“Martiri delle foibe”: un po’ di chiarezza

1978 AI TEMPI DI MORO 1978 circa

di Alberto Panaro

Nel 2004 il governo di centrodestra, con l’avallo del centrosinistra, stabilì di celebrare il 10 febbraio (anniversario del Trattato di pace che nel 1947 aveva fissato i nuovi confini con la Jugoslavia) una “Giornata del Ricordo” per celebrare “i martiri delle foibe e dell’esodo istriano, fiumano e dalmata”. Una ricorrenza situata a dieci giorni dalla “Giornata della Memoria” (istituita nel 2000 per il ricordo dalla Shoah e di tutte le vittime e i perseguitati del nazifascismo). In questi anni il senso comune ha portato a fare di tutto un polverone, cosicché si parla correntemente di “foibe” come “olocausto degli italiani”.
Noi riteniamo che in tutto questo ci sia un’operazione di confusione e di ribaltamento dei fatti. L’obiettivo di raggiungere una “memoria condivisa” attraverso una specie di “par condicio della storia”, per la quale ricordiamo “tutte le vittime”, nasconde i giudizi di valore sulle responsabilità storiche specifiche, in particolare quelle del regime fascista italiano in collaborazione con il nazismo tedesco. Chi ha provocato le tragedie della seconda guerra mondiale e chi, dopo averle subite, ha reagito, diventano la stessa cosa.

Oggi, correntemente, con il nome di “foibe” ci si riferisce a due periodi distinti: in Istria dopo l’8 settembre del 1943, fino all’inizio dell’ottobre dello stesso anno, e a Trieste nel maggio 1945, dopo la liberazione da parte delle truppe partigiane jugoslave (ufficialmente alleate del fronte antinazista) e durante i 42 giorni di amministrazione civile della città. In questi due periodi, secondo la vulgata corrente, un numero imprecisato di persone, comunque “molte migliaia”, sarebbero state uccise solo perché erano di nazionalità italiana e poi “infoibate”, ossia gettate nelle cavità naturali presenti in quelle zone. Si tratterebbe di una “pulizia etnica”, di un “genocidio nazionale”. La responsabilità principale viene in genere attribuita ai “titini”, ossia ai partigiani jugoslavi comunisti. Chi propone un esame critico di questa versione viene chiamato “negazionista” o, ben che vada, “riduzionista” (usando quindi le stesse categorie utilizzate per chi nega o sminuisce la Shoah).

Noi riteniamo che vada ristabilita invece una corretta lettura dei fatti, sia per il contesto storico in cui sono inseriti, sia nella ricostruzione documentaria dei fatti stessi.
Fin dal 1919 le squadre fasciste, a Trieste e nell’Istria, fecero una politica di aggressione violenta, in chiave nazionalista, contro le istituzioni operaie e la popolazione slovena e croata. Mussolini, in un discorso a Pola del 1920, dichiarò: “Abbiamo incendiato la casa croata di Trieste, l’abbiamo incendiata a Pola. Bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre. Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica dello zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere le Alpi Dinariche. Il nostro imperialismo vuole raggiungere i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e vuole espandersi nel Mediterraneo.”. Quando il fascismo diventò regime, operò in quelle terre un’opera di snazionalizzazione violenta e capillare, fino a far identificare fascismo e italianità.
Furono 20 anni di oppressione e repressione, che portarono migliaia di persone nei carceri del Tribunale Speciale, al confino, davanti ai plotoni di esecuzione, e alla perdita dei loro beni e della loro terra.
A partire dall’aprile 1941, l’Italia fu in guerra nella penisola balcanica insieme ai tedeschi, contro la resistenza partigiana e la popolazione locale. Ricordiamo la nota “Si uccide troppo poco” mandata nel 1942 dalle gerarchie militari. Furono 350.000 i civili montenegrini, croati e sloveni massacrati, fucilati o bruciati vivi nelle loro case durante i rastrellamenti; furono più di 100.000 i civili, uomini, donne e bambini, deportati e rinchiusi in oltre 100 campi di concentramento (i “campi del Duce”) disseminati nelle isole dalmate, in Friuli e nel resto d’Italia. Migliaia di essi furono falciati dalla fame e dalle malattie. A Trieste, fascisti e repubblichini furono i collaboratori zelanti delle SS che avevano la zona sotto il loro controllo (ricordiamo il campo di sterminio di San Sabba, con 5000 vittime, ebrei, slavi e resistenti).

