Sempre in coda al flusso *reale*, inconoscibile

cerchio-cromatico 2

di Gianfranco La Grassa

Questo saggio  fa lucidamente il punto, e in termini drastici rispetto ad alcune delle principali tradizioni di pensiero otto-novecentesche, su un tema, quello della realtà, che si è presentato spesso in numerosi post di Poliscritture riguardanti ora questioni di poesia ora di politica; come pure, in modi spesso personalissimi, nei commenti. La tesi di fondo mi pare riassunta in questo passaggio: «è meglio pensare ad una realtà assoluta, autonoma, indipendente da noi e a noi esterna, che tende continuamente a mettere sottosopra ogni nostra transitoria fissità». O in questo: «E’ invece assai più sensato supporre che siamo sempre alla coda del mutamento (casuale e non finalistico) di quel flusso che rappresenta la realtà». Da  questa posizione, alla quale La Grassa è giunto dopo un lungo percorso teorico-politico, discendono una serie di affermazioni che  rifiutano ormai apertamente   idee tuttora correnti di umanità, progresso, cooperazione, solidarietà, pace, utopia ( e magari ancora di comunismo), anche quelle appartenenti alle versioni più critiche (di matrice religiosa o marxiana). In primo piano viene riproposto il «conflitto» sociale e politico. Incessante e non finalizzato. E non più tra le «classi» ma tra individui e gruppi «conservatori e innovatori». (Meglio: soprattutto tra «élites conservatrici o innovatrici»). Conflitto, comunque, sempre condizionato dal «flusso squilibrante della realtà, inconoscibile per sua “essenza”».  Il suggerimento è di leggere più volte il saggio e di discuterne col massimo di intelligenza critica e, perché no, di passione politica. [E. A.]

1. Recentemente ho riletto questo passo dai “Pensieri” di Pascal; non lo ricordavo più, da almeno una trentina d’anni non l’avevo più preso in mano.

“Tale la nostra effettiva condizione. Essa ci rende incapaci di conoscere con piena certezza come di ignorare in maniera assoluta. Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. E’ questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificarci una torre che s’innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre sino agli abissi.

Non cerchiamo, dunque, né sicurezza, né stabilità. La nostra ragione è sempre delusa dalla mutevolezza delle apparenze; nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono. Quando avremo compreso ciò, credo che ce ne staremo tranquilli, ognuno nella condizione in cui la natura lo ha messo.”.

La concezione ivi espressa è abbastanza simile a quella da me sostenuta già da tempo e che esporrò qui di seguito; credo che il lettore coglierà la somiglianza fra le due. Posso tranquillamente sostenere che la mia si è andata formando in autonomia rispetto a quanto affermato da Pascal. In me non c’è comunque alcuna idea di una torre da innalzare sino all’infinito; cioè, diciamolo pure, in pieno slancio verso Dio. E anche il fondamento che scricchiola, la terra che si apre sino agli abissi, danno l’idea di fenomeni che per Pascal accadono agli uomini senza fede nel divino. In me non c’è nulla di tutto questo. Sia chiaro che apprezzo quanto dice Pascal, semplicemente non è entrato in me quel sentimento da cui lui è pervaso. Tuttavia, la mia convinzione è di una totale inconoscibilità della realtà a noi esterna, nel cui ambito siamo trascinati come fossimo immersi in un mare a volte relativamente tranquillo, altre volte in preda a tempesta con correnti agitate (e torbide) che tendono a ribaltarci continuamente, mettendoci nella situazione di doverci aggrappare a qualche appiglio; impossibile però da trovare, data la “liquidità” del flusso tumultuoso al cui interno ci troviamo.

Su questo mare gettiamo una sorta d’olio cercando di renderlo sufficientemente più tranquillo, senza onde o con onde molto leggere, regolari e prevedibili, che ci consentano di muoverci con ordine e un certo successo nell’indirizzare la nostra rotta laddove vogliamo dirigerci giungendo, se possibile, a destinazione. E quest’olio è appunto in primo luogo il lavoro teorico che tenta di attribuire alla realtà una struttura ben organizzata e individuata da elementi fra loro articolati; e mossa, modificata, da una dinamica direzionata in modo relativamente sicuro, tale insomma da consentire previsioni circa la successione dei suoi mutamenti. In poche parole, noi creiamo un campo di stabilità, su cui poter svolgere determinate azioni, utilizzando dati strumenti e applicandovi una forza studiata apposta per giungere a precisi obiettivi, ecc. Se le nostre azioni – svolte in questo campo ideato dal pensiero (le teorie non sono solo quelle che definiamo scientifiche, ma anche quelle più rudimentali che comunque guidano il nostro agire pratico) – ottengono successi più o meno significativi, riteniamo (più che altro siamo convinti) di avere rappresentato adeguatamente la realtà. Di fronte all’insuccesso, in genere abbandoniamo invece quella “costruzione” pensata. In ogni caso, pur quando abbiamo successo, dovremmo essere consapevoli della sua transitorietà e di quella del campo su cui svolgiamo la nostra pratica d’azione; altrimenti ci trasformiamo in credenti e le nostre teorie diventano mere ideologie nel loro peggiore significato di pensieri cristallizzati, ormai “irreali” e cui si resta malgrado tutto fedeli, passando ormai di insuccesso in insuccesso fino alla miseranda fine degli ultimi fedeli (sia chiaro che la religione è altra cosa ed esula dal discorso che sto qui facendo).

Non sono solo le teorie, le pure costruzioni di pensiero, a creare detti campi di stabilità. In genere, esse precipitano nell’approntamento di apparati, di istituzioni varie, di regole secondo cui devono svolgersi le nostre particolari azioni; regole appunto difese – con opportune misure di punizione per la loro trasgressione – dagli apparati in questione. I quali, ovviamente, sono la precipitazione cosale del nostro modo di pensare la realtà negli svariati suoi ambiti, in cui dobbiamo agire con appropriata significatività e almeno approssimato successo. Teorie e apparati dunque: questi in sintesi gli strumenti della fissazione dei campi di stabilità necessari a poter compiere le varie mosse di cui si sostanzia il nostro agire pratico nei diversi settori del suo svolgimento. Senza questa stabilità pensata e ben ordinata – perfino, e non ci si meravigli dell’apparente bisticcio dei termini, quando prevediamo mutamenti caotici della “realtà” (non quella reale, bensì quella da noi costruita appunto tramite teoria e apparati) – saremmo travolti dal continuo squilibrio che l’inconoscibile realtà produce mediante il flusso tumultuoso in cui siamo comunque immersi, da cui siamo trascinati.

C’è un incessante contrasto tra tale squilibrio – velocissimo e per istanti in dati ambiti della realtà, lento e plurisecolare, plurimillenario, ecc. in altri; con svariate gradazioni intermedie – e la stabilità da noi fissata per agire in apparente equilibrio. Ribadendo che tale fissazione riguarda anche la dinamica di mutamento da noi assegnata alla “realtà” (il nostro ambito d’azione) e perfino quando detta dinamica è considerata caotica. Non a caso, noi matematizziamo pure il caos; proprio perché tutto il nostro linguaggio – ed è solo tramite il linguaggio, ivi compreso quello matematico, che pensiamo la “realtà” – immobilizza, sia pure per dati periodi (più o meno brevi o lunghi) quest’ultima, l’unica che siamo in grado di “conoscere”, che crediamo di conoscere. Con il calcolo infinitesimale, ad es., siamo convinti di ricostruire la continuità di un dato movimento; in realtà lo pensiamo secondo l’infinita successione di punti di dimensioni infinitamente piccole. Non esistono punti di dimensioni praticamente nulle; altrimenti la loro pur infinita successione non implicherebbe movimento, in pratica si rimarrebbe nel punto di partenza.

Il linguaggio inganna, ci fa credere che la realtà proceda secondo un qualche ordine e con possibili passaggi per punti discreti di equilibrio. Pensiamo senza dubbio anche il disordine, ma un disordine che consenta quanto meno il calcolo delle probabilità; un tot % che la “realtà” (quella stabilita) proceda in una certa direzione, un altro tot % per altra direzione di marcia e così via. E le probabilità segnano i punti d’arrivo della “realtà” pensata dinamicamente. Lo squilibrio sempre continuo, privo di fasci di probabilità, non appartiene al “nostro spirito”. Ed è giusto sia così, altrimenti non sapremmo come operare, in una continua situazione di ribaltamento d’ogni equilibrio. L’importante è tenere presente che tale ribaltamento è senza cessa all’opera, accumula più o meno rapidamente o invece con grande lentezza (in relazione ai tempi della nostra vita) lo scostamento rispetto alle “certezze” (magari probabilistiche) insite nei campi di stabilità da noi fissati. Per cui, alla fine, saremo costretti a mutare la prospettiva teorica (creando un nuovo campo) e a distruggere e ricostruire – o quanto meno modificare profondamente – i nostri apparati e istituzioni varie.

2. Il nostro modo di pensare mi sembra invece generalmente diverso. Lasciamo pur perdere coloro che credono d’essere tutt’uno con il mondo in cui viviamo, che non esista quindi iato tra “soggetto” e “oggetto”; per me il mondo è sempre qualcosa in cui siamo, ma con cui non ci identifichiamo, resta sempre all’esterno di noi, diciamo così. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, si è convinti di poterlo conoscere per approssimazioni successive in base alla nostra esperienza seguita dalla riflessione attenta e ripetuta su di essa, su ciò che essa “ci dice”. E anche se si prende atto di una “realtà” in movimento, si è convinti di poterne conoscere infine, sempre tramite esperienza, l’andamento dinamico, le direttrici di marcia. Di queste direttrici se ne possono ipotizzare più d’una, ma si crede che si dispongano, sia pure grosso modo, secondo una determinata probabilità per ognuna d’esse. Anche quando in determinati ambiti, di fatto nella microfisica, si sostiene che molto probabilmente non esiste quanto fa parte – lo spazio e il tempo – della nostra esperienza comune, trattata come molto approssimativa, grossolana e affetta da una sorta di annebbiamento della “vista” (conoscenza) – forse dovuto alla sfera del macrofisico in cui siamo situati; evidentemente per capire la “realtà vera” dovremmo avere la dimensione dei quanti – si è fermamente certi che arriveremo a provare le nostre convinzioni. L’idea è quindi sempre quella di potersi approssimare ad una magari ancora provvisoria, ma sicura, rappresentazione della realtà (tuttavia, almeno a mio avviso, non quella reale), i cui contorni ci si farebbero sempre più illuminati dalla conoscenza per esperienza.

Diciamo, in termini appunto un po’ grossolani, che migliaia e migliaia di anni fa siamo entrati in una stanza buia e ci siamo aggirati in essa con atteggiamenti assai poco discosti da quelli animaleschi; poi pian piano, grazie a quella che chiamiamo intelligenza (o pensiero o quello che si preferisce), si sono andate accendendo delle candeline, via via più numerose, che consentivano di vedere sempre ulteriori cose, gli oggetti contenuti nella stanza. La disposizione d’essi va mutando nel tempo – con velocità diverse a seconda dei diversi “angolini” esistenti nella stanza – e noi pian piano, grazie ad un crescente numero di candeline accese, saremmo in grado di scoprire pure il loro cambiamento di posizione, perfino la loro trasformazione; e saremmo capaci di renderci conto con sempre maggiore precisione delle nuove situazioni venutesi a creare.

Non intendo sostenere che ciò sia errato; e nemmeno che quanto dirò invece adesso sia massimamente originale. In ogni caso, la mia idea è in parte diversa. Si può accettare fino ad un certo punto quanto detto appena più sopra. Siamo entrati in una stanza (per mutazione genetica e adattamento ambientale?), abbiamo acceso sempre nuove luci e rischiarato i diversi angolini, ognuno dei quali è una sorta di mondo a sé (pur collegato agli altri), in cui gli eventi si svolgono con tempi assai diversi di mutamento e trasformazione. Vediamo delle cose e constatiamo delle relazioni tra esse. In base all’uso che ne facciamo, al movimento che riusciamo a individuare per determinati periodi di tempo, alla modificazione delle loro relazioni, agli eventuali influssi esercitati sulla nostra vita, ecc., ci facciamo un’idea della funzione da esse svolta nelle loro interrelazioni reciproche e, soprattutto, in rapporto a noi.

Se la situazione fosse semplicemente questa, bisognerebbe pensare che la continua, e sempre più estesa esperienza, coadiuvata dalla creazione di nuove strumentazioni che allargano viepiù il campo di osservazione e approfondiscono la “visione” nel via via più piccolo, dovrebbe condurre ad una conoscenza del mondo che si avvicina, asintoticamente, all’esaustivo. La sensazione è invece quella del “pozzo senza fondo”, di qualcosa che comporta, di tempo in tempo, ulteriori concezioni nel più grande e allargato come nel più piccolo e approfondito. E quando si analizza la storia della nostra società, queste diverse concezioni hanno una rilevanza ed effetti a volte anche distruttivi circa passate analisi e interpretazioni, formulandone di molto differenti e fortemente contrastanti con le precedenti; e pure fra loro nello stesso periodo di tempo.

Uno dei motivi fondamentali di tale fatto mi sembra abbastanza facile da comprendere. Viviamo appunto in società, non possiamo compiere alcuna azione di reale approfondimento delle nostre conoscenze senza l’unione di più persone nell’effettuazione della stessa. Tuttavia, si constata sempre una differenziazione di vedute e interpretazioni nell’ambito dello stesso gruppo di individui che ricercano in un determinato settore della nostra spinta conoscitiva, utilizzando determinate concezioni e metodologie d’analisi. E normalmente ci sono più concezioni e metodologie d’analisi – di cui sono portatori diversi gruppi di individui – in conflitto fra loro in quel dato settore d’attività conoscitiva. Detto conflitto è particolarmente acuto quando si tratti della conoscenza relativa ai rapporti sociali e ai loro movimenti; e investe, in modo particolare, i “ricercatori” ed “esperimentatori” impegnati nella loro interpretazione.

“All’inizio” sta dunque il conflitto tra coloro che ricercano e sperimentano nuove conoscenze. E non ci si riferisce esclusivamente a quelle dette scientifiche; lo sono anche quelle della vita sociale in generale, di ogni aspetto di questa vita. Non esiste il Robinson in semplice interazione e lotta con la natura circostante. La società è ricca di tanti individui, nessuno dei quali è nella situazione di Robinson; ha sempre urti e frizioni con quelli che gli stanno intorno. Si unisce ad alcuni per poter meglio competere con altri gruppi pur essi associatisi, “intruppatisi”. Robinson non aveva alcuna possibilità di avvertire sentimenti di solidarietà, di amicizia, di amore, ecc.; al massimo si trova il suo servo nel povero Venerdì. Si provano invece i sentimenti positivi dell’“Uomo” (quello di cui certi “filosofi” immaginano una natura tendenzialmente buona) sol perché sono essenziali per condurre in porto le proprie finalità – anche, appunto, quelle semplicemente conoscitive – messe in discussione dalla prossimità (“gomito a gomito”) con altri gruppi di individui, con cui è impossibile non entrare in competizione poiché i campi d’attività sono sempre troppo stretti per ogni individuo, per ogni gruppo sociale. Non è mai vero che c’è spazio per tutti; ci si urta sempre, ognuno “inciampa” continuamente nell’attività degli altri.

L’uomo – rigorosamente al minuscolo – non è né buono né cattivo per natura; è astretto dalle necessità intrinseche agli “spazi” troppo limitati che esistono per lui nella vita associata, in cui si scontra con altri uomini. E’ obbligato ad entrare in conflitto per le esigenze della vita in comune; quella, diciamo, di tutti i giorni. Lo è anche quando si dedica alle sue più “alte” attività, nel campo della conoscenza scientifica come in quelle – forse anche più “alte” – della creazione artistica, della filosofia, della religione; insomma, nello sviluppo del pensiero in ogni suo ambito. Se gli spazi fossero sufficienti e non implicassero urti di alcun genere – e lo fossero sempre stati, fin dall’inizio della società umana e per tutti i secoli e millenni succedutisi – non avrebbero motivo di esistenza i sentimenti della cooperazione solidale, dell’amicizia, amore e via dicendo. Non c’è in genere “buon sentimento” se non in opposizione a quelli “cattivi” nati nello scontro, nella contrapposizione, ecc. generati dagli “spazi ristretti” della vita associata; la vita degli uomini, la vita che è esistita fin dai primordi, appunto dalle orde dei “primitivi” via via evolutisi in base al possesso del pensiero, della sedicente ragione.

3. Gli spazi sono ristretti perché siamo troppi? Il conflitto, esistente in ogni ambito del mondo da noi conosciuto – specialmente in quello animale – è qualcosa che appartiene alla natura? Certamente ci si deve alimentare, ogni vita animata va alimentata; e l’alimento cercato e conquistato è quasi sempre “abitato” da un’altra vita animata, che viene dunque “spenta”. Nell’uomo l’alimentazione animale è accompagnata da quella che chiamiamo spirituale o intellettuale, comunque da qualcosa di molto diverso dal semplice mangiare. Eppure anche, anzi soprattutto, tale alimentazione trova modo di provocare conflitti e competizioni, tendenze alla primazia nel “branco” (degli intellettuali, in particolare); e spesso “spegne” altri alimenti dello stesso tipo.

Appena esiste un gruppo di soggetti che devono agire associati per la loro “alimentazione”, nasce l’esigenza di una organizzazione per raggiungere effetti significativi (non sempre quelli desiderati, voluti, perseguiti, che in genere si rivelano invece alla fine non realizzati); e ogni organizzazione ha diversi livelli o gradini di tipo gerarchico e implicanti una divisione dei compiti. L’organizzazione, la divisione dei compiti, la gerarchia, incrementano di solito un conflitto interno al gruppo – per l’ascesa verso i gradini che stanno sopra (in termini di preminenza, di maggior potere e autorità, anche “morale”), oltre a conflitti di competenza o legati a modalità diverse pensate per perseguire gli stessi scopi – che contrasta (e a volte annulla) la necessità della cooperazione a finalità comuni. Più acuto è tuttavia il conflitto tra i vari gruppi compattati dall’organizzazione, che perseguono scopi differenziati, a volte decisamente avversi fra loro, perfino nettamente antagonisti.

Sorge sempre, ricorrente, l’idea che infine si giungerà ad un accordo su quale è realmente lo scopo comune “ultimo” da conseguire; e ciò sarebbe pure favorito dalla conoscenza del mondo, che crescerebbe con la progressione asintotica di cui già si è detto. Quando si fosse arrivati “infinitamente” vicini alla completezza di questa conoscenza, ogni disaccordo, causa degli urti reciproci, tenderebbe ad esaurirsi. La cooperazione diventerebbe il nostro comportamento abituale e riguarderebbe il complesso degli umani; salvo alcune eccezioni, allora effettive deviazioni dalla norma, che sarebbero ripudiate ed espulse dalla comunità. Sono millenni che si ripete questa solfa e sarà continuamente raccontata per tutta la durata della società umana. E si rivelerà reiteratamente una pia illusione.

