“Già sede di casermaggio”

inesistente

(La macchina della verità)

di Arnaldo Ederle

 

Che pensare? Che farfugliare?
Non so se crittografare
o stenografare, o incuneare,
o sillabare, o fischiare.
Stare tranquilli
e sedere pacificamente sulla
sedia di legno, immobili
senza nessun grillo.
O immaginare, solo immaginare
senza trasformare.

La rivedo la rivedo!
“Già sede di casermaggio”
nell’ultima strada della vecchia
periferia di San Giacomo, immagino
l’ultima caserma vuota tra
le case e la grande ansa
del fiume, ecco mi parve
l’immagine della dea rotolante
piccola.
L’altra no. Era sguaiata come una
piccola cubana senza la
benché minima istruzione.

Quando la vidi la prima volta
era girata solo col capo
verso la mia persona mentre
estraeva la sua rossa lingua
e la posava sul labbro superiore,
ma non era una boccaccia la sua,
sembrava una scocca che richiamava
il bruciore del ferro e il colore
della brace infuocata rozza
e intinta di miele bruciacchiato.
Chi poteva mai essere
se non la faccia dello scherno
sguaiata e grassa come prima,
chi potrebbe identificare
quel viso?

E’ la mia attuale questione
la mia mania. L’ordine delle cose
che scivolano nelle volute del
mio breve cervello sembra essere
questo qui: chiedere sospettare
aver paura d’essere colui che
non conosco bene, anzi, che
non conosco, che provo a immaginare
che guardo in tralice
e mi richiama alla serietà
al bon ton dell’intelligenza.
Oh sì, la ricordo la mia Negrura
spero di tenerla nella mia mente
per molto molto tempo. Quel nero
balsamo, prima della sua
della sua strana morte,
che io soffrii tale quale lei
la soffrì, l’ombra del suo corpo nero
sarà nei secoli davanti a me.
Mi guarderò intorno e non vedrò
che lei, la mia atroce buona negra
la mia dea consumata dal mondo,
arrostita sul ceppo tagliata a metà
scissa come una povera cipolla.

Ah! Negrura mia
quanto mi manchi quanto vacui
i miei quadri d’autore ora
che tu e i tuoi occhi neri siete
disapparsi e non
mi colpite più con la vostra
luce negra con la vostra luce
d’ombra che scivola fuori dai
buchi degli occhi come due
saette o frecce acuminate
che penetrano e penetrano.
Ora sono solo con il fantasma
del mio secondo Io, quello
che non conosco, ma vedo
la sua silhouette sgambettarmi
davanti come una lepre che fugge
e che vorrei prendere per le
zampe di dietro e portarmela
nel mio laboratorio
e studiarne la coda e gli arti.

Ciao bella!
Ma che fai qui, sdraiato sul mio
casto lettino in questa bianca
camiciola con il pizzo e il ricamo
di una casta fanciulla, tu
lepre della macchia corridora
dei sentieri erbosi e dei
sentieri sabbiosi dei margini
boschivi. Forse ti stai burlando
di me con quella pancina pelosa
e morbida, forse ti stai offrendo
senza accorgerti d’essere
la mia preda.

L’ho detto e lo ripeto,
sono in cerca di me del mio
secondo, del mio Io impalpabile
invisibile anonimo ma
stranamente presente.
Mi sembra di non riconoscermi
di non sentirmi pulsare con
veri battiti e vero sangue
nelle vene.
Mi sembrano le mie vene vuoti
canali, sento il loro sordo fruscio
la loro inutile risacca
fluirmi sulle pareti
del sistema.
Per questo lo cerco il mio secondo
per sostituirmi per darmi
un aspetto più solido.

Chiunque potrebbe essere
che calpesti i marciapiedi o salga
scale o le discenda come infilarsi
nelle grotte del vicolo o che
si nasconda nell’ansa del fiume
vigile e attento a non farsi trovare
dal cacciatore di fantasmi
che lo bracca.