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, con la capitolazione dell’esercito italiano e la cessione del potere ai tedeschi, in Istria scoppiò una vera e propria insurrezione popolare, in particolare di contadini e operai, che durò fino ai primi di ottobre, ossia fino al ritorno dei nazifascisti. Da una parte ci fu l’aiuto a migliaia di soldati italiani sbandati, dall’altra furono improvvisati dei cosiddetti “tribunali popolari”, più o meno strutturati, che non presero di mira gli italiani in quanto tali, ma in cui si scaricò l’odio accumulato in vent’anni contro i gerarchi fascisti e i proprietari terrieri che avevano approfittato del regime. Le vittime di queste esecuzioni, molte delle quali furono poi “infoibate”, furono alcune centinaia (una cifra verosimile è di 400-500). E’ pensabile che, in un simile clima, possano essersi esercitate anche vendette private o crudeltà ingiustificabili.
Dai primi di ottobre ritornarono i nazisti. Furono accompagnati da milizie italiane, e fascisti furono gli informatori e le spie che li guidarono nell’incendio di decine di villaggi. Vi furono, ad opera dei nazifascisti, 5.000 civili uccisi e 12.000 deportati e ulteriori “infoibamenti”.

Durante il periodo dell’amministrazione civile di Trieste da parte degli jugoslavi, 42 giorni da fine aprile a maggio 1945, le autorità avevano elenchi ben definiti di gerarchi e collaborazionisti, che sottoposero a processo e giustiziarono. Anche qui, il numero è ricostruito in maniera diversa: da alcune centinaia, precisamente testimoniabili, a una cifra superiore, di alcune migliaia, che lievita in maniera assolutamente inattendibile nei racconti postumi degli eredi neofascisti. Anche qui, possono esserci stati casi di vendette private; ma non ci furono esecuzioni di massa casuali o imputate al solo fatto di essere italiani.

Nel corso del dopoguerra, fino a metà degli anni ’50, una cifra fra 180.000 e 250.000 di persone di lingua italiana lasciò i territori della Repubblica jugoslava e si trasferì in Italia; prima sollecitati e poi praticamente abbandonati a se stessi dalle autorità italiane. Anche questo fenomeno, doloroso come ogni esodo, va messo nel suo contesto di spostamento di popolazioni che, dopo la 2° guerra mondiale, furono costrette ad abbandonare i territori dove precedentemente abitavano lungo la linea dei confini orientali: diversi milioni di persone, in prevalenza tedeschi, dalla Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Ucraina.

Una ricostruzione storica obiettiva non sempre è facile nei suoi aspetti particolari, ma il quadro generale è chiaro: è quello dei lutti e dei crimini provocati in Europa dal nazifascismo. Un “mattatoio della storia” in cui possiamo provare umana pietà per ogni singola vittima, ma in cui bisogna tenere ben salde le differenze: “senza mettere sullo stesso piano”, scrive Giacomo Scotti, “coloro che per decenni praticarono la violenza e infine la scatenarono, e quanti a quella violenza reagirono, talvolta con ferocia, nel momento storico della svolta”.

Noi italiani dobbiamo imparare a fare i conti con il nostro passato e le nostre responsabilità storiche, sia per quello che riguarda la persecuzione razziale contro gli Ebrei, sia per le guerre coloniali in Africa, sia per le guerre d’aggressione e le stragi nella penisola balcanica (Albania, Grecia, Jugoslavia). Avremo raggiunto una memoria storica “condivisa” quando tutti avremo saputo assimilare e riconoscere queste colpe, smettendo di considerarci solo “brava gente” o facendo celebrare le vittime delle tragedie storiche (le “foibe”) proprio da chi le ha causate. Un vero “Giorno del ricordo” dovrebbe essere dedicato a questo.

 

21 pensieri su ““Martiri delle foibe”: un po’ di chiarezza

  1. Finalmente un discorso impostato seriamente! Caro Alberto Panaro, ai piú fa comodo non conoscere la Storia. Complimenti e saluti.

    Ubaldo de Robertis

  2. Vedo molta poca obiettività in questo post di Panaro e anche una buona dose di patrio masochismo. Si sparano cifre tipo “350.000 i civili montenegrini, croati e sloveni massacrati, fucilati o bruciati vivi nelle loro case durante i rastrellamenti; furono più di 100.000 i civili, uomini, donne e bambini, deportati e rinchiusi in oltre 100 campi di concentramento ” e per contro modestissime vittime italiane “Le vittime di queste esecuzioni, molte delle quali furono poi “infoibate”, furono alcune centinaia (una cifra verosimile è di 400-500).” A me risultano ben altre cifre sia in un senso che nell’altro. A questo punto vorrei conoscere le fonti dell’autore per confrontarle con le mie. Ad ogni modo non è in nessuna maniera giustificabile vendicarsi su inermi immigrati italiani per punire il regime fascista. Una forma di cinismo davvero orripilante.