Naturalmente, vi è pure chi non ha questa visione così pacificante e anzi pensa in termini di ineliminabile contrapposizione tra gli individui, generalmente riuniti in gruppi; tendenzialmente cooperanti all’interno (salvo gli scontri già ricordati per l’ascesa gerarchica, le competenze, le modalità diverse per conseguire dati scopi, ecc.) in funzione della lotta all’esterno. Si può far riferimento alla lotta per la sopravvivenza (anche semplicemente spirituale, ideale, ecc.) o alla volontà di potenza o comunque a qualcosa che sarebbe innato nell’uomo (come, in termini più grezzi e immediati, negli altri esseri dotati di vita). E’ possibile formulare un’ipotesi diversa e comunque credibile? Penso di sì, se però non pretendiamo di averne la prova empirica, sperimentale. E’ un’ipotesi “non provabile”, non accertabile tramite esperienza, mediante riscontro fattuale. Abbiamo indizi, non prove certe tramite ripetuto svolgimento di esperimenti.

In realtà, abbiamo forse un solo indizio, che mi sembra tuttavia piuttosto fondamentale. Normalmente, quando si accresce la nostra conoscenza (nel senso che si aggiunge una quantità in più di “sapere”; rigorosamente tra virgolette!), sembrano infine svelati, risolti, alcuni problemi che prima ci assillavano; o addirittura si aprono nuove frontiere in precedenza nemmeno sospettate. Si hanno nuove intuizioni, spesso indotte da esperienze sopraggiunte inaspettatamente, e infine giunge la sperata prova che esse sono o sembrano fondamentalmente corrette. Si costruiscono dunque delle teorie ben ordinate e logicamente consistenti, che sembrano fissare e articolare secondo un ben preciso coordinamento dati elementi costitutivi di quel tutto intuito, studiato e infine provato. Il linguaggio usato per illustrare questa teoria è in molti ambiti (soprattutto delle scienze naturali) quello matematico. Tutto sembra sufficientemente chiaro e ben risolto, pur se sussistono ancora alcuni dubbi e certe parti della teoria appaiono meno consistenti e convincenti. Nell’insieme, però, si ritiene che si sia compiuto un decisivo passo in avanti verso la “completa” conoscenza e, dunque, la possibilità di una generale comunità d’intenti.

Poi accade un fatto – nuova intuizione o nuova esperienza o anche solo un dubbio – che sposta i termini del problema apparentemente già risolto. Molto spesso si sostiene che in fondo si tratta di un accrescimento della conoscenza in quel dato ambito (in quel dato “angolino” della “stanza” in cui siamo entrati tanto tempo fa). La precedente conoscenza (l’ipotesi già fatta e “provata”) verrebbe di fatto inserita in un ambito più vasto, diventerebbe una sorta di caso particolare della nuova che si va affermando e “solidificando”; e che dunque viene pensata come più ampia, più comprensiva di quella che l’ha preceduta. Ad ogni avanzamento, tuttavia, si producono anche divergenze di opinioni, si formulano ipotesi diverse, si aprono più prospettive. Alcune teorie, in effetti, vengono considerate come ormai già acquisite stabilmente, non dovrebbero conoscere più alterazioni; al massimo, appunto, verrebbero ampliate, comprenderebbero nuovi ambiti prima sconosciuti o quanto meno non sondati adeguatamente. Questo in linea generale, ma restano problemi irrisolti; meglio ancora si aprono nuovi problemi che prima non turbavano minimamente la tranquilla convinzione degli scienziati in quell’ambito, in quell’“angolino”. E, lo ripeto, iniziano spesso divergenze sull’applicazione di quella data teoria a nuovi ambiti apertisi all’interesse della scienza; o magari anche nello stesso ambito, ma che va presentando aspetti tali da dover ridiscutere parzialmente la teoria prima affermatasi stabilmente, ecc.

Quanto detto è particolarmente individuabile nelle scienze sociali, molto più che in quelle naturali. Una conclusione viene approvata, sembra pressoché sicura – sia pure affidandosi ad un ventaglio di probabilità per soluzioni parzialmente diversificate, il che del resto avviene spesso anche nelle scienze dette naturali – e poi invece si dimostra fallace totalmente o in larga parte; si arriva allora a conclusioni assai diverse, in contraddizione con la precedente e pure fra loro. Si potrebbe pensare che questo è soprattutto originato dalla differenziazione di vari gruppi espletanti specifiche funzioni nell’ambito della sempre più complessa strutturazione della società. Non accade così. Le differenti teorie sono seguite – con maggiore o minore consapevolezza delle stesse – da individui che si raggruppano non rispettando la specifica funzione esercitata dal settore sociale cui appartengono.

4. E’ necessario, credo, pensare una ipotesi del tutto differente e senza dubbio spiazzante poiché, appunto, non se ne dà la possibilità di prova; nel senso che l’ipotesi è al di fuori della portata conoscitiva empirica, non può essere praticata, sperimentata. Prima di procedere, cerco di sintetizzare la conclusione fondamentale cui si giunti fin qui. Ritengo fortemente utopica l’idea che si possa giungere ad una pacificata e comune visione del mondo (della “realtà” per come la vediamo ed esperiamo), che infine consentirebbe la fine di ogni acuto conflitto tra individui e gruppi sociali. Si ritiene, in definitiva, ineliminabile, tale conflitto. Non si nega che esso possa essere alimentato, potenziato, favorito comunque, dalle differenti, e spesso contrastanti, funzioni svolte da diversi settori della società (che si sostanziano ovviamente di individui). Se però così soltanto fosse, sarebbe eccezionale la presenza di individui di settori sociali differenti in gruppi che, con maggiore o minore consapevolezza, seguono una data visione dell’organizzazione sociale e, in generale, della “realtà” in cui vive (e sopravvive) la società umana. Tale eventualità, invece, non è affatto rara. Ogni gruppo in conflitto con gli altri in merito a tale visione (ad es. una data teoria, pur se la maggior parte degli individui crede, erroneamente, d’essere solo pragmatica e di non avere concezioni teoriche, anche soltanto elementari e grezze, spesso “precipitate” in cristallizzati grumi ideologici) è costituito da appartenenti a svariati settori sociali, sia pure con diverse proporzioni quantitative. Ed essi lottano per tale visione perfino in contrasto con i loro più specifici interessi di parte sociale d’appartenenza.

Questi diversi gruppi in conflitto danno in definitiva vita a teorie e apparati con funzioni differenti nei diversi settori (o sottocampi); e queste teorie e apparati sono appunto gli elementi costitutivi dei campi di stabilità investiti dal flusso squilibrante della realtà (inconoscibile e solo ipotizzabile). Allora si producono deformazioni, e spesso vere fratture, in questi campi; si frammentano, dunque, si sfrangiano le teorie e apparati di cui essi si sostanziano. Le loro funzioni vengono messe in discussione, a partire da quelle delle teorie e apparati predominanti. I gruppi di individui che svolgono le funzioni in questione (gruppi, cioè, che sostengono date teorie o che organizzano, dirigono e amministrano dati apparati) sono attraversati dalle deformazioni e fratture, ne sono più o meno fortemente influenzati e spesso si dividono all’interno; e molti loro aderenti si disperdono. Iniziano così mutamenti e “rivoluzionamenti” di teorie e apparati; in speciale modo di quelle e di questi, che occupino posizioni preminenti. Cosa provoca tale mutamento più o meno radicale fino, a volte, ad assumere il carattere di una vera rivoluzione? La sensazione “empirica” (e superficiale) è che alcuni cervelli, soprattutto per quanto riguarda le teorie, o gruppi di individui negli apparati abbiano preso consapevolezza della necessità di ampliamenti e diversificazioni di quanto è sussistente ormai da tempo. In realtà all’origine del rivolgimento c’è la realtà, inconoscibile per sua “essenza”, che va sconvolgendo l’equilibrio conseguito solo transitoriamente tramite i campi di stabilità, costruiti per esigenze pratiche d’azione.

D’altronde, la presa di coscienza di un equilibrio, ormai impossibile da mantenere, avviene appunto a causa di tale spinta squilibrante che investe tutti i gruppi di individui attivi nelle teorie e negli apparati. Lo squilibrio, del tutto oggettivo e indipendente dagli individui, viene vissuto da ognuno di detti gruppi come aggressione di altri gruppi. Ne nasce un conflitto in cui ogni parte, anche quella che inizia le ostilità, si sente in realtà investita dall’azione “nemica” di altri gruppi; chi dà avvio allo scontro lo fa perché ritiene indispensabile prevenire piuttosto che attendere l’attacco di altri. Quando poi uno vince, allora è sicuro che farà ricadere la colpa del conflitto sul perdente. In ogni caso, i nuovi campi di stabilità che si andranno formando, sia in campo teorico che negli apparati, lo saranno nel corso dell’urto fra fazioni contrapposte. E chi vince impone la sua visione teorica della “realtà” e l’organizzazione considerata più propria per l’attività svolta nel campo da lui stabilizzato proprio per consentirne lo svolgimento.

Di conseguenza, gli individui – che sono di fatto portatori dello squilibrio da cui vengono investiti – si trasformano comunque in agenti del conflitto; e in questo divenire attivi non possono non manifestare le loro caratteristiche individuali, che i superficiali studiosi della “realtà” (quella dei campi di stabilità) prenderanno come le vere responsabili del cambiamento. Tali caratteristiche, invece, hanno rilievo del tutto minore rispetto alla spinta del flusso squilibrante; poiché però quest’ultimo è sconosciuto e solo ipotizzabile in base alla più o meno accentuata corrosione subita dagli ormai antiquati campi di stabilità, è più semplice pensare che si tratti dell’effetto dell’azione lungimirante di “grandi uomini” o degli “spontanei” sommovimenti delle cosiddette masse. Tutta la storia (o quasi) è scritta – ma si tratta di “difetto” credo ineliminabile – con la convinzione della priorità da assegnare a simile azione e a cotali sommovimenti.

5. La “realtà”, si sostiene soprattutto dopo gli ultimi sviluppi delle scienze naturali, è un sistema di relazioni: relazioni tra le parti che costituirebbero il mondo, ma soprattutto la relazione tra quest’ultimo e noi. Invece, ipotizzerei che la realtà è indipendente da noi, esiste in sua piena autonomia. Essa è però inconoscibile. Solo appunto per ipotesi – e tenendo conto di quanto ci è accaduto e ci accade in quanto società di umani – possiamo pensare ad un flusso continuo, indistinto, informe, non suddiviso in parti, e del tutto squilibrante; immaginiamolo, per averne un’idea approssimativa, come un moto ondoso che tutto muove, tutto trascina, tutto a volte travolge. Non siamo però in grado di agire in un simile continuo sconvolgimento e squilibrio. Procediamo perciò, nella nostra attività detta conoscitiva, alla fissazione dei campi di stabilità, che sono allora certamente dei sistemi di relazioni. Sia relazioni tra le diverse parti in cui abbiamo suddiviso tali campi per la nostra praticità d’azione; sia soprattutto tra questi campi e noi, che li abbiamo costruiti seguendo date impostazioni teoriche e dotandoli inoltre di apparati organizzativi differenziati appunto per settori vari in base alle esigenze del nostro agire.

Crediamo, magari, di passare da un gruppo di teorie ad un altro, da un sistema di apparati ad un altro, accrescendo e migliorando le nostre conoscenze. Procediamo invece al mutamento perché le vecchie teorie e i vecchi apparati vengono, oggettivamente, messi in discussione e anche travolti da quell’ipotizzato flusso (“ondoso”) del tutto squilibrante. E spesso, retroattivamente, siamo pure convinti che i mutamenti teorici e social-organizzativi abbiano seguito un certo iter. Certamente, le nostre ricostruzioni e la fissazione dei campi di stabilità l’hanno percorso. Il flusso, tuttavia, non ha iter e ci costringe “a suo arbitrio” ad adeguarci ad esso; e sempre approssimativamente, in modo impreciso, tramite continue ipotesi, che prima o poi verranno infatti falsificate (su tale problema non ha tutti i torti Popper) e dovranno essere modificate più o meno radicalmente. Logicamente, nell’immaginare (ipotizzare) qual è il flusso, prendiamo atto del suo andamento dinamico al quale tuttavia attribuiamo un dato ordine, un percorso almeno probabile, mentre il flusso è caotico e casuale; d’altra parte, il nostro cervello così funziona e ha bisogno di affibbiare sistematicità persino al caos più magmatico. Matematizziamo pure quest’ultimo se possibile; in ogni caso, gli assegniamo una certa successione di eventi, sostanzialmente razionale e prevedibile almeno probabilisticamente, perché questo è per l’appunto il funzionamento cerebrale detto ragione.

Si può invece ipotizzare utilmente – e sempre con l’impiego della ragione – che la razionalità subentri ex post, allo scopo di dotare di una determinata articolazione strutturale quella che crediamo sia l’evoluzione della società umana. Il fatto che si verifichino, nella teoria come negli apparati, mutamenti tali da obbligarci a sconvolgere le nostre precedenti convinzioni, lo attribuiamo o ad un andamento finalistico della “realtà” o ad un relativismo estremo per cui quest’ultima è pensata quale mero sistema di relazioni tra essa e noi. No, è meglio pensare ad una realtà assoluta, autonoma, indipendente da noi e a noi esterna, che tende continuamente a mettere sottosopra ogni nostra transitoria fissità (fissità anche dell’andamento dinamico presupposto, al massimo flessibilizzato tramite il calcolo delle probabilità). Dobbiamo supporre (e senza possibilità di verifica sperimentale) la realtà come casuale, non teleologica, del tutto caotica. La nostra attività conoscitiva si arrabatta a trovare punti di appiglio nel magma, sporgenze cui aggrapparsi per un determinato periodo prima di essere nuovamente staccati da quella “sosta” e riscagliati nel “vuoto”, o meglio nell’inconoscibile vortice cui siamo destinati.

Sosteniamo spesso, nel campo della conoscenza scientifica, di avere compiuto dei passi avanti. Perfino chi accetta l’idea che non ci si stia approssimando (ricordiamolo ancora: asintoticamente) alla “realtà” vera e propria, chi dunque riconosce che quest’ultima è un “pozzo senza fondo”, immagina di stare avanzando, di stare sondando il pozzo sempre più in profondità. E’ invece assai più sensato supporre che siamo sempre alla coda del mutamento (casuale e non finalistico) di quel flusso che rappresenta la realtà. C’è un barlume di consapevolezza di quanto appena affermato quando si sostiene che in definitiva la nostra conoscenza è come la “nottola di Minerva”, che arriviamo a prendere atto della “realtà” post festum, a giochi fatti.

Io invece non credo che siamo in grado di afferrare, nemmeno di inquadrare, la realtà. Ipotizzo che il flusso, correndo e sconvolgendo, metta in crisi le teorie già assodate, gli apparati già consolidatisi, da tempo. Si entra allora in un’epoca di incertezze, di dubbi, di una serie di nuovi tentativi onde riaggiustare i vecchi campi di stabilità (a tale compito si adoperano gli “agenti” conservatori) o per costruirne di nuovi (intento degli “agenti” innovatori, spesso veri rivoluzionari). Alla fine, dopo scontri e turbolenze varie per l’attività contrapposta di tali “agenti”, si arriva a nuovi campi di stabilità (di teorie e apparati): è come se ci si aggrappasse in extremis, e per la coda, al flusso squilibrante che intanto prosegue imperterrito il suo corso tumultuoso e senza ordine né direzione predeterminata.

Non siamo affatto “avanzati”, tale termine è usato impropriamente; abbiamo seguito il corso del flusso perché siamo immersi in esso, siamo trasportati dal suo moto ondoso, che ci sfugge da vari lati, che delude ripetutamente i nostri tentativi (teorici e organizzativi) di sistemazione, che ci rende edotti della transitorietà di ogni equilibrio, di ogni direzione anche soltanto probabilisticamente posta dalla nostra attività pensante, raziocinante. Infine, dopo immani sforzi, giungiamo a teorie e organizzazioni (magari ancora con parziale contrapposizione, non però acuta come in precedenza, tra teorie diverse e tra differenti strutture organizzative), che colgono “realisticamente” alcuni lati del flusso in scorrimento. Siamo soddisfatti, ci sentiamo a cavallo, riteniamo d’aver percorso un altro tratto che ci avvicina al “vero”, di essere andati un po’ più in giù nel “pozzo senza fondo”. Siamo invece già in incipiente ritardo rispetto al flusso reale; e fin da subito, o quasi, inizia l’invecchiamento dei cambiamenti teorici ed organizzativi compiuti.

Ecco perché non c’è rivoluzione che non trovi il suo progressivo spegnimento (che viene spesso vissuto come “tradimento”). Ecco perché si fa strada la delusione di chi credeva veramente in un mondo definitivamente nuovo e migliore; e invece la soddisfazione pragmatica di chi si crede vero portatore di un “sano realismo” privo di ubbie. Gli innovatori, se troppo insistono, rischiano di essere messi a morte: nei fatti o almeno nelle loro spinte ancora rivoluzionarie, che hanno magari l’effetto di far perdurare e accrescere il disordine, il caos, in netta contrapposizione con l’ormai impellente necessità di nuovi campi di stabilità, senza di cui gli esseri umani saranno sempre travolti dal flusso della realtà, accentueranno i loro reciproci conflitti distruttivi d’ogni possibilità di convivenza sociale organizzata. Il flusso continua a fuggire in avanti mentre gli esseri umani si pongono sulla sua scia, in coda ad esso, e dovranno attendere un nuovo ripetersi del “ciclo” qui sommariamente accennato. Non c’è altra scelta, pena la sconclusionatezza del nostro agire, la nostra confusione di idee, magari la fuga nella follia. Dobbiamo rassegnarci a restare in coda; conquistiamo almeno, per un certo periodo, la stabilità e possiamo perciò porre in essere azioni dotate di senso. Ci è però preclusa la conoscenza della realtà che resta sempre davanti a noi, e a debita distanza, in corsa incessante senza ordine né finalità.

6. E’ un’ipotesi tanto sconvolgente, tanto deludente? A me sembra di no. La delusione dipende soltanto dal fatto di non riconoscere che cosa può essere in effetti quello che chiamiamo spesso “progresso”, quel processo erroneamente considerato un “andare avanti” verso nuovi traguardi della presunta conoscenza; convinti che gli “innovatori” siano autentici rivoluzionari capaci di precedere gli eventi, d’essere in anticipo sui tempi ai quali è ancora ferma la maggioranza dei loro simili. I rivoluzionari, più semplicemente, si rendono conto prima degli altri che lo sconosciuto flusso squilibrante reale ha ormai sconvolto e rese obsolete le nostre istituzioni, le nostre teorie. I rivoluzionari insomma lo avvertono e si mettono ad arrancare cercando almeno di afferrare la coda di quel flusso. Quest’ultima ci dice poco o niente circa la realtà d’esso; dovremmo arrivare alla sua testa, ma ci è precluso. Alcuni pensano, nella loro ormai manifesta follia, di riuscirci; chi li segue nelle loro stralunate visioni difficilmente finirà bene.