Povero il mio Io discendente d’infauste
progenie e di infinitamente povere
figure del passato sopravvissuto
alla vita. Sì, è te che cerco
ma non so ancora precisamente
come. Cerco te, ma riesco a vederti
soltanto in quella forma fugace
che ti ho appena descritto,
peloso piccolo che sgattaioli
come il leprotto attorno ad alberi
a rotonde d’erba falciata
a sconfinamenti dove le forme
paiono soffiate dalla furia di venti
che spingono le sembianze
dentro porte e cunicoli già violati
da altri piccoli fantasmi simili
a pigmei neri incappucciati con elmi
greci e americani con schinieri
contro le pulci e i ratti.
Ma mi fa schifo penetrare nel foro
della truffa e del malaffare mi fa
ribrezzo accostarmi ai vermi
a tutte le altre brutture
di questa terra.
Quello che cerco non è qui
sicuramente. Magari non conta
risciacquarsi i piedi prima
di volgere l’inseguimento verso
l’inesistente, se esiste
l’inesistente se c’è quello che
non c’è.

Oppure, tutto questo è un falso madornale
e io non cerco nessuno o nessuno
può farsi cercare da me
perché nessuno esiste,vero?
tranne la mia persona
la mia preziosa solitudine.
Preziosa solitudine che
te ne stai lì in guardia
a controllare l’andirivieni dei
musacci delle sere di pioggia
delle sere di ladrocini di
assalti alla ingenuità alla buona
e paziente ingenuità forse un poco
sciocca imprevidente incapace
come l’allodola che si arrende
al falco predatore perché
non ha speranza, e
non l’ascolta la speranza non l’accarezza
come a volte non s’accarezza
il bene che ti sta lì accanto un
cane buono attento ai tuoi stinchi
e alle tue povere cosce che
rischiano di farsi lacerare dal lupo
o il piccolo passero che vola via
al primo fruscio che sente tra
i rami o il fischio
del merlo.

Ma tutto questo è un falso madornale
e io, forse, non cerco nessuno o nessuno
può farsi cercare da me
perché nessun altro tranne me
esiste.

6 pensieri su ““Già sede di casermaggio”

  1. I conti col mondo si possono fare ma la solitudine è più importante. Anche quando scivola, a grosso rischio, nell’aridità.
    Con eleganza, con sottrarre piuttosto che aggiungere, in una fluidità che un po’ inganna, circuisce. Ma il linguaggio resta “al crudo”, non lavorato da cotture e salse, ed è quella la verità.

  2. ..l’io “già sede di casermaggio”, un ex luogo militare, sede di tante battaglie, ora di grandi vittorie, vedi la bella Negrura della giovinezza, ora di solenni sconfitte, quando lei scompar e nell’ombra e i volti si trasformano in ghigni di scherno, tutto allora perde di senso…ma il poeta non si rrende, nella sua “preziosa” solitudine va ricercando qualcosa di sè che gli sfugge e la segue come si fa con un leprotto fuggitivo per boschi, ma quando s’accorge che l’inseguimento lo porta nei luoghi a lui odiosi “della truffa e del malaffare”, allora desiste, capisce che ciò a cui aspira è semplicemente inesistente, una sua invenzione, ma può ancora consolarsi delle semplici e buone presenze di un cane, di un passero di un merlo…Una poesia sulla speranza, che però non vuole cedere all’illusione…Un percorso interiore accidentato, avvolto nei ricordi del passato, che non potrà ritornare e lascia un sentimento di vuoto…

    1. Carnalità, emblema di una giovinezza che il ricordo richiama e fa male.
      la fuga ,la rincorsa, il sicuro per l’incerto.
      Ah! Quel leprotto! Quell’uccellino! Quel cane!
      Quelle carezze date a chi il ricordo non conosce!
      Ederle , scuote e riceve tutta la mia emozione e ammirazione.
      Una poesia che non lascia dubbi , resta nella testa e in tutto il resto.
      Complimenti. Magnifiche.