  3. Ad ogni modo non é in nessuna maniera giustificabile vendicarsi su inermi… cittadini.
    É questo un principio sacrosanto che sempre fa onore a chi lo enuncia.
    Nel caso specifico onore a Angelo Ricotta.

    Ovviamente il principio deve valere indistintamente per tutte le popolazioni, non solo per la nostra.

    Ubaldo de Robertis

  4. “Ad ogni modo non è in nessuna maniera giustificabile vendicarsi su inermi immigrati italiani per punire il regime fascista”. (Ricotta)

    Sarebbe il caso di precisare in quali circostanze (luoghi, anni) questo sia avvenuto; e se è accertato che si sia trattato proprio di vendetta su “inermi immigrati italiani”. Senza che quanto sto per dire significhi giustificazione morale di una parte in lotta rispetto ad un’altra, io non penso che si possano valutare gli eventi storici in base all’astratto o “sacrosanto” principio ricordato da de Robertis, che dovrebbe valere “indistintamente per tutte le popolazioni”.
    Questo principio è purtroppo solo *regolativo* (accostabile a quello di Kant: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”). Nei fatti è continuamente smentito e disatteso. Specie in guerra. E da tutte le parti in lotta. Non é che non lo rispettano solo i reazionari. Non lo rispettano (non riescono a rispettarlo) neppure i rivoluzionari. Nelle vicende storiche non ci sono mai i buoni da una parte e i cattivi dall’altra.
    E perciò non mi stanco mai di ricordare questi versi di Fortini:

    Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
    lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
    con loro volere il bene fare con loro il male
    e il bene la realtà servire negare mutare.

    (da «Forse il tempo del sangue…» (1958))

    Solo evitando ogni astratto moralismo, si può maturare la decisione *politica* di stare, quando si arriva allo scontro, con gli uni o con gli altri. O, in sede storiografica, approssimarsi (mai raggiungerla in pieno!) ad una ricostruzione storica obiettiva. Che, come ricorda Alberto Panaro, «non sempre è facile nei suoi aspetti particolari». Eppure è da questo mettere insieme e valutare tutti i dati possibili che il quadro storico generale può farsi più chiaro. E nel caso delle foibe, allo stato degli studi, il quadro generale è indubbiamente ” quello dei lutti e dei crimini provocati in Europa dal nazifascismo”. Lo stesso eccidio
    di italiani nelle cosiddette “foibe” (o fosse comuni), fu compiuto dagli jugoslavi di Tito in risposta ai
    crimini commessi da fascisti italiani prima e dopo il 1941 in quelle terre da essi invase a mano armata.Pçerciò io concordo con quanto dice Panaro: « Un “mattatoio della storia” in cui possiamo provare umana pietà per ogni singola vittima, ma in cui bisogna tenere ben salde le differenze: “senza mettere sullo stesso piano”, scrive Giacomo Scotti, “coloro che per decenni praticarono la violenza e infine la scatenarono, e quanti a quella violenza reagirono, talvolta con ferocia, nel momento storico della svolta”».

    P.s.
    Riporto in proposito il brano di una scheda del manuale di storia che compilai anni fa per la Palumbo:

    Nel 1989 gran parte delle televisioni europee (non la Rai che l’ha acquistato senza mandarlo in onda) hanno mostrato «Fascist legacy: a promise fullfilled» (L’eredità del fascismo: una promessa adempiuta), un documentario della Bbc sulla violenza dell’esercito italiano nelle guerre contro l’Etiopia (1935) e la Jugoslavia (1941). Per la prima, vengono mostrati: – gli effetti dell’iprite su donne, vecchi e bambini etiopi a causa dell’impiego, autorizzato dallo stesso Mussolini con dispaccio del 28.12.’35, di gas e lanciafiamme; – il bombardamento dell’artiglieria italiana su un ospedale della Croce Rossa; – il massacro di civili ad Addis Abeba e i loro cadaveri affastellati gli uni sugli altri; – impiccagioni collettive e fucilazioni; – soldati italiani sorridenti in mezzo ai cadaveri o che esibiscono la testa mozza di un etiope. Per la seconda, il documentario ripresenta quasi le stesse scene macabre e in più le immagini di bambini ischeletriti – rom, ebrei, croati e serbi – nel campo di concentramento di Rab (Arbe) in Dalmazia. Cita anche le uccisioni di ostaggi, le distruzioni di case e villaggi, la deportazione di decine di migliaia di sloveni e di croati, rimpiazzati da coloni italiani, ordinate dal generale Mario Roatta, comandante della II armata, che assieme alle divisioni di Hitler invase il 6 aprile 1941 la Jugoslavia, annettendosi zone della Slovenia e della Dalmazia, la Bosnia e il Montenegro. In quei 29 mesi di occupazione fascista della Jugoslavia, si ebbero più di mille ostaggi sloveni ammazzati, 2500 uccisi nel corso di rastrellamenti, 200 morti sotto tortura, 900 partigiani fucilati, 35.000 sloveni – uomini, donne, bambini – deportati in campi di concentramento, dove buona parte morì di stenti, malattie e fame. Anche su queste vicende e, prima ancora, sulla «pulizia etnica» che il cosiddetto «fascismo di frontiera» condusse nella Venezia Giulia, rendendo impossibile la vita delle minoranze slave, impedendo l’uso della lingua, chiudendo le scuole, perseguitando il clero e boicottando lo sviluppo economico, esistono studi, purtroppo poco noti, sia di storici italiani (Cuzzi, Sala, Rodogno) che slavi (un libro dello storico sloveno Tone Ferenc pubblicato nel 1999 s’intitola Si ammazza troppo poco: una frase del generale Mario Robotti, comandante dell’XI Corpo d’armata di stanza in Slovenia). Anche sulle cosiddette «foibe» [glossario: Foiba: avvallamento a forma d’imbuto tipica delle regioni carsiche] esiste un ampio rapporto stilato nel 2000 da una commissione mista italo-slovena di storici. In esso vengono ricostruiti sia l’eccidio di circa «570 persone» (Fogar), in maggioranza italiani ma anche slavi – un episodio di giustizia sommaria compiuto dai partigiani comunisti di Tito nel 1943 proprio in risposta ai crimini del fascismo italiano prima e dopo il 1941 e non un «genocidio» – sia i rastrellamenti, seguiti nelle settimane successive, durante i quali i fascisti istriani guidarono gli occupanti tedeschi a caccia di slavi, facendo uccidere in tutta la regione migliaia di civili. Sui massacri dell’esercito italiano in guerra – non dissimili da quelli di altri eserciti – esiste, dunque, un’ampia e impressionante documentazione. Essa dimostra che in epoca fascista i militari italiani ebbero poco da imparare dalla Wehrmacht, dalle SS e dalla polizia tedesca e smentisce il cliché, perpetuatosi anche dopo la caduta del fascismo, degli «italiani brava gente», capaci, a differenza di altri colonizzatori, di stabilire un rapporto amichevole con le popolazioni sottomesse. L’Italia fascista perseguì con determinazione il suo obiettivo di espansione territoriale (la cosiddetta conquista dello «spazio vitale») e non fu, dunque, una «potenza per caso», coinvolta controvoglia nella guerra. Il suo sistema coloniale e di occupazione militare – straccione, incerto e privo di un piano quanto si vuole – attuò una politica di brutale spoliazione delle risorse dei paesi occupati. La simpatia degli occupati fu rara e di breve durata. E l’«italianizzazione» delle nuove province somigliò ben poco alla proclamata «missione civilizzatrice» idealisticamente attribuita da Mussolini all’antica Roma. Modificò, invece, con arroganza i sistemi scolastici, espulse gran parte degli insegnanti giudicati «razzialmente» non omogenei e mirò a deprimere le culture esistenti, com’è accaduto in tutte le esperienze coloniali europee e non.

  5. SEGNALAZIONE

    Predrag Matvejević: le foibe e i crimini che le hanno precedute
    Un articolo del 15 febbraio 2005

    STRALCIO:
    Le fosse, o le foibe come le chiamano gli Italiani, sono un crimine grave, e coloro che lo hanno commesso si meritano la più dura condanna. Ma bisogna dire sin da ora che a quel crimine ne sono preceduti degli altri, forse non minori. Se di ciò si tace, esiste il pericolo che si strumentalizzino e “il crimine e la condanna” e che vengano manipolati l’uno o l’altro. Ovviamente, nessun crimine può essere ridotto o giustificato con un altro. La terribile verità sulle foibe, su cui il poeta croato Ivan Goran Kovačić ha scritto uno dei poemi più commoventi del movimento antifascista europeo, ha la sua contestualità storica, che non dobbiamo trascurare se davvero desideriamo parlare della verità e se cerchiamo che quella verità confermi e nobiliti i nostri dispiaceri. Perché le falsificazioni e le omissioni umiliano e offendono.