Esistono effettivamente alcuni individui in grado d’essere “visionari” nel senso più concreto, e positivo, del termine? Ammetto di nutrire dubbi in proposito e tuttavia sarebbe errato chiudere, data la nostra ignoranza “congenita” dei processi reali del flusso, ogni possibilità in proposito. Se lasciamo da parte le grandi religioni, che si sono andate formando molto e molto tempo fa e che hanno significato del tutto diverso da quello che sto qui trattando, mi sembra comunque non siano questi individui a poter influenzare quella che definiamo, magari presuntuosamente, conoscenza del mondo e suo mutamento.

Può oggi pretendere di svolgere un’attività trasformativa della “realtà” chi riesce comunque ad avere la netta sensazione che il flusso è passato e ha reso vecchie le teorie e le strutture organizzative degli esistenti campi di stabilità. Cambiano il mondo coloro che si accorgono almeno della coda del flusso reale “in fuga” e a questa tendono ad agganciarsi, sempre per via di ipotesi e di nuove “prove sperimentali”. Se costoro conseguono un qualche successo, è evidente che la coda non è passata invano. Il successo però – e questo è decisivo nell’ammissione che la realtà è inconoscibile nei suoi più propri connotati (caotici e indistinti) – non è mai corrispondente all’obiettivo perseguito dagli innovatori, dai rivoluzionari; alla fine essi (o più facilmente i loro successori) dovranno rendersi conto che i risultati delle loro azioni sono tutt’affatto differenti da quanto desiderato e creduto realizzato. Allora, si metteranno a studiare i risultati effettivi; e, così comportandosi, fisseranno altri campi di stabilità che progressivamente andranno logorandosi e mostrando la loro caducità. E così via.

Quando si fanno simili affermazioni, subito alzano il capo i banali che sentenziano: allora era inutile agire, cercare di cambiare, tanto tutto resta com’era. Sciocchezza evidente. Non si è compreso che ormai le vecchie teorie e i vecchi apparati, le istituzioni della convivenza in una determinata formazione sociale, non reggevano ormai più; che era indispensabile avvenissero radicali sostituzioni con altre teorie e altre istituzioni più consone a reggere il peso dello scorrere tumultuoso del flusso reale. I rivoluzionari, gli innovatori, hanno solo colto – e quando quest’ultimo è già per l’essenziale passato – gli effetti logoranti, spesso fortemente distruttivi, da esso provocati. Non è stato per nulla inutile cambiare, trasformare anche con la violenza rivoluzionaria se occorre, quel mondo ormai decadente, in disfacimento. Non poteva restare così. E’ profondamente errato ragionare solo in base alla delusione susseguente alle solite illusioni di un miglioramento del mondo, dell’affermarsi di un Uomo Nuovo.

Non c’è nessuna nuova umanità possibile. I sentimenti sono e saranno sempre gli stessi, nei loro aspetti positivi come in quelli fortemente negativi; così come la ragione si arrabatterà sempre nella fissazione di campi di stabilità (teorici ed organizzativi) senza i quali quest’essere animale non è in grado di procedere in alcun modo. Semplicemente il flusso, di cui sto parlando fin dall’inizio, continuerà la sua corsa caotica e squilibrante e rovescerà alla fine quella data stabilità. Se questa umanità non vuol cadere definitivamente nello sconvolgimento più completo – dopo di che vorrei proprio vedere se riesce a sopravvivere – deve, di tempo in tempo, trovare i suoi innovatori (rivoluzionari a volte); e dovrà sopprimere chi invece continua a credere di poter sopravvivere nelle vecchie strutture ormai travolte dal reale che scorre imperioso.

Non è possibile non cambiare, sono solo i sognatori, gli illusi che, appena il mondo non si adatta al loro fantasticare di mondi migliori, frignano e dichiarano l’inutilità degli sforzi compiuti per innovare, per rivoluzionare. Questi individui sono solo un grave ostacolo (da togliere di mezzo al più presto) alla realizzazione delle nuove stabilizzazioni teoriche ed organizzative, senza le quali – pur se lontane da quelle sperate, agognate – non si dà continuazione della società, anche se i suoi rapporti assumeranno un’altra forma. Non certo però quella del “comunismo”, della bontà e solidarietà generalizzate. Basta menzogne di spiriti deboli, che spesso diventano persino degli infami. Il conflitto deve sempre sussistere proprio per le esigenze di perpetuazione della vita sociale in via via differenti strutture organizzative dei rapporti tra gruppi. Il conflitto permane, con diversi gradi di intensità, perché quando il flusso continua nella sua corsa travolgente – e i campi di stabilità appena messi in piedi cominciano subito ad invecchiare – non potranno non esserci e acuirsi i contrasti tra chi vuol conservare ciò che sempre più andrà sgretolandosi e chi si pone nella prospettiva della trasformazione. E sarà sempre così, finché durerà questa associazione di umani. Senza illusioni di sorta, con il massimo realismo invece.

7. Ho (momentaneamente) concluso queste elucubrazioni sulla realtà. Considerata come realtà, quella supposta vera ma inconoscibile; e come “realtà”, quella costruita da noi tramite fissazione (teorica ed organizzativa) di campi di stabilità, necessari ad agire senza trovarsi in continuo squilibrio, che implicherebbe il dubbio perpetuo e, di conseguenza, l’impossibilità d’agire. E non sto parlando solo di quell’azione che è movimento, agitazione; anche la meditazione, la più completa immobilità del proprio corpo, è parte dell’azione umana intesa in senso ampio.

Quanto detto qui in generale dovrebbe servire all’analisi di situazioni varie. Ad es., gli sviluppi della politica internazionale, lo svolgimento della vita sociale all’interno dei diversi paesi, delle diverse nazionalità, delle diverse aree culturali, ideologiche, religiose, ecc. Il conflitto, sia interindividuale che fra gruppi sociali, è ineliminabile in quanto portato specifico dello squilibrio, dei continui ribaltamenti e “capriole” cui sono appunto costretti sia gli individui sia i gruppi, immersi nel flusso squilibrante che li trasporta con sé. Pensare a società pacificate, composte da individui prevalentemente cooperanti e solidali fra loro, è la più grande utopia nutrita da masse non indifferenti di questi animali speciali detti uomini. Si tratta di speranze che andranno perpetuamente deluse e di cui perpetuamente gli uomini s’illuderanno. E chi s’illude è spesso poi il peggiore fra quelli che aggrediscono, pervertono ogni buon sentimento, anche uccidono, ecc.

Ho spiegato in un mio recente seminario che cosa intendeva Marx (e il marxismo non falsificato da pensatori truffaldini) per società comunista, preparata necessariamente dalla fase transitoria detta socialismo, che sembrava già in formazione nel grembo della società capitalistica. C’è stato non semplicemente un errore di previsione, ma proprio una considerazione non adeguata delle dinamiche in atto in quest’ultima. In ogni caso, il marxismo serio non considerava il comunismo una società fondata sulla solidarietà fra i suoi componenti; invece conflittuali tra loro in base ai sentimenti che muovono da sempre gli uomini fin dalla nascita e prime civilizzazioni di questa specie animale. Si supponeva semplicemente che venisse a cessare, proprio in base alle presunte dinamiche interne al capitalismo, l’antagonismo fra classi contrapposte. Tuttavia, per il marxismo serio la classe si identificava esclusivamente in base alla sua relazione con i mezzi di produzione: proprietà (potere di disporre) o non proprietà. Non esistono per Marx classi individuate con il criterio delle funzioni svolte e dei ruoli ricoperti dai vari “soggetti”. Questo l’hanno pensato dei volgari imbroglioni fatti(si) passare per marxisti, e che di Marx non conoscevano (né conoscono tuttora) nemmeno l’unghia del mignolo sinistro.

In base alle considerazioni qui fatte, si esce indubbiamente dal marxismo e si pensa il conflitto in termini diversi dalla ben nota “lotta di classe”. In questo scritto, lo considero un portato del flusso che squilibra gli individui, li getta sempre in una posizione ora soprastante ora sottostante agli altri, li fa urtare e irritare gli uni contro gli altri, provocando le loro reazioni reciproche; e ognuno si sentirà giustificato per le sue “male azioni” e anzi convinto d’essere lui l’aggredito. Altra conseguenza d’importanza rilevante è che gli individui si divideranno – a seconda di caratteri sia socialmente acquisiti sia anche strettamente “personali” – in una schiera più ristretta che prende atto dell’invecchiamento e tendenziale inadeguatezza delle teorie e strutture organizzative (apparati) inerenti ai campi di stabilità già fissati da tempo; e in una massa più consistente, uniformata da un’abitudine conformistica che impedisce di cogliere simile processo. Coloro che arrivano ad afferrare per brani – e pensando addirittura di conoscere – il reale squilibrante che sta buttando all’aria le passate teorie e apparati, si dividono in conservatori della vecchia strutturazione ed in innovatori, più o meno rivoluzionari.

Tale divisione è generalmente favorita da interessi specifici di dati gruppi sociali posti in posizione predominante nelle vecchie strutture, mentre altri premono per sostituirsi ad essi. Non si creda però che non vi siano ampie commistioni, e dunque alleanze e raggruppamenti, tra individui appartenenti a settori sociali con interessi contrastanti. In ogni caso, man mano che il flusso reale passa e investe “il vecchio”, questo si va decomponendo, creando effettive difficoltà alla convivenza degli individui in quella data società (formazione sociale con rapporti d’un certo tipo). Il conflitto tra conservatori e innovatori si acuisce e smuove anche gli abitudinari conformisti “di massa”. Ed è allora che si mettono in movimento i “grandi cambiamenti” storici, sia nel campo delle teorie sia in quello dell’articolazione e strutturazione in apparati. Questi cambiamenti – e i movimenti di masse che provocano, i legami tra queste e i due schieramenti opposti degli agenti conservatori e innovatori (riuniti in élites fra loro in conflitto sempre più accanito) – devono essere analizzati caso per caso, con generalizzazioni assai caute, con riferimenti obbligati all’esperienza di conflitti passati, sempre però aggiornata alle nuove contingenze.

E’ qui che entra in gioco la vera analisi della politica, intendendo quest’ultima quale serie di mosse facenti parte delle strategie poste in opera nel conflitto tra vari raggruppamenti sociali, con alla loro testa le élites conservatrici o innovatrici (con varie gradazioni nelle une come nelle altre). Una serie di mosse, che parte dall’analisi dei rapporti di forza esistenti tra le parti in lotta, della loro posizione reciproca nello spazio (e nei tempi) del conflitto; e soprattutto tenendo conto delle possibili, probabili, mosse di difesa e/o d’attacco dell’avversario. E’ qui che subentra un tipo di argomentazioni che ricorrono spesso all’intersoggettività dello scontro, come se questo scaturisse realmente dalle volontà e disegni degli individui o gruppi che vi sono coinvolti. Non si può fare a meno di questa tipologia d’analisi, di studio delle varie mosse delle parti in conflitto. Questo non è però sufficiente. Secondo me, non si deve mai dimenticare che “dietro” lo scontro tra soggetti (individui o gruppi) vi è il flusso squilibrante della realtà, inconoscibile per sua “essenza”. Chi si ferma alla semplice lotta tra soggetti pensa magari che gli innovatori siano perfino in anticipo sui “tempi storici”, che le soluzioni teoriche e organizzative da loro progettate e attuate dureranno a lungo, sono forse pressoché definitive. E’ facile pensarlo nelle scienze naturali, dove il conflitto è meno acuto e i tempi di svolgimento della realtà macro o microfisica sono spesso assai lunghi rispetto alla vita umana. Nelle “scienze” sociali (se così si possono intendere) – dove subentrano pure più acuti conflitti d’interesse tra individui e gruppi, ma soprattutto dove i tempi di scorrimento del flusso squilibrante sembrano essere più veloci – è ancora più indispensabile tenere conto delle ipotesi formulate nel presente scritto sulla realtà. E’ il flusso caotico, tumultuoso, in cui siamo immersi e che ci trascina travolgendoci continuamente, ad essere il connotato oggettivo posto alla base ed esplicativo dei conflitti intersoggettivi.

I soggetti (individui e gruppi) lottano, credendo di realizzare “il futuro migliore” per l’umanità. Il “futuro” è invece già in atto, sta già lavorando a logorare, sgretolare, quanto la politica svolta dai soggetti in urto – i conservatori e gli innovatori – crede di avere ottenuto o di poter ottenere assai presto. Progetti e volontà di entrambi i gruppi di soggetti sono già stati gettati, o stanno per essere gettati, nei “forni” del flusso reale, che li “cuocerà” a puntino e li fornirà ai contendenti nel loro sapore amaro e deludente. Ogni volta, i soggetti in conflitto si sentiranno sulla cresta dell’onda, saranno convinti di stare lottando per progetti sicuri e realizzabili; e ogni volta entreranno poi “in depressione” e alzeranno “alti lai alla ria sorte”. La si smetta e si valuti quanto qui detto: la realtà corre e sconvolge i campi di stabilità umani. Gli uomini però non possono fermarsi, gridare allo sconforto e all’inutilità dell’agire umano. Nemmeno per sogno! E’ indispensabile correre dietro al flusso, immersi nel suo pieno squilibrio, continuamente stabilizzando e agendo, e poi ri-stabilizzando e ri-agendo; e così sempre, fino a che l’umanità non cesserà di esistere. Allora potrà riposare in eterno. Prima no, si deve incessantemente procedere nel conflitto e nel cambiamento; e sempre “in coda” al flusso squilibrante, ad una realtà che mai conosceremo (nel senso comune di questo termine) ed in cui siamo costretti a nuotare, o quanto meno ad agitare le membra, pur quando ci sforziamo di galleggiare “a morto”.

Nota di E. A.
 Il termine 'reale' , che ho reso tra asterischi (*reale*) corrisponde a reale (in corsivo). Word Press non permette il corsivo nel titolo del post.

55 pensieri su “Sempre in coda al flusso *reale*, inconoscibile

  1. Non entro in merito al discorso generale, peraltro molto interessante, ma voglio solo precisare qualcosa riguardo alla seguente affermazione: “Con il calcolo infinitesimale, ad es., siamo convinti di ricostruire la continuità di un dato movimento; in realtà lo pensiamo secondo l’infinita successione di punti di dimensioni infinitamente piccole. Non esistono punti di dimensioni praticamente nulle; altrimenti la loro pur infinita successione non implicherebbe movimento, in pratica si rimarrebbe nel punto di partenza.”
    Qui si riecheggiano i paradossi di Zenone di Elea ( 489–431 a.C). Non voglio neanche entrare nelle obiezioni sollevate dal matematico Umberto Bartocci alla soluzione “standard” e vorrei lasciare da parte anche la meccanica quantistica in quanto inessenziali a ciò che voglio affermare.
    Nel Calcolo e nella Geometria i punti sono di dimensioni rigorosamente nulle. Ciò non impedisce ai metodi elaborati partendo da questo concetto di fornire le risposte, corrispondenti all’osservazione empirica, ai problemi sollevati da Zenone. La retta reale è costituita proprio da una successione di infiniti punti privi di dimensione eppure ha lunghezza infinita. Il fatto è che l’infinito del continuo sfugge ad una comprensione intuitiva: tra due punti scelti comunque vicini vi è sempre un’infinità continua di punti! E’ un paradosso ma non un’antinomia.
    Che dire allora di Georg Cantor che concepì infiniti ancora più grandi posti in sequenza numerabile?
    Che poi la ricerca su tali questioni, sia filosofica che più strettamente matematica, non debba essere considerata conclusa questo sì ma gli argomenti devono essere messi nella corretta prospettiva.

  2. La realtà, per la scienza, va dal piccolo all’universo visibile e invisibile; per i poeti è lo stesso, ma comprendendo l’uomo, l’ieri, l’oggi e il domani. Quante altre realtà ci sono? Svariate. La realtà non è un valore assoluto, ma se si parla di realtà sociale, perché di questo si tratta, bisognerebbe specificarlo nelle avvertenze.
    Il saggio di La Grassa tenta di rispondere al fallimento delle aspettative, reali o presunte, della generazione dei discepoli marxisti rimasti orfani dal ’68. Almeno questo è quel che m’è venuto da pensare. Solo che l’autore, appunto perché marxista, non cerca rifugio nella speranza: razionalizza, pone prospettive di fluidità, di continuo mutamento. Correggendo l’interpretazione classista della realtà – sociale – rivede i termini della contrapposizione storica e ideologica; ma, inaspettatamente, si avvicina alla teoria dell’eterno ritorno di nietzscheana memoria.

  3. Mi è giunta stamattina, dal Interno poesia, questo testo di Stelvio Di Spigno che, secondo me, in parte risponde ai pensieri che mi sono fatto leggendo La Grassa.

    La voce corta

    C’è sempre un anno che precede, con una voce corta
    che ti dice che è giusto partire, rimescolare
    le frasi, fare a pugni coi desideri e le intenzioni,
    e c’è sempre un anno nuovo, nel quale è doloroso
    tornare, rivedere volti appesantiti, anche se di poco,
    perché poco il mondo si è spostato, giorno per giorno,
    mentre pensavi che tutto passasse a rilento.
    E ora eccomi qua, nella stanza come nuova,
    tra pareti che non parlano più, e che a stento,
    se potessero parlare, mi riconoscerebbero.

    In mezzo sta il tempo che è passato, la smania
    di andare a senso, il dubbio su cosa sia esattamente
    quello che si passa vivendo, diventando, amando.
    Stare bene stare male, quando sei in questo guado,
    non conta e non importa. Gli abiti saranno
    più vecchi di un anno. Quello che volevi gettare,
    chiaramente rammendati, non potrai metterli più.

    Proprio come una giacca mai indossata, finita e fuori moda,
    è questa stazione del ritorno. Foraggiarne il ricordo
    è come riaprire il guardaroba e trovarci
    un cadavere allo specchio. I ragazzi della scuola,
    la grande donna al balcone, lo screzio del collega,
    cosa saranno mai. Ora più niente. Un oscuro pianeta
    in una tasca interna, ma come mi manca
    l’allegria di non sentire più me stesso, di potere
    essere ancora e adesso, giocare a carte di notte,
    andare avanti, senza sapere, senza prezzo.

    da Fermata del tempo (Marcos y Marcos, 2015)

  4. ringrazio Ricotta per le precisazioni, anche se sta parlando delle costruzioni del pensiero umano tramite il suo linguaggio (anche matematico), il che mi sembra toccare solo superficialmente quel flusso inconoscibile di cui parlo. Comunque, la mia ipotesi non ha nulla di certo e indiscutibile poiché non è verificabile. Risponde a un determinato obiettivo che forse non è ben chiarito qui e che mi ha consentito un secondo saggio non pubblicato. Sull’eterno ritorno, ho dubbi. Tornano i sentimenti umani magari con forme espressive diverse. Ma il flusso è come un grande cavallone che conosciamo nella sua superficie e procede sempre oltre sopravanzandoci, mettendo fuori uso i vecchi schemi interpretativi (teorie) e costruttivi (apparati, istituzioni, ecc.). L’unica cosa che possiamo ottenere è il successo di restare in piedi (tipo il surfista) ma conoscendolo solo in superficie; a volte siamo invece travolti dal cavallone e non capiamo più dove ci troviamo, spesso affoghiamo, ecc.