  3. …un senso che a poco a poco sbiadisce, perde di consistenza, proprio come la ex caserma ormai dismessa vicina al fiume, dove invece l’acqua scorre ancora nella sua corrente impetuosa…Così il rotolare nel passato delle dee fortuna, Negrura, lasciva…e lasciare al presente una sedia di legno dove sostare immobili , in “preziosa solitudine”, a porsi numerose domande, a interrogare entità misteriose in non si sa bene quale lingua e infine ad inseguire il fantasma di un secondo io sconosciuto, fuggitivo, come un leprotto selvatico…Il poeta Ederle sembra concludere la sua ricerca con un commento: “falso madornale”; è scettico sulla possibilità che nella sua vita, ma penso che si riferisca anche all’umanità intera, si possa riaffacciare qualcosa di buono o vitale e che le battaglie, vinte o sconfitte, appartengano ormai al passato…

  4. Ho riletto più volte la poesia (come anche Annamaria, mi pare), per rivivere il piacere delle immagini femminili “estraeva la sua rossa lingua … che richiamava/il bruciore del ferro e il colore/della brace infuocata rozza/e intinta di miele bruciacchiato” oppure “la mia dea consumata dal mondo,/arrostita sul ceppo tagliata a metà/scissa come una povera cipolla” e “luce/d’ombra che scivola fuori dai/buchi degli occhi come due/saette o frecce acuminate/che penetrano e penetrano”.
    Stesso piacere lo produce la natura animale, la “lepre della macchia corridora … con quella pancina pelosa/e morbida”, “peloso piccolo che sgattaioli/come il leprotto attorno ad alberi/a rotonde d’erba falciata”.
    Il femminile bruciante, l’animale irrequieto e scattante, sono dell’immaginare (“Stare tranquilli/e sedere pacificamente sulla/sedia di legno, immobili”) il passato andato. Ma compare la nuova mania “E’ la mia attuale questione/la mia mania … chiedere sospettare/aver paura d’essere colui che/non conosco bene” l’altro da tenere a freno col bon ton dell’intelligenza, il leprotto che fugge prenderlo per le zampe di dietro e studiarne gli arti e la coda.
    “Colui che non conosco”, la stessa espressione ripetuta due volte, è la silhouette sgambettante, la lepre corridora, per lui con la camiciola nel letto e le vene in cui il sangue fluisce come risacca “Per questo lo cerco il mio secondo/per sostituirmi per darmi/un aspetto più solido.”
    Ma non riesce a vederlo in quelle forme di vento, gli fa schifo entrare nelle brutture realizzate nella storia “perchè quello che cerco non è qui e nessuno può farsi cercare da me”. Due volte ripete che non esiste altro, una volta nella forma logica/ontologica “se esiste/l’inesistente se c’è quello che/non c’è” e la seconda volta nella forma esistenziale “e io non cerco nessuno o nessuno/può farsi cercare da me/perché nessuno esiste, vero?” esiste solo lui “tranne la mia persona/la mia preziosa solitudine”.
    Ecco la parabola, la curva che scende e risale sull’asse di simmetria, il racconto “costruito strategicamente per ottenere un effetto. Si regge su una similitudine continuata, ma dissimulata fino alla fine. Si realizza mettendo in scena una vicenda, che trasporta gli ascoltatori, o i lettori, in un mondo fittizio. Ad un certo punto essi vengono trasferiti dalla situzione iniziale al reale, trovandosi così in un contesto ben determinato, che l’autore della parabola aveva in mente fin dall’inizio” (Cathopedia, voce: Figure retoriche).
    L’altro del passato, emerso nell’immaginare, la vitalità del piacere sul bordo animale, tocca il vertice e poi risale nel presente di solitudine fino all’impossibile altro spirituale, è appena certezza del poco bene “perché/non ha speranza, e/non l’ascolta la speranza non l’accarezza”, e paura.

    p.s.: Caro Arnaldo, cosa sono i musacci? Ho una memoria… ma imprecisa.

  5. Carissima Cristiana, ti ringrazio molto del ben lungo commento. E’ un po’ difficile per
    me, ma qualcosa ho capito… I “musacci”, adorabile Cristiana, sono soltanto i “musi”
    brutti, quelli che ti sbandieravano davanti i nostri genitori per farci paura e metterci in
    guardia, nelle strade. Un abbraccio. Arnaldo

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