    (L’intero articolo si legge qui: http://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Predrag-Matvejevic-le-foibe-e-i-crimini-che-le-hanno-precedute-28246)

  6. Rimane il fatto che, da entrambe le parti si portarono avanti le pulizie etniche che più facevano comodo.

    Si può discutere sul numero delle vittime (fare questo è rimanere nell’alveo delle ricerche storiche), ma cercare di giustificare i colpevoli col “è stato l’altro a cominciare per primo”, è abbastanza squallido. Anche se è comprensibile, che le persone comuni abbiano bisogno di trovare un buono e un cattivo. E che possibilmente il cattivo stia dall’altra parte.

    1. Diciamo pure che “le persone comuni abbiano bisogno di trovare un buono e un cattivo. E che possibilmente il cattivo stia dall’altra parte”, ma le persone *intelligenti* o *non comuni* che bisogno hanno?
      Di fronte ai conflitti e alle guerre si finisce per stare da una parte o dall’altra (in questo caso o coi nazisti e fascisti o con i comunisti di Tito): in base a *che cosa*?
      O ci si rifiuta di stare sia con gli uni e sia con gli altri: in base a *che cosa*?
      Questo il dramma. Nei versi di Fortini, che ho citato, esso trova una *mezza soluzione* nella scelta politica responsabile e non idealistica: “cercare i nostri eguali” e “con loro volere il bene fare con loro il male” (il male, eh!) per “servire negare mutare” qualcosa che chiama ” il bene la realtà”. E non soltanto il Bene (ideale) o la Realtà (ideale).

      1. Per una volta sono d’accordo con Fortini, almeno per quei quattro versi.

        Quanto alle persone “intelligenti” o “non comuni”, parrebbe proprio che non siano così tante in giro, quante ne servirebbero; o forse sono – molto più probabilmente – democraticamente ignorate.

        Ma nel caso di conflitti o guerre (come in qualsiasi altro caso, d’altronde) le persone che dici, dovrebbero stare semplicemente coi perseguitati: con gli Ebrei e i Rom nell’Europa nazifascista; con i Palestinesi, adesso che gli Ebrei hanno dimostrato di aver bene appreso la lezione impartita loro da Hitler, con i Curdi in quella regione del Medio Oriente e così via.

        Si dovrebbe essere in grado di decidere sempre, in queste situazioni, in base all’Etica e non in base alle ideologie. Che sono l’oppio dei popoli.

        1. @ Alberto Rizzi: Le persone intelligenti e non comuni direi che sono la maggioranza, sono invece gli stupidi e i cattivi che prendono partito, un partito per sentirsi qualcuno (o piuttosto per servire chi comanda).
          Racconto per esempio della lontananza di mia madre da quegli anni, il 1945, e il 2004. Lontana non per indifferenza, ma per sobrietà dello sguardo.

          mia madre aveva vent’anni finiva la guerra
          (…)

          Le ho chiesto: ma i tempi delle foibe
          sono stati terribili?
          Sembrava esitare: intanto è stato breve
          poi sono arrivati gli alleati

          (usavano questa parola: era importante
          essere diventati alleati
          di quelli che vincevano
          erano ricchi e sarebbe finita
          quella guerra imbecille e crudele)

          e poi gli slavi (ecco gli slavi
          dicevano sempre e i sciàvi
          li chiamava sua madre) hanno ammazzato
          quelli compromessi col regime
          ma non li hanno presi tutti
          e spesso era gente da poco
          come un cugino di mio padre, ha detto.

  7. Ma è proprio “stare semplicemente coi perseguitati” che non basta.
    E’ proprio questo “decidere sempre, in queste situazioni, in base all’Etica ” che non basta.
    Perché* cosa significa *stare coi perseguitati*?
    Seguire la loro sorte e farsi perseguitare come loro? Ho letto di persone che, appunto per *stare coi perseguitati* (bambini ebrei o parenti) li seguirono nei lager e morirono con essi.
    Oppure dichiararsi pubblicamente a favore dei palestinesi e contro lo Stato di Israele? Lo si può fare. Lo si fa. Ma non basta. Lo Stato d’Israele è così forte e i suoi interessi politici sono appoggiati da altri potenti ( USA in primis, ma non solo) per cui può continuare a rinviare una soluzione appena più favorevole ai palestinesi ( e forse anche alla popolazione d’Israele.
    Solo l’etica non basta. Essa può essere la premessa per costruire una politica meno cinica. Ma di solito può essere solo un modo di rimanere (o ritenersi) *puri* avvolgendosi nella coperta di Linus dell’utopia. O di vivere coerentemente e drammaticamente un’esperienza *religiosa* del mondo come in Simone Weil. (Qui un ritratto di questa notevole pensatrice “militante” in cui si possono ritrovare ancora i *nostri* problemi (irrisolti): http://www.filosofico.net/weil.htm