  5. ..a tratti mi è sembrata molto suggestiva la narrazione e meno razionale di quanto forse non fosse nell’intenzione dell’autore, dato che mi ha richiamato alla mente la descrizione di un girone dantesco, in particolare Paolo e Francesca travolti dalla bufera infernale…Così saremmo noi uomini in balia di “una realtà” parallela alla nostra, del tutto inconoscibile, caotica e non telematica ( a parte che anche la dichiarazione di negatività inplica una conoscenza), per noi comunque capricciosa e dispettosa che ci intralcia e ci semina sempre nei nostri sforzi di sopravvivenza, vedi campi di stabilità teorici e organizzativi, trascinandoci in perpetui conflitti…D’altra parte questa visione, che ci fa quasi inermi davanti al flusso squilibrante della “realtà”, ci solleva dalle responsabilità collegate ad esso. Noi insomma verremmo solo dopo a problemi attuali come l’effetto serra, la disertificazione del pianeta, la distribuzione ingiusta dei beni, la crescita esponenziale di rifiuti, anche tossici, dovuti a consumismo e guerre: noi siamo solo chiamati ad arginarli attraverso soluzioni via via sempre inadeguate…Ma allora noi chi siamo? A volte penso che è proprio lo scollegamento tra il nostro cervello e il corpo che comprende la mente intera, bisogni fisici e spirituali compresi, a farci sentire separati dalla realtà, che per intero siamo anche noi…

  6. mi sembrava di aver detto chiaramente che il flusso inconoscibile (e SQUILIBRANTE) è ipotesi (non certa e indiscutibile e come minimo perfezionabile) che serve solo a comprendere come mai non si raggiungono mai i risultati voluti, desiderati, sperati, per cui si dà anche la vita a volte. Niente fraternité, liberté, égalité; niente socialismo e paese in cui decidono i Soviet . Ecc. ecc. Ho anche detto chiaramente che questo non giustifica la vigliaccheria di dire: allora è inutile fare qualcosa. D’altra parte non si può non agire anche per semplice sopravvivenza, per tenersi mimamente a galla nell’onda tumultuosa che ci trasporta.

    1. @ Franco Nova
      Spaventosamente reale il tuo pensiero .
      Bisognerà esporsi, entrare nell’onda , dare la vita?
      Tutto cambia anche la rivoluzione.
      Il saggio di La Grassa fa pensare a qualcosa di assolutamente possibile a verificarsi.
      La stabilità attraverso le regole, dopo essere entrati ormai nella confusione totale seguita da terrore e miserie, riusciremo a trovarla senza esporre le nostre vite , esporle s’intende nel modo più tragico?
      Vorrei ancora pensare al ritorno dei sentimenti che fanno dell’uomo la vera dimensione nella quale dovrebbe poter vivere, ma tutto e tutti siamo ormai sordi a questo appello.
      Non funziona più ormai.
      L’umanità muore quando la gente non crede più in se stessa e nei suoi sentimenti e principi. Se sopravviverà , inevitabilmente sarà travolta .
      E’ una voglia di vivere forte che corre su desideri di altri che ci creano necessità delle quali potremmo benissimo farne a meno, bugie alle quali fingiamo di credere ogni giorno, desideri di pace tra le distruzioni.
      Si continua a vivere , a camminare, a ubbidire .
      Persino il respiro ormai è inquinato, figuriamoci i sogni e, per chi ci crede,la speranza.
      Nessuno è pronto per la rivoluzione.

  7. ..ma l’essere inconoscibili ( per me, mai conoscibili sino in fondo) e squilibranti (squilibrati da eventi esterni ed interni) nel nostro assetto lo siamo anche noi umani, che, come individui soprattutto, ma anche come specie, abbiamo a disposizione solo un breve arco di tempo. Siamo fatti della stessa stoffa di caducità, di transitorietà, di fondo oscuro, ma qualcosa eppur ci lega agli altri e al mondo. I nostri piani teorici e organizzativi se fossero più ancorati al reale, più aperti alle esigenze di tutti: io-noi-il pianeta forse sarebbero più stabili e meno distruttivi

  8. ..ma l’essere inconoscibili ( per me, mai conoscibili sino in fondo) e squilibranti (in quanto squilibrati da eventi esterni ed interni) nel nostro assetto lo siamo anche noi umani, che, come individui soprattutto, ma anche come specie, abbiamo a disposizione solo un breve arco di tempo. Siamo fatti della stessa stoffa di caducità, di transitorietà, di fondo oscuro, ma qualcosa eppur ci lega agli altri e al mondo. I nostri piani teorici e organizzativi se fossero più ancorati al reale, più aperti alle esigenze di tutti: io-noi-il pianeta forse sarebbero più stabili e meno distruttivi

  9. Questo flusso inconoscibile e squilibrante mi assomiglia molto al caos deterministico in cui si fa vedere che certi sistemi anche semplici e regolati da leggi deterministiche possono presentare, per certi valori dei parametri e dopo un certo tempo, dei comportamenti molto complessi e persino aleatori. Pertanto la teoria del caos deterministico getta un ponte fra i sistemi strettamente deterministici (regolati da precise leggi) e quelli intrinsecamente stocastici (regolati dalla pura probabilità). Un tempo si diceva che “la probabilità è la somma delle nostre ignoranze”: ebbene la teoria del caos deterministico confuta questa asserzione mostrando che se anche conosciamo le leggi esatte di un sistema esso può presentare un comportamento caotico. Questa scoperta erode molte delle nostre certezze in quanto se persino i sistemi semplici sono soggetti al caos figuriamoci quelli più complessi come le società umane. Curiosamente però, per quel che ne so io, il comportamento caotico sembra manifestarsi dalle scale grandissime, come quella dell’universo, fino ad una scala molecolare. Paiono immuni dal caos i fenomeni a livello atomico e subatomico nei quali le rigorose leggi della meccanica quantistica producono sì delle previsioni probabilistiche ma esattamente calcolabili.

  10. Se ho ben compreso, il principio del caos, chiamiamolo pure così, anche se deterministico riguarda esclusivamente la contemporaneità, l’adesso e il divenire? Le interpretazioni storicistiche sembra ne siano immuni: per queste resta valido il principio di causa ed effetto: la dinamica stupefacente che porta a rimediare inducendo molti a pensare “l’avevo detto, io/noi”. Ne va del senso dell’analisi che, posta a ridosso degli eventi, mostra limiti di fondo, spesso troppo raziocinanti, per nulla possibilistici. Ostinazione e schieramento, inutili eroismi, argini del pensiero troppo elevati. Perdita del buon senso.
    Conterà anche un diverso senso del tempo: dovremmo allora procurarci una scacchiera più grande, sempre più grande e simile a quella di Chiesa e Massoneria?

    1. La teoria del caos non riguarda solo la contemporaneità o il futuro, si può ben applicare anche al passato in quanto il presente è solo una delle possibilità che potevano verificarsi. Il principio di causa ed effetto non implica che vi sia una sola realizzazione ma può benissimo esserci uno spettro di eventi possibili ognuno con una certa probabilità di realizzarsi.

  11. purtroppo il linguaggio è quello che è e non so quali altri termini usare oltre caos. Tuttavia, mi sembra di aver accennato a quel caos che viene studiato anche matematicamente. Io ponevo “qualcosa” (usiamo questo termine così generico) che non può essere studiato e nemmeno espresso con linguaggio di un qualsiasi genere (tanto meno matematico). ll problema è che non è facile riuscire a far capire il motivo del mio porre l’ipotesi del flusso inconoscibile. Ho cercato di spiegarlo in un saggetto che dovrebbe apparire oggi nel blog Conflitti e strategie e poi anche nella mia pagina di facebook. Tuttavia, temo che si continuerà a non intendere tale motivo. Ci tornerò senz’altro sopra, ma se non si entra in sintonia con i miei “assilli” si rimarrà sempre all’esterno della vera motivazione dell’ipotesi; e la si tratterà come se facesse parte delle “normali” esigenze scientifiche. Io pratico un po’ la scienza (altro non so fare), ma non sono un patito della scienza. Tuttavia, non sono credente e non so pensare Verità Superiori di tipo mistico. Da questa contraddizione nasce lo strano statuto della mia ipotesi, che quindi viene facilmente fraintesa; ed è difficile da spiegare. Non è ipotesi scientifica, non la si può verificare (o falsificare ), non è sperimentabile in alcun modo; ma non deve nemmeno essere creduta per fede. Semplicemente “mi serve” per giustificare e dare oggettività all’intersoggettività delle mie analisi della società capitalistica condotte in base alla posta centralità del conflitto tra strategie per la supremazia; senza ricorrere però alla “volontà di potenza” o altro del genere.

  12. Il testo è costruito su due assunti: uno è quello della inconoscibilità della realtà, che a noi appare come un flusso continuo, e travolgente le ipotesi teoriche e i sistemi di organizzazione pratica con cui cerchiamo di abitarlo. Il secondo assunto è una presa d’atto sgradevole sul fatto che le risorse disponibili ci appaiano sempre inferiori alle pretese, se non ai bisogni.
    Il primo assunto è contraddittorio in se stesso, affermare la non conoscibilità del reale è un’affermazione non fondata, non vera, se lo fosse dovremmo dire che la realtà è conoscibile come non conoscibile (paradosso). Inoltre affermare la non conoscibilità del reale urta contro la banale considerazone che reali siamo anche noi, quindi omogenei a questa realtà, quindi i nostri strumenti conoscitivi non sono affatto estranei alla realtà da conoscere. Sono per altro obiezioni già avanzate da Annamaria Locatelli.
    E’ vero che La Grassa ripete più volte che il flusso è una sua ipotesi, e che va presa come tale. Tale ipotesi è però … fondata per aria.
    Il secondo assunto vuole essere una descrizione obiettiva della condizione umana nel mondo. Da qui La Grassa ricava due conseguenze, quella della lotta tra tutti gli umani per accaparrarsi il più possibile, e quella della organizzazione gerarchica per conseguire meglio lo scopo.
    Descrivere gli umani dal di fuori, come portatori di bisogni che eccedono le risorse, e saltare alla necessaria organizzazione gerarchica, significa introdurre, fra i tanti caveat che pure La Grassa dissemina circa le sue “ipotesi”, un bel pezzo di realtà fatta e finita, e senza alcuna critica!
    Ci sono state società cooperativistiche (tra i pigmei raccoglitori e cacciatori) o collaborative (nel rapporto tra i sessi) e si sperimentano forme cooperative e realtà collaborative tuttora, quindi sono *pensabili* società diverse, e qui siamo in un testo teorico, in cui di pensabilità si tratta. Arrivare di colpo alla ger-archia (che sia dei “sacri” o dei “vecchi”, il sesso non cambia ) … non sequitur.
    Proprio perchè vengono introdotti nel testo -in modo surrettizio e non critico- la lotta di tutti fra tutti e la gerarchia per ordinarla, mi chiedo quale sia il fine pratico di questo scritto. Uno è un fine distruttivo: il relativismo della conoscenza scientifica e sociale; l’altro è un fine politico, cassare ipotesi buoniste, religiose e comuniste, in nome della *dura necessità*, quella della lotta di tutti contro tutti in una natura matrigna!

  13. non è per nulla fondata per aria, ma credo inutile ripetermi. Le obiezioni mosse nemmeno sfiorano i reali motivi per cui ho posto quell’ipotesi. Per cui, per il momento la mantengo e me ne servo per i miei scopi. In ogni caso, ringrazio per l’attenzione.

  14. “Non è ipotesi scientifica, non la si può verificare (o falsificare ), non è sperimentabile in alcun modo; ma non deve nemmeno essere creduta per fede.
    Io ponevo “qualcosa” (usiamo questo termine così generico) che non può essere studiato e nemmeno espresso con linguaggio di un qualsiasi genere (tanto meno matematico). Ho cercato di spiegarlo in un saggetto che dovrebbe apparire…tuttavia, temo che si continuerà a non intendere tale motivo. Le obiezioni mosse nemmeno sfiorano i reali motivi per cui ho posto quell’ipotesi.”

    Se questa è la posizione dell’autore ogni ulteriore discorso è vano.
    Io, per esempio, credo che il nostro universo (e quindi anche noi) è un esperimento condotto, per fini imperscrutabili, da esseri molto evoluti sui quali nulla potremo mai sapere.

    1. … “esseri molto evoluti”… mica un’ipotesi, una ragionevole costruzione mentale! Avanti così, all’infinito…

  15. un’ipotesi è in effetti una ragionevole costruzione mentale. Ci si deve domandare: a quale fine essa viene approntata? Che cosa si immagina con essa? E perché la si immagina così? Io desidero fondare un’oggettività di quella intersoggettività che è il conflitto di strategie tra individui e gruppi per la supremazia. E non vorrei dovermi riferire alla “natura” (animalesca) umana. Aggiungo, en passant, che il conflitto che penso non è affatto di ognuno contro tutti. Per combattere occorrono opportune strategie di alleanze, a volte anche un’autentica amicizia, non si possono considerare tutti nemici. Pensare lo squilibrio (sempre contrastato dagli uomini con la creazione di campi di stabilità, in cui poter agire) è essenziale per immaginare l’andare di alcuni al di sopra degli altri, l’urto tra questi e quelli, ecc. Non si è per natura nemici, ma c’è qualcosa nella realtà che ci spinge al reciproco sospetto e all’antagonismo. E non ci si aggredisce per il piacere di aggredire, ma perché si ritiene di non poter fare altrimenti. E perché lo si ritiene? That is the question.

    1. A me sembra che le risposte siano già contenute nelle domande, non è necessario invocare misteriosi meccanismi. Ad esempio la teoria dei giochi si basa su un principio semplicissimo: ognuno cerca di ottimizzare il proprio profitto, qualsiasi cosa ciò voglia dire e certamente diverso per ciascuno o per gruppi. Questa teoria è ampiamente verificata dai dati empirici.
      L’etologia può insegnarci qualcosa in merito e non possiamo prescindere dal fatto che apparteniamo al mondo animale.
      Per inciso, secondo i criminologi, c’è anche chi “aggredisce per il piacere di aggredire” ovvero esistono persone “nate per uccidere”.
      Non si può ignorare il DNA, ormai questo è universalmente chiaro.

  16. insomma, si è capito che non m’interessa la teoria dei giochi o il DNA ecc. Ho formulato una determinata teoria del conflitto strategico per uscire dalle impasses di Marx, che ho messo in luce in alcuni decenni di lavoro. In Marx vi è un’oggettività su cui poi si basa la “lotta di classe” (borghesia contro proletariato), che è di per suo intersoggettiva. Il mio conflitto strategico è pure legato ad una intersoggettività di lotta (pur se non dualistica); e l’ipotesi che faccio serve solo a cercare l’oggettività. E ho detto che non cerco questa nella “natura umana”; altrimenti vi preferirei la “volontà di potenza”, assai più congrua per spiegare il conflitto che comunque conduce alla vittoria e alla supremazia di qualcuno. Tutto ciò che riguarda le scienze (fisiche o biologiche) non ha nulla a che vedere con quello che cerco. Per quale motivo sono partito da un passo di Pascal, anche lui interessato alle scienze, ma che non ne traeva le solite conclusioni da scienziato? Solo che lui era di fatto anche credente, pur con tutti i dubbi del caso; io no. Se non mi rifaccio a Dio, mi rifaccio ad una realtà (di questo mondo), non però conoscibile.

  17. SEGNALAZIONE

    STRALCIO DI UNA POESIA DI DARIO VILLA (1953-1996) CHE FORSE UN PO’ HA A CHE VEDERE CON IL TEMA DELLA REALTA’ INAFFERRABILE (E DI QUEL CHE NE CONSEGUE)…

    E dubitando, in parallelo, che il linguaggio possa essere conduttore di verità se non linguistiche, laddove il mondo non si esaurisce nella sua natura segnica (quindi ammettendo che la parola è un inadeguato strumento di conoscenza, e come tale parlerà bensì, ma non già se non d’altro) butterò lì questa prima, e perciò persistente, intuizione: che poesia sia un approccio, un tentativo di approssimazione, e in certi casi d’allontanamento, e che malgrado i doni ritmici e di movimento, malgrado i piedi, e i passi da gigante, non si avvicini al suo compiuto obietto, che chiameremo l’uomo, il mondo o come altro ci piaccia di chiamare, più di quanto il diverso non si avvicini all’uguale, o la descrizione al descritto. Così capita, felicemente a mio parere, che il suo itinerario si rovesci su se stesso, e che continui a riguardare sempre e soltanto se stesso. In un mondo in cui tutto riguarda tutto, e nulla risolve nulla, non è male che i poeti debbano sottostare a questo provvidenziale equivoco, scoprendo paradossalmente che tanto più la poesia è poesia, quanto meno somiglia all’ingombrante pretesto che l’ha suscitata. Diversamente avremo poesia del mondo, ovvero paradosso di un paradosso. Stando così le cose, se poi davvero acconsentissi a fingermi in cornice, non potrei che dipingere un autoritratto con paesaggio- laddove il paesaggio sarebbe, come minimo l’universo, riprodotto con fedeltà esasperante: sintomi e sindromi, sintesi e sintassi, sintonia e dissonanza e, come no, distuono. Ferma la mano, dario, o incorrerai nel superbo peccato scientistico dell’incontinenza tassonomica. Certo un tempo dev’esserci stato, in cui anch’io credevo di poter chiedere a quest’arte il premio rassicurante dell’illuminazione e del depistamento, della moltiplicazione e dell’analogia, del capovolgimento e della distruzione, tanto per limitarmi a un esagono di belle speranze. Dall’edificazione al crollo dell’uno e della miriade, noi ci troviamo in mezzo, e con umana indifferenza e sublime sprezzo del ridicolo, continuiamo a curare, e a incrementare, le nostre biblioteche.

    (DA http://www.nuoviargomenti.net/poesie/per-dario-villa/)

  18. Sono pignola, ma La Grassa ha “formulato una determinata teoria del conflitto strategico per uscire dalle impasses di Marx (…) legato ad una intersoggettività di lotta ” e questo va bene, e il lavoro è durato decenni.
    Intanto però ha scritto questo breve saggio in cui espone la sua teoria del conflitto richiamando altre idee, sulla conoscibilità del reale e sui rapporti umani. A queste idee egli àncora, nel saggio, la sua teoria del conflitto, non io.
    Se è uno scivolone involontario in campo filosofico, nel senso che invece la teoria del conflitto strategico sta in piedi da sola, non ho niente da dire. E’ su questo saggio, in cui conflitto e conoscibilità del reale sono stati connessi, che ho commentato.
    Non mi ripeto sulla conoscibilità (a cui si riferisce il testo di Dario Villa), e sul collegamento filosofico conflitto-realtà ho detto abbastanza.

