Ma dove sono le istituzioni capaci di non ridursi alle “indagini di mercato” e a fare oggi una ricerca come quella di Adorno sulla personalità autoritaria?
    Davvero siamo in una situazione quasi disperante e al massimo possiamo raccogliere volenterosamente degli indizi per contrastare i pregiudizi più approssimativi.

  29. Un po’ di storia a passi da Gatto con gli Stivali. Una visione generale, codificata nelle religioni, spesso trattata in analogia con le funzioni del corpo umano, è quella del racconto delle tre (o più) classi in cui si divide la società: sostanzialmente i saggi, i guerrieri, i lavoratori. Per restare alla nostra tradizione culturale, Platone con le divisioni dell’anima, Menenio Agrippa richiamato da Ennio, il pensiero di sè della società feudale nel X secolo (Duby).
    Questa tripartizione è di fondo un modello consistente con quello futuro della lotta di classe, perchè i dominanti hanno bisogno di un apparato militare e di uno ideologico per controllare i dominati. Marx scrivendo nel Manifesto che tutta la storia è storia di lotte di classi sostiene che la storia è dominio + sfruttamento.
    Nel racconto Nova considera l’inevitabile legame del dominio del cervello su quei malandrini scervellati e ottusi dei piedi. Prendendo in considerazione questo legame come fosse un’astrazione, una possibilità non necessaria, quasi una curiosità accidentale, il racconto diventa uno spunto per trattare solo l’aspetto funzionale (e forse darwinistico-sociale) del dominio, passando sopra ogni collegamento con l’idea di sfruttamento.
    Ma Ennio, che non dimentica mai il nesso tra i due concetti, afferma in gran parte con ragione “forse commentatori/trici di Poliscritture hanno una particolare sensibilità politica anche di fronte a un testo letterario”. Nova invece ripete “state parlando di altre cose vostre, che non c’entrano con quello che ho raccontato”.
    Giustamente secondo me Mayoor, restando sul piano narratologico, ha puntato sul grottesco come chiave del racconto, con il che però non difende la posizione di Nova, anzi, la svela: “Il grottesco, rivalutato da Nova, è una freccia appuntita, avvelenata quel tanto che basta. In dose omeopatica. Agisce sulle abitudini: producendo sogni induce al risveglio.”
    Comunque la discussione seguita al racconto è arrivata a una dead line, un punto morto, un limite oltre il quale non si riesce ad andare. Oggi i guerrieri-signori hanno una potenza impensabile: denari, scienza, armi fantastiche valide per i nemici esterni ma forse anche di più per quelli interni. I saggi li sostengono ma anche li criticano, perchè tra i saggi ci sono sia lavoratori intellettuali sempre più impoveriti sia veri sacerdoti del generale.
    Il mondo sta cambiando fin troppo, anche soggettivamente per la prima specie di saggi. E’ impossibile tornare indietro a sistemi di welfare state -stipendi in cambio di consumi- nonostante questo sia stato spacciato come sogno-parte del wto.
    I saggi volonterosi non si collegano effettualmente con i lavoratori in qualche prospettiva. (Le donne che si occupano del lavoro riproduttivo sono a parte in questa lotta, purchè producano riproduzione e allevino senza interferire più di tanto. L’alleanza delle donne con i giovani maschi di cui scriveva Carla Lonzi è oggi piuttosto rovesciata: i giovani maschi riescono a farsi alleate molte donne (nell’esercito, nelle professioni) nella loro lotta di giovani contro i maschi adulti.)
    Dei saggi fanno parte quelli che qui (e altrove) commentano. Le *battaglie* che si accendono tra chi tiene fermo il nesso dominio-sfruttamento e quelli che considerano solo la funzionalità in sé del dominio, hanno un *senso* evidente ma una portata pratica irrilevante.
    Che fare? Due passi indietro nella memoria, e nessuno in avanti…

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