  8. Per Cristiana Fischer, che scrive: “Le persone intelligenti e non comuni direi che sono la maggioranza, sono invece gli stupidi e i cattivi che prendono partito, un partito per sentirsi qualcuno (o piuttosto per servire chi comanda).”

    Vorrei tanto poterle credere, Signora. Purtroppo, proprio il percorso dell’Italia in questi ultimi trent’anni (almeno), con i Partiti che hanno avuto il consenso dalla maggioranza degli italiani, per portare il Paese allo sfascio in cui si trova, sta lì a dimostrare – democraticamente – il contrario. Certo che lei è padronissima di pensare che le cose non siano andate in questo modo.

    Per Ennio:

    Ogni tanto, ai miei allievi – mostrando loro come a un Movimento artistico si contrapponga uno seguente, che predica, almeno in teoria, l’esatto contrario del precedente – spiego come l’Umanità si dibatta fra due estremi; e sia incapace, temo per forza di cose, di trovare una mediazione fra di essi: cosa che, in tutti i campi, le impedisce di progredire per davvero.

    Ora mi chiedo: ma perché, partendo dal mio punto di vista, ne immagini solo conseguenze catastrofiche? Come “farsi perseguitare con loro… seguirli nei lager e morire con essi.” Se sei cristiano e aspiri al tuo personale martirio, sta bene. Sta bene anche a me, perché trovo giusto che ciascuno si scelga quel destino, di cui ha più bisogno.

    Ma tra la tua ipotesi e quella contraria (cioè chiudere gli occhi, se non collaborare con i persecutori), ci sono mille ipotesi di Resistenza. “Stare coi perseguitati”, significa difenderli. Per i modi c’è solo l’imbarazzo della scelta, non credo che qualcuno di quanti seguono queste discussioni, abbia bisogno di esempi, se parliamo della questione ebraica nell’Europa del III Reich…

    Non potevi chiedere: “Scusa, intendi dire che ci si deve applicare attivamente, per proteggere chi viene perseguitato”? “Certo”, sarebbe stata la risposta “e per come fare, c’è solo l’imbarazzo della scelta.” E comportarsi in questo modo, tra parentesi, è seguire la logica dell’Etica.

    1. @ Alberto Rizzi: “con i Partiti che hanno avuto il consenso dalla maggioranza degli italiani”: direi piuttosto con alcuni partiti che hanno avuto scarso consenso da una parte di mezza maggioranza degli italiani…
      “per portare il Paese allo sfascio in cui si trova”: direi sperando, con il loro voto, di trovare una soluzione, parziale, ma migliore di altre a loro parere, per risolvere alcuni problemi di una situazione difficile e non solo nazionale…
      Il fatto è che pochi, tra le persone intelligenti e non comuni, hanno le idee chiare sull’intero mondo, non dopo ma prima che la situazione appaia nella sua reale gravità e consistenza. La maggioranza delle persone intelligenti e non comuni, senza troppo fidarsi, sperano che i politici sappiano e vogliano, grosso modo, portare le cose verso un possibile meglio.
      Altra alternativa sarebbe la rivoluzione, ma non datur, per varie e buone ragioni.
      Una visione radicale, chiara, e poco politically correct anzi, decisamente urtante qui http://www.conflittiestrategie.it/siamo-ad-un-punto-cruciale-da-rendere-transitorio-di-glg

      1. L’articolo n questione non dice nulla di nuovo, nel senso che non esce dalle logiche colonialiste, che hanno caratterizzato almeno gli ultimi 5 secoli di storia Occidentale. Il rendere l’Italia una potenza egemonica a scala regionale nacque col Regno dei Savoia; e Mussolini avrebbe potuto riuscirci, se non fosse stato quel campione di italianità media, che si dimostrò di essere: fosse rimasto neutrale, avrebbe potuto riuscire nel tornare a fare del Mediterraneo il “mare nostrum”. Ma l’italiano medio è furbo (cioè si crede più intelligente degli altri), lui lo era più di tutti e sappiamo come andò a finire.