  19. Konrad Lorenz sosteneva che noi non possiamo essere non aggressivi, possiamo solo scegliere dove e come indirizzare la nostra aggressività. Ma questo a Nova, in questa sede, interessa marginalmente. Forse che allora, a proposito della inevitabilità del conflitto, ci troviamo a discutere delle premesse per una sorta di teoria del pacifismo non utopistico?

  20. LETTURA: IN AIUTO DEL LETTORE “PROFANO”

    1.
    Qui si riecheggiano i paradossi di Zenone di Elea ( 489–431 a.C). (Ricotta)

    2.
    L’origine di questo sottile modo di argomentare è preceden-
    te a Democrito. Viene dal Cilento, nel Sud dell’Italia, da una
    cittadina che oggi si chiama Velia e nel V secolo a.e.v. [avanti era volgare (1)]
    si chiamava Elea, ed era una fiorente colonia greca.
    Qui aveva vissuto Parmenide, filosofo che aveva preso molto
    alla lettera, forse troppo, il razionalismo di Mileto e la grande idea,
    nata a Mileto, che la ragione ci mostri come le cose possano essere diverse
    da come appaiono. Parmenide aveva esplorato una via di pura
    ragione alla verità, che lo aveva portato fino a dichiarare illu-
    soria ogni apparenza, aprendo un cammino che sarebbe anda-
    to verso la metafisica, allontanandosi via via da quella che più
    tardi si sarebbe chiamata “scienza naturale”.
    Il suo allievo Zenone di Elea pure lui, aveva portato argo-
    menti sottili a sostegno di questo razionalismo fondamentali-
    sta, che nega in modo radicale la credibilità dell’apparenza. Tra
    questi argomenti c’era una serie di paradossi, divenuti famosi
    come i “paradossi di Zenone”, che cercano di mostrare come
    ogni apparenza sia illusoria argomentando che l’idea comune
    di movimento è assurda. (2)
    Il più famoso fra i paradossi di Zenone è presentato come
    una favoletta: la tartaruga sfida Achille in una gara di corsa,
    partendo con un vantaggio di 10 metri. Riuscirà Achille a rag-
    giungere la tartaruga? Zenone argomenta che, a rigor di logica,
    Achille non potrà raggiungere la tartaruga. Prima di raggiun-
    gerla, infatti, Achille deve percorrere i 10 metri, e per questo
    impiegherà un certo tempo. Durante questo tempo la tartaru-
    ga sarà avanzata di qualche decimetro. Per superare questi de-
    cimetri, Achille ci metterà un altro po’ di tempo, ma nel frat-
    tempo la tartaruga sarà avanzata ancora, e così via all’infinito.
    Achille ha quindi bisogno di un numero *infinito* di tempi per
    raggiungere la tartaruga, e un *numero infinito di tempi*, argo-
    menta Zenone, è un *tempo infinito*. Quindi conclude che, a ri-
    gor di logica, Achille ci metterà un tempo infinito a raggiungere
    la tartaruga, ovvero non possiamo vedere Achille che raggiunge
    la tartaruga. Poiché, invece, noi vediamo Achille raggiungere e
    superare tutte le tartarughe che vuole, ne segue che quello che
    vediamo è irrazionale, quindi illusorio.
    Diciamo la verità: non convince. Dov’è l’errore? Una rispo-
    sta possibile è che Zenone sbagli perché non è vero che, som-
    mando un numero infinito di cose, si ottiene una cosa infinita.
    Pensate di prendere una cordiclla, tagliarne metà, poi metà
    della metà, e così via all’infinito. Alla fine otterrete un numero
    infinito di cordicelle, sempre più piccole, la cui somma però
    sarà finita, perché comunque sarà sempre lunga quanto la cor-
    dicella di partenza. Quindi, un numero infinito di cordicelle
    può fare una cordicella finita; un numero infinito di tempi può
    fare un tempo finito, e l’eroe, anche se dovrà superare un nu-
    mero infinito di tragitti, sempre più piccoli, impiegando per
    ciascuno un tempo finito, finirà comunque per agguantare la
    tartaruga in un tempo finito.
    Sembra risolto l’apparente paradosso. La soluzione è l’idea
    del continuo, cioè l’idea che possano esistere tempi arbitraria-
    mente piccoli, dei quali un numero infinito sommano [refuso?] a un tempo finito.
    Aristotele è il primo che intuisce questa possibilità,
    sviluppata in dettaglio dalla matematica moderna.
    Ma è davvero questa la soluzione corretta nel mondo *reale*?
    Esistono davvero cordicelle arbitrariamente piccole? Possiamo
    davvero tagliare una corda un numero *arbitrariamente grande*
    di volte? Esistono davvero tempi infinitamente piccoli? Esisto-
    no davvero spazi infinitamente piccoli? È questo il problema
    con cui dovrà fare i conti la gravità quantistica.
    Secondo una tradizione antica, Zenone aveva incontrato
    Leucippo e gli aveva fatto da maestro. Leucippo conosceva dun-
    que gli arzigogoli di Zenone. Ma aveva escogitato una via *diversa*
    per risolverli. Forse, suggerisce Leucippo, non esiste niente di
    arbitrariamente piccolo: c’è un limite inferiore alla divisibilità.
    L’Universo è granulare, non continuo. Con punti infinita-
    mente piccoli non si riuscirebbe mai a costruire 1’estensione
    […]. L’estensione della cordicella deve essere
    formata da un numero *finito* di oggetti con una taglia *finita*. La
    cordicella *non* si può spezzettare all’infinito; la materia non è
    continua, è fatta di atomi singoli di taglia finita.
    Che l’argomento astratto sia giusto-o sbagliato, la conclu-
    sione – oggi lo sappiamo – ha comunque molto di giusto. La
    materia ha effettivamente una struttura atomica. Se divido una
    goccia d’acqua in due, ottengo due gocce d’acqua. Ciascuna di
    queste gocce la posso ridividere, e così via. Ma non posso con-
    tinuare all’infinito. A un certo punto ho una molecola sola, e
    sono arrivato. Non esistono gocce d’acqua più piccole di una
    singola molecola di acqua.

    ( da Carlo Rovelli, La realtà non è come appare, pagg. 26-28), Cortina Editore, Milano 2014)

    (1) La locuzione deriva da Aera Vulgaris, usata per la prima volta nel 1615 da Giovanni Keplero, volendo indicare il concetto di “era secondo l’uso comune”. Questa terminologia è stata adottata in diverse culture non-cristiane, da molti studiosi di studi religiosi e di altri settori accademici[1], per non specificare il riferimento a Cristo, dal momento che la datazione sarebbe scorretta (Cristo sarebbe nato circa 7 anni prima, sotto Erode, della data convenzionale) e da altri che desiderano utilizzare termini non-cristiani: con questa annotazione infatti, non si fanno esplicitamente uso del titolo religioso per Gesù (Cristo), che è utilizzato nella notazione avanti Cristo e dopo Cristo. Quindi, per fare un esempio, 50 e.v. significa 50 anni dopo il convenzionale anno zero dell’era cristiana, posizionato 754-753 anni dopo la leggendaria fondazione di Roma secondo il computo ab Urbe condita e quello del calendario giuliano.
    (da https://it.wikipedia.org/wiki/Era_volgare)

    (2. Nota di C. Rovelli) Un bel testo recente sui paradossi di Zenone e sulla loro rilevanza filosofica e matematica attuale è V. Fano, «I paradossi di Zenone», Carocci, Roma 2012.

    @ Ricotta
    «Non entro in merito al discorso generale, peraltro molto interessante».

    Beh, se interessante converrebbe entrarci, eccome! Anche perché è su quello che spuntano le interpretazioni più o meno contrastanti.

    1. In effetti con i miei successivi interventi ho provato ad entrare nel merito del discorso di La Grassa. Naturalmente l’ho fatto a modo mio, ovvero attraverso concetti derivati da teorie scientifiche: teorie del caos, etologia, genetica. L’autore però ha tagliato corto rispondendo, di fatto, che le mie argomentazioni sono irrilevanti per il suo problema.
      Io penso che non lo siano ma tant’è…
      Una piccola aggiunta sulla divisibilità infinita. I modelli standard discretizzano solo la massa e l’energia (che poi sono equivalenti) ma nessuno ancora è riuscito a discretizzare lo spazio e il tempo. Con la teoria delle stringhe poi le cose si ricomplicano anche per la massa in quanto le particelle diventano strutture uni-bi-tridimensionali continue oscillanti in spazi di 10-11 dimensioni. Corsi e ricorsi delle teorie scientifiche…

      1. … “ma nessuno ancora è riuscito a discretizzare lo spazio e il tempo”.
        Su La realtà non è come ci appare di Carlo Rovelli una lunga presentazione della teoria dei loop “sviluppata in quasi tutti i paesi avanzati del mondo (eccetto l’Italia)”.
        “Questi quanti di gravità rappresentati da nodi e linee, lo ripeto, non sono *nello* spazio, *sono essi stessi lo spazio* (…) Siamo dunque arrivati a uno dei risultati centrali della gravità quantistica: la struttura discreta dello spazio formata dai quanti di spazio…” pp. 150, 152.

        1. Che io sappia le teorie della gravità quantistica non hanno prodotto alcuna predizione che possa essere sottoposta a verifica sperimentale, quindi tutte queste teorie devono essere considerate delle mere ipotesi di lavoro. Alla fine potrebbero rivelarsi delle pure esercitazioni matematiche. I costrutti matematici non hanno l’obbligo di corrispondere alla realtà.
          Comunque per risolvere i problemi sollevati da Zenone non servono né la meccanica quantistica né teorie più avanzate ma bastano i concetti dell’usuale calcolo infinitesimale.

  21. se uno fa analisi politica, è ovvio che il conflitto intersoggettivo si regge da solo. Anche la “lotta di classe” marxiana, ad un certo livello di analisi, si regge da sola. Tuttavia, Marx ha voluto trovarvi una fondazione oggettiva come spiego in “Oggettività e intersoggettività” (che si trova nel blog Conflitti e Strategie o nella mia pagina in FB). E allora, ho cercato anch’io l’oggettività. Mi sono allontanato da Marx sulla questione della centralità della sfera produttiva (dei rapporti sociali di produzione) e della proprietà o meno dei mezzi di produzione. Ho posto la centralità del conflitto strategico che è una chiara fuoriuscita dal suo pensiero e dalla previsione di un necessario processo di trasformazione del capitalismo (dalle sue stesse viscere) in direzione del socialismo, prima, e del comunismo, poi. Ho però voluto restargli fedele nell’intento di trovare una oggettività che implichi il conflitto. Ripeto: per l’analisi politica dei conflitti tra Stati e tra gruppi sociali, ecc. è in fondo uno sfizio.

  22. ….purtroppo non ho approfondite conoscenze scientifiche e mi muovo un po’ a spanne per cercare di capire il pensiero di Franco Nova…Però mi sembra effettivamente di vedere una somiglianza di procedura tra Franco Nova e Zenone di Elea, cioè entrambi fondano il proprio ragionamento su un paradosso: Zenone volendo dimostrare che la realtà è immutabile ricorre alla apparente infinita divisibilità dello spazio, portando l’esempio, confutabilissimo con l’osservazione (ma più tardi anche scientificamente), che Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga che parte con un vantaggio di soli dieci metri..allo stesso modo Franco Nova, volendo dimostrare l’oggettività dei conflitti intersoggettivi per la conquista di campi di stabilità ricorre all’ipotesi (non dimostrabile scientificamente perchè inconoscibile e neanche da accogliere per fede, perchè non si tratta di religione) della presenza di un flusso continuo del “reale”, a cui noi umani siamo costretti per ragione di sopravvivenza e non per volontà di potenza, ad adattarci…Entrambi i pensatori partono da un”ammesso e non concesso…”, tuttavia poi, su quella base, costruiscono interi mondi che presentano come oggettivi

  23. ….. e poi nelle mie analisi di fase parto dal tentativo di individuare i moventi dei vari soggetti politici (Stati, gruppi sociali, élites, e via dicendo); e non le presento come oggettive né dal punto di vista delle mosse degli “agenti” né come mia interpretazione dei fatti di cui ci si sforza di decifrare il senso; magari cercando di evitare le opinioni più comuni e a mio avviso banali, sempre le solite.

  24. c’è un indizio che viene trascurato, mi sembra. Non c’è mai intenzione che si realizzi così come era stata formulata. Eppure a volte non si può parlare di insuccesso. Non credo che la Rivoluzione francese o quella russa del ’17 possano considerarsi dei puri fallimenti; e hanno cambiato il mondo. Eppure hanno deluso i loro facitori, salvo i pragmatici (mettiamo uno Stalin) che si è dato da fare con copertura ideologica, ma comunque rendendosi attivo non proprio in base ai desideri dei rivoluzionari “originari”. Se sistematicamente i risultati, anche quelli di notevole portata, sono comunque diversi da quanto perseguito, vogliamo imputarlo solo ad errori umani, all’incapacità di arrivare a conoscere la realtà? Può essere, per carità; ma perché questa conoscenza della realtà viene riconosciuta errata sempre ex post? Sono certo possibili più interpretazioni, ma nessuna è in fondo più sicura di quella che avanzo io.

  25. DOMANDE A GIANFRANCO LA GRASSA
    Non so come GLG definirebbe questo suo scritto: un breve saggio di metafisica?…Un abbozzo di antropologia?…Un sintetico approccio critico alle teorie della conoscenza?…Dopo e oltre Marx: appunti veloci per una nuova visione del mutamento sociale e storico?…
    Insomma, se non ho capito male, per GLG ci sono due realtà. Una è quella prodotta dal nostro lavoro teorico (conoscitivo? Boh!…) e dai nostri apparati (istituzioni, regole, ecc.) finalizzati alla “costruzione di campi di stabilità”, l’altra, inconoscibile per definizione, che si può solo ipotizzare. Ipotizzare?… Più che un’ipotesi la definirei una congettura, dal momento che come ripetutamente sostiene l’autore, è «un’ipotesi “non provabile”, non accertabile tramite esperienza, mediante riscontro fattuale.» «È al di fuori della portata conoscitiva empirica, non può essere praticata, sperimentata.» Per usare il linguaggio di Popper, quindi, non falsificabile.
    Come se la immagina GLG questa realtà reale? Se la immagina indipendente dai soggetti conoscitivi, assoluta, con una sua piena autonomia, un vortice, un flusso sempre teso a squilibrare quei poveretti che si organizzano per vivere e sopravvivere e, magari, vorrebbero un po’ conoscerla per prevederla e tenerla sotto controllo.
    «Solo appunto per ipotesi – e tenendo conto di quanto ci è accaduto e ci accade in quanto società di umani – possiamo pensare ad un flusso continuo, indistinto, informe, non suddiviso in parti, e del tutto squilibrante; immaginiamolo, per averne un’idea approssimativa, come un moto ondoso che tutto muove, tutto trascina, tutto a volte travolge.»
    Ovviamente, «in un simile continuo sconvolgimento e squilibrio», in generale, non siamo in grado di agire. C’è però chi si fa “portatore” dello squilibrio e se, nottola di Minerva, ne prende coscienza, ne diventa “agente”. Può succedere che se ne faccia “portatore” perché gli esseri umani confliggono continuamente tra di loro. In questo caso, il portatore, avendo preso il flusso per la coda, apparirà come innovatore o rivoluzionario. In realtà non ha rivoluzionato un bel niente, perché ci pensa la realtà reale a squilibrare continuamente i precari “campi di stabilità” raggiunti.
    Domande:
    1. – Gli esseri umani o, se si preferisce, i soggetti conoscitivi, è vero che sono distinti dalla realtà reale, ma di quale realtà fanno parte?
    2. – Cosa vuol dire “conoscenza”? Se taglio un albero, un po’ lo conosco? E se trovo il modo per agire su un albero, non solo per rappresentarmelo (linguaggio) agisco su un frammento di realtà reale o no? Se imparo a fare una galleria nella montagna, a navigare sul mare, a volare in cielo, a mandare un missile su Marte su quale realtà agisco?
    3. – Che rapporto c’è tra la realtà reale e quella costruita dai soggetti conoscitivi e/o portatori e/o agenti?
    4. – Flusso, magma, vortice, mare ondoso, caos, ecc. più che indizi della realtà reale non potrebbero essere indizi dell’autonomizzarsi della realtà sociale nell’attuale fase di sviluppo capitalistico?…Ossia non è possibile che la visione abbastanza disincantata di GLG sia “in sintonia” con la realtà sociale dominante? Ricordo Marx: “La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. […] Il continuo sconvolgimento della produzione, l’ininterrotta messa in discussione di tutte le condizioni sociali, l’insicurezza e il movimento perpetui distinguono l’epoca borghese da quella precedente. Vengono dissolti tutti i rapporti stabili e irrigiditi con il loro seguito di modi di vedere e di concezioni venerate e di veneranda età, e i rapporti nuovi invecchiano prima ancora di potersi consolidare. Si volatilizzano le immobili gerarchie sociali, viene profanato tutto ciò che vi è di sacro, e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con sguardo disincantato la propria posizione nella vita e i propri reciproci rapporti.»
    5. – Althusser sosteneva che Marx aveva scoperto il continente della storia…Ai suoi occhi questa si presentava come una totalità strutturata, articolata, a dominante, con contraddizioni e surdeterminazioni. Cosa si guadagna (conoscitivamente parlando) a pensare che la storia sia dominata da questa specie di factotum, in forma di flusso, detta realtà reale a cui si attribuiscono attributi assoluti di semidivinità?
    6. – Tra gli esseri umani c’è sicuramente competizione per l’alimentazione, l’accaparramento di risorse materiali, organizzative, simboliche, ma si può pensare che possa anche crescere la consapevolezza per un diverso modo di produrre, organizzare la vita, cooperare?…Il divario fra reale e ideale non può mettere in moto spinte per una “vita migliore”?
    Sono le prime domande venutemi in mente, di fronte a un testo, che trovo a tratti letterario più che filosofico, indubbiamente stimolante, ma poco convincente.

  26. NEI DILEMMI DELL’EPIGONISMO
    Appunti su «Sempre in coda al flusso *reale* inconoscibile*»

    1.
    L’ipotesi di una realtà del tutto preclusa alla conoscenza è una doccia fin troppo fredda. In più, anche se La Grassa non rinuncia al linguaggio («è solo tramite il linguaggio, ivi compreso quello matematico, che pensiamo la “realtà”»), non fa che sottolinearne (saggiamente o con eccessivo sospetto?) i limiti: «Il linguaggio inganna, ci fa credere che la realtà proceda secondo un qualche ordine». Seconda doccia fredda.

    2.
    Ora noi, prendendo atto del concludersi di un’epoca ma non vedendo chiari segni della nuova, ci aggiriamo tra rovine (ammirate o detestate) e ci trasciniamo dietro il peso luttuoso di esperienze che non hanno avuto «successo». Non mi pare che siamo tanto nostalgici. Ma abbiamo dubbi più o meno sani sulla necessità di rinunciare, come fa qui La Grassa, all’ipotesi di «una magari ancora provvisoria, ma sicura, rappresentazione della realtà». E ci chiediamo: che danno verrebbe alla nostra ricerca, se conservassimo in modo critico la fiducia nella conoscibilità del *reale* ? (Specie se oggi, resi più guardinghi dagli errori dei nostri antenati, riuscissimo a tenere a bada le mitologie iper-razionalistiche o positivistiche). O, all’inverso e con una certa disponibilità all’ascolto: quale vantaggio in più ci dà l’ipotesi della «inconoscibilità del *reale*»? Perché La Grassa sostiene proprio questo:

    «è meglio pensare ad una *realtà* assoluta, autonoma, indipendente da noi e a noi esterna, che tende continuamente a mettere sottosopra ogni nostra transitoria fissità […]. Dobbiamo supporre (e senza possibilità di verifica sperimentale) la *realtà* come casuale, non teleologica, del tutto caotica».

    3.
    Perché, dunque, sarebbe «assai più sensato supporre che siamo sempre alla coda del mutamento (casuale e non finalistico) di quel flusso che rappresenta la *realtà*»? Perché non dobbiamo, costi quel che costi, illuderci mai? Per evitare le ebbrezze iper-razionalistiche (una certa ingegneria sociale, ad es.) che hanno portato a disastri? Ma, anche se non volessimo ragionare in termini meramente utilitaristici, perché l’ipotesi della non conoscibilità della realtà (ovviamente, come tutte le ipotesi, «senza possibilità di verifica sperimentale» almeno immediata) – che ripeto ritengo legittima in sé – sarebbe superiore teoricamente all’altra della conoscibilità? [ Nota. A onor del vero, in un suo ultimo commento (11 gennaio 2016 alle 14:34) La Grassa ha precisato attenuando: «Sono certo possibili più interpretazioni, ma nessuna è in fondo più sicura di quella che avanzo io»].

    4.
    Mi pare condivisibile la posizione, apparentemente mediana e possibilista, di Cristiana Fischer: «la realtà è conoscibile come non conoscibile». Ma non definirei «fondata per aria» l’ipotesi di La Grassa. Potrei dire che non mostra lati davvero positivi rispetto all’altra. O che liquida definitivamente altre ipotesi (quella del comunismo in particolare) che, malgrado gli “insuccessi”, non possono secondo me essere scartate come semplici “menzogne”. E che, pur volendo innovare, riprende posizioni di pensiero tra le più discutibili e rischiose (niccianesimo e darwinismo sociale, pur se La Grassa pare distanziarsene). Non mi pare, comunque, che il suo discorso (nel tempo molto variegato: bisognerebbe però esplorare con pazienza i suoi ultimi libri e i numerosi scritti apparsi su «Ripensare Marx» e «Conflitti e strategie») possa essere efficacemente contrastato nei suoi aspetti più nichilisti o di un realismo spietato, richiamandosi, come fa Fischer, alle esperienze delle «società cooperativistiche (tra i pigmei raccoglitori e cacciatori) o collaborative (nel rapporto tra i sessi)». Sono certamente «pensabili» società diverse da questa, ma lo sono se si accetta di muoversi sul piano religioso o utopistico, che è diverso da quello scientifico-politico sul quale La Grassa afferma di condurre la sua ricerca.

    5.
    Non mi convince neppure quest’altro punto: «ipotizzerei che la *realtà* è indipendente da noi, esiste in sua piena autonomia».
    Se la realtà, com’egli sostiene, ci travolge, ecc., come fa ad essere indipendente da noi? Forse qui La Grassa intende ‘indipendente dalla nostra volontà di mutarla’ o di adattarla ai nostri desideri. Eppure una porzione di realtà è stata bene o male mutata o *antropizzata*. Ma, per essere più precisi, egli non esclude del tutto il mutamento, ma solo un certo tipo di mutamento ( di cui dirò più avanti). Certo, noi siamo fortemente in relazione con essa.(E anche questo egli non lo nega: «abbiamo seguito il corso del flusso perché siamo immersi in esso, siamo trasportati dal suo moto ondoso»). E tuttuavia ‘relazione’ non comporta ‘indipendenza’ neppure della *realtà* da noi; e non esclude, aggiungerei la conoscibilità. (Nell’analisi delle tre poesie di de Robertis avevo accennato a questa relazione parlando di «simbiosi materialistica tra uomo e natura: è, infatti, la luce (del pensiero) che «ha bisogno della luce del mondo per esistere»»).

    6.
    Peccato che in questo scritto non sia trattato (forse viene dato per implicito) il passaggio avvenuto da un atteggiamento di fiducia conoscitiva (tipico della modernità) all’attuale prudenza o sfiducia (postmoderna? epigonica?) nella conoscibilità del reale. Credo che, a tornarci su, capiremmo meglio anche le difficoltà di dialogo che si notano nei commenti. Non mi pare che siamo a un “dialogo tra sordi”. (Anche perché ritengo che una certa *sordità* degli interlocutori o lettori vada interrogata e la metterei come problema nel bagaglio di ogni buon ricercatore). Dubbi, riserve e richieste di approfondimenti non mi paiono, dunque, ingiustificati. Specie in questa fase di smarrimento. Incertezze , credo, ci sono nello stesso La Grassa, che a me dà l’impressione di aver abbandonato, sì, la posizione della conoscibilità del reale, ma solo parzialmente. E, infatti, egli respinge soluzioni metafisiche e spiritualiste («non sono credente e non so pensare Verità Superiori di tipo mistico»), che, se fosse definitivamente assodata la inconoscibilità del reale, mi appaiono quasi uno sbocco obbligato. (Una tale prospettiva, se non interpreto male, la ritrovo in un’affermazione di Ricotta (8 gennaio 2016 alle 18:20): «credo che il nostro universo (e quindi anche noi) è un esperimento condotto, per fini imperscrutabili, da esseri molto evoluti sui quali nulla potremo mai sapere».

    7.
    La Grassa sostiene che non ci sia *vero* progresso («Non siamo affatto “avanzati”, tale termine è usato impropriamente»), ma poi qualcosa che al progresso somiglia rientra dalla finestra, magari sotto il nome di «attività trasformativa»:

    «Può oggi pretendere di svolgere un’attività trasformativa della “realtà” chi riesce comunque ad avere la netta sensazione che il flusso è passato e ha reso vecchie le teorie e le strutture organizzative degli esistenti campi di stabilità».

    Anzi non esita a dire:

    «cambiano il mondo coloro che si accorgono almeno della coda del flusso reale “in fuga” e a questa tendono ad agganciarsi, sempre per via di ipotesi e di nuove “prove sperimentali”. Se costoro conseguono un qualche successo, è evidente che la coda non è passata invano».

    8.
    Come appena detto, La Grassa non mette davvero in discussione la possibilità di cambiare il mondo anche da parte degli uomini. Lo possono fare *almeno un poco*, anche se non conoscono la *realtà*, quando gli riesce di «agganciarsi» al mutamento in atto, al «flusso reale “in fuga”» (Proprio come l’olio versato sul mare in tempesta rende per poco più calma una sua zona). Questa, dunque, cambia da sé; e però alcuni uomini un poco la cambiano. Quello che egli nega è, credo, la possibilità di cambiarla secondo un *preciso, meditato, razionale progetto*, diciamo pure *umano* o *più umano*.

    9.
    Mi pare pure che, con una certa contraddizione rispetto alla negazione di ogni finalismo, anch’esso in qualche modo si riaffacci in queste pagine. Non è che si dica che il flusso reale caotico abbia proprio un fine. Eppure vengono, ad esempio, suggerite certe azioni “doverose” invece di altre:

    «Se questa umanità non vuol cadere definitivamente nello sconvolgimento più completo – dopo di che vorrei proprio vedere se riesce a sopravvivere – deve, di tempo in tempo, trovare i suoi innovatori (rivoluzionari a volte); e dovrà sopprimere chi invece continua a credere di poter sopravvivere nelle vecchie strutture ormai travolte dal *reale* che scorre imperioso».

    Ora io non credo che da una rigorosa e accertata inconoscibilità del mondo si possa dedurre un *dover essere* o un *dover fare*. Una realtà inconoscibile che fondamento può offrire a certe scelte morali, etiche, politiche? Ma forse esagero. Eppure, se sto in una stanza buia e non conosco come sia fatto quello spazio e se in esso ci siano o non ci siano mobili o altro, come faccio a muovermi o a delineare un possibile percorso? O addirittura a dare indicazioni vincolanti ad altri, come quella, nel passo appena citato, di «sopprimere» eventuali oppositori degli «innovatori»?

    10.
    Approfondendo ancora, parrebbe che La Grassa sia oggi favorevole a una sorta di “finalismo pragmatico” o “in piccolo”; e respinga, definendolo, un cumulo di «menzogne di spiriti deboli» (!) ogni “finalismo in grande”. Ma può dirsi una cosa del genere per quello che tra Otto e Novecento aveva assunto i simboli «del “comunismo”, della bontà e solidarietà generalizzate»? O per chi oggi osasse ancora rifletterci? Si tratta di un giudizio drasticamente negativo e violentemente passionale su un’esperienza storica, che di tanto in tanto lo stesso La Grassa ha giudicato più complessa e degna di rispetto.

    11.
    Al posto «del “comunismo”, della bontà e solidarietà generalizzate», viene proposto di riflettere sul conflitto, un “conflitto infinito” e senza più scopo, se non quello di perpetuarsi per perpetuare la vita sociale:

    «Il conflitto deve sempre sussistere proprio per le esigenze di perpetuazione della vita sociale in via via differenti strutture organizzative dei rapporti tra gruppi».

    12.
    E, al posto delle classi e della lotta di classe, mirante alla loro abolizione o almeno a fare in modo che «il maggior numero di esseri umani – e, in prospettiva, la loro totalità – pervenga a vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante» (Fortini), si avrebbe soltanto una lotta di individui e gruppi. Da distinguere in conservatori e innovatori. O, con più esattezza ancora, tra élites conservatrici o innovatrici. Con «“dietro” lo scontro tra soggetti (individui o gruppi) […] il flusso squilibrante della *realtà*, inconoscibile per sua “essenza”», che comunque deluderà e manderà a monte ogni progetto.

    13.
    In termini più rigorosi, costoro sarebbero soggetti fino a un certo punto. Poiché La Grassa dice:

    «i soggetti (individui e gruppi) lottano, credendo di realizzare “il futuro migliore” per l’umanità. Il “futuro” è invece già in atto, sta già lavorando a logorare, sgretolare, quanto la *politica* svolta dai soggetti in urto – i conservatori e gli innovatori – crede di avere ottenuto o di poter ottenere assai presto. Progetti e volontà di entrambi i gruppi di soggetti sono già stati gettati, o stanno per essere gettati, nei “forni” del flusso *reale*, che li “cuocerà” a puntino e li fornirà ai contendenti nel loro sapore amaro e deludente».

    L’unico vero “soggetto”, dunque, sembra appunto il «flusso *reale*».

    14.
    Quale il fine pratico del pensiero di La Grassa? Quale la «vera motivazione dell’ipotesi»? Lascerei in sospeso la risposta per il momento. Soppeserei però sia la risposta decisa che ha dato Cristiana Fischer (8 gennaio 2016 alle 12:46):

    «Uno è un fine distruttivo: il relativismo della conoscenza scientifica e sociale; l’altro è un fine politico, cassare ipotesi buoniste, religiose e comuniste, in nome della *dura necessità*, quella della lotta di tutti contro tutti in una natura matrigna».

    E sia l’autorappresentazione della sua ricerca che La Grassa ha riassunto in uno dei commenti (franco nova 8 gennaio 2016 alle 22:17):

    «Io desidero fondare un’oggettività di quella intersoggettività che è il conflitto di strategie tra individui e gruppi per la supremazia. E non vorrei dovermi riferire alla “natura” (animalesca) umana. Aggiungo, en passant, che il conflitto che penso non è affatto di ognuno contro tutti. Per combattere occorrono opportune strategie di alleanze, a volte anche un’autentica amicizia, non si possono considerare tutti nemici».

    Assieme – terza cosa – alla “sfida- rompicapo” posta in un successivo (8 gennaio 2016 alle 22:17):

    «Pensare lo squilibrio (sempre contrastato dagli uomini con la creazione di campi di stabilità, in cui poter agire) è essenziale per immaginare l’andare di alcuni al di sopra degli altri, l’urto tra questi e quelli, ecc. Non si è per natura nemici, ma c’è qualcosa nella realtà che ci spinge al reciproco sospetto e all’antagonismo. E non ci si aggredisce per il piacere di aggredire, ma perché si ritiene di non poter fare altrimenti. E perché lo si ritiene? That is the question».

    15.
    La Grassa, ai tempi di «Ripensare Marx» (qui una mia riflessione del 2010: http://win.ospiteingrato.org/Interventi_Interviste/Ripensare_Marx.html) è stato tra i pensatori provenienti da quella tradizione che con rigore hanno cercato di vedere se c’erano “buone rovine” nell’esperienza storica da cui vengono pure molti di noi, ma ha concluso che no, lì non ce ne sono proprio. Di conseguenza oggi dice:

    «Ho dunque abbandonato l’idea che la sfera produttiva sia decisiva per la formazione della società e che sia centrale, nell’indagine di quest’ultima, la proprietà dei mezzi di produzione».

    Il distacco da Marx è, dunque, sancito con fermezza. E’ un bene, un male? Anche questo a me pare un dilemma da epigoni. Non però accantonabile. Non è il caso di addentrarsi , in questa occasione, in approfondimenti che richiederebbero una preventiva conoscenza approfondita dei testi di Marx. Eppure ancora noto che, quando La Grassa afferma:

    « Non è decisivo sapere chi ha o non ha la proprietà dei mezzi produttivi, bensì comprendere il conflitto strategico, l’antagonismo (quasi mai duale) tra gruppi sociali nutrito dalla *politica* nel senso sopra indicato»

    ancora una volta mi pare di ritrovarmi di fronte a un riecheggiamento di vecchie tesi e proprio di quella «autonomia del politico» di Tronti (bestia nera per La Grassa!) piuttosto che in terreno nuovo. E l’effetto finale è di incertezza e perplessità.

    1. Devo precisare al punto 4:
      * non è una posizione mediana la mia, anzi: è l’evidenza di un paradosso, non puoi considerare conoscibile la realtà che hai detto non conoscibile.
      * Gli esempi sui pigmei (e anche la collaborazione tra i sessi) a parte il sarcasmo che davo per scontato, servono però seriamente ad affermare che la ‘natura umana’ si esprime, e stabilmente, anche NON in modalità conflittuali.
      * La lotta di tutti contro tutti la ho usata come una vecchia formula, che però sarebbe necessariamente implicata dall’altro assunto che secondo me La Grassa presuppone: la scarsità di beni rispetto alle pretese. Che poi i conflitti avvengano per gruppi o per singoli non cambia molto, sotto l’aspetto dinamico. Quello che mi premeva mostrare era che La Grassa pretendeva di “dedurre” quelli che erano invece pezzi di realtà assunti e non analizzati criticamente, la gerarchia -concretizzazioni mal poste, mi pare di ricordare le chiamasse Whitehead.
      Infine, ma qui non devo dire io come stanno le cose, il richiamo di Ricotta agli esseri molto evoluti lo avevo trovato spassosamente ironico.

  27. Allargo un po’ il tema, relativo agli ultimi punti del commento di Ennio.
    Citazione da La Grassa al punto 14: “Non si è per natura nemici, ma c’è qualcosa nella realtà che ci spinge al reciproco sospetto e all’antagonismo. E non ci si aggredisce per il piacere di aggredire, ma perché si ritiene di non poter fare altrimenti. E perché lo si ritiene? That is the question”. Qui si stringe il nesso tra flusso e conflitto, è un nesso necessario.
    La Grassa però non sa dire su cosa si stabilisca il nesso: perché non si può fare altrimenti? This is the question, scrive.
    Io noto che al nesso “flusso-conflitto”, si unisce anche la gerarchia: “flusso-conflitto-gerarchia”.
    Allora qualcosa si chiarisce, si riconosce che è una forma di società a dominio, o governo, maschile. Questo è un tema della riflessione femminile.

  28. la valanga d’acqua che travalicò la diga del Vajont e accoppò un paio di migliaia di persone, in piena oscurità notturna, credo fosse una realtà in piena indipendenza dagli accoppati, che non si resero ben conto di che cosa era accaduto.

    Un uomo è sull’attenti, rigido, immobile in equilibrio. Lo è veramente? No, è in continuo squilibrio che viene senza cessa combattuto con movimento di decine di muscoli che creano campi di stabilità momento per momento. Ad un certo punto vince la stanchezza e l’uomo perde l’equilibrio; o cade o comunque abbandona la posizione di attenti. Che significa la stanchezza? Semplicemente che lo squilibrio ha alla fine vinto, non è stato più possibile contrastarlo. Occorre un’“epoca di mezzo” (cioè una fase di riposo) per ricominciare con la solita dinamica che poi raggiungerà un nuovo limite; e così via all’infinito. Si può pensare che il punto di partenza sia l’equilibrio e che poi sopraggiunga la stanchezza ed una fase di instabilità prima di un nuovo equilibrio? Credo molto più sensato pensare ad uno squilibrio prioritario che obbliga l’uomo a mettersi sull’attenti (campo di stabilità) mediante una serie di spinte e controspinte dei suoi muscoli in grado di mantenerlo in quella posizione; anche se, ad uno sguardo molto accurato si noterebbe qualche (quasi) impercettibile sbandamento ora di qua ora di là. Infine, lo squilibrio vince la forza muscolare e lo squilibrio appare in tutta la sua evidenza. Occorre la fase di riposo e poi il “gioco” può ricominciare. Applicate questo ragionamento, pur con i necessari “adattamenti”, all’andamento storico degli eventi sociali.

    il socialismo – fase rigorosamente precedente e necessaria per Marx, che la vedeva per l’essenziale maturare nelle viscere del capitalismo già mentre viveva (vedi par. 7 del cap. XXIV del libro I de Il Capitale) – e il successivo comunismo (proprietà collettiva dei mezzi produttivi da parte dei “produttori associati”, dal “dirigente all’ultimo giornaliero”), in quanto preparato dalla prima fase socialistica, non dipendevano altro che da dinamiche sociali oggettive, coadiuvate dagli individui in quanto portatori di processi oggettivi: “qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista……. può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura” (Prefazione al suddetto I libro). Socialismo e poi comunismo non dipendono da “uomini nuovi”, migliorati “eticamente” o non so che cosa. Gli uomini restano quelli di sempre, con i loro eterni difetti (e pregi). Sono i rapporti, di cui restano “socialmente creature”, a modificarsi per dinamiche intrinseche alla storia evolutiva delle diverse formazioni sociali. Questo per Marx, sia chiaro.

    Comunque ci tornerò.