        Ma, tornando all’articolo, la soluzione proposta rimane nell’alveo di qualunque nazionalismo: nel senso che questa ricetta può aver voglia di applicarla qualsiasi Stato nazionale, con l’ovvia creazione di un conflitto dietro l’altro: rimarremo cioè nel modello geopolitico, che portò alla Seconda Guerra Mondiale; solo – e in teoria – con altri interpreti principali.

        A me il nazionalismo andrebbe anche bene, se portasse ad una pausa di riflessione, durante la quale gli Stati o studiano di fondersi in un’entità sovranazionale davvero “delle persone” (col termine “popoli” si possono creare equivoci), o si “stemperano” in strutture minori, controllate dal basso e integrate fra loro. Ma mi sembrano entrambe ipotesi da fantapolitica e altrettanto mi sembra, che ben pochi concepiscano il loro nazionalismo in questo modo; almeno da quello che si vede e sente in giro.

        Riguardo al suo punto di vista: “La maggioranza delle persone intelligenti e non comuni, senza troppo fidarsi, sperano che i politici sappiano e vogliano, grosso modo, portare le cose verso un possibile meglio”, considerando che un buon 90% almeno dei politici è sul libro paga di qualche lobby economico-finanziaria, a me viene da pensare che le persone che sperano questo non siano particolarmente intelligenti e/ alquanto comuni.

        Ragionando infine in termini di numeri (cioè democraticamente), come lei ha fatto all’inizio della sua risposta: se quasi metà della popolazione non fa nulla per cambiare questo stato di cose, è connivente con chi ha dato il suo consenso a quei Partiti. La loro è quindi – in altre parole – una forma di silenzio/assenso.

        1. … mi deve dire però cosa potrebbe o dovrebbe fare o inventarsi quel quasi metà della popolazione per non essere connivente e vile (silenzio/assenso), se quello che manca è proprio un’idea circa cosa andrebbe fatto. Oltre a praticare lo sdegno e il mugugno.
          In realtà è di idee e di pensieri che abbiamo bisogno, invece su tutte e tutti si sputacchia, perché non sono la soluzione bella e pronta.

          1. C’è un’ira di dio di cose che si può fare, per cambiare le cose.

            – Creare una rete che informi quante più persone possibili sulla realtà delle cose.

            – Battersi sul proprio posto di lavoro a favore di soluzioni meritocratiche e/o deontologicamente corrette. Chiaro che per ogni situazione professionale, i problemi da affrontare in quest’ottica possono essere differenti.

            – Proporre e favorire soluzioni alternative in campo energetico, produttivo e di sussistenza, alla scala nella quale si riesce ad operare; riguardo a questo punto, gli esempi sono molti; e riuscire ad essere attivi riguardo anche a uno solo di questi, sarebbe già una gran cosa.

            – Attivarsi per essere d’aiuto a quelle persone, poste in difficoltà dalla presente congiuntura politica ed economica; anche questo alla scala a cui si riesce ad operare: da quella di quartiere, a quella – per chi ci arriva – dell’azione nei luoghi dove il problema è stato generato.

            – Creare esperienze educative di base, che possano servire come alternativa alla scuola tradizionale, specie a quella destinata all’infanzia.

            – Impedire tassativamente in qualunque delle attività elencate prima la presenza di forze politiche tradizionali, o improntate alle ideologie che tanti problemi hanno creato nello scorso secolo. Questo implica anche di non votare: a meno che non si tratti di forze politiche emanate dalle realtà di base, che si siano nel frattempo sviluppate; e anche lì con dei distinguo legati al tipo di Comune di cui si parla. Come ho scritto in un precedente commento, il non votare e basta, implica un silenzio/assenso (di solito con conseguente mugugno), nei confronti del Sistema. Non votare e operare per soluzioni alternative a quella presente, abilita chi lo fa, a criticare apertamente e senza possibilità di replica la situazione che sta combattendo.

            Probabilmente mi sono dimenticato altri esempi, ma penso di essermi spiegato. E c’è da aggiungere che tutte queste cose, devono essere collegate fra di loro, per funzionare nel senso di un vero cambiamento.

            Ah, c’è un problema di natura – diciamo così – psicologica: dire “sto lottando per cambiare la qualità della vita del mio Paese” (andando a qualche rumorosa manifestazione, votando il volto che mi piace di più in quel momento…) è molto più appagante in termini narcisistici, che non dire “sto lottando per cambiare la qualità della vita in questi due o tre condomìni che ho attorno”.