  29. Una possibile risposta a La Grassa.
    1.
    Se dovessi scrivere qualcosa sulle sorti dell’uomo, sul suo vivere nel mondo con altri ( in accordo o in contrasto: sono la stessa cosa ) cioè nel suo essere politico, non comincerei certo con Pascal ma – forse un po’ più enigmaticamente –con la Massima 901 di Goethe che dice:
    “Non si giunge mai tanto oltre come quando non si sa più dove si vada “
    L’incipit di La Grassa non è da respingere in astratto e, del resto, la direzione religiosa che esso esprime ha molti difensori che non vanno condannati. Esso è piuttosto “ fuorviante ” nel senso che prende una direzione e conduce in un luogo che non può definirsi “ la città
    dell’uomo “. In realtà La Grassa avverte che quella espressa da Pascal non è la sua strada, ma allora perché questo preambolo ?
    2.
    La Grassa esprime la convinzione di una totale inconoscibilità della realtà. E’ un’affermazione molto generica che non tiene conto della varietà dei campi di sapere entro i quali viene utilizzata.
    La realtà – quale che sia il significato che vogliamo dare a tale sostantivo ( ma ne abbiamo una nozione empirica sufficientemente utile ) – si presenta, all’evidenza , sia come evento naturale sia come fenomeno socio/culturale.
    Della prima sappiamo molto, o almeno abbastanza. La struttura della materia ci è in parte nota ed alcuni aspetti di essa sono addirittura dominabili, segno di una “ conoscenza
    completa “ dei suoi meccanismi. Conosciamo molti aspetti del corpo umano la cui fisiologia ci è nota in diversi settori, conoscenza che ci permette ancora una volta di intervenire con esiti felici . Le neuroscienze ci hanno aperto orizzonti di conoscenza sui meccanismi cerebrali e dunque sulle ragioni di certi comportamenti che sono ancora una volta ambiti di conoscenza e conoscibilità.
    Per quel pochissimo che so di La Grassa , credo di poter dire che i suoi interessi sono prevalentemente orientati verso la “ realtà sociale “ ed è dunque rispetto ad essa che si deve specificamente indagare sul concetto di inconoscibilità.
    3.
    In che senso si può ( o si deve ) parlare di inconoscibilità rispetto ad eventi sociali ? Anche questi eventi ( quale sia la loro specifica qualità ) fanno parte della realtà. Si pongono al di fuori di noi, sono percepibili cioè come oggetti di una indagine da parte dei nostri organi di senso e vengono costituire la materia prima del nostro sapere.
    Alcune osservazioni di LG sono corrette ma – a mio sommesso giudizio – non vanno enfatizzate oltre un certo limite.
    Certamente i fenomeni sociali non sono riproducibili “ in laboratorio “ anche se – a posteriori – ne sappiamo individuare le cause. Li conosciamo storicamente e – per adoperare il termine immaginoso di LG – “ nella loro coda “ . Alla formazione di essa e cioè all’esito finale non solo concorrono diversi fattori ma questi nelle loro reciproche interazioni finiscono per assumere aspetti sia di effetto che di causa.
    Tuttavia è del tutto possibile “ conoscere” come certi fenomeni sociali si siano venuti formando e sviluppando e come se ne può tracciare attendibilmente lo sviluppo secondo una catena di cause ed effetti. Tenuto conto delle osservazioni di LG direi che rispetto ai fenomeni sociali sarei portato a parlare non di inconoscibilità ma piuttosto e semmai – e sempre con cautela – di “ non dominabilità “ e quindi a portare il discorso entro una dimensione strettamente politico/storica.
    4.
    Sappiamo troppo poco sull’origine della società organizzate e cioè sulla nascita di quella formazione “ tipica “ che chiamiamo Stato. Tuttavia possiamo tranquillamente far nostra la convinzione più antica secondo la quale gli individui si aggregano per “ resistere “ agli insulti della natura che non è mai stata un paradiso terrestre ma semmai una selva aspra e forte di fronte alla quale l’aggregazione è necessaria. Questo è un punto che – a mio giudizio – va tenuto fermo, almeno per ora. Tale fenomeno non solo è conoscibile ma è addirittura
    “ plasmabile “ nel senso che si conoscono realtà statuali create “ artificialmente “ cioè, per mutuare espressioni scientifiche, “ in laboratorio “.
    Bisogna resistere alla tentazione di applicare a questi eventi giudizi di valore.
    Da questo punto fermo si dipanano catene reali di cause ed effetti in cui convergono – come è della storia dell’uomo, non mitica, ma storicamente documentabile – le due fonti di tutte le vicende umane e cioè – uso la maiuscola non retoricamente ma per sottolinearne la essenzialità – Natura e Cultura.
    Entro certi limiti nel polo Natura entrano anche gli istinti individuali, le modificazioni che essi subiscono se inseriti in un contesto sociale ( e qui siamo già nella Cultura ) e il loro interegire con altre cause. Questo intreccio rende ragione delle difficoltà registrate da LG e della coda inafferrabile o meglio, secondo me, parzialmente inafferrabile.
    E’ la stessa “ ragione “ delle aggregazioni sociali – a mio giudizio – a individuare il retto cammino e, meglio , il cammino più praticabile verso il recupero della stessa “ragione in una sorta di ritorno alle origine attraverso una nuova misurazione delle difficoltà che via via si presentano nel corso della Storia. Questo è L’UOMO.
    Concordo con chi, come LG., mostra perplessità sulla nozione di “ progresso infinito”, la cui erroneità è dimostrabile anche solo logicamente ( conclusione confermata dai fatti ) riflettendo che la situazione di equilibrio ( salute sociale ) di un sistema è continuamente messa in discussione dalle modificazioni delle condizioni reali in cui si vive o,meglio, di quelle condizioni che non possono essere oggetto di modificazione ad opera dell’uomo. Credo che ve ne siano.
    Il pensare diversamente credo appartenga a un atteggiamento, al fine irrazionale, che scambia i propri desideri come “ traguardo sempre e comunque possibile “.
    5.
    L’agire politico – la cui insufficienza è un refrain che bisognerebbe abbandonare ( Maramaldo, uccidi un uomo morto ) – è dotato, paradossalmente ( ma non troppo ) da una certa elasticità perché si modella – parlo della Politica nel senso filosofico del termine – secondo necessità e, dunque appartiene tutta all’uomo e alle sue possibilità. Se la coda è inafferrabile in toto ne sono afferrabili alcuni lembi. Pochi, molti ? Quanti lembi sono sufficienti a rendere il tentativo un successo accettabile? Queste sono le domande rilevanti
    Non possiamo pretendere che H2O non diventi acqua,ma forse si può, si deve pretendere, che una società sia più giusta, che le guerre si possono, a volte , evitare e così via.
    La Storia per quello che conosciamo è un “ aggiustamento continuo di equilibri “
    Al di fuori di tutto questo, questo poco d’accordo, cosa c’è ?
    Rimando all’aforisma 901 dal quale ho cominciato.
    Giorgio Mannacio.

  30. devo riscrivere la storiella dell’uomo sull’attenti? Non mi sembra vero che la storia della società sia un serie continua di equilibri interrotta da qualche squilibrio. Io opto nettamente per il contrario. Siamo noi che ci affanniamo a trovare stabilità che durano sovente l’espace d’un matin; e quando ne raggiungiamo una, alla fine diciamo sempre (e ripeto: SEMPRE): non era quello il risultato che avrei voluto ottenere. E allora, magari ci consoliamo dicendoci: dobbiamo essere “pratici”, “realisti”, capire che non si consegue mai quello che si persegue e desidera ardentemente, sollecitando passioni di massa e conflitti anche con uccisioni o addirittura massacri. Ebbene: perché non realizziamo mai quello che ci era venuto in testa, che pensavamo del tutto realistico (o, come Marx, addirittura inscritto nella dinamica oggettiva della formazione sociale capitalistica) e per cui abbiamo lottato con tanta emotività? Ho provato a rispondere. Certamente altri faranno meglio in futuro, è ineluttabile; basta che non rimangano a rimasticare le vecchie “storielle”.

    1. Gentilissimo La Grassa, l’uomo sull’attenti è un’immagine sua, intanto le signore stavano … ad allevare, a custodire, a proseguire. (vorrei evitare ironie sull’attenti ma non ci riesco).
      L’essenziale è che non va avanti il mondo solo con i maschi… chissà che vuol dire.

  31. ma cosa c’entra adesso il maschio. Cosa devo mettere, una famosa scenetta di “Brian di Nazareth”? Lì ogni volta che uno diceva “uomo”, un altro aggiungeva “o donna”. Bene, allora anch’io dirò: immaginate un uomo (o donna) sull’attenti….. tutto il resto rimane eguale, perfettamente eguale. E’ evidente che, per usare un’espressione di Corrado Guzzanti (mi pare si chiami Corrado), l’uomo (o donna) sull’attenti è “una metafa”. E’ solo per discutere il rapporto (anche di precedenza) tra squilibrio ed equilibrio.

    1. Wow! L’inconscio come funziona.
      L’inconscio, anche di precedenza (di quale sesso? madre o figlio?) tra squilibrio e equilibrio, quale la madre quale il figlio? Chi rompe e perché?
      Lei crede o scrive che il problema non esiste, io scrivo: perché?
      So che invece esiste.

  32. A Franco Nova.
    Non ho scritto ” una serie continua di equilibri ” ma una cosa lessicalmente e concettualmente ben diversa e precisamente ” un aggiustamento continuo di
    equlibri “. Se l’aggiustamento ( collegato all’aggettivo modale ” continuo ” ) è continuo ciò significa che non vi è un equlibrio stabile. Grazie dell’attenzione.
    Giorgio Mannacio

  33. …secondo me, è vero che l’essere umano è continuamente in bilico tra spinte squilibranti di ogni tipo, che provengono dal flusso “reale” interno e esterno ( ma questa distinzione forse è superflua) nell’intreccio incessante tra Natura e Cultura (anche questa distinzione potrebbe essere solo utile per capirsi), ma a me va di pensare ( Ricotta) che ci sia un filo rosso ad unificare gli sforzi per conseguire campi di stabilità nel cammino della storia, un filo che riporta a un nucleo, ad un baricentro da cui dovremmo ripartire tutte le volte che abbiamo smarrito la strada…Certo oggi le spinte che ci catapultano lontano da noi stessi, come individui e come gruppi, sono forsennate e diventiamo “l’uomo in crisi”, (mi sembra il titolo di un racconto di Franco Nova), sull’orlo della nevrosi e le speranze si assottigliano…

  34. Per me il problema (che mi assilla, e non pretendo che sia così per tutti) non è se l’equilibrio è instabile e deve continuamente essere riaggiustato. Immagino (se non piace ipotizzo, mi va bene pure congetturo) di essere immerso, con i miei simili, in un mare con onde gigantesche che tende sempre a travolgermi, farmi girare su me stesso, mi fa ingoiare acqua e via dicendo. E questo mare, tanto più si va in profondità, tanto più è mosso e pieno di vortici e quant’altro. Non sono in grado di vedere proprio nulla di definito e individuabile. Cerco allora di pormi all’esterno d’esso, precisamente alla sua superficie, e nella situazione del surfista che riesce a galleggiarci e scivolarci sopra, dandosi possibilmente date direzioni (non certo andando in contromano rispetto all’onda). A lungo andare subentra la stanchezza e non si tiene l’equilibrio, si ricade in mezzo al mare, si rischia di affogare e si cerca in tutti i modi di tornare a galla. Sotto il mare, in specie andando molto a fondo, si vedrebbero cose assai diverse, che tuttavia non sono un “altro mondo”; e non c’è un “Dio del mare” che sovrintende al “turbinio”, non c’è proprio nulla se non acqua che scorre con violenza a grandi ondate anche in profondità. E comunque non posso vederle perché non ho capacità di nuotare sott’acqua; troppo è lì agitato il mare e mi travolge di continuo senza alcuna possibilità di uscirne vivo. In quella situazione si è solo nella più grande confusione e paura; l’unico tentativo che si esperisce è di tornare a galla e di rimettersi a percorrere la superficie di “quel mondo”. Le profondità restano ignote; se uno resta sotto, annega e quindi non conosce un bel nulla. Stando in superficie, in un certo senso al di fuori di quel determinato ambito in cui siamo collocati, riusciamo a orientarci minimamente, ma non possiamo dire di conoscere quel mare nel suo indefinito e indefinibile spessore (profondità). E’ sempre “una metafa”, come tutte non proprio perfetta. E prescinde dalla fede, che è un altro tipo di conoscenza. Mi riferisco al soggetto senza fede e che crede di conoscere con quel sapere cui è dato il nome di scienza.

  35. “Mi riferisco al soggetto senza fede e che crede di conoscere con quel sapere cui è dato il nome di scienza.”
    Veramente la scienza è più che ottimista sulla possibilità di comprendere “la realtà”. Non per niente si cerca “la teoria finale”, per ora almeno in fisica perché è la teoria più sviluppata. La scienza crede nel progresso e ricostruisce la storia dell’umanità in senso evolutivo. Nella visione scientifica difficoltà e limiti sono contingenti e non degli assoluti.

  36. Immagino di ESSERE IMMERSO in un mare con onde gigantesche…CERCO ALLORA DI PORMI ALL’ESTERNO DI ESSO…I conti (logici) non tornano: O si è immersi nel mare O si è fuori…Ma facciamoli tornare: si è sulla superficie, nella situazione del surfista…Sotto il mare si vedrebbero cose assai diverse (IPOTESI di GLG…Come fare a dirlo se la realtà reale è, per definizione, inconoscibile?) e, comunque, non posso vederle perché non ho la capacità di nuotare sott’acqua…Non rimane che restare a galla in superficie…
    Fuor di metafora (apprezzo il gusto letterario di Franco Nova alias GLG), il mare è UNO, in superficie o nella profondità dei suoi abissi. Se conosco i suoi elementi costitutivi di superficie, posso ragionevolmente ipotizzare che rimangano invariati in profondità. Cambierà la luce, la flora, la fauna…ma il mare, in quanto, mare probabilmente no.
    Comunque, non è questo il problema. Né è quello del precario equilibrio o squilibrio degli esseri umani (che la nostra condizione sia di estrema fragilità è noto da secoli). Non sono un filosofo, ma filosoficamente parlando, come si diceva nei banchi scolastici, il primo problema è quello dell’essere o della sostanza o che dir si voglia. Si può benissimo immaginare che la sostanza sia quel flusso che congettura GLG, purchè si chiarisca il rapporto tra questo flusso (realtà vera e oggettiva) e il Soggetto. Sostenere che esistano DUE REALTÁ è un po’ come tornare a Platone con i suoi due mondi anche se, alla caverna-stanza, GLG sostituisce il “pozzo senza fondo” o gli abissi marini. Se è così, io non sono d’accordo. Per me l’essere-sostanza o realtà è UNA, è DINAMICA e si dà in molti MODI e ATTRIBUTI. Noi (soggetti conoscitivi intesi come SPECIE), siamo parte di questa realtà e possiamo conoscerla e dirla, nelle forme tipiche della nostra specie (lavoro singolo e cooperativo, linguaggio, azioni, meditazioni, arte, guerra, pace, ecc.). Produciamo, in tal modo, un mondo-“essere sociale” la cui storia è piuttosto complicata (per l’elevato numero di variabili) e spesso ci sfugge di mano…Anche la storia del nostro “essere sociale” comunque è destinata a finire perché – è questa la vera doccia fredda – il sole che è la stella più vicina a noi è destinata a spegnersi. Per fortuna in tempi lunghi…Come diceva quel tale, nel lungo periodo siamo tutti morti!

  37. mi sembra ovvio che non si è d’accordo; e magari anche si continua a non capirsi. Nulla di male e nulla di strano. Sarebbe assai curioso il contrario. Per fortuna che siamo in disaccordo, altrimenti sarebbe tutto molto monotono.

  38. @ Salzarulo.
    E’ una bella similitudine (niente “metafa”) quella del mare di La Grassa (che fra l’altro nelle sue profondità ha forse generato la “vita” e anche un’altra forma di vita, senza ossigeno ma con “demoniaco?” zolfo ) ma non so se si attaglia negarla per noi umani del XXI secolo d.c.: infatti anche noi non scherziamo quanto a contrapposizioni tra superficie e profondità, ma disponiamo di un sacco di saperi che ci collegano dentro e fuori, dal fondo all’apparenza, dal passato alla parte.
    Platone poi i due mondi li pensava in dialettica tra chi pensa e chi non pensa, tra chi sa e chi non vuol sapere, non li separava affatto, anzi si occupava di subordinarli l’uno all’altro (dalla ragione al corpo e non viceversa, come di solito accadeva e accade).
    Siamo un’unica sostanza, dinamica, e con modi e attributi, come propone Salzarulo? E’ un modo di raccontarci (gli altri) a noi stessi, con gli altri nella parte di attributi.
    Io preferisco il rapporto tra sostanza e accidente, con la storia e il male dalla parte dell’accidente. Insomma la sostanza umana -dispiegata: storica, sociologica e psicologica (e ho rapporti con gli animali!)- parrebbe un unicum, fine che sia del sistema solare, o nucleare del pianeta terra…
    Ma intanto lo abbiamo pensato!

  39. Ho aspettato ad intervenire, in primo luogo perché volevo capire se dai commenti che si sono via via succeduti riuscivo a farmi una qualche chiarezza rispetto alla pur suggestiva ipotesi di G. La Grassa (“Sempre in coda al reale”), e poi perché mi sono data la briga di leggere, come egli stesso ha consigliato, il suo successivo testo “Oggettività e Intersoggettività” apparso l’8.1.16 su Conflitti & Strategie.
    In quest’ultimo lavoro, oltre ad essere ribadito il suo ‘assillo’ che mira alla ricerca di trovare una oggettività su cui costituire l’intersoggettività, seguendo il modello messo in atto da Marx nella sua ricerca (*Per Marx vi è sempre un processo oggettivo che precede, e dunque fonda, l’intersoggettività dei contendenti, degli schieramenti in contesa*), e oltre ad ottenere importanti ‘ripassi’ sul pensiero di Marx stesso, non mi sono sciolta dalla pesantezza della ‘Babele delle lingue’.
    Che non significa la fatica di affrontare il pensiero diverso (*mi sembra ovvio che non si è d’accordo; e magari anche si continua a non capirsi. Nulla di male e nulla di strano. Sarebbe assai curioso il contrario. Per fortuna che siamo in disaccordo, altrimenti sarebbe tutto molto MONOTONO (maiuscolatura mia)*, F. Nova, 13.1, ore 17.17), ma, da un lato, la refrattarietà all’ascolto delle obiezioni (*Le obiezioni mosse nemmeno sfiorano i reali motivi per cui ho posto quell’ipotesi*) e, dall’altro, ad un utilizzo di un linguaggio i cui concetti sono costretti all’interno di metafore le quali, pur rappresentando aspetti ‘parziali’ – come appartiene ad ogni metafora – vengono contrabbandate come rappresentazioni totali, anche se servono al soggetto e a lui soltanto. Purtroppo questa metodica ‘generalizzante’ è un problema che ci assilla tutti.
    Sappiamo che anche il linguaggio si è costituito come un ‘campo di stabilità’ per permettere di configurare una complessità di eventi emotivi e/o di varia esperienza, trasferendoli in eventi linguistici atti alla comunicazione. Così succede che uno stesso termine abbia un valore se utilizzato in un contesto scientifico, un altro se usato in un contesto artistico, e un altro ancora se il suo uso appartiene alla comunicazione quotidiana.
    Ma andiamo per ordine.
    A complemento della sua ricerca LG mette in campo riflessioni sul concetto di ‘realtà’, di ‘conflitto’, di ‘campo di stabilità’, di ‘soggetti (o movimenti) innovatori’ e ‘conservatori’.
    LG scrive: *Ho formulato una determinata teoria del conflitto strategico per uscire dalle impasses di Marx, che ho messo in luce in alcuni decenni di lavoro. In Marx vi è un’oggettività su cui poi si basa la “lotta di classe” (borghesia contro proletariato), che è di per suo intersoggettiva. Il mio conflitto strategico è pure legato ad una intersoggettività di lotta (pur se non dualistica); e l’ipotesi che faccio serve solo a cercare l’oggettività*.
    E, ipotizzando *il conflitto strategico come una tipica manifestazione dell’intersoggettività*, emergerebbe *nelle mie analisi della società capitalistica* la necessità teorica di *dare oggettività all’intersoggettività* (LG).
    Perché questo ‘bisogno’ di ‘oggettività’?
    Solo perché il modello di Marx (il quale partiva certo dalla oggettività di una ‘base economica’) trovava sempre questa ‘corrispondenza’ di una ‘base reale’, di trasformazioni ‘reali’ all’interno dei rapporti sociali di produzione, che poi portavano a conflitti intersoggettivi? E’ l’hardware che produce sempre il software e mai viceversa?
    E dove per ‘oggettività’ si intende *una realtà che li spinge [gli agenti ad essa subordinati, obbligati da essa] ad affrontarsi, perfino se essi recalcitrano, vorrebbero evitare ogni conflitto e almeno smorzarlo. Niente da fare, l’antagonismo è d’obbligo, inevitabile*.(LG)
    E’ il capitalismo, bellezza, che ci determina! Bah, direi, fino ad un certo punto! E lo dimostrano le nostre stesse domande qui, il nostro arrovellarci a sperimentare un confronto, a meno che il tutto non si riduca a sfizio o a masturbazione intellettuale.
    Quindi non capisco se questa ricerca celi, al fondo, un ‘determinismo sui generis’, per cui tutto SEMBRA collocarsi in un certo ‘ordine delle cose’, al fine di evitare di affrontare ciò che invece si può spostare nell’ordine dell’umano, in virtù di un possibile libero arbitrio. E, di conseguenza, fare i conti con l’assunzione di responsabilità delle nostre azioni, farci carico del nostro pensiero. Diventare, appunto, ‘soggetti’.
    Certo, afferma LG, non dobbiamo smettere di lottare, *quanto detto non significa che ogni nostro sforzo è vano, che viviamo in una continua illusione* (LG), però, però … incominciò così anche tutto il lavoro decostruttivo da parte del cosiddetto ‘pensiero debole’. Con i risultati che vediamo.
    Oltretutto qui si crea un evidente cortocircuito fra scienza e politica. *Quando trattiamo di politica – nel suo senso preciso di sistema di mosse inerenti ad una determinata strategia di conflitto mirante alla vittoria e alla conquista di una supremazia – esuliamo dalla base oggettiva* (LG)
    Come procedere?
    L.G. scrive: *No, è meglio pensare ad una realtà assoluta, autonoma, indipendente da noi e a noi esterna, che tende continuamente a mettere sottosopra ogni nostra transitoria fissità [..]. Dobbiamo supporre (e senza possibilità di verifica sperimentale) la realtà come casuale, non teleologica, del tutto caotica. Io invece non credo che siamo in grado di afferrare, nemmeno di inquadrare, la realtà. Ipotizzo che il flusso, correndo e sconvolgendo, metta in crisi le teorie già assodate, gli apparati già consolidatisi, da tempo…*
    Pensare ad una *realtà assoluta, autonoma, indipendente da noi e a noi esterna* non può non richiamarci al “vuoto, informe infinito” di J. Milton, quel mistero che pur ci avvolge e da cui emergono pensieri per essere pensati da una mente. Ma non credo che questa visione ‘psico/mistica’, di iniziale costituzione di un pensiero, appartenga al progetto dell’autore.
    Innanzitutto la ‘realtà’ con cui lo studioso si confronta è una realtà ‘sociale’. Però, se ci atteniamo alla intelligente lezione di Marx per cui il Capitale non è ‘cosa’, ma un sistema di relazioni, anche la ‘realtà sociale’ non dovrebbe essere trattata con i criteri di concretezza, di ‘oggetto’; tale per cui si può opporre, come altro da sé, al soggetto percipiente ma, appunto come un sistema di relazioni. Che tipo di relazioni?
    Nello stesso tempo ci viene fatto capire che essa realtà non è nemmeno un ‘sistema’, bensì un flusso di relazioni (non si capisce bene, in questo contesto, il significato di questo attributo ‘relazionale’) che riguardano ‘soggetti’ (anche qui, non è chiaro in quale registro si ascriva questa ‘soggettività’) in una situazione di ‘intersoggettività’). Da un punto di vista psicoanalitico sembra rappresentare dei vissuti psicotici antecedenti ad una configurazione spazio-temporale nel processo di pensiero.
    Oltretutto, un flusso del tutto particolare in quanto, pur negandone un ‘telos’, sembra però dotato di una mente perversa e distruttiva nel senso che opera soltanto per mettere in atto sconvolgimenti e mai per mantenere un sistema dinamico di equilibri (e squilibri) né, tantomeno, di creare risorse.
    Riassumendo.
    Al fine di *dare oggettività all’intersoggettività* a che serve tirare in ballo *la realtà, inconoscibile per sua “essenza”*? Infatti, dal punto di vista dell’oggettività, si è già assodato da parte di LG che essa, in quanto inconoscibile, non può fungere da oggetto.
    [A parer mio invece esiste qualcosa, che noi chiamiamo realtà. E che non è così ‘indipendente’ da noi, perché noi la facciamo entrare in relazione, interagiamo con essa, ma ricordando che questo interagire dovrebbe accadere rispettando le leggi sue proprie, iuxta propria principia (Bernardino Telesio). L’esempio più classico è il rapporto con il nostro corpo. Per quanto esso sia imbricato con la psiche, pur tuttavia ne è anche autonomo. Ed è questa ‘alterità’ che ci secca moltissimo, per cui adottiamo dei sistemi di dominio, tentativi di falsa integrazione, negazione del problema].

    Nè ci servirebbe introdurre il concetto di flusso, qui nemmeno inteso come il ‘panta rei’ di eraclitiana memoria, ma ipotizzato metaforicamente come *un moto ondoso che tutto muove, tutto trascina, tutto a volte travolge*. (LG)
    Questa metafora del flusso ondoso rende molto bene il concetto di labilità, ma se andiamo a verificare il concetto di onda, allo pseudo movimento delle gocce d’acqua, assistiamo al fenomeno della permanenza pur nello sconvolgimento. Quindi anche la metafora va presa come una parziale espressione della realtà.

    Qui subentrano le due tematiche successive che accompagnano la ricerca sunnominata: quella del Conflitto e quella del ‘Campo di stabilità’.
    Parto dalla Conflittualità.
    Dichiarata come tratto ineludibile (*alimentato, potenziato, favorito comunque dalle differenti, e spesso contrastanti, funzioni svolte da diversi settori della società – che si sostanziano ovviamente di individui -*, LG), a volte essa sembra avvenire tra gruppi sociali portatori di diverse visioni del reale, e, a volte, tra l’uomo e la realtà, quando essa, vista in un’ottica di relazione anziché di assoluta estraneità, si rifiuterebbe di soddisfarne i bisogni. Compresi quelli di conoscenza.
    Anche se più avanti, a proposito di Conflitto, LG scrive:
    All’inizio *sta dunque il conflitto tra coloro che ricercano e sperimentano nuove conoscenze. E non ci si riferisce esclusivamente a quelle dette scientifiche; lo sono anche quelle della vita sociale in generale, di ogni aspetto di questa vita*.

    Il Conflitto non si porrebbe con la ‘realtà’ del flusso (a cui non gliene importa nulla di nulla) ma tra gruppi di individui. E gli strumenti conoscitivi da essi messi in atto. E, aggiungerei io, le loro ‘finalità’, aspetto che mi sembra non venga preso in considerazione, nemmeno sottotraccia.
    Secondo LG, infatti, gli individui non possono avere loro finalità, diverse dall’investimento a cui sono sottoposti. Essi *sono di fatto portatori dello squilibrio da cui vengono investiti – si trasformano comunque in agenti del conflitto; e in questo divenire attivi non possono non manifestare le loro caratteristiche individuali, che i superficiali studiosi della “realtà” (quella dei campi di stabilità) prenderanno come le vere responsabili del cambiamento*.
    O del ‘non cambiamento’, opzione che non viene quasi mai presa in considerazione e pertanto i suoi ‘attori’ rimangono nell’ombra.
    Quando si dice ‘portatori’, che cosa si intende precisamente? Che cosa li rende tali?
    Qual è il loro grado di conoscenza (o di compiacenza) all’interno di questa funzione che li trasforma da ‘portatori’ in ‘agenti’? Possono togliersi da questo investimento e quali caratteristiche devono avere per esserne davvero portatori efficienti?

    Rispetto ai concetti di soggetto e oggetto, rimangono comunque fuori dal campo d’indagine:

    a) l’analisi del significato di “intersoggettività”, a fronte della quale non è sufficiente la definizione di *interazione tra “individui, portatori di processi OGGETTIVI… e intesi come incarnazione di determinati rapporti…. rapporti di cui restano “socialmente creature” [e pertanto ‘soggetti’ nel senso di esserne ‘assoggettati’?, nota mia] e dove il cambiamento pertiene ai ‘rapporti’ che cambiano per dinamiche intrinseche – [e quindi, determinate? nota mia] alla storia evolutiva delle diverse formazioni sociali* (F. Nova 12.1.16, ore 10.49).
    E il conflitto duale borghesia-proletariato si può [si poteva] davvero definire come “intersoggettivo”? Non è che la ‘costrizione’ in ‘classi’, per evidenti necessità di indagine ‘scientifica’, ne ha ridotto proprio il carattere di (inter)soggettività?
    Il rischio che si corre è di considerare la ‘classe’ (borghese o proletaria che sia) non come insieme di individui, ma come ‘entità omogenea’, resa tale dal progetto comune per il quale i ‘soggetti’ (supposti come dotati di consapevolezza) si sono consociati, una specie di un micro comunismo ante litteram, guidato dal sogno della cooperazione associata che spazia “dal dirigente all’ultimo giornaliero”. Oggi che le ‘classi’ si sono ‘fumate’, di quale motore di aggregazione si può parlare?
    b) l’analisi di che cosa significhi ‘inter’ integrando la portata conoscitiva degli studi sulle dinamiche gruppali.
    Anche se LG accenna, a proposito di conflitti: *L’organizzazione, la divisione dei compiti, la gerarchia, incrementano di solito un conflitto interno al gruppo – per l’ascesa verso i gradini che stanno sopra (in termini di preminenza, di maggior potere e autorità, anche “morale”), oltre a conflitti di competenza o legati a modalità diverse pensate per perseguire gli stessi scopi – che contrasta (e a volte annulla) la necessità della cooperazione a finalità comuni*, questa è solo una analisi descrittiva che non va oltre le apparenze.
    c) l’analisi più approfondita su che cosa si intenda per ‘oggettività’, che rischia di essere confusa con ‘realtà’, o ‘concretezza del dato’. O sul bisogno dell’oggettività, dietro la spinta di dare connotazione ‘scientifica’ all’intera ricerca. Anche il caro Freud – che aveva analoga ambizione di fare della psicoanalisi una ‘scienza’ -, dovette ridimensionare il suo progetto, limitandosi ad utilizzare quello che, della scienza, è il metodo.

    Rispetto al ‘Campo di stabilità’ non mi è chiaro ‘come’ venga a costituirsi.
    Teoricamente dovrebbe essere funzionale al raggiungimento di un certo obiettivo. In questo caso non di conoscenza, dato il presupposto che la ‘realtà’ è parzialmente, transitoriamente conoscibile – addio, addio al piacere della conoscenza, alla curiosità verso l’insondabile ! – ma rivolto a fini puramente valoriali (definire la giustizia) o di supremazia (il conflitto strategico).
    Ma c’è qualche cosa che non mi torna.
    Non credo sia sufficiente ‘oliare’ un mare tempestoso non solo perché la stessa ‘bonaccia’ è mortifera ma perché, oltretutto, si corre il rischio di togliere all’acqua stessa anche il minimo di espressione, come recita il famoso detto: “stare come l’olio sull’acqua”.
    Per stabilire un minimo di ‘campo di stabilità’, metodologicamente parlando, sarebbe importante partire dalle domande “perché adesso’” (coordinate temporali) e “in quale luogo si collocano le eventuali risposte”, ovvero interrogarsi sul “cui prodest?” (coordinate spaziali implicanti dei soggetti).
    Quindi, più che oliare, bisognerebbe individuare gli ‘emergenti’ in azione sia sul versante della cosiddetta ‘oggettività’ e sia sul versante degli individui .
    In altre parole quale è il contesto storico che ci spinge a porre determinate domande che prima non ci ponevamo e chi sono i soggetti che se le pongono. E’ sufficiente definirli ‘rivoluzionari/innovatori’ oppure ‘conservatori’ per seguire gli uni o gli altri? Perché lasciarci trascinare dal fascino delle parole?

    Certamente, il ‘campo di stabilità’ viene approntato da alcuni (teorici, studiosi, scienziati) e questi ‘alcuni’ riunitisi in gruppi di lavoro sono guidati da una finalità in parte lavorativa e in parte ‘soggettiva’ (ovvero ciò che muove una persona a studiare fisica invece di andare a pascolare pecore (mondo altrettanto interessante!) e il riflesso, le ricadute, che tutto questo ha nel rapporto con la società).
    Inoltre, a concorrere alla formazione del ‘campo di stabilità’ c’è anche una certa configurazione della realtà fisica, intesa come ‘natura’, la quale si dispone in un certo modo e va a trovare i suoi equilibri, ovviamente con ritmi e modi del tutto peculiari. E qui bisogna tener conto che si innesta un ulteriore problema: ovvero la fantasia che se ci si inserisce in quei ritmi (presunti ‘naturali’) si andranno a creare meno contraddizioni: il rispetto del territorio, ad esempio, inteso in via assoluta senza contemplare mediazioni.

    R.S.

  40. @ La Grassa

    « mi sembra ovvio che non si è d’accordo; e magari anche si continua a non capirsi. Nulla di male e nulla di strano. Sarebbe assai curioso il contrario. Per fortuna che siamo in disaccordo, altrimenti sarebbe tutto molto monotono.»

    Caro Gianfranco,
    non voglio nascondere la delusione per quello che a me pare un più o meno elegante o disincantato tuo sottrarti alle numerose obiezioni, richieste di chiarimento, critiche mosse al tuo saggio (e all’altro “integrativo”, che pure ho letto per evitare di essere parziale o affrettato nel mio commento «Nei dilemmi dell’epigonismo»).

    Al posto tuo, se un mio scritto avesse ricevuto tanti numerosi, articolati e meditati interventi, che hanno scavato con serietà nelle pieghe principali dei due temi trattati ( realtà: conoscibile o inconoscibile; rapporto tra oggettività e soggettività o intersoggettività), mi sentirei in dovere di replicare analiticamente punto per punto. Non ho quella che a me pare una tua sfiducia quasi totale nel dialogo. Che ritengo anzi importante e stimolante (anche se faticoso e senza garanzie di successo) innanzitutto se condotto con chi non è o è meno d’accordo. Quella che può apparire *sordità* da parte dei concreti commentatori di questo sito (ma, inversamente, si potrebbe parlare anche di una tua *sordità* non ti pare?) è per me un problema in questa nostra situazione “da epigoni”. Perché accettarla come un dato insuperabile? (A meno di non accontentarsi di scrivere per posteri, immaginati più ricettivi).

  41. Caro Ennio, il mio tempo è limitato come quello di tutti. Adesso sto scrivendo un altro saggio su argomenti in parte diversi, comunque che non fanno riferimento al flusso ecc. Sto leggendo un saggio piuttosto diverso dai miei interessi perché ho promesso all’autore di discuterne in skype al più presto. Devo andare prossimamente a Udine e a Treviso a presentare il mio libro “Navigazione a vista”. Ho gli amici del blog che chiedono presto una riunione; e inoltre alcuni di essi stanno preparando un seminario su Stato, autonomia nazionale e altro, su cui mi chiedono di dare un contributo non marginale. E sono intervenuto in questo dibattito quasi una decina di volte. Fra l’altro ho anche esigenze di vita privata, piuttosto incasinata direi. E dovrei adesso mettermi a scrivere quasi un libro per rispondere a mille domande assai eterogenee fra loro? Mi si chiede troppo. Dirò anche che la mia preparazione è limitata e buona parte delle questioni postemi nemmeno le ho ben capite (direi che alcune non le ho proprio capite). Ho dovuto tralasciare completamente lo sfizio dei racconti e non so quando potrò riprenderlo. Come sai ce ne sono ancora alcuni già scritti da tempo. Uno nuovo lo farò, se va bene, nel ’17, andando avanti di questo passo. Quindi, chiedo scusa ma debbo adesso chiudere questa partita. Del resto, l’argomento trattato lo sarà ancora in futuro. Insisto su un’ultima questione: ho abbandonato buona parte della prospettiva marxiana perché non più soddisfatto della centralità che in quella teoria ha la proprietà (privata) dei mezzi di produzione. E non ne ero soddisfatto non solo per un prurito antieconomicista ma perché da quella centralità discendevano poi una serie di previsioni falsificate dopo 150 anni di storia. Ho ipotizzato allora la centralità del conflitto tra strategie di diversi soggetti fra loro conflittuali. Per vari motivi, che speravo di chiarire ma che mi sembra siano invece rimasti oscuri, non sono del tutto soddistatto dello statuto teorico di detto conflitto (appunto questioni di intersoggettività, oggettività e quant’altro). La centralità posta da Marx consentiva una “classificazione” dei vari soggetti (non individui ovviamente, che sono tutti differenti gli uni dagli altri). In una classe si prescinde da ogni differenza individuale; classe degli uomini, delle scimmie, dei cani o dei gatti, dei rinoceronti ed elefanti, ecc. Oppure sottoclassificazioni come scimpanzè, oranghi, gorilla, bertucce; o siamesi, certosini, soriani, persiani. E via dicendo. Nell’idea di conflitto strategico diventa difficile la classificazione in questo senso. Da qui il rovello per la ricerca dell’oggettività. Ma adesso, mi si scusi, devo lasciare, cercate di capire il casino che ho. Poi ci torneremo. L’assillo di cui appena parlato è costantemente presente.

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