          2. Mi pare che tutti questi impegnati nel cambiare i due o tre condomini, ecc (ma anche nel fare il proprio lavoro di medico, insegnante, libraio… con rispetto e sollecitudine) siano proprio quella maggioranza di intelligenti e non comuni di cui rivendicavo l’esistenza. Lei dovrebbe mettersi d’accordo con se stesso…

  9. “sto lottando per cambiare la qualità della vita in questi due o tre condomìni che ho attorno”. Alberto Rizzi

    Ma proprio questo è l’inciampo. Io non sono mai riuscito a far andare d’accordo neanche una riunione di condominio. C’è sempre più d’uno che mesta per convenienza e quasi sempre mi sono ritrovato in minoranza. La natura umana è senza speranza.

    1. Ad Angelo Ricotta. Prendendo per buono l’esempio che lei fa (applicabile a qualsiasi altro ambito, in fondo), ci vedo tre possibilità:

      a) Rinuncia a qualsiasi ipotesi di cambiamento e si siede ad aspettare il volere degli Dei.
      b) Smette di occuparsi dei propri vicini e cerca un altro ambito alla sua portata, sul quale lavorare; soprattutto con altre, nuove persone affini a lei per sentire.
      c) Si interroga sul fatto che non sia la sua modalità di comunicazione, a far fallire i suoi tentativi; e lavora – se dovesse emergere questo – per correggerla, prima di intraprendere altri progetti.

      Egregia Sig.ra Fischer, lo so anch’io che tante persone lavorano in questo senso; ne conosco diverse, perché anch’io tento di fare la mia parte. Ma se fossero (se fossimo) la maggioranza, avremmo già cambiato le cose: perché siamo in democrazia, cioè in un sistema che si basa sui numeri, piuttosto che sulla qualità.

      E il vero nostro problema è che andiamo avanti in ordine sparso (per tutta una serie di motivi, non ultimo il peso dei condizionamenti ideologici), anziché sforzarci di “fare rete”. Può darsi che, prima o poi, le nostre azioni si orientino in questo modo; ma – ripeto – per ora si va avanti in ordine sparso.

      1. “… il vero nostro problema è che andiamo avanti in ordine sparso… ”
        Per concordare intenzioni e scopi (che non equivale necessariamente a fare rete) è però il quadro che manca, o meglio, le idee che consentano di rappresentarci un quadro unificato. E’ di idee e pensieri che abbiamo bisogno, quindi di confronti, e di verifiche. Occorre di tutto, lo spirito, la storia, la politica, le scienze… e ancora lei crede che quelli che cercano non siano la reale maggioranza?

        1. Che vuole che le dica, Signora? Questa è la mia esperienza, corroborata anche dal fatto che la qualità è – solitamente – inversa alla quantità, cioè minoritaria. Certo, potrei anche sbagliarmi… Nel qual caso le cose cambieranno abbastanza in fretta, no?

          Quanto alle idee, ai pensieri, ecc. ecc., le assicuro per esperienza che ce n’è più che abbastanza. Rimango dell’idea che ci siano, però, da un lato molti freni, che impediscono a tante persone potenzialmente interessate al cambiamento, di iniziare a metterlo in atto. Di queste “zavorre” – alle quali va aggiunta spesso una comprensibile paura a tuffarsi dove non si tocca – mi pare d’aver già parlato, qui e là in questo sito.

          Dall’altro lato c’è l’estrema frammentazione e piccolezza di questi tentativi per essere alternativi (alle volte anche solo individuali o coinvolgenti poche persone), unita all’incapacità di vedere tutte queste esperienze come parte di un unicum. Quest’incapacità si nutre a sua volta di preclusioni più o meno ideologiche, ristrettezze di vedute, altre paure.

          Se vogliamo ragionare in termini politici, queste esperienze dovrebbero generare da se stesse strutture in grado di gestire il territorio; si tratterebbe quindi di una forma di politica di base. Purtroppo – e aldilà del fatto che i condizionamenti ideologici e la voglia di delegare son bestie dure a morire – non è possibile che tale soluzione nasca da una realtà fatta di componenti sconnesse fra loro, finanche a livello locale.

          L’ultimo tentativo in tal senso (ma guarda caso suggerito “dall’alto”: una contraddizione in termini, che la dice lunga sull’incapacità degli italiani anche solo di immaginare alternative alle attuali forme politiche), sta esaurendosi – addirittura anzitempo, secondo me – nella banale logica del baratto parlamentare, pilastro della democrazia rappresentativa.

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